(Mobilhome @ Camping la Durance)
36,5 km
Notte turbolenta e complicata: ha piovuto per ore e ha fatto pure un gran freddo. Degli insetti che non so nemmeno immaginare sfrecciavano in continuazione facendo rumore come fossero droni. Per di più la tenda non era tirata abbastanza e faceva un baccano terribile, sbattuta in continuazione dal vento. Come mio solito, piuttosto che uscire a sistemarla – e magari approfittarne per mettermi qualcosa in più addosso – sono rimasto nel sacco a pelo a lasciarmi tormentare.
Stremato, mi alzo poco prima che suoni la sveglia e torno nella stanza dove ieri ho cenato, stavolta per far colazione. Se fossi statopiù sfacciato, vista la nottata, avrei potuto portare lì materassino e sacco a pelo per dormire almeno qualche ora decentemente, ma gli accordi non erano quelli e ho preferito rispettarli. D’altronde non è un albergo, è casa loro, e comunque ormai è andata così. Faccio la mia colazione e torno fuori a smontare, con la solita soddisfazione di vedere sparire tutto nello zaino come nella borsa di Mary Poppins.
Me ne vado salutando la casa con la mano. Sono abbastanza convinto di aver svegliato Valdo e famiglia con tutto il rumore fatto, e mi piace pensare che mi stiano osservando dietro ai vetri scuri.
C’è ancora buio. L’arrivo della luce ritarda ogni giorno di più, a una velocità che prima di questa esperienza percepivo molto meno.
Riesco comunque a intravedere gli sterminati vigneti che stanno a fianco di questo quartiere residenziale. Sembra che dormano ancora tutti, perché non si nota nemmeno una luce accesa. Anche le vigne buie sembrano sbadigliare assonnate. Riesco a immaginare quanta uva squisita sia lì appesa a perdita d’occhio, nonostante i grappoli siano nascosti nell’ombra. Resto immobile qualche minuto a godermi il cielo che si colora di luce ogni secondo di più, appoggiato sull’orizzonte che è tutta un’onda nera di colline.
Durante la prima mezz’ora, per non rischiare di perdermi e riuscire a collegarmi quanto prima alla Via Domitia, devo buttare spesso l’occhio sullo smartphone.
Dopo una decina di minuti le vigne finiscono e il navigatore comincia a guidarmi tra periferie industriali e strade trafficate: è il prezzo prevedibile per chi lascia la rotta ufficiale. Appena tornato tra i campi, infatti, tornano presto ad apparire i segnavia del GR. Non passa molto, poi, e già mi ritrovo catapultato in un area boschiva, tra l’altro diversa da ogni altra io abbia mai visto. La terra è rossa, senza ostacoli; gli alberi sono bassissimi e lo spazio ai lati del sentiero è pieno di cespugli di ogni dimensione. Questo cocktail così apparentemente semplice mi scatena un entusiasmo tutto infantile: vivo la suggestione fantasiosa di trovarmi in una specie di giardino incantato, tanto che comincio letteralmente a correre come un bambino, senz’altro motivo che divertirmi.
Purtroppo mi scordo di scattare anche qualche fotografia, e me ne pento, perché ben presto lo strano bosco finisce e io mi ritrovo fuori quasi d’improvviso tra prati verdi. Davanti a me nient’altro che l’incrocio di un paio di strette strade asfaltate. Nel frattempo il cielo si è anche riempito di nuvole, e ora è diventato una massa bianca e piatta. Mi rendo conto di non aver visto l’alba, peccato.
La tappa di oggi, oltre ad essere tra le più lunghe percorse fin qui, sarà di certo la più piatta affrontata in Francia. La mappa dice anche che dovrò affrontare alcuni rettilinei interminabili. Sono curioso di scoprire come la vivrò e quanta fatica farò, perché ho il sospetto che la monotonia potrebbe farmi scaricare le batterie molto più alla svelta.
Continuando lungo una pista ciclabile a due corsie, arrivo a un grande ponte romano. Ha lo stesso fascino asciutto di quello visto a Mane qualche giorno fa, ma sembra molto più grande. Si chiama Pont Julien e passa sopra al fiume Calavon. Una volta attraversato, mi immetto su un’altra ciclabile asfaltata, talmente lunga e dritta da bucare l’orizzonte.
Corre a fianco di campi enormi, quasi esclusivamente vigneti. Per fortuna ho modo di lasciare spesso l’asfalto e scendere lungo i bordi terrosi dei campi, così da far riposare un po’ le piante dei piedi, massaggiate da quella leggera irregolarità.
Dopo qualche chilometro, scorgo alla mia sinistra una collina che pare stesa come un grandissimo arco, ai cui capi due piccoli borghi arroccati sembrano fronteggiarsi: i loro nomi sono Bonnieux e Lacoste. Chissà se storicamente le due piccole popolazioni fossero avversarie o alleate. Mi distraggo un po’ fantasticando su entrambe le possibilità, anche perché non c’è altro intorno che spezzi la monotonia di questo tratto, se non un incrocio stradale di quando in quando.
