Info Racconto Extra
cammino di santiago - roberto pesenti

02/11 Hospital de Órbigo – Astorga

(Albergue Siervas de Maria)
17km

La luce che filtra dalle tende parla chiaro: di sole stamattina non ce n’è, e quando le apriamo scopriamo che ad aspettarci c’è anche la cara amica nebbia. Seppur lunedì, oggi è ancora festa: il giorno dei morti, per la precisione, e mai condizioni meteorologica poteva essere più azzeccata.
L’idea di immergerci ancora nell’abbraccio freddo di quel muro lattigionoso non è esattamente lo stimolo migliore per uscire dal letto, ma è comunque tutt’altra cosa di quando capita a casa propria, col cartellino che ti aspetta per essere timbrato o cose simili. In cammino, per quanto le condizioni avverse riescano a sconfortare, possono comunque essere trasformate in piccole o grandi sfide capaci di animare la giornata. Insomma, siamo degli inguaribili borbottoni ma oramai sappiamo di avere nella tasca la carta più preziosa: la consapevolezza di star vivendo un sogno ad occhi aperti, in piena libertà. Basta solo non dimenticarselo.

Mentre facciamo colazione, vediamo uscire di buona lena la pellegrina sculettante conosciuta ieri a cena. Noi stiamo quasi finendo, e c’è buona probabilità che la raggiungeremo già durante le prime ore di cammino.
Una volta lasciato l’albergue, torniamo sulla strada del ponte e attraversiamo il centro del paese. Al primo incorcio, inaspettatamente, scorgiamo già l’amica pellegrina partita prima di noi, ma la sorpresa più grande è trovarla seduta alla fermata dell’autobus. Chiaramente è difficile non riderne almeno un po’, ma in fondo ognuno è giusto che si viva l’esperienza come può o come preferisce.
D’altronde, per motivi nostri, anche noi abbiamo saltato a piè pari ben 80 km del Cammino: 70 in Navarra e 10 l’altro giorno dopo Moratinos.
Anche quando camminavo da solo in Francia avevo già “tradito” il mio proposito altre due volte. La prima nacque da un fraintendimento, e mi risparmiò una dozzina di chilometri; la seconda qualcuno di meno, tra Vendargues e Montpellier, cedendo agli eventi e al piacere di concludere la giornata con il buon vecchio Fabian.

Tornando alla signora, Tiziano ci racconta come situazioni simili diventino dilaganti durante gli ultimi 100 km. Questa, infatti, è la distanza minima da percorrere per ottenere la Compostela, il certificato di avvenuto pellegrinaggio consegnato presso gli uffici del pellegrino a Santiago.
In quelle ultime tappe si riversano migliaia di persone contemporaneamente, ovviamente portando zaini leggerissimi, ma spesso pagando perché gli vengano trasportati con qualche mezzo. Pare però che non sia raro che qualcuno si faccia accompagnare con maligno ingegno tra un albergue e l’altro, per collezionare timbri uitli all’ottenimento del certificato senza nemmeno camminare. Sono i casi in cui il turismo prettamente consumistico del Cammino arriva a livelli inquietanti.
Che fare? D’altronde la scala di radicalità con cui si affronta quest’esperienza non ci vede di certo ai primi posti. La cosa giusta credo sia rilassarsi e godersi fatiche, gioie e debolezze, senza giudicare troppo gli altri. Non solo, però: credo anche sia essenziale non sentirsi la coscienza sporca quando si capisce di non essere all’altezza di un integralismo pellegrino che, inevitabilmente, può essere croce e delizia solo per pochi.

Lasciando Hospital de Órbigo ed entrando tra i primi campi, la nebbia ci impedisce di vedere oltre la trentina di metri in tutte le direzioni. L’assenza di brutti edifici e di strade asfaltate per questo tratto mi dá comunque un sollievo così grande che, per quanto tetro, lo scenario mi appare soprattutto poetico.
Ne resto convinto: la natura non fa niente di brutto, quella è una delle esclusive dell’uomo. Anche cose raccapriccianti come una carcassa a lato strada o qualsiasi altra cosa capace di produrre un iniziale ribrezzo in natura, ho scoperto che non la percepisco mai brutta, ma sempre almeno affascinante.

