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cammino di santiago - roberto pesenti

09/11 Melide – O Pedrouzo

(Albergue Porta de Santiago)
35 km

Due giorni da Santiago de Compostela: il conto alla rovescia sta per finire.
Il conto, già, perché ormai sì è capito molto bene: il pellegrino può anche diventare un gran calcolatore. Io non faccio certo eccezione: misuro il tempo, le distanze, la velocità media, il peso, le spese, tutto quanto. Stando così le cose, sembra quasi impossibile che sia comunque riuscito a sperimentare anche la perdita di controllo e l’affidamento (alla vita, al Cammino, forse un po’ anche a Dio), eppure è capitato, in un’infinità di occasioni piccole e grandi.

È stato divertente scoprire di covare anche una latente forma di agonismo, tendenzialmente qualcosa ritenuto poco compatibile con lo spirito di un pellegrinaggio. Nel mio caso, però, si è integrata molto bene alle pulsioni più interiori, senza stridori particolari.
Mi ha dato un enorme gusto sentirmi forte e resistente come mai mi era successo, io che fin da ragazzino mi trascino tra ortopedici, podologi e fisiatri. Ogni giorno mi è capitato almeno una volta di trovarmi a spingere il mio corpo al massimo, vuoi per scappar fuori da qualche regione che stava per essere confinata, vuoi per puro passatempo – non di rado giocando a raggiungere o superare qualcuno, quasi fosse una gara.

Questo vuol forse dire che ho corso troppo? Me lo sono chiesto quasi ad ogni accelerata, ma non credo. Mi sento felice di tutto, anche dei chilometri divorati, e non ho l’impressione di essermi perso qualcosa per strada. Mai come in questi mesi ho osservato e vissuto la natura, per esempio; e allo stesso tempo ho coltivato continue esperienze di scoperta, dedicando ogni giorno un enorme spazio alla meraviglia. Ho anche cercato appassionatamente l’incontro empatico con altri, alternandolo con gioia al cammino solitario nella natura.
Sì, non mi vergogno a dirlo: mi piace il Roberto che ho scoperto di essere e di poter essere, e spero proprio di non dimenticarmene.

I miei due compagni di viaggio hanno avuto modo di scoprire molta parte di tutto questo, comprese le contraddizioni. Non credo sia stato piacevole accettare che io mi separassi volontariamente da loro così spesso – a volte per qualche ora, altre per giorni interi. Nonostante ciò, sono comunuqe riusciti a lasciarmi vivere in piena libertà quest’esperienza profondamente condivisa, riaccogliendomi sempre. Credo non sia per nulla scontato, ed è qualcosa per cui provo sincera gratitudine.

Riflessioni simili sono pasta quotidiana di questo pellegrinaggio: la compagnia con cui spesso apro gli occhi la mattina, prima che la sveglia suoni, e così è anche quest’oggi. Come sempre, però, arriva poi il tempo di passare all’azione. Mi alzo e raduno tutto coi miei soliti rituali, concludendo con la mia ormai classica colazione fai-da-te. Tiziano e Amedeo, invece, preferiscono il tavolino di un bar, soprattutto dopo la tappa brutale di ieri. Penso che se lo meritino più di ogni altra cosa, ma questo significa che anche oggi partiremo separati.

L’uscita da Melide passa da una via storica del centro, particolarmente spoglia a quest’ora della mattina, anche se le insegne spente di bar e ristoranti mi fanno pensare che il quartiere sappia dare il suo meglio in altri orari della giornata.
Salgo fino alla Capela do Carme, posta abbastanza in alto da regalare una vista panoramica sulla cittadina. Purtroppo, se non fosse per il canonico cruceiro e la silhouette di una chiesa poco lontana, rimarrebbe gran poco di bello da vedere, ma forse come altre volte è un po’ colpa anche del brutto tempo.
Scendo poi in un barrio residenziale pieno di verde, e lascio Melide passando di fronte a un ultimo gruppo di case, dal sapore più antico, a lato della chiesa di Santa Maria. Immediatamente dopo tornano a farla da padrone i campi, almeno fino a quando la strada non si immerge direttamente in un bosco. È strano sentirsene abbracciati quando ancora le scarpe calpestano asfalto – mi ricorda un po’ l’uscita da Lourdes.

