(Albergue San Francisco)
19km
L’organizzazione delle tappe fatta coi ragazzi ci permette oggi di rilassarci un po’: ci aspettano solo 19 km per arrivare a León, e tutto il tempo risparmiato potremo sfruttarlo per visitare la città. Notizie certe assicurano anche che la cattedrale, a differenza di Burgos, sarà aperta e percorribile in ogni sua parte. Tiziano ne è entusiasta, perché ne conserva un ricordo bellissimo e non vede l’ora.
Nonostante la tappa breve, ci svegliamo comunque a un’orario decente. Ieri al supermercato ho convinto i due compari a comprare tutto il necessario per una colazione fai da te qui in albergue. Non ci siamo fatti mancare nulla, e ora la tavola è imbandita con ogni ben di Dio: caffè, brioche al cioccolato, pane, burro, latte e marmellata. Una colazione all’italiana super abbondante, più che doppia rispetto a quella da bar. Invitiamo a unirsi al banchetto anche il nostro compagno di stanza, lo svizzero Martin, che apprezza enormemente.
Alla partenza, il freddo è pungente, ma siamo carichi e splendidamente allegri. Usciamo da Mansilla superando per l’ennesima volta un ponte medievale, non meno lungo di quello di Carrión. Oltre quella soglia, però, il nostro entusiasmo comincia già a vacillare. Fuori dal tessuto urbano, infatti, la giornata si mostra orribilmente grigia e nebbiosa, e anche il tragitto sembra fatto apposta per minare il morale del viandante: si sviluppa a lato di una strada molto trafficata, distinguendosi fin da subito per un’oggettiva bruttezza.
Il nostro primo incontro oggi è un uomo di mezza età dall’aspetto trasandato. Lo zaino ce lo fa sembrare un pellegrino, ma si muove in direzione opposta alla nostra e porta con sé un sacco nero in cui raccoglie l’immondizia che trova lungo la pista. Ci scambiamo due chiacchiere. È piuttosto scorbutico e rude, ma mi affascina scoprire che è un senzatetto che vive lungo il Cammino, ricevendo ogni tanto accoglienza gratuita a fronte del servizio volontario che svolge. Prima di partire avevo letto un paio di articoli rispetto a un personaggio simile, ma era molto più minuto e solare, con una serie di credenziali sterminata tutte attacate in serie, a indicare il suo infinito girovagare pellegrino tra Roma e Santiago. Evidentemente non è l’unico che fa questa vita.
Attraversiamo il paese di Villamoros, il ponte medievale sul río Porma e subito dopo Villarente. La carreggiata è larghissima, sproporzionata rispetto ai pochi edifici che le stanno attorno. La tetraggine di stamattina inasprisce la bruttura di questi aridi scenari urbani. Il morale con cui siamo partiti si è già sgonfiato, e al povero Amedeo capita anche di ricevere una sonora strigliata: è una donna che addiritura accosta l’auto solo per rimprovergli di non indossare la mascherina. Attorno a noi non c’è letteralmente nessuno, e lei indossa la propria da sola in auto. Nulla da dire.
Il nostro passaggio a Villarente si conclude con due edifici opposti – sia perché si fronteggiano ai lati della strada, sia per la loro funzione: uno è un centro culturale piuttosto dismesso, l’altro un tanatorio, una camera mortuaria. Hanno però una cosa in comune: entrambi sono intitolati al nostro caro Santiago de Compostela. In Italia mi ha sempre divertito il fatto che il nome dei santi venga dedicato a patatine e acque minerali. Almeno in questo caso, invece, pare che l’apostolo sia stato chiamato in causa in maniera più congrua al suo curriculum: letteralmente, per questioni di vita o di morte.
Poco più avanti, facciamo la triste scoperta di una campagna visibilmente dismessa, non meno delle aree abitate appena superate. Sembra che questo territorio manchi totalmente di un minimo senso estetico, e in certi casi anche quel po’ di decoro che questo Cammino credo meriterebbe. Non dico questo solo per la moltitudine di pellegrini che ogni anno l’affollano, ma per gli abitanti stessi; è come se non avessero a cuore il luogo dove abitano.
Dopo una salitella, raggiungiamo un nucleo abitato che a sua volta non smentisce le nostre ultime impressioni: si tratta del paesino di Arcahueja. Qui la vista di una panchina ci convince a fermarci un po’ e mangiare qualcosa. Di fronte a noi, sembrerebbe proprio nel mezzo di una via, sta un piccolo recinto con uno di quei castelli per far giocare i bambini – quelli con lo scivolo, per intenderci. I suoi colori vivaci, però, non bastano a nasconderne le pessime condizioni, allineandolo a tutto quanto gli sta attorno. Queste ore di cammino stanno dimostrandosi davvero desolanti.