Restiamo tra i campi per una mezz’ora, per poi fare capolino a Villares de Órbigo, un piccolo paese non certo valorizzato da questo clima crudele. Ne usciamo salendo una collinetta piuttosto spoglia, dalla quale ci godiamo il saluto del sole mattutino che oggi pare il fantasma di sé stesso dietro questa coltre opaca. Io mi fermo per godermi il momento, e nel contempo osservo le sagome di Amedeo e Tiziano sparire lentamente nella nebbia, quasi fosse il finale di un film.

Tornato al loro fianco, arriviamo ad un parco giochi che sembra la versione più poetica di quello visto un paio di giorni fa ad Arcahueja. Il paese che sta immediatamente dopo, invece, si chiama Santibañez de Valdeiglesias. Sembra povero e deserto, ma invece troviamo un cartello di fianco a una porta aperta che indica la vendita di bibite e snack. È l’albergue parrocchiale, al quale però non è consentito accedere. Chiamiamo per capire se ci sia qualcuno, ed esce un vecchio signore piuttosto mogio a cui chiediamo se servano caffè. Purtroppo no, ma approfittiamo comunque per fare una breve sosta e scambiare con lui due parole.
È nato e ha sempre vissuto qui, e condivide con noi i ricordi di tempi ben più floridi per il villaggio, dove ormai vivono pochissime persone. D’altronde da queste parti ci si guadagna da vivere tanto con l’agricoltura che col passaggio dei pellegrini, e quindi quest’anno è diventata particolarmente dura tirare avanti.
Ci racconta che quando era bambino era un luogo molto più popolato, e c’erano addirittura due scuole ben colme, una maschile e una femminile. Ora invece non nascono bambini da diversi anni e qui tutto sembra a un passo dallo scomparire.

Grati della testimonianza ma già piuttosto sazi dell’iniezione depressiva, decidiamo di congedarci con tutto il rispetto dovuto e proseguiamo oltre. Imboccando una lieve salita fra i campi, ci godiamo il diradarsi rapido e del tutto inaspettato della nebbia. Camminiamo su larghe piste di terra rossa e in men che non si dica si spalanca davanti a noi un cielo straordinario, impossibile da immaginare fino a un quarto d’ora prima.

Continuiamo la salitella fino a scollinare e trovarci di fronte un proseguimento pianeggiante di qualche chilometro: sembrano scenari prettamente agricoli, largamente spogli per via della stagione. Attorno a noi, una combinazione inedita e minimale di terra, alberi e arbusti. Sono pochi anche i colori: il rosso, l’ocra e il verde scurissimo delle piante, ma soprattutto l’azzurro di un cielo fattosi totalmente limpido. Siamo letteralmente incantati, sia dalla transizione stupefacente, sia dal paesaggio in sé. Baciati dal sole e raggianti nello spirito, ci godiamo la lunga pista serpeggiante che seguiamo con gran gusto.

Tiziano questo tratto l’ha già percorso un paio di anni fa, ed è visibilmente entusiasta di poter esser di nuovo qui oggi. Allora raggiunse Santiago partendo da casa, come me, ma non era la sua prima volta. Compostela l’aveva già “conquistata” l’anno precedente insieme a un amico, partendo però da Astorga, la città che incontreremo tra una decina di chilometri. E sempre da lì partì anche l’anno scorso per il suo terzo Cammino, accompagnato eccezionalmente dal padre e dal fratello.
La sua esperienza di viaggi per il mondo va ben oltre, ma ha la particolarità di essere tutta concentrata negli ultimi quattro anni. Tutto scattò da quel primo Cammino, da quel primo passo mosso proprio tra le vie di Astorga.

Questo aiuta a comprendere la sua eccitazione, ma nonostante ciò non è lì che abbiamo in programma di fermarci oggi. Da giorni, infatti, abbiamo notizia di un’italiana che con il suo compagno ha preso in gestione un albergue qualche chilometro più avanti, a Murias de Rechivaldo. Si chiama Miriam, e ovviamente ci siamo già messi in contatto con lei. È entusiasta per il nostro arrivo, e ci ha promesso un’altra cena all’insegna del Bel Paese.

