(Foresteria dell’abbazia)
25,5 km
Sylvie e suo marito sono così cortesi da svegliarsi presto quanto me per fare insieme colazione – ottima, tra l’altro. Scelgono di rifiutare ogni mia offerta per la splendida ospitalità e, non contenti, mi regalano anche della pomata per i piedi fatta da loro. Si sono ispirati alla ricetta di un famoso balsamo per pellegrini prodotto dai monaci di Ganagobie, proprio quelli presso cui dormirò stanotte. Li ringrazio ancora infinitamente, ci salutiamo con allegria e riparto per la mia strada.
Il primo paesino che incontro è Aubignosc, e dopo quello mi inerpico tra i sentieri delle colline provenzali. La natura è molto diversa da quella incontrata fino a ieri qui in Francia. I colori del paesaggio formano una tavolozza tutta nuova, fortunatamente baciata da uno splendido sole. Alcune aree sono aride e ghiaiose, con la sola presenza di arbusti sparsi e qualche piccola conifera.
Mi diverto un mondo in questo tratto, e ho anche la fortuna di imbattermi in un camoscio. Non ho mai avuto molte esperienze col regno animale, quindi per me è un’altra emozione inedita e ben gradita.
Rimanendo tra i saliscendi collinari, passo tra le rovine di un vecchio villaggio e subito dopo, in cima a un poggio, ho la gioia di trovare anche quelle dell’antica chiesa di Sant’Antonio.
Sylvie me ne aveva parlato ieri. Viene citata già dal XIII° secolo e la sua particolarità oggi è di essere completamente scoperchiata. Grazie agli interventi recenti del gruppo locale che cura il GR, però, le pietre crollate sono state utilizzate per formare delle sedute all’interno della costruzione, qualcosa di molto simile a delle vere e proprie panche. Nell’abside è stata affissa una decorazione insolita: un pannello sagomato come un arco a sesto acuto, ricoperto di piastrelle e tessere di mosaico. Al centro si stagliano la parole “humilité” e la conchiglia gialla, simbolo del Cammino di Santiago. Sopra l’ingresso, invece, è stata appesa una colorata campana scacciapensieri che risuona piacevolmente in questo luogo magico immerso nella natura.
Dopo qualche minuto di contemplazione, tento di riprendere la via. Mi perdo inspiegabilmente attorno alla chiesa e riesco a raggiungere il sentiero solo calandomi in modo rocambolesco tra gli arbusti. Rischio molto con la mia caviglia ancora indolenzita, ma alla fine sembra reggere bene anche a questo imprevisto.
Scendo fino al paese di Chateauneuf-Val-Saint-Donat e poi di nuovo risalgo lungo nuovi sentieri, imbattendomi d’un tratto nel Cairn-de-Montfort: un tumulo di pietre armoniosamente sovrapposte a secco fino a formare qualcosa di simile a una grande pigna. Mi ha raccontato Sylvie che ci hanno messo sei mesi a comporlo, che è stata un’esperienza dura e bellissima per il gruppo e che il più laborioso era il socio più anziano, addirittura novantenne!
Si trova in una località detta Chante-Puvine, presso Montreal. L’hanno fatto per caratterizzare visivamente quel luogo, soggetto di vari studi sulle antiche vie di passaggio in questo territorio.
Un dettaglio originale è dato dalla presenza di un contenitore cilindrico incastonato all’interno del tumulo e chiuso con un tappo a vite. Dentro contiene documenti di vario tipo inerenti a questo croecvia e al manufatto stesso. Gli scritti sono plastificati, arrotolati e infilati in altri tubi, più piccoli e colorati. Ad ogni colore corrisponde un approfondimento specifico, il cui titolo si può leggere sulla parte interna del tappo: una soluzione incredibilmente pratica e creativa per divulgare quelle informazioni!
Dopo una breve pausa, riprendo la marcia affrontando una nuova discesa, stavolta fino a Peyruis. Il paese ha alcune attività commerciali e ristorative, ma ora tutto è chiuso per la pausa pranzo e non si vede anima viva. Con me ho veramente poca roba, ma per fortuna trovo una vecchia signora sulla soglia della propria casa. Le chiedo se abbia del pane, e lei sceglie di dividere con me l’unica mezza baguette che ha in casa: il gesto caritatevole per antonomasia. Esserne destinatario in questo modo è molto toccante.
Prima di affrontare le salite non così banali che mi porteranno al monastero di Ganagobie, mi fermo a mangiare nei pressi di una fontana, all’uscita del paese. Ormai è una rarità: nel dipartimento delle Alte Alpi ogni abitato aveva la propria, con annesso lavatoio, ma ormai non ne trovo quasi più. Oltretutto, sempre più spesso ci sono affissi cartelli che avvisano che l’acqua non è potabile. Un gran peccato.
