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cammino di santiago - roberto pesenti

03/11 Astorga – Rabanal del Camino

(Albergue Municipal)
24km

Primo giorno spagnolo senza i due amici di Laigueglia. È una sensazione tutta particolare. Sono eccitato, certo, ma al contempo molto tranquillo. C’è della poesia in questo snodarsi della vita.
La cosa bella è che su questo Cammino ogni scelta sembra positiva. La ricchezza in cui si è calati è talmente abbondante che si ha sempre l’impressione di andare incontro a qualcosa che ci arricchirà e ci aprirà uno sguardo nuovo, mai ad un vicolo cieco. Spero che anche Tiziano e Amedeo sentano lo stesso respiro dentro di sé.

Mi preparo ed esco in perfetta sicronia con Martin. Dopo averlo fatto con la cena, scegliamo di condividere anche la colazione. Entrati in un piccolo bar, lui si fa ingolosire dalla proposta della giovane cameriera e prende caffè con churros a parte. Inizialmente mi chiedo come si faccia a mangiare roba fritta a quest’ora, ma subito dopo mi torna in mente che a Logroño avevo fatto anch’io lo stesso – e senza una ragazza a convincermi. Scambiamo ancora due chiacchiere e poi lo lascio partire, mentre io vado ad aspettare che apra il supermercato.
Incontrarsi e lasciarsi andare, e magari trovarsi ancora più avanti, chissà. Non sappiamo se ci rivedremo, ma va bene così. La cosa straordinaria è che qualcosa in tutto questo riesce a mettermi inaspettatamente a mio agio.

Trovo una panetteria aperta con delle golose empanadas esposte, così ne prendo un paio per il pranzo. Mi resta da comprare un po’ di frutta e il necessario per colazione e pranzo di domani.
Ogni volta che mi carico in questo modo una parte di me urla al sacrilegio: “Devi fidarti del Cammino!”, “Sei posseduto dalla paura e dalle preoccupazioni!”, o qualcosa del genere, insomma. Non nego sia un piccolo grande eccesso, ma sembra che io non abbia mai superato la traumatica esperienza francese, quando la scarsità di punti di rifornimento (a buon mercato) rendeva tutto molto complicato. Credo che sia diventata un’ossessione, ma ormai la vivo con serenità; forse perché dopotutto anche in Spagna questo approccio mi ha dato un paio di benefici preziosi: la possibilità di gestire in tutta libertà le pause per i pasti e quella di risparmiare non pochi soldi. A ognuno il suo stile.

Fatto tutto, lascio il centro di Astorga che sono ormai le 9 inoltrate. Mi dispiace non aver visto l’alba nel mio primo giorno “da single” dopo tanto tempo, ma perlomeno il tempo è straordinario.
L’inizio non è male: una discesa di circa un chilometro a bordo strada con pochi alberi, tanta luce e una discreta vista panoramica. Appianatasi nei pressi dell’Eremita del Ecce Homo, la strada riprende poi a salire in maniera impercettibile. Me lo dice la cartina della guida, rispolverata per via del fatto che non ho più il buon Tiziano ora a far da navigatore – anche se l’abbondante segnaletica rende il Cammino molto facile da percorrere. Come al biondo ligure, però, anche a me piace usare mappe e conoscere pendenze e chilometraggi, spendersi in qualche calcolo su tempi e velocità, conoscere la via anche sulla cartina, e così via. Prima dei Pirenei sono diventato matto più volte per questo, e non per gioco, ma per necessità. Mi era venuta la nausea a forza di consultare siti e guide tutti sul piccolo schermo del cellulare, anche se son stato parecchie volte fiero di me stesso per come son riuscito a barcamenarmi.
Ad ogni modo, il percorso per ora corre rettilineo e non si può sbagliare nemmeno a volerlo, così rimetto il telefono in tasca e torno a camminare con lo sguardo rivolto in avanti.

