Info Racconto Extra
cammino di santiago - roberto pesenti

22/09 Saint-Rémy-de-Provence – Arles

(Maison du pelerin et du voyageur)
30 km


Sveglia prestissimo: alle 4 per partire alle 5, come da programma. Fortunatamente non piove, e già questa è una grazia straordinaria. Appena apro gli occhi, però, qualcosa mi insospettisce. L’illuminazione del campeggio è rimasta accesa e su tutta la superficie della tenda noto subito in controluce un gran numero di piccole sagome ovali. Intuisco cosa possano essere; spero di no, ma purtroppo ci azzecco: sono chiocciole! Con rammarico, le sbalzo via tutte piuttosto bruscamente. Se me ne scappasse anche solo una, finirei sicuramente con lo spappolarla mentre piego tutto – come d’altronde succede ogni volta con mille insetti più piccoli, diventati lugubri ornamenti della zanzariera. La tenda è letteralmente invasa, e nel girarci intorno devo sopportare il dispiacere aggiuntivo di calpestare almeno un’altra dozzina di questi poveri molluschi. D’altronde, non potevo fare altrimenti.
Chiuso lo zaino, mi sposto sotto una tettoia per fare colazione e parto poi di gran lena.

Il centro di Saint-Rémy illuminato dalla luce calda dei lampioni è particolarmente suggestivo, e mi regala un’ultima cartolina di questa cittadina deliziosa.


Una volta uscito e arrivato ai piedi della collina, inizia a piovere a grandi gocce, ogni secondo più forte. È in anticipo di almeno mezz’ora rispetto alle previsioni, ma poco cambia; non resta comunque altro da fare che continuare a camminare.

Scopro che la strada tutta dritta che ho scelto è senza lampioni. In testa ho la torcia frontale e, oltre all’asfalto, illumina le migliaia di gocce che mi scendono davanti agli occhi. L’effetto è quello di un viaggio interstellare, come lo screensaver che c’era una volta su tutti i pc. La cosa mi diverte e mi salva un po’ il morale. Sommerso e infreddolito dall’acqua, frastornato dal rimbombo dentro al cappuccio, mi sento spinto solo ad andare più svelto, quasi potessi fuggire in qualche modo da questo nubifragio.

Passando poche automobili e a un certo punto sento il desiderio fortissimo di spegnere la torcia. Questo buio profondo è qualcosa di nuovo per me, e scopro che mi piace da morire. Si interrompe solo con l’illuminazione di qualche raro cortile o quando un fulmine squarcia il cielo per un istante. A suo modo, anche l’atto stesso di camminare in quelle condizioni mi conquista. La fatica è maggiore, ma divento più grintoso; è quasi esaltante.

L’acqua piovana che scende dalla collina si riversa sulla strada, allagandola completamente. In alcuni casi affondo i miei passi in 20 cm di acqua, che poi rimane intrappolata nelle scarpe.
Cammino così per un’ora e mezza, con i piedi che sguazzano come pesci nella loro boccia. In certi momenti è come essere in trance e arrivo anche a riderci su, addirittura a godermela. Può sembrare assurdo, ma può capirmi chiunque sa cosa significhi portare avanti qualcosa che lo appassiona anche nelle condizioni peggiori.
Passano sì e no tre auto. Quando succede mi fermo e accendo la torcia per farmi vedere, poi la spengo subito dopo.

Finalmente arrivo al primo paese, Saint-Etienne-du-Gres. Esausto, mi appoggio alla parete sotto al primo portico. Sopportando il freddo che subito aumenta, tiro il fiato, mangio qualcosa e controllo che la rotta sia giusta. Mi interessa capire quanto manca al prossimo paese e se le previsioni meteo dicono qualcosa di nuovo.
Pare che la pioggia andrà diminuendo da un momento all’altro. Nel frattempo, poi, si fa giorno e la scena comincia a sembrare finalmente meno apocalittica.

Imbocco una dipartimentale particolarmente trafficata, ma almeno non è sommersa d’acqua. La strada non ha un vero camminamento per i pedoni, ma c’è comunque abbastanza spazio per non rischiare di essere investito.
Mentre la pioggia pian piano diminuisce, arrivo alla bella Cappella di San Gabriele, meta del sentiero collinare che la Via Domitia mi avrebbe fatto percorrere quest’oggi. Da qui in poi, torno sul tracciato ufficiale, che fortunatamente mi fa abbandonare per qualche chilometro l’asfalto, portandomi in un’ampia zona agricola. La semplicità degli scenari di campagna rasserena corpo e spirito, anche se lo stomaco brontola.

