(La casa del Alquimista)
30km
Stamattina O Cebreiro è invasa da un nebbione che la fa sembrare ancora più grigia di ieri, ma incredibilmente anche così conserva un fascino indiscutibile. La sensazione è che qui sia concentrata un’energia unica e fortissima. Chissà se il mio sesto senso dice la verità o se il mood pellegrino ormai mi ha dato alla testa.
Mentre una parte del cervello ancora si gongola tra riflessioni simili, l’altra è tutta concentrata a guidare il soldatino Roberto in quella sequenza di gesti che più o meno è sempre la stessa da quasi tre mesi. Preparata ogni cosa, non resta che far scorta di energie con una buona colazione. L’unico posto aperto è lo stesso dove abbiamo cenato e, come d’accordo, si unisce a noi anche Martin.
Così come dopo la Cruz de Hierro, anche qui ci sono due opzioni per scendere il primo tratto: per sentieri o seguendo la strada asfaltata. Tiziano convince Amedeo che quest’ultima sia la soluzione migliore. Conosce già il sentiero e sostiene abbia una gran quantità di inutili saliscendi. Mi fido della sua esperienza, ma l’idea di calpestare terra e sassi mi piace comunque di più.
Con una sorta di amara naturalezza, quindi, capiamo che ci stiamo di nuovo dividendo. Non avevo dato per scontato nulla, anzi, una parte di me è felice di mantenersi coerente alla scelta fatta prima di Astorga, ma dopo queste tappe folli non ci stava poi così male una reunion fuori programma. Niente può rovinare la ricchezza di tutto quanto di bello abbiamo vissuto, ma la realtà è che, pur condividendo una meta, siamo animati da spinte differenti. È giusto che ciascuno segua la via che reputa più adatta a sé, e va accettato. La speranza che custodisco è quella di ritrovarci ancora, presto o tardi, e scoprire che l’inatteso tira e molla che stiamo vivendo non avrà compromesso questa amicizia appena nata ma, al contrario, ne avrà rese solide le fondamenta.
Prima di partire, avevo letto spesso di quanto sia normale perdersi e ritrovarsi sulla via di Santiago, ma non ho mai trovato molto riguardo alle implicazioni emotive che ciò porta con sé. Ora che le sto vivendo in prima persona, capisco meglio quanto ampia e profonda possa diventare quest’esperienza. Il Cammino è soprattutto un laboratorio di vita straordinario; l’ho già detto e ne sono sempre più convinto.
Sono riflessioni che condivido anche con Martin, mentre spalla a spalla cominciamo questa tappa che ancora non so fin dove ci porterà. Sotto di noi, oltre qualche fila d’alberi, scorgo gli altri due amici. Guardo l’orologio: sono già le nove, siamo partiti tardi. Meglio lasciare volare via i pensieri troppo astratti; torneranno, ma ora c’è un presente da vivere.
Noto che il mio nuovo compagno di viaggio anche oggi porta i pantaloncini nonostante la temperatura non sia delle migliori. Mi spiega che ha solo un paio di pantaloni e non vuole rischiare di bagnarli. Se piovesse, infatti, poi non avrebbe di che coprirsi la notte. Non sarebbe un problema se trovasse il denaro per pagarsi un albergue, ma al momento non ha nessuna certezza.
Ancora una volta, i risvolti pratici della sua scelta mi toccano a fondo e mi interpellano. Ho una nitida attrazione dentro me verso il tuffo che lui e Gregory hanno deciso di fare, ma contemporaneamente soffro la paura di uno slancio simile al solo pensarci. Mi è costato già molto trovare il coraggio di lasciare tutto e partire per quest’avventura, nella quale sto mantenendo sì un regime di spesa ridotto, ma niente a che vedere con quello che loro stanno vivendo.
Mi limito quindi a immaginare il mio pellegrinaggio come e quanto sarebbe stato diverso, e lascio questo seme in un angolo del cuore. Sarò curioso di scoprire se darà frutto oppure no.
Il bosco fa compagnia alle nostre parole e ai nostri passi, accogliendoli col suo abbraccio solenne e silenzioso. Camminarci è garanzia di benessere, perché la sua bellezza e il suo respiro aiutano il tumulto interiore ad assestarsi.