Qui in Spagna le giornate sono state dense di incontri e scambi con tante persone, e la mia connessione col mondo vegetale si è indebolita molto rispetto alle settimane solitarie in Francia.
La Galizia, però, sta riaccendendo in me la voglia di quel legame tanto forte, ricordandomi ancora una volta che – straordinariamente – passare ore da solo nella natura non mi produce la benché minima solitudine. A molti potrebbe sembrare una cosa da poco, ma sono certo di non esagerare dicendo che è una delle lezioni più grandi che la vita mi abbia donato.

Per una dozzina di chilometri, incontro alcuni elementi che si rimescolano in continuazione, disegnando paesaggi sempre diversi ma anche tanto simili. I boschi si alternano a tanti bei pascoli e campi arati, già verdissimi; la strada incrocia ripetutamente una costellazione di piccoli abitati gemelli, ricchi di albergues, bar e negozi dedicati ai pellegrini. Molte delle chiesette lungo la via stanno abbracciate al cimitero, e mi riportano alla memoria le splendide tappe francesi.
La scenografia poi si correda costantemente con gli ormai immancabili horreos, i cruceiros, i mojones e le amate frecce gialle. Si procede tra continui saliscendi, lievi ma sufficienti ad aumentare lo sforzo in maniera non indifferente, e me ne accorgo bene, probabilmente anche per via di tutte le energie spese ieri.

Arrivo ad Arzúa poco prima di mezzogiorno, sotto la pioggia. Nella prima metà della mattina sembrava il cielo potesse rasserenarsi, ma è stata una speranza delusa, ed ora eccomi qui, fradicio ed esausto. Ho bisogno assolutamente di una tregua. Non trovando panchine all’asciutto, mi riparo sotto il primo terrazzo, in piedi, appoggiato a una saracinesca chiusa. Anche durante la tappa che mi portò ad Arles, con tutta la pioggia che cadde, dovetti accontentarmi di riposare in questo stesso modo almeno un paio di volte, senza altra scelta.
Dai tavolini di un bar, qualcuno mi guarda perplesso, e in fondo ha ragione. Decido che anch’io mi merito una pausa decente, così mi siedo al caldo dentro il primo locale che trovo, ordinando l’inossidabile accoppiata caffè-cornetto.

Quando mi rimetto in moto, ritrovo un cielo completamente coperto, ma almeno ha smesso di piovere. Approfitto per comprare tutto il necessario per il pranzo.
Mentre poi passo di fronte alla chiesa, le campane si mettono a suonare e a me torna subito alla mente Serena – la delegata della Confraternita di San Giacomo a Bergamo. Inizialmente mi domando il perchè, ma poi d’un tratto il ricordo si fa più nitido. Dopo avermi consegnato la credenziale, infatti, insistette perché io facessi visita ad un sacerdote italiano che fa il parroco proprio in questa cittadina.
Di solito non ci penserei due volte, ma oggi non mi sento di fare nemmeno questo. Fermarmi ancora, dopo la lunga pausa appena fatta, rischierebbe di tagliarmi le gambe, e non voglio proprio rischiare. Possa il karma avere pietà di questo pellegrino.

Poco più in basso, imbocco una stradicella lastricata. Passa prima tra vecchissime case, poi d’un tratto mi riporta tra alberi e campi, affondando infine in una valletta molto suggestiva. Nel giro di poche decine di metri, Arzúa e i suoi palazzi svaniscono alle mie spalle, come d’incanto.
Nelle ore successive, la tappa insiste coi suoi piccoli e continui dislivelli e la successione di paesini rievoca quelle dei giorni precedenti. Supero il grande cantiere per l’Autovía che collegherà Santiago de Compostela a Lugo e attraverso poi un’area di boschi artificiali. Uno sembra lo scenario ideale di una fiaba, con l’edera che sale su ogni tronco per tre metri e ricopre tutto il suolo attorno alle radici. Ci rimango per qualche minuto, un po’ per ripararmi dalla pioggia che nel frattempo ha ripreso, e un po’ per gioco: è un altro modo per sbeffeggiare la stanchezza.