Carichi e allegri, proseguiamo per qualche chilometro tra leggeri dislivelli. Il paesaggio attorno a noi non cambia di molto, perlomeno finchè non incontriamo a lato della strada quello che a prima vista ci sembra un piccolo bazar. Curiosissimi, ci avviciniamo lentamente per scoprirne i dettagli, intuendo man mano sempre meglio di cosa si tratti.
Innanzitutto c’è un chioschetto pieno di cose buone da mangiare e da bere, con affissi diversi cartelli che dicono essere tutto a offerta libera per i pellegrini di passaggio. Per terra, una spirale di sassi. Tutt’attorno sono raccolti oggetti utili di ogni tipo, lasciati probabilmente da altri viandanti.
Alle spalle di questo buffet di cibo e attrezzatura, c’è una lunga parete con delle tettoie. Il muro è decorato con teli coloratissimi, che ricordano quelli indiani, e si alternano a bandierine di preghiera tibetane. C’è anche una veranda piena di scritte, strumenti musicali, tisane e disegni – tra i quali spicca un volto di Gesù molto colorato e rasserenante.
Esattamente di fianco, poi, c’è l’accesso a una grande aia quadrata, chiusa da una seconda parete simile alla prima, ma con una tettoia più grande e solida, sotto la quale intravediamo una tenda e un letto.

Come chiamare tutto questo? Un’oasi hippie, forse. Oppure semplicemente un’oasi, niente più. Io è la prima volta che vedo un posto simile, e alcune cose mi colpiscono da subito visceralmente: lo spazio circoscritto ma completamente aperto, il suo esplodere di colori proprio in quest’area spoglia già tanto affascinante, e tutte quelle cose buone e ben disposte lasciate evidentemente proprio per noi pellegrini, senza chiedere nulla, lasciando solo un contenitore per chi ha piacere a donar qualcosa.
Sono cose elementari nel loro essere, e di certo sto provando emozioni dovute anche alla sorpresa, al primo impatto, ma dentro me hanno toccato corde profonde.

La cosa che mi stupisce di più, però, è il fatto che non sembra esserci nessuno nei paraggi. Conclusa una timida esplorazione, appoggiamo gli zaini e facciamo una piccola pausa, approfittando del ben di Dio che ci viene offerto.
Poco dopo spunta una ragazza, con lunghi dreadlocks legati sul capo. Sta sistemando della legna appena raccolta. La avvicino e le domando cosa sia esattamente questo luogo. Mi risponde con grande gentilezza, accettando di raccontarmi anche un po’ di sé.
Pur giovanissima, è fuggita anni prima dal contesto tradizionalmente occidentale in cui era cresciuta, sperimentando nel corso del tempo diversi stili di vita alternativa fino a pochi mesi fa, quando è approdata qui. Mi spiega che questo posto si chiama La Casa de los Dioses ed è stata creata una decina d’anni fa. Il fondatore è uno spagnolo di nome David, che non vi abita più stabilmente, ma che proprio in questi giorni è tornato per passarci del tempo.

Per mio gran piacere, lo vediamo sopraggiungere pochi istanti dopo. Trasporta a mano due grandi taniche piene d’acqua. Ci passa vicino con sguardo severo e rispondendo appena al mio saluto. La mia lettura istintiva è che sia stanco di vedere facce incantate e interrogative come quella che sicuramente ora ho anch’io. Non mi incupisco, però, né demordo. Bevo il mio tè e aspetto che mi ritorni vicino.
Dopo un paio di minuti, mentre anche qualche altro abitante dell’oasi fa capolino dalla sua “stanza”, David si siede nella verandina e inizia a preparare un’insalata. Il suo restar serio non mi mette a disagio, piuttosto mi spinge a scegliere con più cura cosa chiedergli. Non voglio fare domande stupide o scontate, così ci penso un po’ e poi rompo il ghiaccio. Sembra funzionare: all’inizio resta chiuso, ma pian piano capisce che non sono così molesto come forse gli ero sembrato. Si apre così a qualche minuto di dialogo rilassato, quanto basta per accennarmi ai suoi lunghi e innumerevoli viaggi a piedi per la Spagna. Non sarebbe niente di troppo speciale di questi tempi, se non fosse per il fatto di averne percorsi una parte significativa completamente scalzo. Generosamente, mi racconta alcune altre cose interessanti, sia su queste esperienze, sia sulla Casa de los Dioses.