Lungo la via ritrovo Salvador, conosciuto nel refettorio dell’albergue di León, e ci regaliamo un tratto di strada assieme. Si dimostra un ragazzo genuino e vitale, una splendida compagnia. Lo lascio proseguire una volta arrivati al primo paese, Murias de Rechivaldo, dove sta l’amica italiana presso cui hanno pernottato Amedeo e Tiziano. Ieri le avevo promesso che sarei passato per prendere un caffè insieme, così da conoscerci dal vivo, fare due parole e poi proseguire.
L’albergue che gestisce è poco distante dalla rotta principale e lo raggiungo in pochi minuti. Fraintendo quale sia l’accesso esatto e mi ritrovo ad entrare dal retro come un ladro. Mi “scopre” il suo compagno, un tedesco solare con cui scambio giusto due battute. Dopo pochi minuti ci raggiunge Miriam, e con lei rimango a tu per tu quasi un’ora. Sicuramente anche grazie al fatto di condividere lingua e cultura, la pausa insieme vola via velocissima, e la sensazione è quella di conoscerci già da tempo.
I temi, inevitabilmente, sono le reciproche esperienze di cammino: ciò che ci ha portato a sognarle ed affrontarle, che cosa hanno regalato e stanno regalando alle nostre vite e, non ultimo, cosa mi ha mosso per arrivare al cambio di rotta di ieri. Ne nasce un momento squisito e, con quelli già vissuti con Martin e Salvador, già mi fa benedire questa giornata appena cominciata.

Prima di andarmene, mi consiglia di non tornare subito sul percorso originale, ma di deviare ulteriormente verso Castilla de los Polvazares – davvero a un tiro di schioppo. Da lì, poi, dice che sarà facile ricollegarsi, che saranno un paio di chilometri in più ma ne varrà la pena, e questo basta per convincermi.
Mi accompagnano per il primo tratto, facendomi anche scoprire qualche viuzza di Murias davvero bellissima. Ci dividiamo in corrispondenza di un bivio pedecollinare: loro proseguono la loro passeggiata verso Astorga e io esattamente dalla parte opposta.

A lato del sentiero ci sono vecchi terreni abbandonati, cinti con muri a secco un po’ malandati. Sotto i piedi terra rossa, sopra la testa il cielo azzurro come non mai e sul viso un sorriso ebete che non se ne vuole andare.
Dopo mezz’ora raggiungo il paese che mi ha indicato Miriam, e subito ne resto incantato. Gli edifici hanno per lo più un solo piano, muri in pietra a vista e tetti spioventi con tegole perfette. Qualsiasi facciata sembra splendidamente curata; gli infissi sono dipinti di blu o di verde, mentre le cornici in pietra di bianco: sembra tutto restaurato di recente.
Le strade sono selciate elegantemente e impreziosite da lampioni a lanterna; si aprono qua e là in piccole piazze vuote, senza fontane né monumenti. Non c’è traccia di negozi o vetrine, ma nel mezzo trovo una chiesa con l’ormai immancabile nido di cicogna sul campanile.

Cammino con calma, perdendomi volontariamente e godendo di ogni cosa. Girato un angolo, scorgo un paio di pellegrini in bicicletta che ascoltano sorridenti un anziano del posto far loro da cicerone. Fuori da una casa c’è un vecchio furgoncino Volkswagen. Sul finire dell’abitato, un uomo mi saluta sorridente dall’alto di una scala; sta riverniciando le ante delle finestre.
Posso dire per certo di trovarmi nel paese più delizioso visto fin qui in Spagna, e non mi stupisce scoprire faccia parte di una rete che ne unisce altri altrettanto belli, sotto il nome eloquente di “Los pueblos mas bonitos de España”.

Torno infine a camminare tra terreni incolti dal fascino inaspettato: sono l’emblema della bellezza che la natura sa regalare anche nella più radicale povertà.
Le indicazioni per ricongiungermi al tracciato ufficiale non sono così visibili come mi aveva detto Miriam. Può anche darsi io abbia preso una svolta sbagliata, ma la vivo con gran rilassatezza. Do un’occhiata alla cartina e mi oriento un po’ a naso, ritrovando la giusta rotta senza grandi difficoltà.

Mentre sto per raggiungere Santa Catalina de Somoza mi accorgo di una cosa curiosa: qui i mojones includono l’elenco di tutti i paesini che si susseguono in questi chilometri. Forse sono solo un’invenzione di qualche assessore creativo, ma a me trasmettono un’idea molto forte: che questa catena di luoghi non sia solo una successione anonima, ma che invece si sentano legati l’un l’altro in modo particolare.