Sotto il sole più duro, quello del primo pomeriggio, inizio l’ultimo quarto della tappa di oggi. Attraverso il Canal de Manosque, che scorre lungo queste terre e alcune di quelle che percorrerò domani. Affronto una nuova salita e l’ennesima discesa, cammino su un acquedotto sospeso e poi risalgo di nuovo. Raggiungo così il paese vero e proprio di Ganagobie, che sta a un’altitudine minore del monastero. Lì scovo una fontanella quasi per caso, e grazie al cielo regala acqua potabile. Faccio un bel sorso, riempio la borraccia e affronto l’ultimo strappo verso l’abbazia medievale, abitata negli ultimi trent’anni da monaci benedettini.
In quel tratto bellissimo, vivo un altro incontro speciale: un capriolo, stavolta. Con un solo balzo, attraversa improvvisamente il sentiero a una decina di metri davanti a me, spuntando dalla boscaglia e scomparendo in quella sul lato opposto. Poesia pura!
Raggiunto l’altopiano dove sorge il complesso religioso, riequilibrio il respiro camminando con calma tra le radure che ancora mi separano dalla meta. Sono “arredate” da alcune composizioni fatte con pietre raccolte nei dintorni. Si direbbero installazioni artistiche spontanee, un po’ naif, probabilmente fatte da visitatori, tra le quali c’è addirittura una divertente tartaruga gigante.
Dal parcheggio vicino fanno capolino dei turisti, e insieme affluiamo lentamente verso l’abbazia. È suggestivo constatatre che il luogo induce talmente al silenzio che, uno dopo l’altro, tutti si ammutoliscono spontaneamente.
Un ultimo bellissimo vialetto, delimitato da bassi muri a secco, cespugli di lavanda e alberi che sembrano danzanti, conduce finalmente all’incantevole chiesa di Notre-Dame. La facciata è dorata dal sole e il portale si distingue per la fattura elaborata e sopraffina. Tutt’attorno nessun altro ornamento, se non una vetrata rotonda perfettamente proporzionata al resto: essenzialità e grazia allo stato puro. Percorro quei metri lentamente, gustandomi quel luogo e la fine della indimenticabile camminata di oggi.
Prima di presentarmi e chiedere per la notte, visito l’interno della chiesa, scoprendolo molto affine all’esterno. Come quella di Boscodon, infatti, è per lo più spoglia, ma quel poco di decorativo e scultoreo che vi trova posto è raffinatissimo.
Alcuni elementi sono davvero unici. Innanzitutto le vetrate: poche, non molto grandi, ma colorate vivacemente e soprattutto inaspettatamente moderne. Sono come pitture astratte create con gesti veloci. Resto incantato!
Il secondo capolavoro è un mosaico enorme e molto antico sul pavimento del transetto e dell’abside, colmo di originali raffigurazioni tra decorazione e mitologia. I colori sono solo rosso, nero e bianco. Sembra un gigantesco tappeto, e mi lascia sbalordito.
Quando esco, mi sento arricchito e rigenerato. È frequente che concluda le mie tappe in luoghi molto belli, ma oggi posso dirmi veramente fortunato.
Busso alla porta del monastero. Ad accogliermi, fra Robert, col suo naso a patata rosso nel mezzo di un volto particolarmente simpatico. Con pochissime parole e tanta cortesia, mi accompagna in refettorio, dove mi offre anguria e yogurt. Pazientemente, aspetta che finisca di mangiare, continuando nel frattempo a sorridere in totale silenzio.
Assicuratosi poi che non abbia bisogno d’altro, mi spiega sinteticamente il necessario e mi conduce alla stanza dove dormirò. È molto isolata, posta di fianco alla rimessa dei mezzi agricoli. Sembra di recente fattura: è essenziale e ordinata. La cosa strana è che non ha finestre; la luce naturale passa solo attraverso il vetro della porta.
Dopo una doccia, partecipo ai vespri cantati, in chiesa, ai quali sono invitati anche i visitatori. Non è la prima volta che vivo un’esperienza simile, ma qui la ricorderò per l’atmosfera unica a cui tutto pare concorrere, a partire dall’ingresso silenzioso e ordinato dei religiosi. Purtroppo, nonostante ci siano i libri per la liturgia delle ore, non so proprio dove siano le pagine giuste. Non parliamo poi della comprensione dei meravigliosi canti gregoriani in francese! E così non faccio altro che stare ad ascoltare e ad ammirare il rito.
