(campeggio selvaggio)
38km
Ottimo sonno e ottima colazione: ciliegine sulla torta del “Mulino Farfalla”.
Il tempo è ancora bellissimo. Oggi farò di certo una deviazione che allungherà il percorso: voglio onorare la promessa fatta alla signora incontrata a Foresto e portare una preghiera al lago della Roche-de-Rame, dove perse la vita il figlio. Gambe in spalla, quindi!
Come previsto, proseguono i saliscendi di questo GR, che mi mettono a dura prova ma, al contempo, mi gratificano con panorami stupefacenti.
Dopo pochi chilometri di sentiero a mezza costa, devo già scendere a valle e attraversare la Durance per poter raggiungere il lago artificiale. Mi perdo un po’, ma alla fine riesco nel mio obiettivo. È un luogo non particolarmente affascinante: c’è un chiosco ancora chiuso, l’acqua è perfettamente liscia, senza increspature, e si sentono le auto passare a un centinaio di metri scarsi. Eppure, il motivo che mi ha spinto qui rende il luogo pieno di valore. Dedico qualche minuto a consegnare a questo silenzio le preghiere di una madre lontana, poi torno sui miei passi.
Attraverso di nuovo il grande fiume e torno a salire, parecchio oltretutto.
Per un paio d’ore cammino senza poter vedere il sole, però posso godermi tutte le cime rocciose delle montagne già colpite dai suoi raggi. Fin dalla Val di Susa, questo dettaglio sta diventando ricorrente e non mi dispiace affato, perché regala tocchi di vera poesia.
Un po’ di luce mi bacia solo a metà mattina, nei pressi di un magnifico belvedere. In lontananza scorgo una grande conca, crocevia di valli diverse, incoronata da montagne imponenti e piene di fascino. Più di tutto, mi colpisce una lingua di terra che si protende verso il centro, un altopiano insolito che osservo con curiosità, chiedendomi se sarà da lì che dovrò passare oggi. Nonostante abbia mappe e navigatori, non riesco a capirlo.
Riprendo il cammino, continuando lungo strade asfaltate che ora si snodano, senza troppi dislivelli, tra agglomerati di magnifiche ville montane. Covo però una grande frustrazione: mi rendo conto di non riuscire ad accettare del tutto il fatto che questa Via Domitia, promossa come cammino per Santiago, si snodi come un budello su e giù per queste montagne piuttosto che orientarsi semplicemente verso la meta finale. Certo, so che è solo questione di una decina di giorni e che poi il percorso si ammorbidirà e assumerà un orientamento più lineare, con dislivelli trascurabili. So anche che questi grossi sforzi fisici e mentali stanno costantemente venendo ripagati con paesaggi straordinari, ma a volte lo stress accumulato supera queste gioie e il morale incespica.
Mi aiuta a sopportare questa diatriba interiore la “zia” Sara, che sento con gran frequenza, così come Fabio. Entrambi mi supportano e mi spronano a non mollare la presa, nutrendomi della bellezza di questi territori e della generosità mai scontata del clima. Sono davvero messaggi preziosi.
Attraverso la suggestiva comunità di Champcella, rimanendo felicemente colpito da un dettaglio: qua e là sono affissi dei veri e propri quadri su pannello con rappresentazioni di abitanti locali tratte da fotografie del secolo scorso. La particolarità sopraffina è che il bianco e nero delle immagini originali è sostituito da colori squillanti e non realistici, quasi fluorescenti, che spogliano quegli echi del passato da ogni nostalgia, rendendoli invece vivaci e ben integrati col presente.
Superato il paesino, si comincia a scendere. Mi azzardo in un breve tratto che sarebbe vietato a causa di alcuni smottamenti, ma che si rivela incantevole e selvaggio. Poco dopo raggiungo di nuovo il fondo valle, per poi salire una volta ancora, ma… sul versante opposto: un chiaro esempio di ciò che mi rende frustrante questo itinerario.
Arrivo a Saint-Crépin. È ora di pranzo e il sole picchia forte, affaticandomi ancor di più. Vedo gente mangiare fuori da un bistrot, ma so che devo fare economia e passo oltre, cercando inutilmente un negozio di alimentari che sia aperto. Stringo i denti e proseguo.