Non so se sia vero o meno, ma mi piace questo fantasticare. È un’esperienza che il Cammino alimenta moltissimo, e non è la stessa cosa di quando sul divano guardiamo il soffitto e ci culliamo tra mille visioni; sulla via le immagini nascono dai sensi, da quello che si incontra e si supera in continuazione. Basta uno sguardo, un contatto, il verso di un animale, e da quella particella di realtà la fantasia comincia le sue piroette.
Un’altra particolarità che ho notato, è che questi voli immaginari non durano mai troppo a lungo. Arriva sempre un nuovo frammento di vita presente a stuzzicarci, a riportarci tra passi e sudore, per poi lasciarci di nuovo prendere il volo.

Stando così le cose, è facile immaginare che i cari mojones – compagni fedeli del pellegrino – siano spesso trampolini di lancio per qualche pensiero acrobata, ma al medesimo tempo anche arpioni capaci di riportare il camminatore alla sua amatissima fatica.
Finora credo di averne già incontrate almeno cinque o sei varianti. Alcuni mi si sono impressi nella memoria, addirittura diventando cardini di ricordi inestimabili – penso a quello che segna l’entrata tanto sudata in Castilla o a quello sormontato da uno scarpone rotto nelle mesetas.

Non solo, grazie a loro ho provato spesso anche qualcosa che sembrerebbe paradossale per una persona che si sposta incessantemente da settimane: la strana sensazione di sentirmi a casa. Mi muovo ogni giorno attraverso luoghi sempre nuovi che calpesto per la prima e forse unica volta, sforzandomi di parlare lingue che non sono la mia, eppure lungo questa arteria spagnola lunga quasi mille chilometri non mi sto sentendo mai del tutto forestiero, mai davvero estraneo.
Certo, questa atmosfera è sostenuta innanzitutto da chi abita queste terre, persone che sposano la cultura dell’accoglienza in una maniera assolutamente non scontata. Eppure sono convinto che anche elementi inanimati come i cippi in pietra, i cartelli o le frecce gialle verniciate nei luoghi più improbabili rappresentino a loro volta testimonianza “viva” di quella stessa accoglienza. Per me non sono solo segni e oggetti, sono elementi amici, una presenza rassicurante e fondamentale.

Quando non ne trovo me ne accorgo alla svelta, mi mancano, e non solo perché non so più che svolta prendere, ma perché i luoghi che sto attraversando diventano d’improvviso meno miei. Quell’impressione di sentirmi “a casa” svanisce.
A casa… “Quale casa?”, mi domando. Ne ho cambiate tante negli anni. Cos’è casa ora? Il viaggio sembra riuscito a stravolgere in me anche quel concetto così radicato, facendo sì che in questo momento casa per me non sia più qualche metro quadro chiuso da mura e soffitti, ma la via stessa.

Non tutti siamo fatti per vivere “on the road”, ma cammini come questo offrono a chiunque la possibilità di fare una certa esperienza di nomadismo, di viandanza, nella quale alcune certezze delle nostre vite abituali mutano radicalmente, magari arrivando a metterci in discussione a fondo, ma senza minacciarci mai.
Il Cammino sa essere rassicurante e allo stesso tempo inquietante – nel senso che è capace di scuoterci, di destabilizzarci – ma sempre in una misura sostenibile e producente. Sta a ciascuno sfruttare come meglio può questo laboratorio esistenziale.

Ecco qua: un esempio lampante di come un semplice dettaglio possa proiettare spirito e pensiero in voli straordinari. Dopo questo doppio salto carpiato, però, l’avvicinarsi di Santa Catalina de Somoza mi riporta subito coi piedi per terra. Per entrare in paese c’è un bel vialetto pedonale delimitato da un muretto a secco. All’imbocco è stato posto un gran blocco di pietra, immagino per impedire l’ingresso delle auto. Sopra c’è inciso “Mateo 19: 16-30”, nient’altro: una manciata di lettere e numeri che forse viene snobbata dai più, ma mi piace pensare che tanti altri accettino la sfida e vadano a cercarsi online quei versetti. Il messaggio che credo centrale di quel brano di Vangelo è “Lascia tutto e seguimi”. Sono parole quasi elementari, ma che hanno la forza di un gran pugno nello stomaco. Mi fanno vibrare come una campana, e riprendo a camminare solo dopo averne lasciato esaurire l’effetto.