Per risollevare il morale, provo a immaginare questi luoghi in annate più clementi, invasi da una gran carovana di pellegrini da tutto il mondo e magari scaldati da una giornata di sole. Sono sicuro che questi ingredienti siano sufficienti a trasformare Arcahueja in un gradevole crocevia multiculturale.
Con questa convinzione trovo anche lo spunto per lanciarmi in un piccolo giro esplorativo, trovando un microscopico bar aperto dove posso almeno consolarmi con un caffè caldo. Ritornato, avviso i ragazzi della scoperta, ma incredibilmente rinunciano: l’unico loro desiderio è allontanarsi il prima possibile da qui, il che la dice lunga.
Il sentiero sale ancora, attraversando un’area industriale e poi ancora terreni abbandonati. A un certo punto, passa in corrispondenza di una rotonda qualsiasi, posta circa una decina di metri sotto di noi. Questo punto mi rimarrà in mente perché nella brutta rete messa per evitare cadute, la creatività pellegrina non ha trovato di meglio che infilare una gran quantità di ramoscelli a mo’ di croci. Mi sforzo di pensare benevolmente al sentimento religioso che ha convinto tanti camminatori a lasciare un segno simile ma, in questa giornata nebbiosa come non mai, la parata di croci incastrate tra quelle maglie di fil di ferro è uno degli spettacoli più lugubri che potessi immaginare.
Come se non bastasse, ridiscesi proprio subito dopo, l’ingegneria moderna ha scelto di dedicare ai camminanti sulla via di Santiago il ponte pedonale più brutto di tutti i tempi. Blu elettrico, costruito da semplici profilati alla maniera di una gru da cantiere, compone una linea spezzata totalmente disarmonica, seppur perfettamente funzionale. Mi si potrebbe imputare di esser troppo raffinato nel giudicare questo piccolo mostro architettonico, ma sfido chiunque a trovarcisi di fornte e dire il contrario.
Scorgiamo per la prima volta León un po’ più avanti, nei pressi di un altro cavalcavia, verso mezzogiorno. Superato anche questo, cominciamo finalmente a muovere i primi passi nella periferia della città. È un tratto abbastanza anonimo, con case datate e basse, spesso dai colori terrosi.
Ormai ci siamo. Oltrepassiamo il río Torío su una lunga passerella pedonale, e ci inoltriamo tra quartieri non memorabili. Dopo una ventina di minuti arriviamo alle porte del centro, incontrando finalmente alcuni resti affascinanti delle antiche mura.
Unanimi, decidiamo di ritardare il saluto alla cattedrale e deviare nel vicino albergue per liberarci delle zavorre. Ad attenderci, non una minuta struttura o un antico monastero, ma un gran palazzone. Dopo la registrazione, saliamo in camera, lasciamo tutto e torniamo immediatamente per strada.
Ci infiliamo in una via interna, a tratti pedonale, che va via via restringendosi fino a spuntare davanti a un palazzo progettato dall’architetto Gaudí. Da lí, svoltiamo nella Calle Ancha, lastricata, larga, elegante, ricca di negozi e attività: uno scenario totalmente diverso dai venti chilometri persorsi stamattina. Quest’anno anche qui la gente è poca, ma è facile immaginarsi quante persone la riempiano in occasioni meno compromesse. In lieve pendenza, la saliamo affascinati. Lo sguardo cade prima sulle facciate colorate e raffinate, sulla gente che siamo così poco abituati ad incontrare e sulle tante attività commerciali – molte chiuse per via della pandemia.
Ad ogni passo in più, però, l’attenzione va focalizzandosi inesorabilmente proprio lá dove i palazzi terminano, perché oltre quello spiraglio sappiamo ad aspettarci la grande cattedrale. Man mano ci avviciniamo, rallentiamo emozionati, fino allo spalancarsi della visione tanto desiderata. Eccola, finalmente!
La via s’immette nella piazza con un’angolazione ideale, che permette al maestoso edificio di presentarcisi nel migliore dei modi. Tiziano resta ammaliato come non l’avevo mai visto. Compiaciuto, non tarda a chiederci conferma di quello che ci aveva anticipato tante volte nei giorni scorsi. Non possiamo che annuire e goderci lo spettacolo, perdendoci nei mille dettagli delle facciate, nella bellezza dei suoi campanili svettanti e delle sue guglie, nell’armonia del suo colore, in quella dei pieni e dei vuoti che si alternano su tutto il perimetro. Mi sembra di rivivere lo stupore che vivo a Milano ogniqualvolta fuoriesco dalle scale della metropolitana in piazza Duomo.