Di quando in quando, il sentiero ne esce e ci fa assaggiare nuovi scenari di questa terra. Le cime attorno a noi, basse ed alte, non trasmettono mai un senso di minaccia, non sembrano ostacoli da superare, ma semplicemente terra viva e da vivere. Boschi e pascoli si spartiscono quasi ogni superficie, e i segni della presenza umana si limitano quasi del tutto al silenzio delle strade e ad alcuni piccoli paesi sparsi qua e là. Per fortuna la nebbia sembra non averci seguiti, anche se il cielo è comunque un gran lenzuolo bianco.
Il passo di Martin è lento, ma la conversazione è un piacere e un continuo arricchimento. Scopro che tatua in maniera itinerante in giro per l’Europa. Mi parla di come è arrivato a fare questo mestiere, dell’eredità che gli hanno lasciato gli studi che ha fatto e di alcuni desideri che custodisce per il suo futuro.
Dopo nemmeno tre chilometri, il sentiero con cui abbiamo scelto di partire è già terminato. Finiamo quindi anche noi per incanalarci sulla strada asfaltata percorsa da Amedeo e Tiziano, ma di loro non c’è traccia.
Attraversiamo le poche case e capanni di Liñares, arrivando poi al primo punto significativo della tappa di oggi, l’Alto di San Roque, con la famosa statua del pellegrino controvento. Fa parte dei luoghi simbolo del Cammino, eppure non sento scatenarsi dentro me nemmeno un germe d’entusiasmo. Qualcosa sta frenandolo, e purtroppo credo sia lo stesso Martin.
Sembra io sia riuscito a metterlo a suo agio, e così ora sta aprendosi molto generosamente. Ha davvero tanto da condividere per l’età che ha. Ad ogni nuova finestra che apre su di sè, però, sento rafforzarsi l’impressione che custodisca un malessere molto acuto e radicato. Non è facile coglierne i confini, perché il ragazzo si esprime con un candore innato, ma il contenuto e il sapore di ciò che mi comunica sono carichi di dolore.
Quello che però mi spaventa davvero è qualcos’altro: contrariamente al suo essere lungo questa via e al modo stesso in cui sta vivendo il Cammino, ho come la sensazione che Martin sia attratto da ciò che lo logora. Non è qualcosa di disumano, il contrario, ma è una forza vera e propria di cui percepisco la pressione. Ad esser sincero, quello che provo è ancora più inquietante: è come se, pur non volendolo, sia in qualche modo velenoso, come se quello che ha dentro tenda a voler espandersi fuori da quell’abisso, inoculandosi anche in chi gli sta di fronte.
Potrebbero essere percezioni sbagliate, ma è quello che sto provando. Aldilà di tutto, comunque, è un’energia talmente intima, multiforme e controversa, che ogni giudizio sarebbe totalmente inadeguato. C’è solo una cosa che posso fare: accettarne la presenza o allontanarmene.
Non è la prima volta che vivo un’esperienza simile, d’altronde da sempre quello che più mi spinge a conoscere una persona sono le sue emanazioni profonde, e non è raro che calandosi in immersioni simili si rischi qualcosa. Questo però non annulla la mia attrazione: continuo comunque a sentire il bisogno e la chiamata a vivere questo tipo di incontri, attraverso il dialogo e la prossimità.
Certo, si corre sempre il rischio di addentrarsi troppo, soprattutto quando si tratta di anime dolenti. Quando la fragilità è tanta e già si percepiscono energie controverse, bisogna mantenersi cauti e prudenti, sia per sé stessi che per la persona che si ha di fronte. L’opportunità di donare qualcosa – dell’ascolto, per esempio – può trasformarsi rapidamente in un’arma a doppio taglio, magari lasciando anche ferite che non ci si sarebbe mai aspettati, o infezioni dello spirito tutt’altro che innnocue.
In verità, credo che anche dentro di me vivano le stesse spore che percepisco in Martin; con tenacia, però, sto imparando a conoscerle e a gestirle. A volte ci riesco straordinariamente bene ed esplodo di una luce che non avrei mai immaginato, mentre in altre occcasioni inciampo ancora come un principiante, e non è stato raro che qualcuno ne abbia pagato le conseguenze.