D’un tratto mi accorgo che altre due persone, nel frattempo, si sono aggiunte a far merenda: una di queste è la pellegrina che aveva preso l’autobus. Sta parlando allegramente alla ragazza coi dreadlock, poi si avvicina a David e gli chiede quanto gli debba. Lui le spiega che non è obbligata a lasciar nulla, ma se vuole c’è una cassettina per le offerte alle sue spalle. Le sue parole sono state cortesi, ma il tono di voce e le sue espressioni fanno capire quanto sia stanco di chiarire queste cose, stanco di tutto quanto già vissuto, delle cose che non cambiano nonostante ci si è investito tantissimo. Potrebbe essere qualsiasi altra cosa ad averlo fatto tornare così accigliato, ma questa è la mia interpretazione.
Scelgo di non approfittare oltre del suo tempo. Ringraziamo e salutiamo, lasciando quello che possiamo con gran piacere.

I passi che facciamo allontanandoci, il modo in cui ci disponiamo, le battute e i silenzi di ciascuno comunicano che siamo in stati d’animo molto differenti.
Tiziano è eccitato e lo manifesta. Il luogo che abbiamo appena lasciato è alle spalle, non sembra interessato a elaborare quanto visto, ricevuto e ascoltato. Al centro dei suoi pensieri ora c’è solo Astorga, una città che per il suo cuore ha talmente tanto significato da competere addirittura con la meta finale. Cammina da solo davanti a noi, esplodendo in piccole esclamazioni euforiche senza mai girarsi.
Di per sé non c’è nulla di male in questo. Generosamente, ci ha anche promesso di offrirci il pranzo per celebrare insieme questo passaggio, eppure qualcosa dentro me comincia a fermentare, come già era successo molte volte fin dai Pirenei.
Certamente anche per via della mia stessa sensibilità e di chissà quale mio vissuto, la sensazione che vivo è quella di essere trattato da semplice cassa di risonanza, un paggio chiamato a onorare il suo ennesimo traguardo senza porre inutili complicazioni.
C’è evidentemente un’esagerazione inadeguata in queste interpretazioni, me ne rendo conto, ma non riesco ad arginarle. Sto ancora elaborando tutti gli stimoli raccolti alla Casa de los Dioses, e qualcosa dentro me si ribella a tutto ciò che vorrebbe impedirmelo. Mi chiedo incessantemente come sia possibile liquidare così sbrigativamente un incontro con qualcosa di tanto radicalmente diverso dalle nostre esperienze. Provo a coinvolgere Amedeo, ma è tutto sintonizzato sulla stessa lunghezza d’onda di Tiziano. Propongo un paio di riflessioni, ma vengo liquidato con goliardia.

Ho un irrefrenabile bisogno di soffiare per un altro po’ sulla brace viva della testimonianza di David, della ragazza e su tutto quello che mi hanno smosso dentro. Il disinteresse dei miei compagni di viaggio è legittimo, ma mi ferisce. Capisco che non posso pretendere nulla. Tutto ciò che mi è concesso è accogliere ciò che è, e fare le mie scelte di conseguenza.
Hanno bisogno di vivere con vitalità differente dalla mia questo momento. Che fare, quindi? Sembra abbiano piacere che io stia con loro, ma in questo momento per continuare dovrei fare da parte tutta l’energia che mi è nata dentro perchè ora non saprebbero accoglierla.
La cosa che mi punge di più è che tutto questo è già successo altre volte, e a León io lo avevo detto chiaramente a Tiziano, avevamo stretto un patto, e sono passati meno di due giorni… So bene quanto importante sia per lui questo istante; lo sta vivendo come può e come vuole, è giusto e naturale. E allora? Non resta che una cosa da fare: rispettare il suo bisogno, ma senza rinunciare ad onorare anche il mio.

Importa solo una cosa ora, Roberto: di quanto respiro ha bisogno il tuo cuore in questo esatto istante?