Il cielo su Leòn è completamente bianco, ma va bene così. La visione ripaga di tutto, comprese le tante brutture incontrate oggi. Restiamo in contemplazione qualche minuto, soddisfatti per essere arrivati fino a qui e ben consapevoli che non era certo una cosa scontata riuscirci in questi mesi dannati.
Manca ancora qualche ora all’apertura. I ragazzi scelgono di sedersi davanti alla cattedrale e semplicemente godersela. Io, stranamente, mi sento già sazio del pur magnifico spettacolo e opto per fare un piccolo tour nei dintorni, curiosissimo di perdermi tra le vie e le piazze del centro.
Nella vicina Plaza Mayor trovo ancora aperto un mercato. Niente di che, perlopiù ortofrutta, ma è comunque un piacere bighellonare tra le bancarelle, con tutt’attorno palazzi bellissimi. Scopro poi anche la più piccola ma non meno interessante Plaza San Martín, e infine torno alla cattedrale.
Trovo i due amici a sorseggiare una birra fredda seduti fuori da un locale, a pochi metri da dove li avevo lasciati. A me piacerebbe continuare la visita alla città, preferibilmente con loro, ma Tiziano mi chiarisce che preferiscono rimanere dove stanno. Un po’ rammaricato, capisco l’antifona e di nuovo prendo il largo per i fatti miei.
Mentre il cielo nel frattempo si apre, mi lascio guidare dall’istinto e m’incammino verso il retro della grande chiesa. Percorro poi tutta una via che costeggia le antiche mura della città, fino a trovare un gran portale in cui mi infilo.
Spunto in un largo elegantissimo, che ha però un’inaspettata stonatura: a pochi metri da me, infatti, un alto braccio meccanico di stampo edile è incastonato nel terreno. Al suo gancio sta appesa una scultura informe, con un corno su un lato. Sembrerebbe fatta di piombo, e l’altezza a cui è posta lascia uno spazio ideale perché i pedoni possano camminarvi al di sotto.
Gli anni a studiare arte contemporanea e a girar per mostre fan sì che non mi stupisca troppo di fronte all’installazione. Mi domando solo quanti artisti abbiano ancora il bisogno di proporre opere tanto criptiche e dissonanti rispetto al luogo che vengono chiamati ad arricchire. Sicuramente da qualche parte esisterà una didascalia che invita a cogliere astrusi legami con qualcosa che sta qui attorno, o con fatti avvenuti chissà quando, oppure a lasciarsi suggestionare proprio dallo stridore tra il contesto e l’opera stessa. Ho letto migliaia di testi simili, e a mia volta ne ho abusato durante gli anni in cui anch’io mi sperimentavo artista. Mi hanno un po’ stancato, lo ammetto.
Alle spalle della misteriosa opera d’arte, giganteggia la Basilica di San Isidoro. Sarebbe un luogo speciale da visitare, ma purtroppo la trovo chiusa. Qualche centinaio di metri dopo, in corrispondenza di un parco dedicato al Cid, torno tra i vicoli del centro seguendo i flussi di persone. Arrivo in una bella piazzetta con vari locali, di certo una di quelle che si riempiono durante gli aperitivi o la sera tardi.
Rimango a zonzo ancora un po’, fino a tornare in qualche modo in Plaza San Martin.
Qui d’improvviso sento una voce chiamarmi: è Tiziano. Sono seduti a uno dei tavoli esterni di un locale, ora baciati dal sole. Come prima, hanno della birra davanti, ma stavolta fa compagnia a una succulenta porzione di papas bravas, che mi dicono essere solo la prima delle stuzzicherie che hanno ordinato.
Ormai saranno le tre del pomeriggio, e ovviamente a questo punto mi unisco senza batter ciglio: non potevano trovare momento e posto migliore per pranzare. Assaggiamo diverse golosità, tra cui delle memorabili empanadas – vere, stavolta, mica come quella che ho mangiato ieri al Burgo Ranero!
A proposito, incontriamo qui anche Erika, la belga vista l’ultima volta proprio là. A differenza di ieri è allegrissima. Scopriamo che sta nel nostro stesso albergue insieme al resto della truppa e che stasera replicheranno i festeggiamenti per i compleanni di cui ci aveva parlato. Ci invita, ma ovviamente non le promettiamo nulla. Dopo tutto il casino di ieri, non credo proprio che Tiziano sia ingolosito dalla proposta.
Riempita per bene la pancia, andiamo a fare due passi e, tornati davanti alla cattedrale, scopriamo che finalmente ha aperto. Non apettavamo altro!