Il percorso mi dirotta di nuovo sulla dipartimentale in corrispondenza dell’arrivo a Fontvieille. È una cittadina che so essere bella e storicamente significativa per quest’area, ma per me è soprattutto il punto di ristoro che attendevo da ore. Un grande manifesto sembra leggermi nel pensiero: mi invita a scendere nella strada sottostante e raggiungere un vicinissimo panificio. Obbedisco, già con l’acquolina in bocca. L’interno è minuscolo e io, con i bastoncini da trekking e il mio grosso zaino sotto la mantella, devo stare quasi immobile per non far cadere qualcosa. Compro un trancio di pizza e una quiche ancora tiepide, ma non trovo nessun posto asciutto dove sedermi. Così, come sotto il portico qualche ora prima, mi limito ad appoggiarmi a una parete senza neanche togliere lo zaino, sbranando tutto come se non mangiassi da giorni.

Mi regalo altri cinque minuti di sosta, mentre i clienti della panetteria vanno e vengono fingendo di non vedermi. Mancano solo una dozzina di chilometri e finirà anche la Via Domitia. Da non crederci! È ancora presto per festeggiare, ma sono davvero a buon punto.
Pensare a Santiago, lontana com’è, non mi aiuta in questo momento. Meglio fissare degli obiettivi parziali. Resto un calcolatore incallito, ma sto comunque riuscendo a concentrare le energie nel modo giusto. Daje, Robi!

Lo snack ha sortito il suo effetto e riesco a ripartire con buono slancio. Per arrivare ad Arles mancano altri 7 km, sempre lungo la stessa strada su cui ero prima. Ora si snoda tra campi e aree boschive, in un continuo saliscendi. C’è un bel po’ di traffico e lo spazio per camminare in sicurezza è spesso inesistente. La buona notizia è che almeno sembra abbia smesso definitivamente di piovere.

Lungo il tragitto, incontro spesso indicazioni che parlano di un’abbazia e di un acquedotto romano. Sono tentato dal secondo, ma è fuori strada, mentre l’altra si trova già sul mio percorso. Non c’è gara.
È l’Abbaye de Montmajour e pare sia un luogo davvero speciale e antico. A un certo punto, la inizio a vedere in lontananza e capisco che è pure molto grande. La fisso come obiettivo: manca ancora parecchio, ma farlo mi aiuta a concentrare le forze. Una volta arrivato, salgo la scalinata e mi presento alla reception. L’unica possibilità sembra essere una visita guidata piuttosto lunga e non troppo economica per le mie tasche. Chiaramente devo rinunciare, anche se prima di gettare la spugna ho la faccia tosta di rilanciare. Essendo un pellegrino venuto a piedi fin lì per quasi mille chilometri, avendo camminato sotto un diluvio per ore ed essendo a un passo dalla meta di oggi, elemosino la possibilità di entrare solo per pochi minuti, senza guida e gratuitamente.
Ricevo un no inappellabile. Forse hanno ragione: c’è una regola e va rispettata, anche se dentro mi rode. Sarò superbo, egocentrico e accattone, ma non mi tolgo dalla testa l’idea che avrebbero potuto anche chiudere un occhio. Certo, lo so, mi presento in pessime condizioni: la faccia è stravolta, lo zaino sembra un’enorme gobba sotto la mantella e, come se non bastasse…sembro pure gravido!

Eh, già, è proprio così. È da giorni, infatti, che ho trovato una soluzione utilissima ma esteticamente orribile per riporre le scorte di cibo. Per fare in modo che non si schiaccino e che io le possa prendere e mangiare anche senza smettere di camminare, le infilo in una dry-bag super tecnica e me la appendo al legaccio dello zaino che mi passa sopra il petto. Oltre ad essere già abbastanza inguardabile così, per evitare che quelle cose mi picchino fastidiosamente sullo sterno, chiudo la sacca in modo che ci resti dentro dell’aria. Il risultato è una specie di boa, un grosso palloncino grigio che mi rimbalza morbidamente addosso fin quando non mi pappo tutto quello che ci sta dentro e posso così ripiegarlo e metterlo in tasca.
Per quanto mi renda ridicolo, è perfetto anche per altre due ragioni. La prima è che mi protegge dal vento quando sono in maglietta, ma è la seconda quella più utile: quando piove, la borsa fa sì che la superficie gelata della mantella non resti aderente al torso. Con questo goffo stratagemma riesco a resistere molto meglio e più a lungo, perché si crea una cappa d’aria riscaldata dal corpo stesso. Come ho detto, però, in quello stato sono davvero impresentabile.
Quindi, poco male. Posso almeno dire di averci provato. Ci faccio una risata e continuo il mio pellegrinaggio.