L’attraversamento del paese è rapido e non troppo entusiasmante, ma all’uscita trovo una piccola area verde ideale per fare una sosta. C’è qualche panchina e una croce di pietra con una conchiglia scolpita nel mezzo. Il sole splende su tutta la larghissima vallata sottostante, dove alcuni paesini sparsi punteggiano un’infinità di terreni incolti e verdeggianti. Non potevo trovare posto migliore, quindi mi scarico finalmente dello zaino, mi accomodo e sfodero la mia schiscèta, godendomi una pausa di pace beata.
Ricevo in dono anche un piacevole scambio di battute con un’anziana signora. Curva e smilza, col bastone da una parte e la badante dall’altra, sta tornando dalla sua passeggiata e sembra felice di salutare l’unico pellegrino nei paraggi. Mi chiede qualche informazione, poi mi augura buon viaggio e se ne va sorridente.

Ancora una volta, mi rimetto in moto con una gioia maggiore di quando mi ero fermato: potere terapeutico del Cammino!
La via segue tutta dritta, o poco ci manca, e allo sguardo continua ad essere concesso di spaziare per chilometri, esorcizzando totalmente noia e stanchezza.
Attraverso anche El Ganso, collezionando la vista dell’ennesimo campanile coronato da un nido di cicogna. Prima o poi giuro che mi informerò sul perché di questa cosa tanto bizzarra e pittoresca. Ma io dico, ma non saranno fastidiose quelle scampanate?! Mah!

Nonostante il percorso sembri svilupparsi tanto in piano, scopro che ho raggiunto i 1000 m di altitudine. L’ultima volta fu sui Montes de Oca, durante la tappa precedente a Burgos, e prima ancora solo sui Pirenei. Domani mattina arriverò alla famosa Cruz de Hierro, a circa 1500 m, poi l’ultima salita significativa resterà quella per O Cebreiro, che corrisponderà anche all’entrata in Galizia.
Wow! Che vertigini ogni volta che si sposta il pensiero dai cinquanta centimetri del proprio passo alle centinaia di chilometri percorsi o da percorrere! E quando si realizza di esserci riusciti con le proprie gambe, lo stupore letteralmente esplode. Sono emozioni spettacolari!

Tornando per un attimo ai mojones, quelli che sto incontrando ora hanno tutti un sacco di sassolini e pietruzze poggiati sopra. Chissà che qualche pellegrino non stia allenandosi al gran rito che aspetta anche me domani: quello di posare una pietra ai piedi della Croce di ferro. È un gesto che mi par di aver compreso simboleggi l’abbandono del proprio carico esistenziale, delle proprie pesantezze, in previsione della redenzione che si compirà di fronte all’Apostolo, inaugurazione di una nuova vita e di un nuovo sé.
Non so se queste pile di pietruzze siano qui per questo, ma sicuramente riescono a ricordarmi che siamo in tanti a seguir la stessa rotta, e il pensiero di esser parte di un flusso vitale così gremito mi lascia sempre un buon sapore.

Superato un breve tratto di boscaglia, si comincia poi a camminare lungo i bordi di una grandissima pineta. All’incrocio stradale che ne segna il termine, noto due cartelli: uno indica finalmente Rabanal del Camino, la meta che mi sono scelto per oggi, mentre l’altro accenna a un mirador – un punto panoramico – e a delle antiche miniere d’oro. Non mi è mai capitato di visitarne una, è qualcosa che associo solamente a qualche vecchia storia ambientata nel Far West. Sembra siano distanti solo 700 m, quindi ho tutto il tempo di togliermi anche questo sfizio fuori programma. Una volta sul posto, però, io coi miei occhi non vedo proprio nulla, né miniere né punti panoramici degni di esser chiamati tali. Per fortuna trovo almeno dei pannelli informativi ben fatti e mi lascio suggestionare dalle spiegazioni di come i Romani estraessero in quest’area grandissime quantità di oro, ovviamente con la loro immancabile ingegnosità.