*

Un filo di vento sulle guance tese. Sto sorridendo.
Sento caldo, quello del sole e quello della stufa che mi pare di aver in corpo ora.
Bella questa tensione per tutto il corpo, non è di quelle che ti succhiano tutta l’energia, non è nervosismo.
Sembro un asino, qui in mezzo. Dicono gli asini si fermino così, di punto in bianco, inespressivi e silenziosi, e nessuno li muove più.
Questa tensione sai cosa mi sembra? Come quel miscuglio di forze e di resistenze di quando qualcuno ti abbraccia fortissimo di proposito, che sembra voglia stritolarti ma è perché ti vuole bene. È un gioco, una lotta immobile, e si ride sempre tanto perché fa sparire le rigidità brutte.
E quando la stretta finisce e finisce il tuo resisterle, resti leggero, tutto un senso di rilassatezza che è muscolare ma non solo, ti vien da ridere ancor di più, il corpo si trova libero, aperto, e qualcosa esce. A volte le risa continuano e si trasformano, dentro e fuori dall’abbraccio, a volte si finisce piangendo. Capita. Quello che esce è quello che hai dentro, qualcosa almeno.

“Abbiamo dovuto contenerlo”, questa frase non mi è mai uscita dalla testa. La pronunciava spesso la mia ex storica. Faceva l’educatrice in una comunità di ragazzini complicati, che roba dentro ne avevano tanta e spesso capitava che uscisse come non doveva. In certi momenti poteva solo una cosa: stringerli, finché l’esplosione finiva, e cominciava il crollo, poco o tanto. A quel punto la stretta finiva, con calma, e all’amore e al sostegno veniva data un’altra forma, quella della voce e dell’ascolto.

Cosa mi sta stringendo ora se sono da solo, qui?
Anzi…ora non c’è già più quella tensione.
Che bello questo stare. È bello anche il posto, è perfetto forse, con questo campo attorno, e quegli alberi davanti che lasciano passare il mio sentiero, che subito dopo svolta perché la terra finisce. Scende, probabilmente, e poi risale, però lontano, perché lá in fondo si vedono dei monti.
C’è tantissimo cielo, oggi.

Da quanto sono qui?

*

È successo. Che sensazione strana.
Ha vinto il cuore prepotentemente, la testa si è fatta da parte, lo ha fatto docilmente.
Non sono abituato a questa sinergia tra i due, è bellissimo.

Camminavamo in silenzio, pochi minuti dopo aver lasciato l’oasi, a pochi metri l’uno dall’altro ma distanti anni luce. Energie buone ma diverse, chiamate a esser distinte, in armonie libere l’una dall’altra.

“È questo il momento”, ha detto il cuore tranquillo.
“Ok. Fermo il corpo, allora”, ha risposto la testa.
E io in quell’istante era come se fossi semplice testimone. Mi sentivo a mezz’aria, leggerissimo. Assistevo al loro agire per me, al loro prendersi cura.
Il tempo non ha avuto bisogno di fermarsi, ma ha smesso di essere incombente. Il luogo ha protetto quel momento, perché nessuno arrivasse a invaderlo, perché nessuno nemmeno tornasse.
Qualcosa doveva essere sospesa quanto bastava e qualcos’altro doveva scorrere. Tutto si è mosso con grazia e padronanza perché la forma potesse cambiare senza traumi.
La piccola tartaruga esce dall’uovo e poi dalla sabbia, il fiore apre i suoi petali, la crisalide le sue ali nuove. Io sono più goffo e pesante, ma è lostesso, non c’è dissonanza.

Il respiro si regolarizza, calibrando il tutto e accompagnandomi a riprendere possesso del corpo. Ascolto e attendo il momento, come un attore dietro le quinte, ma senza ansie.

La lancetta dei secondi riprende il suo conto.
Torno a sentire il vento sulle guance. Sto ancora sorridendo.