Un quarto d’ora dopo, quando ai lati della strada cominciano a vedersi grandi platani e tutt’attorno esplode il giallo delle risaie, scorgo finalmente all’orizzonte il profilo della tanto agognata Arles.
Stavolta non ho le forze per il cambio di marcia, ma riesco comunque a sentire l’eccitazione di questo istante.
Quello che davvero, però, scioglie ogni tensione e mi fa scoppiare in una risata di gioia è l’imbattermi nei bellissimi simboli tipici del cammino di Santiago: la conchiglia e la freccia gialla. Sono verniciate all’ingresso della città, in corrispondenza del Canal-du-Vigueirat, che la costeggia dal lato da cui sono arrivato. I segnali giacobei mi invitano a seguire il corso d’acqua anziché entrare per la via principale. Gli ultimi segnavia del GR dicono l’opposto, ma non resisto al fascino della conchiglia e continuo lungo il canale.

Ahimè, scopro con rammarico che la scelta allunga il mio percorso di altri interminabili venti minuti. Davanti ai primi isolati del centro storico, però, la tensione cala e mi gusto in piena pace la mia entrata per nulla trionfale.
Dopo aver raggiunto il famoso anfiteatro romano, simbolo della città, mi regalo una passeggiata tra le vie eleganti, con i loro negozi costosi, i cafè, i ristoranti, i bistrot e le gallerie d’arte. In alcune strade le pareti degli edifici sono avvolte d’edera. Architetture e decorazioni regalano testimonianze di epoche molto diverse. Purtroppo la giornata uggiosa e lo spettro dell’epidemia rendono Arles un po’ sottotono, ma va bene così. Sono arrivato anche qua, e questo è quello che conta.

Raggiungo per ultima la Cattedrale di Saint-Trophime. Qui che termina ufficialmente la Via Domitia! Sono esausto, ma gonfio di emozione.


L’interno è molto spoglio. Mi sarei aspettato di trovare perlomeno simboli evidenti riferiti a Santiago e all’universo pellegrino, ma non trovo niente di particolare. Girandomi, mi accorgo di una specie di negozietto a lato dell’ingresso, una cabina trasparente con una scrivania, libri e souvenir.
L’addetto sta parlando con una persona che capisco essere più un amico che un turista. Ho tolto la mantella per decenza, ma zaino e conchiglia non lasciano spazio a dubbi sul motivo per cui io sia lì. Mi avvicino per essere visto, illudendomi che possa essere una piccola gioia l’arrivo di un pellegrino, soprattutto di questi tempi. Purtroppo mi sbaglio: l’inserviente mi vede ma non batte ciglio e continua a parlare del più e del meno per altri lunghissimi minuti.
Alla fine arriva anche il mio turno e mi gonfio tutto d’orgoglio mentre lo guardo timbrarmi la credenziale. Ne acquisto anche una seconda, come mi aveva consigliato Serena a Bergamo. Con rammarico, scopro che è più piccola e il posto per i timbri si sviluppa su entrambi i lati. Questo mi fa storcere il naso per un motivo che può sembrare banale: se deciderò di incorniciarla, una facciata rimarrà inevitabilmente nascosta. Pazienza, cos’altro posso fare ormai?

Concluse queste operazioni, domando che tipo di ospitalità pellegrine ci siano in città. Più di una persona, infatti, mi ha assicurato che ad Arles non avrei avuto problemi a trovarne e che non c’era certo bisogno di prenotare. Per risposta vengo accompagnato a un’anonima bacheca in penombra nella quale, tra altre cose, c’è anche affissa sotto vetro una semplice brochure. Sopra c’è stampata in piccolo una serie di numeri telefonici di famiglie ufficialmente disponibili ad ospitare pellegrini. Domando se posso averne una copia, ma mi dice che non ce ne sono, e non c’è altro materiale, dopodiché mi lascia lì.
C’è talmente poca luce che faccio anche fatica a fotografare la lista. Esco senza nemmeno essere salutato, nonostante in quel momento fossimo solo io e lui. Oggettivamente un po’ giù di morale, mi siedo al bordo della scalinata e comincio a telefonare.