Tornando sui miei passi, comincio a raccogliere alcuni sassolini da terra. Ne scelgo di un tipo particolare, perlacei, che trovo solo di quando in quando. Mi piacciono, e saranno quelli che lascerò domani. Non sono un amante dei riti collettivi, ma questa volta mi fa piacere poterlo vivere. Il motivo è che fin dalla partenza so che non depositerò lassù solo quello che pesa sul mio cuore, ma anche ciò che sta schiacciando anima e corpo di tante persone per me importanti. Le ho portate tutte fin qui giorno per giorno, e non solo con questo sasso oggi. Ovviamente non mi aspetto cieli squarciati o guarigioni improvvise, ma come sempre resto convinto che qualsiasi modo con cui si coltivano benevolenza ed empatia porterà al mondo un briciolo di cambiamento positivo, perlomeno attraverso un piccolo o grande rinnovamento dentro la persona che ha fatto quel tentativo.

Ritornato all’incrocio, l’ennesimo cippo indica che mancano poco più di 250 km a Santiago de Compostela. Ci siamo quasi: avanti tutta!
Seguo la via pellegrina che si allontana dalla strada asfaltata. Salgo per un sentiero godibilissimo, circondato da piante giovani. Snelle e pocho frondose, regalano il piacere di una camminata nel bosco ma senza privarmi dell’azzurro del cielo.
Alla mia destra, una rete segna il confine con un terreno privato, e tra le sue maglie sono incastrate moltissime coppie di ramoscelli assemblati a mò di mo’ croce, come già fu prima di León. Il ricordo di quella scena lugubre mi fa rabbrividire, ma devo ammettere che oggi il contesto e il clima completamente opposti rendono questi segni decisamente più gradevoli.

Il percorso mi riporta presto sulla carreggiata, ma il paesaggio mantiene almeno un suo fascino bucolico, grazie ad alcuni pascoli e un paio di fattorie. Lungo la salita incontro l’Ermita de la Vera Cruz, una piccola chiesa dall’aspetto sobrio ed elegante. Ci giro un po’ attorno per rifarmi gli occhi: sono incantano da tutte quelle pietre a vista perfettamente incastrate tra loro, e così anche dal panorama che si gode dalla terrazza naturale su cui è posta.

Rabanal del Camino è a un passo, ormai: posso già vedere il campanile che spunta aldilà delle ultime piante. Raggiante in volto, in pochi minuti arrivo nel cuore del piccolo borgo. Guardando le insegne, sembra che un po’ tutto qui ruoti intorno all’accoglienza pellegrina, peccato solo sia chiusa quasi ogni attività – inutile dire il perché, ormai.
Di fronte a una seconda chiesa – non ancora quella del campanile – noto un particolare mai visto prima: nell’unica piccola nicchia in mezzo alla facciata sta in bella mostra una statua con un uomo barbuto che porta in braccio un neonato. La mia sorpresa nasce dal riconoscere spontaneamente in quell’uomo la tipica rappresentazione di Gesù, e vederlo con in braccio sé stesso è davvero qualcosa di spiazzante. Chissà se c’ho visto giusto.
Promettendomi di scoprirlo più avanti, proseguo lungo la bella via centrale, raggiungendo l’ultima chiesa e svoltando poi tra le strade strette e nodose. Giungo infine a un grande piazzale sul quale si affacciano addirittura tre albergues – anche se oggi l’unico aperto è quello municipale.

Non trovo un vero ingresso per la registrazione, così apro la porta che mi pare con più probabilità essere quella giusta e….wow! È l’accesso di una camerata molto suggestiva e calorosa, con travi a vista e una stufa a legna accesa a pieno regime. Dentro c’è già qualche altro pellegrino, alcuni li conosco: c’è la coppietta vista l’ultima volta ad Hospital de Órbigo e il signore fiammingo incontrato a colazione a León. A questi si aggiunge un professore francese che si dimostra fin da subito molto gentile. Mi avvisano che per la registrazione arriverà una ragazza, ma se voglio sul tavolo c’è già il timbro per la credenziale.