*

Non è stato tutto silenzio, in realtà. Nel mezzo di tutto quanto c’è stata una piccola grande buffonata, forse però utile a ciò che è avvenuto dopo, chissà.
Prima la timidezza mi ha fatto trovare una scusa per giustificare ai due amici il mio fermarmi: “Sto qui un attimo a fare qualche foto, andate pure avanti voi”.
Poi i cigolii e il vibrare ovattato del corpo che iniziava a predisporsi a quello che doveva succedere. È lì però che nasce un ultimo trattenimento: era come se avessi bisogno di qualcuno, un testimone di quello che stava succedendo.
Il tempo già era inciampato e finito sottosopra, e ci sono voluti la bellezza di dodici minuti di flusso di coscienza impressi in un messaggio vocale per svuotare ogni mio tentativo di controllo ulteriore. E solo una persona al mondo poteva sopportare quella tortura: Zoe.
Povera amica! Ne rido, vergognandomi un po’ ma soprattutto ridendone. Non di lei, del fatto. C’era tanta enfasi in me da sembrar che l’universo stesse tutto lì e io che non so far altro che registrare il messaggio più smisurato di sempre. Resterò sempre un po’ infantile, inutile nasconderlo. Meno male che poi testa e cuore hanno anestetizzato la mia volontà e si sono occupati del resto per i fatti loro. Grazie al cielo, Zoe ha poi saputo sorridere sotto quella slavina di parole. Non potevo essere più fortunato.

Ed ecco come è andata.
E mo?

Mi sa che è ora di schiodarsi.
Un bel respiro e….primo passo, secondo, terzo. Le braccia rispondono, perfetto. Respiro, avanti così.
Il sorriso dalla faccia, però, sembra non volersene andare. Che strane sensazioni.
Mi guardo attorno, respiro. Cammino pianissimo: sorrido. Insipiro, espiro, passo.

Sto bene. Va tutto bene.
Sto camminando e va tutto bene.
Alzo gli occhi: ho un rapace che mi vola sopra, in tondo. Era parecchio che non capitava. In Francia successe diverse volte. Anche sui Pirenei ne incontrammo un sacco, e diversi, e per qualche altra tappa un uccello molto simile a questo ci ha girato spesso sopra la testa. La cosa appassionava molto tutti e tre, ne parlavamo e fu un piccolo dispiacere quando l’amico pennuto smise di accompagnarci. Lo so che non è mai stato uno solo, ma è bello pensarla così ed essere contento d’averlo rivisto proprio oggi.

Mi domando se gli altri mi stiano aspettando dopo la curva. Sarebbe strano, è passato molto tempo, almeno così mi sembra. Comunque no, non ci sono. C’è uno spiazzo, e al centro una croce di pietra alta più o meno tre metri. Subito dopo la strada scende. Ecco Astorga, laggiù.

Mi fermo ancora, c’è brezza. Sento tutto distintamente ma sono ancora rintontito. La solita pellegrina mi supera sculettando. È molto buffa. La lascio allontanarsi, giusto un po’, poi comincio anch’io la discesa.
Incontro l’ennesima statua in bronzo di un pellegrino: questa volta sta bevendo, così da segnalare anche la fontana al suo fianco. Di fronte c’è un piccolo parco ben curato, aperto, con dei salici. Non c’è più fretta oggi. Mi siedo: ho da scrivere un paio di messaggi, riorganizzare un po’ i miei piani per oggi. Innanzitutto chiamo l’albergue di Astorga e prenoto un letto per stanotte, poi cerco sul web il numero di Miriam e l’avviso che arriverà un italiano in meno oggi. Accoglie la notizia con grande gentilezza. Per ultima cosa, poi, invio un messaggio ad Amedeo e Tiziano:

“Ciao ragazzi…
È stato un attimo e…ho deciso.
Mi fermo ad Astorga oggi e riprendo questo mio cammino da solo.
Sono felice e grato di avervi incontrati e aver potuto vivere la strada fin qui con voi.
Ho già chiamato Miriam, dice che non c’è problema.
Io sono ancora qui sulla collina.
Buen camino.
Ci si rivedrà magari davanti a un piatto caldo e un bicchiere di vino dalle vostre parti, o dove il Cammino o la vita vorranno.
Magari semplicemente a Santiago fra non molto, chissà.
Un abbraccio forte. R.”

Tiziano risponde subito. Dice che lo sapeva già, che ad Amedeo l’aveva detto dieci minuti prima. Usa faccine sorridenti e di buon augurio, “Ci vediamo sul cammino o dove ci porta il vento”.
Così è proprio bello.