Alle difficoltà mai risolte con la lingua, si aggiunge la scoperta che alcuni numeri sono inesistenti. Tra chi mi risponde, invece, alcuni mi liquidano velocemente e con poca cortesia, mentre altri – pur comprensibilmente – mi comunicano che preferiscono non ospitare per via del virus.
Esito finale: nessuna ospitalità pellegrina ad Arles.
Trovo un bed&breakfast a buon prezzo, ma il telefono squilla senza che nessuno risponda. È a un chilometro di distanza. Faccio un bel respiro e parto per verificare dal vivo, nonostante sia fisicamente distrutto. Una volta arrivato, suono il campanello e mi apre un ospite coreano; mi dice che il proprietario è fuori. Accetta di provare a chiamarlo con il suo telefono, ma non risponde nemmeno al suo numero.
A quel punto ripiego su un ostello trovato su Booking: ha prezzi un po’ più alti, ma si dichiara specifico per i pellegrini. Mi segno l’indirizzo e lo raggiungo. È in una posizione splendida tra l’anfiteatro e il teatro antico. Peccato però che non ci sia nessuna insegna e la porta sia chiusa. Comincio ad agitarmi un po’. Chiedo aiuto a un gruppo di persone fuori dal ristorante accanto. Nessuno conosce l’ostello e qualcuno mette in dubbio che io abbia letto bene l’indirizzo. Non controbatto e glielo mostro. Constatano anche loro che sono nel posto giusto, ma dell’ostello non c’è traccia. Provo a chiedere nel ristorante, et voilà, sono proprio loro che gestiscono i check-in, anche se non sono i proprietari. Che situazione strana! In ogni caso, sono troppo felice per farmi polemico. Sto per togliere tutto l’occorrente, ma la ragazza mi avvisa che purtroppo è ancora presto per l’accettazione; ci vorrà un’ora circa. Ennesima botta morale, ma non c’è nulla da fare. Lascio lo zaino in custodia e, perlomeno alleggerito, vado a mangiarmi qualcosa e a fare la spesa.

Prima di tornare in ostello, entro in una caffetteria per chiedere se possono regalarmi i quotidiani del giorno prima, spiegando che mi serviranno per far asciugare i miei scarponcini stanotte. La barista all’inizio mi dice di no, ma poi si impietosisce e fa un gesto poco igienico ma molto generoso: infila il braccio per intero nel bidone dell’immondizia dietro di lei. Il sacco è pieno e i giornali sono proprio sul fondo, ecco perché inizialmente me lo aveva negato. Per me è un piccolo grande dono e la ringrazio infinitamente, ma esco sperando che gli altri clienti non l’abbiano vista.

Nel frattempo, arriva l’ora in cui potrò finalmente entrare nella stanza. Compilato tutto insieme alla stessa ragazza di prima, vengo accompagnato all’interno dell’ostello, che si rivela piccolo ma perfetto, con una cucina attrezzatissima. Se l’avessi saputo, non avrei preso ancora cibo precotto per stasera. Forse da qualche parte c’era scritto e io non me ne sono accorto, non so. Pazienza.


Nella mia stanza ci sono tre letti a castello, ma per le disposizioni di sicurezza ci dormiremo solo in tre.
Il primo è lì a sonnecchiare. Dopo la doccia lo trovo più sveglio e ci presentiamo. Si chiama Hugo, mi pare gentile ed estroverso; è ad Arles per una settimana di studi in ambito musicale.
Dopo cena faccio la conoscenza anche dell’altro ospite, Fabian, poco più giovane di me. La cosa straordinaria è che domani partirà da lì per fare il suo primo piccolo cammino. Il suo progetto è imboccare la Via Tolosana, arrivando dove capita, perché ha solo una settimana. Nello scoprirlo, mi si accende una lampadina: vedo la sua guida sul letto e gli chiedo di prestarmela. Il tragitto rimane nell’entroterra e porta a raggiungere in tre giorni Montpellier. È perfetto, con tutta probabilità anche Sara ha seguito questo stesso percorso.

Spiego a Fabian la mia decisione di seguire quelle tappe e gli chiedo se è interessato a percorrerle con me. Essendo io un amante del cammino in solitudine e sapendo bene quanto siano importanti i primissimi giorni in questo genere di esperienze, gli chiarisco che non deve sentirsi obbligato e di rispondermi pure di no se l’idea non lo facesse sentire a suo agio. Lui però smi risponde subito che è d’accordo. Fantastico!
Per ultimo, però, decido anche di spiegargli come affronto io le tappe, quali sono i miei orari e le mie abitudini. Mi confessa che in realtà aveva in mente di svegliarsi e partire più tardi, ma ammette che non aveva considerato quanto faticoso sia camminare tutto il tempo sotto il sole. Sceglie quindi di fidarsi e tentare questa esperienza a modo mio.
Che dire? Non potevo chiedere di meglio. Tra l’altro, mi sembra davvero un tipo in gamba e – altra ottima notizia – parla perfettamente inglese, molto meglio di me. Concluso l’accordo, è ormai ora di dormire.

Tra le coperte saluto questa giornata così intensa, ricca di fatica e belle sorprese. Da domani comincia una nuova parte della mia avventura. Non vedo l’ora!

37_ArlesDownload

Categorie:

Bouches-du-Rhône, Francia, PACA