Con calma, mi faccio una doccia e poi scambio due chiacchiere con gli altri ospiti davanti alla stufa. In questa splendida atmosfera, però, arriva come un fulmine a ciel sereno la comunicazione che la Castilla y León inasprirà i provvedimenti per il contenimento della pandemia. La notizia peggiore per noi è che sembra prevista anche la chiusura della hosteleria – esattamente quel settore che ci dá da dormire, per intenderci.
Negli articoli e nei documenti che troviamo sul web non si fa cenno al caso specifico del Cammino e di chi lo sta percorrendo, ma l’impressione è che questo nuovo provvedimento faccia decadere la nota ufficiale precedente, quella che garantiva ai pellegrini rimasti in questa regione di poter proseguire normalmente fino a uscirne.
La notizia ci destabilizza molto, ovviamente. Dove andremo a dormire?! Davvero finirà tutto così?

Tiriamo un sospiro di solievo quando ci rendiamo conto che i giorni concessi per l’uscita dalla Castilla y León saranno tre, cioè esattamente quelli che tutti avevamo già in programma per superare il confine. Una volta in Galizia, poi, pare ci siano margini maggiori per riuscire a proseguire i nostri rocamboleschi pellegrinaggi, anche se l’arrivo a Santiago è ancora appeso a un filo.
Malauguratamente però, una seconda lettura ci fa capire di esserci sbagliati: in realtà i giorni a disposizione saranno solo due! La notizia dà un colpo durissimo al nostro morale. Ci sentiamo inermi, incapaci di generare soluzioni se non quella di prendere ancora una volta un mezzo di trasporto – idea che ancora una volta mi produce una repulsione profonda. Teniamo le dita incrociate e continuiamo a sperare in qualche novità che ci permetta fortunosamente di continuare.

Per quanto mi riguarda, ho come la sensazione che una valanga mi sia tornata alle calcagna, e in effetti un po’ è così. È quella delle infezioni di Covid che aumentano incessantemente, e con quelle anche le chiusure, i confinamenti, le restrizioni.
Mi sento profondamente lucido su cosa conti davvero in questo momento storico: i mesi lavorati in casa di riposo durante la prima ondata – proprio lá dove il virus aveva attaccato con maggior violenza – non sono ricordi che possono essere messi da parte. Nonostante ciò, l’estate scorsa ho scelto comunque di fare una grande follia e realizzare questo sogno nomade.
Ora sono a pochi passi dalla meta, sono già fuggito diverse volte e da pochissimo ho riabbracciato questo viaggio con uno stile più pacificato e personale. Sentirmi travolto ancora da questa nube di terrore mi ferisce e mi agita.
L’immagine che già da settimane mi rimbomba in testa è quella del grande Nulla della Storia Infinita: una forza devastante, proprio sotto forma di un’immensa nube grigia che al suo passaggio fa sparire letteralmente ogni cosa. Non ho mai letto il libro, ma nel film il paladino ne fugge per compiere la sua missione.
Io non mi sento il paladino di nulla, ma in effetti sì, l’immagine calza alla perfezione con quello che sento.

Mentre mi adopero per fare tutte le valutazioni necessarie, consultare le mie fonti più affidabili e chiamare i primi albergues, noto che il signore più anziano – olandese se non ricordo male – si mette a cenare beatamente seduto al sole nel piazzale, seppur sia solo tardo pomeriggio. Essendo io uscito in cerca di rete, ci troviamo uno di fianco all’altro a dialogare su quello che sta succedendo.
Fin da subito è evidente che in questo momento abbiamo due stati d’animo opposti. Ad uno sguardo poco attento il mio interlocutore sembrerebbe totalmente sereno, tant’è che comincia ad invitarmi ripetutamente alla calma e a tentare di rassicurarmi. È un messaggio ragionevole il suo, non lo nego, eppure ho l’impressione che me lo stia dicendo soprattutto per rassicurare sé stesso, per convincersi che il disguido non esista.
Sospendo per un attimo questa mia sensazione e continuo il dialogo. Gli confesso senza vergogna la tensione che ho addosso, ma gli chiarisco anche che non sono fuorio controllo e sono molto lucido sulle alternative a mia disposizione. Ho solo bisogno di una ventina di minuti in cui lasciar vivere e sfogare il mio rammarico – questo, infatti, è quello che provo maggiormente, perché speravo proprio di godermi più a lungo e più serenamente la mia recuperata condizione solitaria.