A un certo punto, iniziano a farsi più frequenti le ville di campagna, e da una di queste esca abbaiando una coppia di cani riccioluti di media taglia; sembrerebbero essere padre e figlio. Non sono per niente minacciosi e, rendendosene forse conto, si fanno d’un tratto molto docili e addirittura cominciano a trotterellarmi a fianco.
All’inizio la cosa mi strappa un sorriso e anche un certo piacere. Oggi più che mai un po’ di compagnia è davvero ben accetta.
Girano in continuazione intorno a me, come satelliti, sfiorandomi qualche volta ma senza mai interagire, se non con qualche rapido sguardo. Si dedicano a sondare con cura i bordi della strada che man mano percorriamo, a volte anticipandomi un poco, altre restandomi alle spalle fino a una decina di metri.
I minuti passano, e un paio di persone si fermano complimentandosi per i miei due amici. Io spiego a modo mio la verità, scambio due risate e poi proseguo. Man mano che ci allontaniamo, però, ho sempre più paura che finiscano per disorientarsi.
Dopo ben 7 km di rettilinei, di cui un paio passati coi miei due compagni pelosi, il percorso piega tutto verso le colline vicine.
Decido di fare qualche tentativo perché finalmente i due tornino sui propri passi. Uso goffamente il francese per dare loro l’ordine di rientrare, ma sembra inutile. Provo quindi a trovare qualcuno del posto a cui chiedere consiglio, ma non si vede anima viva, e attorno a me ora pare esserci solo una casa rurale.
Ha il cancello aperto, e all’interno c’è parcheggiato un furgone spalancato e pieno di attrezzi. Immaginando ci sia qualcuno nei paraggi, cerco di richiamare l’attenzione, ma ancora una volta senza esito. Scelgo di arrischiarmi all’interno della proprietà, ma me ne esco alla svelta prima di innescare situazioni ancora più assurde.
Purtroppo non mi resta che alzare la voce contro i cani, che finalmente si allontanano, molto tristi e confusi. Probabilmente la gita gli stava piacendo. Tra l’altro non riprendono nemmeno la via di casa, ma entrano proprio nel cortile da dove sono appena uscito, cominciando a gironzolare come se nulla fosse. Io approfitto per andarmene, ma resto un po’ preoccupato.
Poco dopo, ai piedi della collina scopro un altro caseggiato nascosto tra le piante. Le insegne fuori dicono sia un laboratorio di scultura. Scelgo di fare un ultimo tentativo a favore dei due animali e suono il campanello, restando sulla soglia del cancello aperto. D’un tratto spuntano tre piccoli cani che arrivano a fare il loro dovere con il forestiero di turno. Restano a un palmo dai miei piedi, ma abbaiandomi contro fino alla morte. Scelgo comunque di starmene immobile ad aspettare il proprietario, che grazie al cielo esce dopo qualche interminabile secondo. Gli spiego tutto e alla fine mi sorride, dicendosi fiducioso che i due amici riescano facilmente a tornare a casa. Con cortesia, accetta anche di riempirmi la borraccia. Mostra solo una certa perplessità sentendo che oggi voglio arrivare a Cavaillon. In effetti manca ancora parecchio e quello che per me ormai è diventato quotidiano, per altri resta una piccola follia.
Dopo la rocambolesca avventura, proseguo per un paio d’ore tra sentieri collinari e poi ancora piste ciclabili, raggiungendo infine il paese di Coustellet. La prima cosa che incontro è un supermercato, e non potevo chiedere di meglio visto che è ora di pranzo e io sono stracotto.
Mentre mangio in maniera indecente sul retro del negozio, tento di zittire la voce dentro me che sta borbottando quanta poca voglia avrebbe di ripartire.
Mi rialzo, incitandomi in qualche modo e rimettendomi con fatica lo zaino in spalla: sembra sempre più pesante dopo le pause, soprattutto in giornate calde come questa. Pazienza, passerà.Attraversando la cittadina per una strada secondaria, incontro almeno tre cantine di grandi dimensioni. Niente di eccezionale, ma almeno variano un po’ lo scenario di oggi. Sbuco poi presso un incrocio dove il viavai di auto e persone mi fa sentire per un attimo meno pellegrino, ma è questione di un paio di minuti, perché poche centinaia di metri dopo la rotta mi riporta ancora in mezzo ai campi.
Mi aspetta un altro interminabile rettilineo asfaltato, per fortuna almeno all’ombra di alti cipressi. Stavolta costeggio molte coltivazioni diverse, e per lo più cintate. Entro quasi in trance tanta è la monotonia, e mi riprendo solo ore dopo, presso un ponte sul Calavon. Tra l’altro, nel frattempo, il nome del fiume pare sia curiosamente mutato in Coulon, per motivi che non conosco. Strano.
Ad ogni modo, una volta attraversato sono già all’interno dei confini di Cavaillon.
Arrivare in una città a piedi nasconde sempre un tranello: si gioisce al cartello che ne segna l’inizio, ma ci si dimentica facilmente che spesso ci vogliono ancora vari chilometri per raggiungerne il centro. Per non parlare del fatto, poi, che se ne aggiungono immancabilmente altri ancora per arrivare al campeggio di turno, esattamente come nel mio caso oggi.