Fine. È ora di darsi una mossa, ricominciare di nuovo. Non credo che siano cambiati i loro programmi, quindi mangeranno ad Astorga. Meglio evitare ora accavallamenti ridicoli. Continuo a scendere, entrando a San Justo de la Vega. Supero qualche negozietto che non mi convince, poi un cartello: c’è un piccolo bar in una corte interna. Sembra non ci siano altri clienti, va bene così. Una zuppa di ceci e una birra. Arriva un nuovo messaggio, è di Amedeo. Gran belle parole, non mi strappa una lacrima ma ci va molto vicino. Ora non manca proprio niente.

Sono sul cammino, senza nessun’altro. Ancora da solo. È veramente unico provare tutto questo. Ho camminato senza compagnia per più di 1500 km, eppure…
Ripensandoci, anche quando finirono i tre giorni con Fabian provai qualcosa di simile, ma molto più lieve. D’altronde è ovvio, con gli altri ho camminato molto di più: contando dalla partenza del 18 ottobre, oggi era esattamente il sedicesimo giorno uno di fianco all’altro. Mica poco.
Quanta vita, questo cammino! Tutta insieme, tutta bella. Sono davvero felice.

Scambio due chiacchiere col barista, bevo un caffè e riparto ancora una volta.
Si è fatto nuvolo, ma non dovrebbe piovere. Mancano solo pochi chilometri. Il primo è tutto in discesa, e va adagiandosi tra campi pianeggianti. Astorga sta poco più avanti, arroccata su una bassa collina. Per raggiungerla, attraverso un fiume e una ferrovia, sfruttando l’ennesimo sovrapassaggio dall’aspetto abominevole. Comincio a pensare che queste strutture siano frutto di un’unica mente malefica.

Meno di un quarto d’ora e sto davanti all’albergue. Entro e mi metto in coda. All’accettazione, davanti a me, c’è nientepopodimeno che il francese con cui Tiziano aveva discusso. Ma guarda te chi mi ripresenta il Cammino!
Quando arriva il mio turno, la receptionist oltre il vetro non si limita a chiedermi quanto serve, ma si mostra particolarmente curiosa riguardo a un’infinità di dettagli del mio viaggio. Inizia con domande cortesi e discrete, ma in pochi minuti diventano sempre più inopportune e invadenti. Le condisce con fastidiose considerazioni da bar su questo e quello, ma lo fa in un modo talmente calibrato che fatico a troncare il discorso senza sembrare io quello scortese.
Per un attimo rischio di perdere totalmente tutta la leggerezza interiore nata dalla grande scelta fatta prima. Non posso accettare di farmela sfuggire per colpa di una maleducata simile!
Mi ci vogliono diversi minuti, quasi fosse una partita a scacchi, ma alla fine riesco ad approfittare di una piccola distrazione, alzandomi con decisione e orientandomi verso le camerate. Purtroppo però, frastornato dal tutto quel chiacchiericcio insinuante, dimentico la cosa più importante: i soldi. Ovviamente non posso far altro che scusarmi a testa bassa, e incassare in silenzio le sue ultime battutine acide.

Quando finalmente me la lascio alle spalle ed entro in camerata, ecco una doppia sorpresa! Oltre al francese di mezza età, ci sono anche quel ragazzo che avevamo lasciato a fotografare gattini a Reliegos e Martin, lo svizzero di Mansilla.
Ovviamente ci conosciamo tutti quasi solamente di vista, così approfittiamo per presentarci come si deve. Scopro che il nemico giurato di Tiziano si chiama Fred, e sorprendentemente si rivela una persona molto piacevole. È un chitarrista di professione, e ci racconta che ha già avuto diversi guai fisici lungo il cammino. Finché stava col gruppo, ha potuto usare la bici che gli avevano prestato, ma ora sta prendendo seriamente in considerazione di acquistarne una usata.
Con lui parliamo di tante cose, e spende anche qualche parola sull’episodio dei giorni scorsi al Burgo Ranero, permettendomi di collezionare entrambe le versioni. Diciamo che pare reggere di più quella di Tiziano, ma tutto comunque sembra già talmente lontano e di poco conto che per fortuna prevalgono ben altri temi.

Dopo questi primi aneddoti, anche Martin si inserisce nel dialogo, arricchendolo con il suo delicato umorismo. Scopro che è artista ed arteterapeuta, il che me lo fa piacere ancora di più.
In meno di un’ora scopriamo molto l’uno dell’altro, stando tutti seduti comodamente sui nostri letti. Manca solo un bel bicchiere di vino a render perfetto questo momento.
Quando cominciano ad aumentare le pause, capisco che è il momento giusto per congedarmi e andare a fare un piccolo tour del centro storico.