Purtroppo, il messaggio sembra proprio non andare a segno, a tal punto che addirittura aumenta la sua insistenza: secondo lui io non dovrei essere minimamente nervoso. Come è facile immaginare, però, così facendo riesce a farmi esattamente l’effetto opposto. Oltretutto, la cosa che reputo ancor più paradossale è che cerchi di rassicurarmi senza informarsi di nulla, e glielo comunico, sperando che sia sufficiente a sancire le diverse esigenze e spegnere la sua vena redentrice.

La mia strategia si rivela fallimentare e, come una perversa partita a poker, subisco l’ennesimo rilancio: con un sorriso per niente convincente, mi spiega che lui è pronto ad accettare con pace interiore la possibilità che il suo cammino si interrompa.
Ancora una volta lo comprendo – o almeno così mi pare – ma se questo è il suo punto d’equilibrio non per questo dev’essere lo stesso anche per gli altri. Gli ribadisco che ho solo bisogno di dare respiro a questi miei sentimenti, e ripetermi banalmente di non provarli non è né necessario né gradito. Severamente, quindi, tento di chiudere il discorso invitandolo a non preoccuparsi ulteriormente per me.

È tutto inutile. Anzi, la situazione si fa addirittura più grottesca, perché ribatte nuovamente. Questa volta ci tiene ad informarmi di essere esperto nella gestione di persone fortemente agitate, in quanto per tutta la vita ha fatto il poliziotto ed era proprio lui che chiamavano nei casi più delicati.
La pressione inopportuna che mi sta facendo mi fa immaginare per un attimo quali casini abbia potuto combinare, ma mi impongo di essere ottimista. Ciò comunque non mi trattiene dal mantenere la mia linea dura e schietta: gli comunico che, fosse anche stato mio padre, non lo ascolterei comunque oltre, e concludo garantendogli che mi basterà meno di mezz’ora per metabolizzare la cosa. Una mezz’ora di pace, però, senza tutte le sue pressioni!

Rimane molto ferito dalle mie parole e si ritira con grande tristezza, dicendo che alla mia età è davvero un peccato che io mi innervosisca in quel modo.
Non sono fiero né dell’agitazione che mi è nata dentro né di avergli procurato questi sentimenti, ma al contempo sento come se ci sia stato qualcosa di inevitabile in quello che è successo. Se farmi calmare non era un modo per esorcizzare l’agitazione che lui stesso covava, forse era qualcosa che sentiva come un dovere, e aver fallito lo ha abbattuto. Ovviamente è solo una riflessione, so bene di non poterlo dire per certo.

Ad ogni modo la mia predizione si avvera e, digerita la cosa, torno perfettamente sereno. Ho partorito un piano folle, ma molto eccitante: camminerò 84 km in due giorni!
La gran parte del mio nervosismo era dovuta al fatto che ero felice di aver appena cambiato approccio con questo cammino tutto di corsa, di fuga. Nella mia testa io mi vedevo arrivare a Santiago con calma, lasciandomi trasportare da ogni nuova conoscenza o esperienza interessante che mi sarebbe capitata. E invece…boom! Ecco la realtà che vede e rilancia! Ma io non mi sono sentito fuorigioco nemmeno per un attimo, e mi sono solo legittimamente incazzato. Avevo chiaro fin dal primo minuto che una possibilità sarebbe stata quella della super tappa da quasi 50 km, e mentre il povero poliziotto spendeva tutte le sue buone intenzioni per cercare a tutti i costi di iniettarmi la pace dei sensi, io già stavo ragionando sulla fattibilità della cosa.

Non ho mai camminato tanto in un sol colpo in vita mia, anche se ci sono andato vicino con la tappa di Belorado. È anche vero, però, che sono in viaggio sulle mie gambe da due mesi e mezzo e sono molto più consapevole di quanto la mia mente e il mio corpo possano sopportare.
Il nervosismo era solo la materia grezza che stava lentamente tramutandosi in eccitazione per questa ennesima sfida, ora mi è davvero chiaro. Direi che la lezione è evidente: se mi ricapita di trovare un consolatore seriale, l’unica soluzione è mettermi a correre fino a seminarlo, o alla peggio fingere di svenire.