Una volta all’interno, resto letteralmente abbagliato. La navata centrale è stranamente occupata dal coro, ma è talmente bello e in armonia col resto che d’un tratto sento solo il bisogno di fermarmi in silenzio di fronte a quella meraviglia. Per mezz’ora non muovo altro che lo sguardo. Una delle cose che più mi cattura è la quantità di raffinatissime vetrate che alleggeriscono questo enorme corpo di pietra. È un luogo impregnato di una magia unica.
I ragazzi sono forse già usciti quando mi decido ad accendere l’audio guida gratuita e farmene accompagnare per la visita di tutto il resto. Scelgo la voce in italiano, per non rischiare di perdere alcun passaggio. Il testo è ottimamente studiato e la storia dell’edificio è avvincente.
Rimango in totale più di un’ora. L’ultima volta che mi ero immerso in un’esperienza simile ero a Pamplona, sempre in cattedrale. Posso dire con certezza che tra tutti i luoghi costruiti da mano d’uomo che ho visitato durante questo viaggio, questi due sono sicuramente i più sublimi.
Una volta fuori, con la testa ancora tra le nuvole e il buio ormai sopraggiunto, approfitto per andare a fare un po’ di spesa prima di tornare in albergue. Qui ritrovo i miei compagni immersi in un sonno profondo: un riposo meritatissimo, direi. Mi faccio una doccia e poco dopo usciamo per fare un aperitivo. Abbiamo una gran voglia di godere ancora un po’ della città, questa volta nella sua veste serale.
Le strade sono stracolme, anche se tutti hanno la mascherina e le distanze sono abbastanza rispettate. Seduti fuori da un locale ritroviamo tre del gruppo con cui Tiziano ha avuto problemi, e tra questi proprio la persona con cui ha discusso. Si salutano con sorrisi ovviamente un po’ forzati, e l’amico ligure non resiste dal punzecchiarlo. Con un ghigno beffardo, gli lancia una battuta sul fatto di ritrovarlo proprio nella città che ieri, con tanta boria, dichiarava chiusa. Ci stava che glielo facesse notare, e forse anche per questo motivo la provocazione viene incassata senza battibeccare.
Andati oltre, scegliamo di rompere il ghiaccio dividendo una pizza fuori da un locale italiano. Niente di tipico, stavolta, ma in fondo è la nostra prima pizza in terra spagnola.
A un certo punto, quando Amedeo se ne va in bagno, sento il bisogno di approfittarne per dire due a parole a Tiziano. Gli spiego rispettosamente che mi pesa molto l’enfasi insistente con la quale sempre tenta di far sì che i suoi luoghi del cuore diventino anche i nostri – per esempio oggi con la cattedrale. Gli spiego quanta stima io abbia di lui per la persona che è; ha saputo fare e dimostrare tantissimo in questi anni di viaggi audaci e appassionati, ma lo prego di trattenersi d’ora in poi. Chi gli sta di fianco merita di poter vivere in maniera più libera e personale questo cammino, che dev’essere per tutti “di Santiago”, e non “di Tiziano”.
Lui mi guarda con gli occhi di chi ha capito perfettamente, cogliendo e apprezzando l’onestà delle mie critiche tanto quanto dei miei apprezzamenti. Sanciamo il patto con una stretta di mano, aggiungendo la promessa di arrivare insieme fino alla meta.
Tornato poi il terzo dal bagno, cerchiamo un altro posto dove proseguire la serata. Ovviamente passiamo di nuovo sia dalla piazza della cattedrale che da Plaza Mayor, rifacendoci gli occhi per la bellezza di entrambe, illuminate benissimo.
Non trovando nessun posto abbastanza convincente, decidiamo infine di tornare nello stesso ristorante dove abbiamo pranzato. Non sbagliamo: anche la cena si conferma squisita e la piazza, pur non piena, ci regala un clima che sembrava impossibile in questo 2020.
Ci incamminiamo verso l’albergue dieci minuti prima del coprifuoco, ma le strade sono ancora piene di gente che difficilmente stasera rientrerà per le 22. Addirittura a un certo punto arrivano due volanti della Guardia Civil, e quattro poliziotti ne scendono aggressivamente. Si dirigono minacciosi verso un locale vicino che, probabilmente, ha esagerato nelle libertà concesse alla clientela. Attendiamo qualche minuto, ma non ne nasce niente di eclatante.
La nostra giornata termina così nella pace di una semplice passeggiata tra la folla che stenta a diradarsi. È un’esperienza che fino a febbraio sarebbe stata a dir poco banale, ma che di questi tempi ha quasi il sapore di un miracolo.
Arrivati fin qui, però, la verità è che siamo sempre meno disposti ad accontentarci. Ora più che mai vogliamo Santiago, costi quel che costi.