Quando il paesaggio torna ad aprirsi, anche nel cielo si ritaglia uno strappo d’azzurro, e proprio a quel punto incontro un’oasi inaspettata e surreale. Si tratta di una birreria con un cortile molto ampio, addobbato in un modo che non avevo mai visto prima. Si entra passando da un gran portale, ed intorno ai tavoli ci sono un horreo, una specie di casetta e tantissimi assi in legno posti nei modi più diversi. Ciascuna di queste cose è completamente puntellata di asticelle, in ognuna delle quali è infilata a testa in giù una bottiglia di birra. Il risultato sembra una vera infestazione, ma ovviamente non fa né paura né ribrezzo – al contrario!

Appena concluso un primo sguardo d’insieme, entro nell’insolito cortile. Il proprietario sta seduto ad un tavolo insieme alla moglie, e con loro c’è quello che sembrerebbe l’unico altro cliente oltre a me. Mi accolgono senza grandi cerimonie, ma con gentilezza. L’unica birra in vendita si chiama “Pellegrina”. Ovviamente ne ordino una bottiglia, e aggiungo pure un bel pezzo di formaggio.

Mentre sono ancora in piedi all’interno aspettando che mi vengano preparati, alle mie spalle tuona improvvisamente una voce profonda come mai ne avevo sentite. In lingua inglese dice che a O Pedrouzo è tutto chiuso, ma che lui (un uomo, evidentemente) è pronto a continuare fino a Santiago. Tutto così, dal nulla!
Mi giro un po’ spaventato, e vedo in controluce una sagoma ferma sulla soglia. Mascherina, occhiali neri, cappello da baseball e cappuccio della felpa sulla testa: sembra un black-block. Una frazione di secondo e già si mette a ripetere la stessa frase. Rimango incredulo per un attimo, poi balbetto qualcosa, tentando di spiegargli che la notizia a me non risulta. Insiste per qualche istante, poi d’un tratto sparisce, proprio come era apparso.

Resto decisamente stordito dalla strana incursione, ma nel frattempo birra e formaggio sono pronti e me li porto fuori per gustarmeli da seduto.
Il tizio, però, rispunta di nuovo come fosse un fantasma, ma stavolta mi chiede il permesso di sedersi. Per fortuna alla luce del sole il suo aspetto è simile a qualunque altro pellegrino, e togliendo anche gli occhiali diventa ancor più rassicurante.

InizInizia a parlarmi, ma purtroppo lo fa troppo velocemente, e fatico a seguirlo. Riesco comunque a interloquire in qualche maniera, tentando di sopportare meglio che posso la sua prorompenza. L’insolito commensale ordina un café con leche, ma fa soltanto un piccolo sorso e poi lo scosta. Mi spiega un sacco di cose riguardo a sé e me ne domanda altrettante. Capisco in maniera confusa che si occupa di qualcosa riguardante progetti di beneficienza e social network, che è partito dall’Olanda, che fa tappe incredibilmente lunghe e che – non so bene perché – alloggia solo in alberghi veri e propri. Mah!

D’improvviso poi, quando ancora sembrerebbe avere cose d’aggiungere, si alza in piedi e si rimette lo zaino, dichiarando che per lui è tempo di ripartire. Beh, ci credo: se vuole davvero arrivare a Santiago, gli mancano ancora la bellezza di 33 km! Tenendo conto che è partito da Arzúa, significa che oggi ne infilerá una bella quarantina. L’aspetto più eclatante, però, è che sono le due del pomeriggio passate, quindi credo non arriverà prima delle 20:30.
Che senso ha bruciare in questo modo proprio l’ultima tappa?! E soprattutto, perché dice che a O Pedrouzo tutto è chiuso? Non riesco a capire, ma non è finita.

Il proprietario nota che non ha bevuto il caffè e gli chiede se aveva qualcosa che non andasse. Lui risponde di no e tenta di pagare, ma l’altro rifiuta i soldi per principio. Entrambi insistono tanto che per un attimo non vanno alle mani.
Per fortuna tutto si risolve, ma manca ancora il colpo di scena finale. Lo strano pellegrino prima di partire alza una gamba e – serissimo come è restato tutto il tempo – esplode un gran peto, lasciandoci increduli e ammutoliti. Impassibile, ci chiede scusa con il suo vocione da sergente dell’esercito, ma dice anche che è normale, e se na va a passo lungo come nulla fosse. Ma guarda cosa mi deve capitare!