Un dettaglio che mi rimarrà sempre impresso è la testa inclinatissima di un monaco, tanto che il mento tocca abbondantemente lo sterno. È entrato in quel modo, e tale è rimasto per tutto il tempo, compresa l’uscita conclusiva. Probabilmente l’anzianità ha portato con sé quel problema. Se fosse davvero così, è curioso come la natura lo abbia bloccato proprio in quella postura penitenziale tanto estrema.
Finiti i vespri, mi reco in refettorio. Fuori ci sono altri laici che aspettano. Saluto, ma loro solamente sorridono e fanno cenno con la testa. Entro e do vivacemente la buonasera anche alla persona che sta apparecchiando, chiedendo se ha bisogno di una mano. Lui mi risponde pacatamente che non c’è bisogno. In quell’istante, sulla parete alla sue spalle, vedo il cartello che indica la regola del silenzio. Imbarazzato, trattengo una risata e mi scuso.
Piano e senza fiatare, si radunano una decina di persone, tra cui una sola donna. Insieme e in piedi aspettiamo l’ora esatta per la cena. Nel frattempo un monaco entra da una porta secondaria e lascia le pietanze e qualche yogurt come dessert, ovviamente senza pronunciare parola. Si sente poi suonare una campanella. A quel punto la persona che ha apparecchiato recita una preghiera, finita la quale possiamo finalmente sederci e mangiare.
Mentre ci serviamo con goffa discrezione, in radiodiffusione parte una cosa per me totalmente nuova: una lettura “cantata” delle notizie del giorno, un po’ come fossero vere e proprie liturgie. Non mi pesa; mi piace fare esperienze nuove e vivere lo stupore che mi provocano. L’unico problema, piuttosto, è che sono l’unico pellegrino – in cammino, intendo – e la mia fame sembra il doppio di quella degli altri. Per imbarazzo non me la sento di distinguermi, e mi allineo alle porzioni scelte dal resto dei commensali, anche se mi piange il cuore a vedere messe da parte le pentole ancora mezze piene.
Arrivata l’ora, un altro suono segna il termine della cena. Tutti si alzano e qualcuno si fa carico spontaneamente di lavare i piatti o di asciugarli. Non essendoci spazio per nessun altro al lavello, li ringrazio ed esco a godermi il clima splendido: il sole è ormai calante, c’è una temperatura perfetta e tira una brezza leggera.
Mi allontano dal monastero, prendendo la direzione della mia stanza, ma non mi ci fermo. Vado oltre, per dare un’occhiata ai dintorni e pregare un po’ a modo mio. La luce è misteriosa, soffusa. Ormai il sole è calato e il cielo comincia a farsi lilla. Arrivo ad un parcheggio, scoprendo che è anche una straordinaria terrazza sull’enorme valle sottostante. Mi godo per un po’ il panorama, ritrovando ancora una volta la Durance che, lontanissima laggiù, scorre lenta e silenziosa. Oltre la valle c’è un secondo altopiano, meno elevato di quello dove sto. L’ampiezza dello scenario riesce ad ipnotizzarmi per minuti interi.
Voltandomi, noto poi un angolo di bosco particolarmente attraente: gli alberi sono molto distanziati, e a terra c’è solo un soffice strato uniforme di foglie secche e nient’altro.
Non resisto alla tentazione e mi ci addentro. Quando ormai il parcheggio è sparito alle mie spalle, mi ritrovo d’un tratto ai piedi di un grande albero. Emotivamente mi cattura all’istante, e rimango ammutolito. È più alto degli altri e ha molto più spazio attorno a sé. La sensazione nitida, seppur insolita, è di percepirlo come…un padre.
Ormai non ho più nessun trattenimento nel mettermi in connessioni con piante, animali o qualsiasi altra manifestazione della natura, e così faccio anche stavolta, avvicinandomi, accarezzandone lentamente il tronco, le punte dei rami, le foglie che ancora lo vestono. Vivo un momento indimenticabile, che concludo sdraiandomi a terra e guardando il cielo, immerso in un silenzio rarissimo, completamente in pace.
Prima di tornare, decido di approfittare degli ultimi minuti di luce e proseguire oltre la grande pianta, fino a raggiungere il limite del bosco e dell’altopiano. Da quel lato, una valle minore mi separa da una collina completamente ricoperta di vegetazione. Il pendio è tagliato orizzontalmente da una strada che si snoda sinuosa, che calamita più di ogni altra cosa la mia attenzione, ma non riesco a capirne il motivo.
Me ne torno in camera mentre comincia a farsi buio. Ho vissuto un altro giorno splendido, probabilmente uno dei più magici.