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cammino di santiago - roberto pesenti

30/08 Ronsecco – Lamporo (VC)

(Hospitale don Francesco Ottavis)
22km

Parto senza troppa fretta, vista la nottata turbolenta e i pochi chilometri previsti per oggi. Riconsegno le chiavi al bar. Fabio sceglie di offrirmi la colazione e quando ci salutiamo si commuove un po’. La generosità e l’umanità di questa famiglia è incredibile!

Durante la prima ora abbondante, attraverso i campi in mezzo a una fitta nebbia. A molti forse sembrerebbe tetra, ma a me dà un senso di poesia ed eleganza straordinari. È lo stesso paesaggio che ho amato i giorni prima, ma ora sembra essersi mascherato; eppure sa sedurmi anche così: ingrigito e appannato.

Incontro grandi stormi di cicogne: prima ferme in un certo luogo, le vedo poi sollevarsi in volo tutte assieme e riprendere posizione altrove, o infine volarsene via. Bellissimo.
Altri protagonisti di questi scenari sospesi sono degli imponenti tralicci elettrici. I cavi che li collegano tracciano onde flessuose che si perdono all’orizzonte. Inaspettatamente le loro sagome non stonano nella scenografia lattiginosa di stamattina.

A un tratto, noto in lontananza un edificio molto grande, sviluppato in orizzontale: è la tenuta Darola. Alcuni dettagli mi fanno intuire che non sia una costruzione qualsiasi; ha un’architettura troppo elegante, sembra una reggia rurale.
Lungo le facciate ha tante finestre – cieche e non – disposte in file ordinate; il portale è sobrio e imponente. Aggirandola lentamente, capisco che si sviluppa su una pianta rettangolare molto estesa. All’interno mi pare di scorgere una torre e un campanile. Mi fanno pensare che forse era progettata come una cittadella autonoma, e magari dentro ci vivesse una piccola comunità o una famiglia nobiliare.
Ne rimango talmente affascinato che perdo una svolta, ma quando me ne accorgo decido di non tornare sui miei passi. Riuscirò facilmente a ricollegarmi più tardi, e non mi dispiace camminare un po’ di più del previsto oggi.
Nel frattempo la nebbia si è diradata, ma le nuvole sono livide e cariche.

Lungo il rettilineo asfaltato, incontro l’ennesimo cimitero in mezzo a campi spogli. Dev’essere di vecchissima data e in disuso da decenni. È piccolo, ma stranamente all’interno è pieno di alte piante. L’edera è ovunque e sembra se lo stia mangiando lentamente. Incuriosito, provo a intrufolarmi; sulle pareti c’è qualche scritta cretina e alcuni slogan satanisti. In mezzo a rovi, immondizia e resti di qualche pernottamento, inizio a provare un po’ di disagio: un mix di vecchie paure infantili, sensazioni inquietanti da fatti di cronaca nera e suspence spiccia, come nei film horror di pessima qualità. Esco sforzandomi di mantenere un certo contegno, come se qualcuno potesse vedermi, e una volta fuori tiro un sospiro di sollievo. Non pensavo di soffrire ancora di timori simili.

Incontro poi un’altra tenuta grande e affascinante, ma molto diversa dalla prima. Il muro di cinta è basso e permette più chiaramente di vedere all’interno. Qui ci sono addirittura due chiese e da protagonisti la fanno i mattoni a vista. Sul portale leggo: “Principato di Lucedio”. Senza grosse traccia di modernità, se non l’asfalto e i tralicci, sembra davvero di aver viaggiato un po’ nel tempo.

Pochi secondi e cominciano a cadere le prime gocce. È ora di sfoderare la mantella! Di fretta e furia spoglio lo zaino dove l’ho lasciata e provo a farmi trovare pronto in tempo, ma non tutto va nel modo migliore. Mi impiglio qua e là, sbaglio verso, qualcos’altro mi cade. La pioggia inizia già a infradiciarmi, ma nonostante tutto non mi agito troppo, e addirittura comincio a riderne tra me e me.
Un bell’acquazzone ancora mi mancava: sarà un altro tassello al grande puzzle che ho iniziato a comporre partendo per questo folle viaggio a piedi. Camminare col mio zaino in spalla mentre piove mi dà un senso di libertà grandissimo. Inaspettatamente, sono contento come un bambino.
La scrollata d’acqua non dura moltissimo ma lascia un sipario di nuvole scure su cui si disegna un fantastico arcobaleno, in equilibrio sul solito tappeto giallo delle risaie.