Ci rido sopra mentre concludo il mio spuntino, e finisco a chiacchierare con la coppia di proprietari. Purtroppo però si mettono a discutere pesantemente su quanto questa pandemia sia reale o meno, e degli effetti nefasti sull’economia nazionale. Io mi limito a condividere pacatamente la mia testimonianza di assistente in casa di riposo proprio nel focolaio bergamasco. La cosa sembra buttare un po’ di acqua sul fuoco, e menomale, perché non avrei resistito un minuto di più.

Chiamo infine i due compagni pellegrini per sapere come stia andando. Mi dicono di esser cotti e che se la stanno prendendo molto comoda. Sapendoli amanti della birra, gli consiglio vivamente di fare pausa qui e propongo loro di rimanere ad aspettarli, ma insistono perché io riparta, e così faccio.
Prima di andarmene, i proprietari mi chiedono se mi serva altro, perché fino a O Pedrouzo tutti i bar e i ristoranti saranno chiusi. Una volta lá, poi, troverò qualcosa, ma solo da asporto. Al momento prendo atto dell’informazione senza battere ciglio, probabilmente perché l’avere già con me il pranzo e qualche snack mi lascia tranquillo.

Dopo meno di mezz’ora vengo raggiunto incredibilmente proprio da Tiziano e Amedeo. Ma com’è possibile?! Semplicemente erano molto più vicini di quello che pensavo e hanno guadagnato terreno saltando stranamente la tappa in birreria. Sono visibilmente stanchi e con le pance che brontolano parecchio, ma la profezia del barista si è confermata: non troviamo nessun bar aperto, il che fa innervosire Amedeo come non mai.
Ora mi è tutto chiaro, le parole dello strano pellegrino in birreria e quelle dei proprietari: quegli ammonimenti erano legati al fatto che siamo già entrati nel concello di O Pino, cioè in una delle aree circostanti Santiago in cui si stanno applicando misure di restrizione più severe. Chissà perché ci eravamo messi in testa che ci saremmo entrati solo domani. Ma come abbiamo fatto a sbagliare?!

Un distributore automatico di bibite lungo la strada sembra un miraggio, e mentre ci avviciniamo vedo negli occhi esausti dei due amici tutta la speranza di potersi bere almeno una Coca Cola. Purtroppo però nemmeno quel piccolo desiderio riesce a realizzarsi, perché la macchinetta si fa beffa del buon Tiziano, rubandolgi l’euro che ci ha messo senza dare in cambio alcunché.
C’è un’aria tesa per questa situazione, e d’altronde sono già le tre passate. Io ho mangiucchiato qua e là lungo la via, ma loro no, e capisco bene la frustrazione. Propongo di dividere il panino e gli snack che ho con me, ma ricevo un inaspettato rifiuto. Intuisco che non siamo sulla stessa linea d’onda e decido che è meglio che io riparta pacificamente per conto mio.

Nonostante resti nei paraggi della statale e attraversi con più frequenza zone abitate, mi rifaccio comunque gli occhi: la vegetazione sembra riesca a spuntarla trionfalmente anche qui, tra boschi sparsi, campi, giardini, pascoli e orti. Le case spesso sono monofamiliari e ben segnate dai decenni trascorsi dalla loro edificazione, ma in mezzo a tutto questo verde si respira comunque un’aria di benessere, di genuina floridezza.

Durante la marcia, mentre mi accordo telefonicamente con Tiziano sulla prenotazione dell’albergue, realizziamo d’un tratto che l’olandese di prima altri non era che Armando, un tale che lo aveva già contattato sui social. Me ne aveva già parlato, in effetti, ma fino ad ora non avevo collegato. Oggi sono proprio tra le nuvole! Tra l’altro, ora che ci penso Tiziano non era nemmeno stato l’unico a nominarmelo: con le tappe lunghissime che percorre e la sua originalità, d’altronde, non passa di certo inosservato.