Raggiungo e oltrepasso anche la desolata Eygliers, fino ad arrivare ad affacciarmi sull’altopiano che avevo visto nelle prime ore della mattina. In fondo dovrebbe esserci la mia meta di oggi: Mont-Dauphin.
Cerco di scorgere la cittadina, ma non ci riesco. Quello che vedo, oltre i campi, è solo un gran muraglione. Attorno lo scenario è unico: le montagne sono splendide, così come le varie valli e vallette che da lì partono a raggiera.
A lasciarmi a bocca aperta, però, è soprattutto la presenza di un secondo altipiano, proprio di fianco al primo: si chiama Plateau-de-Simoust. È più o meno della stessa altezza di quello su cui mi trovo, e ha delle pareti eccezionalmente verticali, a strapiombo sulla vallata che lo divide da dove sono ora. Sul fondo di questa specie di canyon passa un piccolo fiume di nome Guil. Mentre camminavo sui monti non l’avevo mai notato; i due altipiani mi sembravano uno solo. Un dettaglio, in particolare, mi incanta: da quel bordo roccioso, un piccolo corso d’acqua si tuffa a valle creando una cascata sottile ma molto alta, davvero suggestiva.
Tornando a volgermi là dove sono diretto, raggiungo la muraglia difensiva, cogliendone la forma complessa, ad angoli acuti, e con fossati tutt’attorno. Arrivato davanti a dei cartelli informativi, trovo conferma di quello che ho già intuito: Mont-Dauphin non è un semplice villaggio, ma un importante forte militare, che ora è soprattutto un polo turistico molto noto.
La cosa ha obiettivamente il suo fascino, ma comincio a immaginare che sarà impossibile trovare negozietti a basso costo dove comprare da mangiare per i pasti di oggi. Dentro me una voce grida: “Perché questo percorso mi ha voluto portare qui? Io non sono un turista, sono un pellegrino! E non sono qui per visitare una vallata, ma per attraversarla, perché la mia meta è Santiago, lontana quasi 2000 km. Se facessi giri turistici in ogni territorio sulla mia rotta, il cammino diventerebbe infinito!”.
Ecco a che livelli sono già arrivato. Purtroppo la mia resistenza fisica e mentale sta toccando un suo primo limite, impedendomi di vivere questa avventura con la distensione che vorrei. Una parte di me, però, resta fermamente convinta che questa sfida sia alla mia portata. Mi sprona a focalizzarmi su quanto sarò fiero e orgoglioso ogni volta che supererò momenti come questo, fino alla gioia più grande, quando raggiungerò Praza do Obradoiro.
Affidandomi a questa voce interiore, allontano le frustrazioni e cerco di ricalibrarmi. Mi concentro sul presente, su dove sono ora: è un luogo unico e speciale che ho faticato a raggiungere; mi merito di godere del suo fascino il più serenamente possibile.
Faccio un bel respiro, mi guardo attorno stando fermo, ascolto il vento. Mi lascio calmare dalla maestosità delle montagne intorno a me. Anche la monumentalità silenziosa della cittadella sembra aiutarmi ad armonizzare il mio stato d’animo, e ne faccio tesoro. Sono pronto a ripartire.
Supero i fossati senz’acqua – curati come giardini – e attraverso il portale d’ingresso, inoltrandomi nella fortezza.
Al suo interno è ordinata secondo poche vie perpendicolari. Cammino lungo quella che ho di fronte, la principale, evitando museo, bookshop, negozi turistici e i primi ristorantini. Arrivo là dove ieri ho fatto prenotare a Bernard, ed entro.
È un bistrot molto raffinato, e al contempo semplice. Mi viene incontro una giovane cuoca che fortunatamente parla inglese, permettendomi di risparmiare un po’ di energie. Scopro che le mie intuizioni erano giuste: non c’è nessun negozio di alimentari qui, e per il pranzo dovrò accontentarmi di un croque-monsieur (da ben 10 euro!) perché la cucina è già chiusa. Per la cena, invece, l’unica opzione è il ristorante di fianco, e nemmeno la colazione è inclusa. Desolato, salgo nella piccola camerata.
Tutto è bellissimo e accogliente, ma…oggi proprio non ce la faccio. Non riesco a trattenermi e riparto col dire a me stesso che non sono un turista e nessuno mi sta obbligando a seguire questo percorso, né ad alloggiare dove non vorrei. Sono libero, ma questa libertà va onorata.