Le pedule con cui sono partito hanno un paio d’anni e sono in goretex, ma a quanto pare qualcosa non va, perché ho già i calzini zuppi. Ho potuto verificare anche la completa inutilità di uno dei miei acquisti pre-partenza: un paio di piccole ghette che avrebbero dovuto evitare il passaggio dell’acqua nei calzini. Scomodissime a mettersi e incapaci di restare in posizione per più di duecento metri, mi è bastato questo primo utilizzo per bocciarle del tutto.

La strada ora sale leggermente, tagliando a metà un bosco, oltre il quale trovo l’ennesimo piccolo cimitero. Da lì parte un sentiero per una certa chiesa, di cui da lontano avevo visto il tetto spuntare tra gli alberi. Lo seguo e la raggiungo. Immersa nella vegetazione, è diroccata e particolarmente tetra. Mi riparo sotto il portico mentre scende un altro scroscio.
Aspettando che smetta, mi scopro a pensare che viaggiare da solo per ore ogni giorno mi sta piacendo davvero all’inverosimile.

Finita la pioggia, torno sulla strada; il cielo si è aperto moltissimo. Scendo dalla collinetta e prendo una lunga svolta a destra. Mi aspetta una grandissima sorpresa: per la prima volta durante questo cammino vedo davanti a me le Alpi. Sono lontane, ma non è solo uno sfondo splendido. Io quelle montagne le dovrò raggiungere – a piedi! – e poi superarle, per andare molto più in là. Sono una schiera imponente e nobile, che in quel momento mi pare si sia presentata solo per me, per vedere che faccia ho, per spaventarmi un po’ e…per chiamarmi, eccome! Una voce muta, sottile, la loro, ma capace di far vibrare qualcosa nel petto, come le basse frequenze a certi concerti. Roba da far cadere le difese. Provo forse l’emozione più prorompente da quando sono partito. Mi ritrovo a piangere e ridere insieme: niente di nuovo, niente di meglio. Ci sono poche cose nella vita belle come questi momenti, in cui la massima felicità nasce dalla massima commozione.
Davanti a me ancora parecchi chilometri senza ostacoli alla vista. Potrò camminare verso quelle vette continuando a guardarle e a farmi guardare da loro. Ci parlerò, ma d’altronde sto iniziando a parlare con tutto. Sto benissimo.

Dopo un’ora e mezza arrivo a una rotonda con un monumento davvero originale: un uomo distinto, ritto in piedi, indica a un bambino davanti a sé un punto all’orizzonte. Mi avvicino per leggere la targa: la scultura è dedicata all’imprenditore agricolo, al suo impegno a favore di questa terra e alla trasmissione di valori, traguardi e tradizioni alle nuove generazioni. Un bel messaggio, non c’è che dire; non me lo sarei mai aspettato. La statua, però, mi strappa anche una risata perché a me dà l’impressione che l’uomo stia mandando in castigo il bambino, piuttosto che quello che ho letto.

Poco dopo attraverso il curioso borgo di Castell’Apertole. Tramite alcuni cartelli e un po’ di sana osservazione, capisco che ha anch’esso una storia lunga e interessante e che ora contiene al suo interno luoghi di ricezione turistica e non solo. Scambio due parole in allegria con un abitante, che mi confessa voler intraprendere anche lui un pellegrinaggio verso Santiago. Glielo auguro, sperando di riuscire a mia volta ad arrivarci.
Un centinaio di metri più in là, scorgo quello che in passato era il minuscolo cimitero di quel borgo. Stranamente lontano dalla strada, immerso tra i campi, ora è evidentemente abbandonato. Ha un fascino che ricorda il caro De Chirico. In poche ore stamattina ho già visto un sacco di luoghi originali, affascinanti e misteriosi allo stesso tempo.