Sarei tentato di parlarne col mio compagno di strada e raccogliere la sua opinione, ma scelgo invece di trattenere tutto quanto, e semplicemente proseguire ancora un po’. Dentro me ho già capito che il nostro tempo insieme è agli sgoccioli, ma lo vedo sorridente, e vorrei che ricordasse questo del nostro incontro.
Mentre le nuvole per un attimo lasciano spazio a qualche sprazzo di sole, attraversiamo il paesello di Hospital e ci dividiamo tra bordo strada e sentieri fino alla microscopica Padornelo.
Saliamo poi fino all’Alto do Poio: nient’altro che un incrocio su di un crinale a 1330 m d’altitudine, con un hostal e un albergue che sembrerebbero chiusi. Qui, d’un tratto, un cagnone dal pelo lungo ci si avvicina, lentamente e senza abbaiare; è evidentemente del posto. Ha l’aria tranquillissima e affettuosa, così gli porgo la mano aperta, dimenticando totalmente l’episodio vissuto ieri da Martin. Quando me ne ricordo è già tardi: alzando lo sguardo, lo trovo con gli occhi sbarrati e come immobilizzato, tremolante tanto per il freddo che per la paura.
Il cane continua a starmi attaccato per farsi beatamente accarezzare. Ne approfitto per trattenerlo e dico al giovane pellegrino di proseguire. Annuisce, ma prima vuole domandare in albergue se hanno qualche oggetto dimenticato da altri pellegrini. È uno dei modi con cui procurarsi attrezzatura quando non si hanno soldi, e credo che nella sua semplicità sia molto ingegnoso. Se ne esce poco dopo con un materassino isolante: non il bottino che avrebbe voluto, ma pur sempre qualcosa di molto utile per lui. Lo lascio passare, poi saluto l’amico a quattro zampe e lo raggiungo.
Mentre tenta di infilare nello zaino il materassino, mi accorgo di quante poche cose abbia con sé e capisco ancora meglio la sua temerarietà. Tra l’altro, ogni volta che smette di camminare, ricomincia a tremare, è incredibile. Decido allora di prestargli la mia mantella: quando si è in moto, crea un “effetto serra” perfetto che ho sperimentato con sollievo in moltissime occasioni.
Accetta più che volentieri, ma mi chiede comunque di fermarsi qualche minuto. Queste soste frequenti, però, stanno già mettendo a dura prova la normale propulsione che mi muove da quasi tre mesi: è come se sentissi le mie gambe urlarmi contro per ripartire. Parlando col corpo così come con la natura da svariate settimane, mi ritrovo così a tranquillizzarle quasi fossero due figlie, promettendo loro che non faremo altre pause per un po’.
Dopo lo scollinamento, restiamo a mezza costa, proseguiamo per piste e sentieri molto ariosi e raggiungiamo beatamente la piccola Fonfría. Spero che grazie alla mantella e alla discesa appena cominciata, Martin ritrovi un po’ di vigore. Verso le 12:30, però, ha bisogno di fermarsi ancora. Questa volta perlomeno c’è un po’ di sole e di fronte a noi un gran pascolo in pendenza, con solo una dozzina di vacche a godersi l’erba verdissima – praticamente una cartolina!
I discorsi vertono ormai da un po’ sul suo lavoro. Mi spiega con quale filosofia lo affronta, come si relaziona coi clienti, ma soprattutto qual è il suo rapporto con il disegno. Parla del fatto che non si interessa minimamente di imparare uno stile, perché per lui disegnare è soprattutto uno strumento per dar sollievo a ciò che prova profondamente dentro di sé. Senza che il suo viso si rattristi, mi tratteggia l’incidenza di certe angosce sulla sua vita e mi racconta di come le riversi nell’arte.
Non sono certo temi facili, ma anch’io ho vissuto in passato delle stagioni del tutto simili e ascoltarlo condividere così intimamente la sua esperienza, anche se dura, non aumenta troppo il mio disagio.