Pur stanchissimo e senza ancora sapere dove dormirò, decido quindi di proseguire. Riprendo lo zaino e scendo dalla ragazza. La avviso che rinuncio alla stanza, spiegando il motivo e scusandomi.
Scelgo comunque di pranzare qui, perché ho troppa fame: un toast farcito da dieci euro, mannaggia, ma almeno è delizioso. Finito il pasto, saluto e concludo la mia traversata della piazzaforte, dopodichè scendo qualche tornante scosceso per raggiungere il fondo valle – ancora una volta.
Cerco sul web il supermercato più vicino e lo raggiungo, costretto ad allungare di qualche chilometro la tappa. Sono molto affaticato, ma ho trovato una riserva di forza interiore che sta facendo la differenza. Faccio scorta per la cena e la colazione di domani, finalmente a prezzi alla mia portata. C’è un campeggio poco distante, ma ma sono sull’onda di un grande slancio ed è l’occasione giusta per cimentarmi finalmente nella mia prima esperienza di campeggio libero. Decido quindi di proseguire oltre, finchè non troverò il posto più adatto.
Esco dal nodo di strade statali e mi reimmetto sul GR, che torna a salire per l’ennesima volta, entrando nel comune di Reotier.
L’incontro con un luogo particolarmente affascinante mi regala un’utile distrazione prima che il sentiero si faccia ripido: è una grande fontana “pietrificata”, una formazione naturale che davvero non saprei descriverla meglio.
Le gambe sono alla frutta; ormai sto avanzando spinto quasi solamente da entusiasmo e ostinazione. Raggiungo una strada asfaltata che finalemente corre in piano a mezza costa. Voltandomi, torno a vedere la conca coi due altopiani. Il nuovo punto di vista mi fa gustare quello scenario naturale con ancora più meraviglia, ma evito di soffermare lo sguardo sulla fortezza.
Poco dopo, trovo una zona agricola semi-abbandonata che sembra adatta ad accamparmi. Mi ci inoltro, sperando di trovare qualcuno a cui chiedere il permesso, per poter poi passare con più tranquillità la mia notte lì. Trovo un’unica persona che sta curandosi di qualche capra. Mi presento e faccio la mia richiesta, ma non si fida per niente, nonostante siamo in un’area completamente spoglia e priva di abitazioni.
Gli confesso il mio dispiacere e torno su miei passi, ma sono esausto da quasi 40 km di cammino, e prendo la decisione di intrufolarmi comunque nel mezzo di quei terreni, divisi solo da alcuni muri a secco. In pochi minuti trovo un angolo riparato, che sembra perfetto per me. L’unico inconveniente è che sta in uno dei pochi appezzamenti coltivati, ed è occupato da una giovane vigna. Nella mia testa già mi immagino il proprietario che arriva in tarda serata a sfollarmi, ma davvero non ho più energie per andare oltre, e mi accampo.
Scelgo una posizione ben nascosta, tra un gran cespuglio e un albero. C’è addirittura un tavolo di legno con una panca, anche se sedermici mi renderebbe troppo visibile. Boschi intorno non ce ne sono, infatti, e da qualche casolare – pur lontano – potrebbero facilmente accorgersi della mia presenza. In ogni caso, scelgo di essere il più prudente possibile, limitandomi a rimanere vicino alla tenda.
Le ore che mancano all’addormentarsi sono tante. Le passo tra tensione e noia, ma allo stesso tempo godendomi la vista fiabesca di un tramonto tra quelle cime. Consumo la mia cena povera ma nutriente, e aspetto ancora un po’ perché faccia buio, poi mi tuffo nel sonno sperando che tutto vada bene.
Purtroppo, la mia dormita dura poco. Totalmente disabituato a situazioni simili, le paure si rivelano troppe e ogni rumore mi fa immaginare scenari spiacevoli. Sento latrati, qualcosa di simile a voci in lontananza, a un certo punto della notte anche dei grugniti, senza capire quanto siano veri e quanto invece siano frutto della mia suggestione.
Poco più tardi mi sveglio ancora di soprassalto, accorgendomi di una presenza nella tenda. È solo un roditore di qualche tipo, che al buio non riconosco. Saltella attorno e sopra il sacco a pelo, ma è chiaro che è più spaventato di me e lo faccio uscire alla svelta. Mi domando se riuscirò a prendere sonno di nuovo.