È ora di pranzo. C’è un ristorante, ma è ancora chiuso; entro comunque. Avranno di certo qualcosa di pronto, penso; tanto a me non interessa consumare al tavolo, e nemmeno mangiare chissà che. Inaspettatamente, la mia presenza sembra uno scandalo e mi negano qualsiasi cosa; solo la cameriera che sta pulendo il cortile solidarizza un po’ e mi indica un altro posto poco più avanti, a Colombara, più alla mano e, soprattutto, aperto.
Le indicazioni sono tutte corrette; là ordino un piatto tipico della zona, povero ma non troppo: riso con fagioli e salame. Si chiama panissa. Mentre aspetto che me lo preparino, faccio un aperitivo con un buon rosso della casa e qualche stuzzicheria, su un tavolo all’aperto baciato dal sole.
Una volta ritirato il piatto d’asporto, vado a gustarmelo su una fresca panchina di roccia, all’ombra di un albero nel praticello di una chiesetta cinquanta metri più avanti. Alle mie spalle scorre un piccolo canale che rende tutto ancora più rilassante. Impagabile! …e per di più il piatto è squisito.
Ovviamente approfitto anche per un buon pisolino e poi, nonostante l’ora sia la meno adatta, torno a incamminarmi tra le risaie, col sole che picchia in testa come un martello.

Scopro anche un’abitudine del posto molto apprezzabile: scrivere frasi dedicate ai pellegrini su delle grandi pietre lungo il percorso. Riflettendoci, l’effetto è un po’ quello della Bacheca di Facebook, però all’antica.

Dopo meno di due ore sono a Lamporo, un piccolo paesino sviluppato per lungo sulle due rive di un piccolo canale. Al centro, l’unico grande incrocio, con la piazza e la chiesa. Dietro questa c’è l’ostello dove dormirò, di recente apertura. Lì, ad accogliermi trovo Giancarlo, altro hospitalero volontario. Ahimè, dopo pochi minuti, come già Pietro a Vercelli, anche lui mi riversa tutte le sue titubanze e le sue preoccupazioni per il lungo cammino che ho scelto di fare, facendosi anch’egli insistente in modo un po’ eccessivo. Per me è una giornata molto speciale e non me la sento di lasciarmi scaricare addosso ansie, pur ragionevoli, ma fondamentalmente inutili. La decisione è presa e i passi si interromperanno solo giunto alla meta o se verrò bloccato da eventi davvero irrisolvibili, punto. Ora tutto va bene, ed è tempo di godere di questa fortuna, non di torturarsi col peggio che potrebbe essere. Comunico quindi a Giancarlo che preferisco si interrompa, dopodichè vado a sistemarmi.

Durante le ore successive non resta traccia dell’impatto un po’ elettrico che abbiamo avuto, e finiamo col chiacchierare beatamente di tanti altri temi, tra cui alcuni aspetti riguardanti la sua tarda vocazione pellegrina. Mi racconta che ha lavorato tutta la vita come bancario, e solo dopo la pensione si è trasformato in un grande camminatore. I familiari hanno faticato a capire il valore che lui trova in questo genere di esperienze, e sembra che ancor oggi si domandino se sia impazzito.
È divertente ascoltarlo mentre ne parla, perché non sembra dispiacersi per questi fatti; camminare è diventata una cosa talmente bella e importante per lui, che nulla sembra poterlo scalfire.

Nel tardo pomeriggio scegliamo insieme cosa mangiare per cena; siamo solo io e lui.
Come Pietro a Vercelli, anche in questo caso è lui a occuparsi di cucinare. Prima o poi, mi piacerebbe vivere a mia volta questo genere di esperienza. Sembra si debba fare solo un brevissimo corso.
Festeggiamo sobriamente le mie prime due settimane di cammino. Tutto va per il meglio e la giornata finisce in piena serenità.

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Italia, Piemonte