A O Biduedo, poco dopo essere ripartiti, ci fermiamo ancora un minuto a godere del passaggio di una piccola mandria. Entrambi abbiamo un’attrazione istintiva per le bestie che ci sfiorano: come bambini, restiamo incantati anche solo dalla possibilità di accarezzarle.
Una larga curva del percorso, poi, inaugura un netto accentuarsi della discesa e scopre una visuale tutta nuova: i rilievi si fanno sempre più bassi e le valli si aprono. Il verde rimane dominante, soprattutto quello dei pascoli a perdita d’occhio. La bellezza di questi paesaggi mi riempie occhi e anima.
Martin comincia a parlarmi con entusiasmo di un’altra sua passione: i graffiti abusivi. Mi spiega nello specifico quale genere intenda e, anche se ammetto di reputarli veri imbrattamenti, non so nulla dell’adrenalina che sta alla base di quel genere di esperienza e lo ascolto con sincero interesse. Purtroppo però, nonostante la sua verve nel dialogo sia aumentata, sembra che dal punto di vista fisico le sue condizioni stiano costantemente peggiorandoe. Anche la semplice discesa che ci ha portati a Filobal lo costringe a fermarsi per l’ennesima volta. Malauguratamente la cosa dà il colpo di grazia alla pazienza del mio fisico, e con dispiacere gli confesso di non poter riuscire a proseguire oltre in quel modo. È un po’ amareggiato, ma capisce.
Mi propone però un’ultima cosa, di mostrarmi il diario dove ogni giorno scrive e disegna. Accetto, ma intuendo che sta per aprirsi la finestra più grande, e non mi sbaglio. In quei disegni trovo la rappresentazione di tutto quello che avevo percepito e a cui mi aveva accennato, e ne resto inevitabilmente molto turbato. Contravvenendo al proprsito che mi ero dato, questa volta gli restituisco parte di queste emozioni, cercando di garantire comunque il massimo rispetto per il suo percorso coraggioso e affatto semplice. Infine lo saluto, davvero col cuore in mano; aprendosi così intimamente, mi ha donato moltissimo. Gli lascio qualcosa perché possa dormire al caldo stanotte a Triacastela, e prima di dividerci ci abbracciamo forte e a lungo.
Quando riprendo a scendere, il mio corpo sembra voler esplodere tutta l’energia trattenuta. In pochissimo tempo arrivo tra le case di Ramil, e qui resto letteralmente a bocca aperta. A scatenarmi questo stupore improvviso è la vista di un albero incredibile. Si tratta di un castagno dal fusto tozzo, larghissimo e straordinariamente nodoso – sembra uscito da una fiaba, molto più di quello incontrato scendendo verso Molinaseca. Sono letteralmente incantato, gli giro attorno, lo tocco come se fosse un’apparizione. Noto poi un pannello informativo, lì a due passi, e scopro che l’età di questa pianta si aggira intorno…agli ottocento anni! È una misura di tempo che mi rendo conto di non riuscire nemmeno ad associare ad un essere vivente, e credo sia la prima volta che mi capita.
Mentre sono in balìa dell’immaginazione che mi fa viaggiare tra i secoli, regalandomi visioni di cavalieri e pellegrini che sono passati sotto i suoi rami, spuntano da non so dove Alexandre e Aurora. La scena sembra una replica del nostro primo incontro: Alexandre, infatti, oltre che il mio medesimo stupore per quel luogo, esprime tutto il suo piacere per esserci ritrovati. Aurora, invece, nuovamente fatica nuovamente a nascondere quanto poco gradisca la mia compagnia. Esattamente come la volta scorsa, però, restiamo comunque insieme fino a raggiungere il paese più vicino – in questo caso Triacastela – dopodiché ci separiamo.
È bene io decida presto cosa fare. Una cosa è certa: ho voglia di camminare. Il problema, però, è che sono già le due e mezza del pomeriggio e la prossima cittadina che potrebbe offrirmi possibilità di alloggio è Sarria, ma sta a 18 km da qui. Ben lungi dall’essere un’impresa impossibile, faccio bene i miei conti. Ho bisogno di mangiare qualcosa, ma so che non devo fermarmi troppo o salirà anche la stanchezza, e soprattutto ritarderei esageratamente il mio arrivo.