Ci vuole un po’, quindi, prima che io riesca a giungere davanti all’arco monumentale che fa da porta d’ingresso al centro storico, ma un passo alla volta supero anche quel traguardo. Senza dedicarmi a grandi visite, mi dirigo direttamente alla cattedrale locale per farmi timbrare la credenziale.
La città si sviluppa ai piedi di una collina rocciosa intitolata a San Giacomo. Lì sembra siano stati fondati i primi antichissimi insediamenti, ampliatisi poi nel corso di intere epoche storiche, ciascuna delle quali ha lasciato una propria traccia.
Vengo a sapere queste cose da padre Gianmarco, un religioso italiano che incontro appena entrato nella chiesa – che tra l’altro trovo invasa da ponteggi, dentro e fuori.
Mi spiega che la stanno ristrutturando per celebrare la canonizzazione di un santo che nacque in città e che fondò la congregazione di cui lui fa parte.
Chiacchieriamo molto piacevolmente per una buona mezz’ora. Mi parla del suo ministero e del rapporto del popolo francese con la religione cristiana, almeno secondo la sua esperienza. Mi regala anche lo spezzatino che è avanzato loro a pranzo. Sono almeno tre porzioni: fingo siano troppe, ma alla fine “cedo” alla sua insistenza.
Passeggiamo poi fino a una piazza dove si erge un altro grande arco, di origine romana e ben più antico del precedente: risale addirittura a duemila anni fa.
Lì ci salutiamo e io mi incammino finalmente verso il campeggio, rinunciando a prolungare la visita al resto della città. L’unica cosa che mi dispiace è non essere salito in cima alla collina che sembra fare da paravento a Cavaillon. Anticamente, il santo patrono visse lassù il suo eremitaggio e la cosa è testimoniata da una cappelletta che un po’ mi intrigava, perchè intitolata a San Giacomo. La verità, però, è che ero attirato soprattutto dalla vista panoramica di cui avrei goduto; probabilmente un retaggio masochistico della prima settimana su e giù per i monti delle Alte alpi. Ad ogni buon conto, sono troppo stanco e ci rinuncio abbastanza facilmente.
Durante gli ultimi due stramaledetti chilometri, in corrispondenza di un grande incrocio di strade, mi imbatto nella scultura più buffa che abbia mai visto e, confesso, rimango anche un po’ perplesso: rappresenta un melone gigante di pietra.
Conosco la fama di Cavaillon e di questi suoi frutti unici al mondo, ma tra me e me penso ci sarebbero stati modi migliori per celebrarlo. A quanto pare, quindi, anche in Francia si può insidiare lo spettro del kitsch, anche se tutto sommato in questo caso il risultato fa anche simpatia.
Il campeggio – pochi minuti più avanti – prende il nome della Durance, che gli scorre di fronte. Domani la saluterò definitivamente nel buio della partenza. Chissà se camminerò ancora seguendo per così lungo tempo uno stesso fiume. Magari proprio il Rodano, dove la Durance stessa affluisce poco lontano da qui, vicino ad Avignone.
Perso in questi pensieri, sbrigo in maniera distratta le pratiche di accettazione, ma d’un tratto la recptionist mi fa un’offerta pazzesca e totalmente inaspettata: al prezzo di una semplice piazzola, mi viene proposta una mobilhome da ben cinque posti, tutta per me, cucina inclusa! Praticamente una casa vera e propria, con la sua bella veranda e pure il giardino con la siepe. Ma chi l’ha mai avuta una casa così! Ovviamente accetto, grato e incredulo.
Una volta dentro, poi, la esploro in ogni angolo, mi faccio una doccia come si deve e infine mi godo un meritato riposo, scegliendo ovviamente il letto matrimoniale tra i quattro che ho a disposizione.
In realtà, più che riposare mi metto davanti allo smartphone cercando di capire cosa mi aspetterà domani. Realizzo così che la prossima meta è Saint-Rémy-de-Provence, ed è la penultima prima di Arles. Questo significa che fra due giorni avrò raggiunto un altro enorme traguardo: portare a termine anche la Via Domitia. Wow!
Vorrà dire anche che avrò percorso oltre 900 km a piedi, e…senza mai un solo giorno di riposo. Solo ora me ne rendo davvero conto.
Mi viene un’idea, ma do prima un’occhiata alle previsioni, scoprendo che domani pioverà a dirotto tutta la giornata. Non ho bisogno d’altro, è deciso: la pioggia la guarderò dalle finestre della mia casa-mobile. Domani sarà ufficialmente il mio primo giorno senza macinare chilometri!
Purtroppo però è tardi, e la reception è già chiusa. Spero che avvisarli domani mattina non sarà problemi. Alla peggio, tornerò in cammino. L’unico inghippo è che l’orario di apertura dell’ufficio è fissato alle 9. Se per caso dovessi sloggiare, vorrebbe dire partire tardissimo.
Beh, pazienza, sarà quel che sarà. D’altronde non ho poi molta scelta.