Sono solo le quattro del pomeriggio: il sole è calante e qualche nuvolona appoggiata all’orizzonte già lo nasconde. Io arrivo ad una bella area di descanso per pellegrini, posta tra la statale e un enorme pascolo di mucche bianche e nere. Sarà la luce, saranno le vacche, non lo so, ma mi invade un senso di serenità e di gioia straordinario. Scelgo di sedermi a godermelo, e assieme a quello anche il panino che da ore non vedevo l’ora di divorare.
Mentre sono in pace coi sensi e tutto sembra in un equilibrio pacato e radioso, una mucca vicino al recinto inizia improvvisamente a saltare e correre come una pazza, con gli occhi fuori dalle orbite, per poi fermarsi un minuto dopo come se niente fosse. Splendidi lampi di follia animale!

Un istante ancora e vengo raggiunto dai due amici, fortunatamente molto più tranquilli di come li avevo lasciati, e insieme riprendiamo il cammino.
Dopo meno di mezz’ora raggiungiamo e scambiamo due parole con un bel trio di giovani pellegrini svizzeri: una ragazzina sorridente e una giovane coppia, questi ultimi con dei dreadlocks lunghissimi. Hanno volti e atteggiamenti amichevoli ma, quando diciamo loro di essere italiani, la loro luminosità sembra attenuarsi. Nonostante il fatto accada effettivamente dopo quella precisa risposta, sappiamo che la nostra lettura è comunque viziata dalle antipatiche esperienze nelle mesetas. Ad ogni modo, nel dubbio ci limitiamo a salutarli e proseguiamo.

Nella piccola e ben curata frazione di A Rúa, ormai a due passi dalla meta, ci resterà impressa una bella musica registrata che inizia a suonare proprio al nostro passaggio. Non possiamo dirci certi ci siano delle fotocellule o altro, ma ci diverte molto pensarlo, perché non ci sembra per niente male come segno di accoglienza.
Proseguiamo per qualche decina di metri e raggiungiamo di nuovo la solita statale. O Pedrouzo è poco più su, ma un cartello ci indica di deviare per O Burgo. L’albergue dove abbiamo prenotato aveva lo stesso nome, quindi immaginiamo sia arroccato qui da qualche parte, in questa specie di frazione a cui sembra si acceda da una salita che non ci invoglia per niente. Il negozio di alimentari più vicino è in tutt’altra direzione, e ci sentiamo troppo cotti per immaginarci andare avanti e indietro.
Facciamo quindi un’ulteriore verifica, e scopriamo che c’è un’alternativa proprio in centro a O Pedrouzo. Cinicamente, quindi, annulliamo la prima prenotazione e blocchiamo tre letti nell’albergue appena scoperto.

Salendo lungo la via, però, ci imbattiamo quasi subito nello stesso alloggio che abbiamo appena disdetto: stava qui, e non dove pensavamo, ma ormai è fatta. Essendo esattamente l’ora d’arrivo che avevamo indicato ed essendoci solo noi con lo zaino in spalla, cerchiamo di camminare circospetti, sperando di evitarci così ulteriori antipatie dalla rete di albergatori del Cammino.
I nostri ridicoli sforzi si sgretolano però contro un fatto del tutto inaspettato: dalla porta dell’albergue esce d’improvviso un ragazzone che comincia a chiamarci per nome a gran voce. “Che figuraccia!”, penso tra me e me, e invece non è altro che un ospite, un pellegrino come noi. Tra l’altro è italiano: si chiama Alessandro ed è di Roma. Era stato avvisato dal gestore che sarebbero arrivati dei suoi connazionali e, seguendo anche lui Tiziano sul web, aveva capito che eravamo noi; per questo ci ha riconosciuti.
Con lui c’è anche Luis, da Genova. Si rivelano una compagnia davvero piacevole, tanto che restiamo con loro una decina di minuti, dimenticando del tutto le paranoie dell’esser riconosciuti e rimproverati per la nostra disdetta last-minute. Saranno la lingua condivisa e il calore con cui ci hanno accolti, ma vivo quasi l’impressione di aver ritrovato due amici di vecchia data. Alla fine salutiamo anche loro, sperando di ritrovarli domani e festeggiare insieme il grande arrivo.

Giusto due passi più avanti, ecco finalmente il cartello di O Pedrouzo! Lo abbracciamo con enorme entusiasmo e ci scattiamo una foto d’obbligo, trionfante, dopodichè scarichiamo gli ultimi passi in direzione dell’albergue per cui abbiamo optato. Per fortuna si rivela particolarmente bello, con un proprietario gentilissimo.