Ci sarebbe anche una via alternativa, più lunga, ma che fa tappa a Samos, a soli 9 km. So che lì c’è un monastero bellissimo e famoso, e l’idea di pernottarci non mi dispiacerebbe. Provo a chiamare la manciata di albergues di quel paese, ma uno solo risponde. È il proprietario, dice che purtroppo sono chiusi, ma sostiene che dovrebbe comunque esserci qualcuno che ha tenuto aperto e mi invita a raggiungere Samos anche senza prenotazione. Ringrazio per il consiglio, ma scelgo di no. Se non trovassi alloggio, la variante risulterebbe ben sei chilometri più lunga della prima via che ho considerato.
È deciso, quindi! Si va dritti a Sarria.
Cerco un negozio di alimentari sia per il pranzo che la cena, ma anche questi sono tutti chiusi. Non mi resta che mangiare nell’unico ristorante aperto, e per stasera si vedrà. All’interno ritrovo la coppia lasciata poco prima. Si stanno gustando un pranzo succulento e abbondante, mentre io ordino solo una tortilla.
La sosta fa affiorare fatiche e tensioni: la mattinata sui generis mi ha davvero frastornato. Cerco comunque di non pensarci troppo e, una volta divorato il mio pasto povero e ipercalorico, riparto in quarta.
La scelta di non esagerare a tavola e rimettersi subito in marcia pare ripaghi: mi sento rinvigorito, addirittura eccitato per i chilometri che ancora mi aspettano.
Purtroppo, sfortuna vuole che io perda una svolta dopo nemmeno mezz’ora di cammino. Quando me ne accorgo, escludo immediatamente l’idea di tornare indietro; mi farebbe perdere ancora più tempo. Sono su una strada asfaltata piuttosto isolata tra alcune colline e sono convintissimo che il sentiero corretto non sia poi troppo distante. A dispetto delle mie previsioni, però, resto incagliato per minuti e minuti a zoomare mappe microscopiche sullo schermo del mio smartphone, riuscendo a ritrovare la rotta solo con gran ritardo.
Arrivato finalmente in cima alla collina, nei pressi di San Xil, la vista del paesaggio tutt’attorno riesce a rilassarmi un po’. Peccato solo che sopra la mia testa il cielo si divida nettamente a metà: alle mie spalle un manto azzurro con qualche nuvola graziosa, mentre davanti a me non c’è altro che un fronte compatto, grigio e spesso, che minaccia pioggia imminente. Poco importa, va bene anche così. D’altronde non ho scelta, e comunque certe manifestazioni della natura sono talmente affascinanti da farmi passare ogni preoccupazione.
Le prime gocce cominciano a scendere poco dopo, ma riescono addirittura a mettermi allegria. Un piccolo scollinamento, e poi il sentiero scende a tuffo nel bosco.
Un mojon segna -125,631 km da Santiago. Quelli galiziani sembra siano tutti così: hanno una targhetta in ottone con la distanza restante espressa con tre decimali. Non capisco questa inutile minuzia, il cui maggior risultato è quello di sentirsi letteralmente assillati. In questo modo, proprio quando siamo più vicini alla meta, i chilometri sembrano non passare mai. La cosa mi disturba a tal punto che inizio a girar lo sguardo ad ogni cippo che incontro. È fastidiosissimo anche così, ma almeno mi risparmio il brusio incessante della mia calcolatrice interiore.
Costeggiando pascoli che non hanno nulla da invidiare a quelli visti in Francia, arrivo infine alla frazioncina di Montán, dove mi imbatto in una graditissima visione: un portone spalancato svela un ex-fienile adibito magnificamente a grande salotto, e sotto il mio naso campeggia una tavola imbandita di ogni ben di Dio. Tra frutta, succhi e biscotti, noto un cartello con scritta una parola che quest’anno sul Cammino è una vera rarità: DONATIVO. Il messaggio, così come l’atmosfera marcatamente hippie, fanno naturalmente riaffiorare in me tutte le belle emozioni legate alla Casa de los Dioses. Sono passati solo quattro giorni, ma con tutto quello che è successo sembra passato un mese. Felice per l’inattesa rievocazione di quei ricordi e incantato dal posto che ho scoperto, addento una mela ed entro per guardare più da vicino ogni cosa.