Fuori dall’albergue incontro subito un’altra grande statua di bronzo: ovviamente è l’ennesima variante del nostro pellegrino d’altri tempi, stavolta corredata da una valigia a spalla, alla maniera di un emigrante.
Sono riuscito a elemosinare una cartina alla signora della reception ma, col fatto che oggi è giornata festiva, trovo aperto ben pochi luoghi tra quelli di maggior attrattiva. L’unico posto che mi sarebbe davvero piaciuto visitare era la cattedrale, ma è quasi inutile dire che porte e cancelli sono sbarrati. Un vero peccato, perché dall’esterno è particolarmente affascinante, con quell’architettura dalle forme che non ho mai visto prima.

Una chiesetta aperta, in realtà, la trovo. Dentro non c’è nessuno: è un luogo piuttosto anonimo, ma diventa il rifugio migliore per dire grazie di quanto ho vissuto oggi.
Non ho lo sguardo di un ateo e nemmeno lo spirito di un fervente cattolico, ma resto indissolubilmente legato alla figura di un interlocutore amorevole e super partes, conscio delle fatiche dei nostri cuori, e forse anche del proprio. Piuttosto che custode di quel senso assoluto che abbiamo sempre troppa fretta di definire, è forse la rappresentazione dell’ascolto accogliente di cui tutti abbiamo bisogno. Lascio tutti i miei sentimenti, i miei dubbi e la mia gratitudine in quelle mani invisibili ed esco leggero come non mai.

Passeggio un po’ ovunque. Sotto le mura scopro l’esistenza di un supermercato, ma anche quello è chiuso. Vuol dire che dovrò per forza mangiar fuori anche stasera.
Nel complesso, nonostante l’abbia incontrata nella sua forma più spenta, Astorga riesce comunque a farmi una buona impressione.

Torno in albergue e scambio ancora due parole coi miei compagni di camerata. Per la cena, Fred ha già con sé un barattolo di noodles. Peccato, sarebbe stato bello uscire tutti insieme, ma pazienza: saremo solo io e Martin. Prima però riesco a elemosinare un bastone da trekking abbandonato, gentilmente offertomi dal collega subentrato allo sportello. Gran bel colpo! Pesa il triplo dell’altro che mi era rimasto, ma ha un ammortizzatore a molla. Sono proprio curioso di provarlo.

Con Martin scegliamo un posto economico dal nome caraibico, anche se ricorda più il bar di una bocciofila. Poco importa, mangiamo discretamente e lui mi regala parecchie perle di fine umorismo e intelligenza. Tra queste, ce n’è una in particolare che sono convinto mi ricorderò a lungo: dice che secondo lui l’unica cosa che differenzia gli uomini dagli animali è…la domenica! Sembra follia, ma a lui piace sintetizzare così l’idea per cui non siamo poi così evoluti rispetto alle altre specie, e i nostri progressi reali non vanno molto oltre la divisione ordinata del tempo e l’istituzione del giorno di riposo. Ne ho sentite tante in vita mia, ma questa la reputo una vera chicca.
Messe da parte le battute, mi regala anche una preziosa testimonianza sul proprio lavoro da arteterapeuta, materia nella quale da anni valuto di formarmi.

La cena non dura a lungo, e nemmeno stiamo troppo a zonzo una volta fuori dal ristorante. Finisce quindi così questa giornata fatta di pochi chilometri e grandi decisioni. Emotivamente sto provando un miscuglio di sentimenti diversi. I pensieri, poi, sembrano veri e propri stormi che mi disegnano vortici nella testa. Nonostante tutto questo, però, sento di aver fatto la cosa giusta. È stata davvero un’esperienza magica. Vivere con così tanta consapevolezza certe svolte è sempre qualcosa di impagabile. Domandarsi di cosa si abbia veramente bisogno, prendere posizione, tuffarsi, accettare di lasciare qualcosa o qualcuno per abbracciare ciò che sta oltre quella soglia: sono momenti memorabili e importantissimi.

78_AstorgaDownload

Categorie:

Castilla y Leòn, Spagna