Risolto finalmente tutto quanto e presa la mia decisione, mi accorgo che il sole già non illumina più il piazzale e si comincia a sentir freddo. Decido quindi di tornare in camerata e – altra sorpresa – ecco arrivare Fred, il chitarrista francese.
Una volta sistematosi, ci spiega che purtroppo i suoi dolori sono peggiorati, ma questo non riesce comunque a togliergli il buon umore. Alla chiusura degli albergues quasi non ci pensa: “Sia quel che sia”, fa intendere sornione. È indubbiamente un personaggio dalle molte sfaccettature: il veleno non gli manca, ma è anche acuto e piacevolmente buffone quando vuole.

È ormai ora di cena, e per qualche motivo mi metto in testa di andare a mangiar fuori anche stasera, trovando buona compagnia nel professore francese.
Lungo il breve tragitto, facciamo una capatina in un minuscolo negozietto di alimentari dove non c’è solo del cibo, ma tutto quello che potrebbe mai servire a un pellegrino. Cosa mai scontata, oltretutto, la signora è anche incredibilmente gentile; sembra proprio che ami la cultura del Cammino. Usciamo quindi carichi di tutto il necessario, unito a un pizzico di allegria inaspettata.

Passando poi di fronte alla chiesa del Asunción – quella del campanile – la troviamo aperta e ci entriamo per dare un’occhiata. È molto più piccola di quello che pensavo. Ha il soffitto a botte e si presenta particolarmente spoglia, senza stucchi né vernici – solo pietra viva. C’è un unico semplicissimo crocifisso di legno, e sta appeso dietro all’altare. Nel complesso, questo luogo mi ricorda la versione tascabile della chiesa di Boscodon, visitata ormai quasi due mesi fa lungo la Via Domitia. Sembra passata una vita, che ricordi!

Ci intratteniamo solo un paio di minuti e poi entriamo nel ristorante dietro l’angolo. Ci siamo solo noi, e chi ci serve è piuttosto triste – cosa più che comprensibile visto che saranno costretti ancora una volta a chiudere i battenti.
Il professore mi spiega che domani mattina partirà molto presto – alle 6:30 – e non certo perché ha il mio stesso programma. In realtà lui è solo molto lento a camminare, mi confessa, ma allo stesso tempo non ama arrivare troppo tardi a fine tappa. È proprio vero che ogni Cammino è diverso.
La cena fila via liscia: abbiamo mangiato discretamente e sono riuscito anche a strappare un mezzo sorriso alla proprietaria, insistendo un po’ con i complimenti.

Quando torniamo in albergue è ancora presto. Il povero poliziotto dorme già, ma gli altri sono svegli vicino al bel fuoco della stufa. Fred finisce di mangiare i suoi noodles in scatola, proprio come la sera di Astorga, ma poi cede alle nostre insistenze e prende la chitarra. Suona e canta meravigliosamente, e ci sorprende tutti con canzoni bellissime e famose, perfette per una serata come questa. Con l’ultima riesce davvero a incantarmi: ci regala una bellissima rivisitazione di Hallelujah, ispirandosi alla famosa cover di Jeff Buckley ma mettendoci molto del suo. Quanto può fare la musica!

Prima di addormentarmi, purtroppo, ho ancora tempo per ricevere un’altra notizia inattesa, stavolta un po’ triste perché senza soluzione: Valerio, il pellegrino partito dall’Italia qualche settimana dopo di me – quello che aveva tentato di affrontare il Camino del Norte nonostante le restrizioni già scatenatisi – è stato bloccato insieme ai suoi compagni di viaggio e ora dovrà obbligatoriamente tornare in Italia. La sua voce nel messaggio che mi manda, però, è ancora ricca di energia e voglia di riprovarci quando le cose si saranno sistemate. Quanta forza scatenano questo percorso, quella meta! Sto collezionando una quantità di testimonianze davvero incredibile.

E finisce così anche questa giornata tanto speciale, anche se in fondo mi domando: ce n’è stata una che davvero non lo sia stata da quando sono partito?

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Castilla y Leòn, Spagna