Il salotto è colmo di mille decorazioni, e si affaccia su un cortile che non gli è da meno. Su una parete sta appeso una grande insegna dipinta a mano: c’è scritto Terra de Luz, probabilmente il nome con cui è stato battezzato questo posto. Alla fine del cortile c’è un’abitazione a due piani con porta e finestre aperte. Nonostante non mi trovi in un negozio e sia evidente l’invito a sentirsi come a casa propria, provo comunque un po’ di disagio e decido di comunicare ad alta voce la mia presenza. Tanto basta perché dalla porta spalancata esca un ragazzo alto, dai capelli lunghi e con un gran sorriso che gli spunta tra la barba. Si chiama Simon, ed è australiano. Gli faccio grandi complimenti e finiamo col fare due parole.
D’improvviso, poi, da una porta secondaria spunta anche una pellegrina francese che avevo già visto, ma non ricordo dove. Arriva dal giardino, dove Simon mi ha detto esserci un labirinto costruito da loro. La ragazza ha evidentemente appena smesso di piangere, ma si capisce che sono state lacrime sane, di commozione. Probabilmente gliele ha scatenate il luogo, e un po’ la capisco.
Da come mi saluta, anche lei sembra riconoscermi, ma entrambi abbiamo bisogno di presentarci ancora. Si chiama Lidy, e la cosa che tiene fin da subito a comunicare è che ha intenzione di andare a Samos. Mi stupisce, non sapevo ci fosse una strada che ci arrivi da qui. Ad ogni modo, le spiego qual è stato l’esito delle mie telefonate poche ore prima, ma proviamo comunque a ripeterle. Il risultato, però, non cambia.
Dopo un primo disorientamento, decide che io sono “un segno del Cammino” e, anche se Sarria è lontana, vuol dire che lei deve arrivare fin là con me. Lo dice con una serietà che mi lascia un po’ perplesso, ma la cosa mi pare simpatica e accetto divertito il nuovo ruolo di inconsapevole messaggero mistico.
E così, dopo una piacevole merenda e altre chiacchiere con Simon, arriva il momento di ripartire. Non passano nemmeno dieci minuti, però, che ci imbattiamo in un cartello colorato che richiama molto il luogo che abbiamo appena lasciato. È l’indicazione per una certa Casa del Alquimista. Si trova a poche centinaia di metri e sembra offrano la possibilità di pernottare.
Gli occhi di Lidy si spalancano. Subito mi dice che già una volta aveva incontrato un luogo che si presentava in maniera simile ed era stata la sua salvezza, così insiste perché deviamo per andare almeno a chiedere informazioni. Vorrei dirle che non c’è bisogno per ogni cosa di metterci tutta questa enfasi, ma accetto in silenzio, perché in fondo in fondo questo suo stile mi diverte.
Quando arriviamo, ci troviamo davanti a un cortile e una grande veranda del tutto simili a quelli di Terra de Luz. Ci vengono ad accogliere Laissa e Camille, due giovani pellegrine che hanno scelto di fermarsi qui anziché proseguire fino a Santiago: la prima da un paio di settimane, la seconda molte di più. Sono incredibilmente calme e solari, ciascuna a modo proprio. Ci dicono subito che è un piacere se restiamo, e per noi è più che sufficiente per accettare. Beviamo insieme una tisana, dopodiché visitiamo con loro la casa.
È un luogo è magico e ammaliante. Il proprietario si chiama Armiche: è un artista e le opere che riempiono la casa sono fatte da lui e da suo padre. Fu questi il primo Alquimista, ma è morto qualche tempo fa.
Tutti i quadri sono coloratissimi e particolarmente evocativi, costruiti attorno a simbologie fondamentali. La superficie opaca e granulare fa capire che sono fatti con polveri minerali, in perfetta sintonia con lo spirito che li pervade e ciò che sembrano rappresentare. La casa ne è piena; è un luogo spartano, ma quelle opere e molti altri dettagli le donano eleganza e la rendono molto calorosa. C’è anche una sala per la meditazione, tutta in penombra, allestita con tappeti e campane tibetane.