Ritroviamo anche i tre svizzeri incrociati un’ora prima, oltre che una piccola comitiva di francesi. Per quanto possa sembrare assurdo, i primi contatti con queste altre persone sembrano innescare lo stesso sottile disagio vissuto coi primi: sarà forse già diventata una nostra ossessione, eppure ci sembra di rivivere in tanti piccoli aspetti quello che successe in camerata a Hontanas con Serge, Alexandre e l’altro ragazzo. D’altronde, avendo appena goduto a pieno – con Ale e Luis – di un primo approccio particolarmente caloroso, non possiamo non soffrire la freddezza dei cugini d’oltralpe, di fronte ai quali ci sembra quasi di essere invisibili.
È poco sano e rispettoso fare queste generalizzazioni, lo so. Dopo migliaia di chilometri e tanti incontri, però, la mia piccola personale statistica mostra indiscutibili corrispondenze tra provenienza e grado di socievolezza. Certo, per fortuna non sono assolutamente mancate le eccezioni, e infatti le tengo ben lustre nella memoria proprio per moderare conclusioni antipatiche. D’altronde è anche vero che l’espressione del proprio entusiasmo varia vistosamente da Paese a Paese, ma tant’è.

Sistemate le nostre cose e fatta una doccia, andiamo subito a spendere le ultime energie al minimarket. All’inizio abbiamo mille idee, ma poi scegliamo di limitarci ad una semplice pasta al pomodoro fatta come si deve, visto che non ne mangiamo da una vita. Aggiungiamo ovviamente del buon vino rosso e del jamón serrano per l’aperitivo, accompagnato da un formaggio locale. Come a Mansilla, acquistiamo anche tutto il necessario per la colazione di domani (che obbligatoriamente dovremo preparare noi essendo chiusi tutti i bar).

Con le nostre scorte, andiamo letteralmente a invadere la cucina sopra la camerata, giusto un attimo prima che arrivino tutti gli altri. Per fortuna, loro hanno da preparare prima degli involtini freddi, e questo evita scomode sovrapposizioni.
Nella sala c’è solo un grande tavolo da condividere, ma nemmeno la cena riesce a sciogliere i trattenimenti reciproci. Tutti si divertono enormemente, ma sembra esserci una cortina invisibile che ci divide.

Personalmente, pur godendomi con grande gioia il pasto e i brindisi con i miei due compagni, soffro molto questa tensione palpabile, e quando abbiamo terminato scelgo di attaccar bottone col gruppo franco-svizzero. La mossa risulta efficace, tanto che rimango con loro, arrivando anche a mostrare le fotografie scattate in Francia durante il mio passaggio. Non è sufficiente perché tutto fiorisca in gioiosa fratellanza, ma da un paio di persone ricevo segnali di buona empatia che mi permettono di lasciare la comitiva soddisfatto dello slancio avuto.

Quando torno in camerata, quasi mi sembra di dover giustificare il mio “tradimento” con Tiziano, ma non sono mai stato uno “da branco”, e loro ormai lo sanno bene. Gli confesso che qualche antipatico effettivamente c’era, ma resta titubante quando affermo che in fondo è sano buttarsi comunque perché non mancano mai anche belle persone.
Non mi pare di averlo convinto molto, ma cerco di trattenermi dal fare troppo il maestrino buonista: in fondo, Tiziano ha molta più esperienza di viaggio di me e di certo ha le sue ragioni per fidarsi del proprio fiuto.

La giornata è arrivata alla fine, domani Santiago! Non sembra vero. Direi una bugia, però, se dicessi di essere invaso da emozioni incredibili. La verità è che non provo né una esplosiva trepidazione, né tristezza per il concludersi di questa parte di viaggio. Ancora una volta – e ne sono felicissimo – provo soprattutto serenità e soddisfazione. Sicuramente tutto il vino che ha innaffiato l’aperitivo e la cena ha i propri meriti, ma npoco importa. Chiuso il sacco a pelo, mi lascio finalmente affondare nel sonno. A domani, caro Giacomo!

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Categorie:

Galicia, Spagna