La visita si conclude con un rapido passaggio nel laboratorio di Armiche. È uno spettacolo d’altri tempi: ordinati minuziosamente, ci sono raccolti tantissimi bicchierini tutti uguali, contenenti ciascuno della polvere minerale di colore diverso. È chiaro, quella che abbiamo davanti non è altro che la sua tavolozza. Wow!
“L’alchimista” ci raggiunge poco dopo. È un ragazzone simpatico e garbato, mezzo gallego e mezzo canario, come dice lui. Ci chiede se siamo noi la coppia che gli ha scritto, ma gli spieghiamo che siamo capitati qui quasi per caso. Quelli del messaggio, invece, arrivano poco dopo, e a sorpresa sono Alexandre e Aurora. Ancora una volta il Cammino fa incrociare le strade dei suoi pellegrini in maniera imprevedibile. Anche loro vengono accompagnati a fare un giro della casa, mentre a me e Lidy viene mostrata la stanza. C’è un letto a castello, un armadio e tanti quadri, niente più: è perfetta. La finestra si affaccia su un orto, dopo il quale la vista può proseguire tra colline e vallate a perdita d’occhio.
Scopro che non c’è il riscaldamento. Me lo aspettavo, ma sono tranquillo: per fortuna ho tutto quello che mi serve. Lidy, invece, non ha con sé il sacco a pelo e così lascio che prenda lei tutte le coperte di lana che sono nell’armadio. Spero questa notte di non pentirmene.
La doccia oggi scelgo di non farla, e si rivela una scelta a suo modo utile, perché l’acqua calda non arriva comunque a bastare per tutti.
Lidy si mette a disegnare in veranda, ispirata da tutta l’arte che ha attorno. Io invece mi regalo un momento nella sala della meditazione. Mi raggiungono poi anche Aurora e Alexandre, e iniziano a suonare le campane tibetane – lei con gran padronanza, lui molta meno. Mi unisco anch’io, ma mi dimostro a mia volta un vero imbranato. Diventa un momento divertente e pacificante allo stesso tempo.
Riesco poi a scambiare due parole anche con Laissa. È brasiliana, ha studiato architettura e recita per passione. Camille invece sta in cucina a preparare la cena. Sforna un piatto vegetariano gustoso e molto ben presentato, anche se la quantità è un po’ misera per i miei bisogni, ma la gioia di questo momento mi aiuta a non pensarci.
Alla fine del pasto Armiche proporne un gioco divertente per decidere chi laverà i piatti. Ridiamo di gusto per un quarto d’ora e io ne esco pure vincente, ma avevo capito che sarebbe passato al lavello il perdente, non il contrario. La cosa comunque non mi dispiace, e diventa un buon motivo per farsi altre risate.
Purtroppo l’unica sorpresa negativa è che, appena ho finito di lavare, tutti si alzano e cominciano ad andare a letto. Non ci posso credere, davvero non me l’aspettavo. E io che mi immaginavo di passare almeno un altro paio d’ore con loro, ascoltando storie, giocando e bevendo tisane. Spero almeno che la ragione sia dormire a sufficienza per riuscire ad alzarsi presto domani mattina. In quel caso sarei molto contento: prima si parte, prima si arriva.
Nel silenzio della casa, imbacuccato nel sacco a pelo, mi domando come sarebbe fermarsi qui come Laissa e Camile, oppura alla Tierra de Luz. È curioso anche che due realtà così originali e vagamente simili tra loro abbiano messo radici nello stesso fazzoletto di terra.
A dir la verità, per quanto ci sia appena entrato, ho come l’impressione che sia la stessa Galizia ad emanare un prorpio magnetismo, forse per via di questa armoniosa dominanza di verde, chissà. In ogni caso, non c’è modo migliore per abbandonarsi al sonno che lasciarsi abbracciare da queste suggestioni, e dalla certezza luminosa che partire è stata davvero un’idea grandiosa.