(Foyer de la Maison des Œuvres Diocésaines)
32 km
La mattina faccio una bella colazione con Brigitte e parto già con l’aurora. Mirepoix, nella calma del mattino, sembra dare il suo meglio. I portici sono completamente sgombri e gli unici nei paraggi sembrano essere gli ambulanti che stanno montando le loro bancarelle per il mercatino delle pulci. Mentre me li lascio alle spalle, resto incantato dalla bellezza della chiesa, impreziosita ancor di più da un ottimo impianto di illuminazione esterna.
Abbandono quindi questa cittadina tanto curiosa e pittoresca, tornando ad attraversare il ponte sul L’Hers e imboccando per un primo tratto la stessa strada da cui sono arrivato ieri.
Ai lati, campi di girasoli ormai sfioriti sono sormontati da una leggera nebbia. Oltre le piante che delimitano ogni appezzamento spiccano i Pirenei, con la neve già colorata di rosa dal sole che sta per sorgere.
Perdo un po’ di tempo sbagliando sentiero, ma l’inconveniente mi permette di avere una buona visuale al momento dell’alba. Stamattina, però, c’è qualcosa di dissonante rispetto al solito: sono proprio le distese di girasoli appassiti, che sembra non si sposino per niente con la bellezza pacificante del momento. Plotoni di fusti scuri, tutti sormontati da quelle grandi teste morte che penzolano pesanti verso il terreno. I fasci di luce fanno quel che possono per impreziosire anche questo macabro spettacolo, ma ci riescono solo in parte.
È paradossale: finché conservano i loro colori, sono tra i fiori che meglio rappresentano la vitalità, quelli legati al sole più di qualsiasi altro. Oggi, invece, eccoli comporre una delle immagini più tetre che la natura mi abbia offerto, forse il più potente memento mori che mi sia trovato di fronte. Intuisco, d’altronde, sia importante fare tesoro anche di immagini simili, sia nel viaggio che nella vita.
Il lavoro che facevo non me l’ha mai risparmiato, ovviamente, ma per qualche motivo un campo di fiori appassiti all’alba è riuscito a scuotermi più di tante salme di cui mi sono preso cura. Chissà, forse è la forza del simbolo, della metafora, oppure il fatto che quando si è troppo vicini a qualcosa – come mi succedeva in casa di riposo – non si riesce bene a metterla a fuoco. Oppure, senza volerlo si impara a lasciarla sulla soglia dell’anima quando è il dolore è troppo, per non farsene travolgere. Probabilmente è tutto questo, e molto di più.
Torno a camminare con un pizzico in più di consapevolezza: non è scontata la vita che mi è data ora, e non è infinita. Rispettarla ed esserne grato: questi i capisaldi imprescindibili. Saperne godere e renderla generativa, invece, rappresentano le grandi speranze, la missione. Coraggio, quindi!
Seguendo il sentiero giusto, attraverso qualche nucleo abitato di stampo agricolo -probabilmente minuscole frazioni di Mirepoix – e dopo non molto comincio a salire tra i boschi, su e giù per le prime colline della giornata. Incontro diverse mandrie al pascolo: fortunate vacche rosse che si gustano buffet d’erba verdissima e oziano sotto il primo sole. Sono paesaggi rassicuranti, immersi in una luce splendida.
Faccio la prima pausa a Manses, un villaggio piccolo ma con una gran chiesa. La trovo chiusa, ma stavolta per lavori in corso. Mi fermo alla sua ombra a riposare un po’ e fare merenda. C’è della musica classica che esce da una finestra aperta sopra gli uffici comunali: un piccolo dettaglio capace di rendere memorabile un momento qualsiasi.
Riparto con buon piglio, rimanendo presto ammaliato da una vallata “da cartolina”. Mi ci sento immerso. Al mio lato, campi di girasoli ancora ben gialli e meno sciupati di quelli visti prima, oltre che prati degni di un giardino nobiliare. Di fronte a me, la valle si chiude con un altro fronte collinare, oltre il quale vegliano i Pirenei innevati – ora non più rosa, ma azzurri. In alto, infine, la luna sta appesa in mezzo al cielo terso, e sembra non avere troppa voglia di andare a riposare.
È ora di salire ancora; non molto, solo un centinaio di metri, e di nuovo attraverso un bosco. Arrivato in cima alla collina, le piante lasciano spazio e coronano una radura grande e concava. Sembra un’oasi sospesa, una gigantesca culla verde. Qui il sentiero si biforca e io ne seguo un ramo, facendo l’errore di non badare ai cartelli. Finisco così con l’addentrarmi tra alte conifere, in un silenzio da brividi. Dopo alcune centinaia di metri senza vedere altre indicazioni, capisco di aver sbagliato ancora strada e torno sui miei passi. Devo ammettere, però, che non mi dispiace rituffarmi nel bosco e sbucare una volta in più sul grande prato. Per gioco, mi diverto a scendere di corsa verso il suo centro e tentare di salire fino all’altro capo senza rallentare. Non vinco la scommessa, ma perlomeno mi godo qualche risata solitaria mentre tento di recuperare il fiato.
La mia camminata continua su un crinale coperto da un comodo tappeto di erba e da alberi ancora giovani. Quando è nuovamente tempo di scendere, il sentiero mi conduce al paesino di Teilhet, la cui chiesa è impreziosita da un grazioso sagrato alberato. È chiusa, nonostante sia l’orario usuale delle messe domenicali. Chissà, forse qui ci sono abitudini diverse anche su questo.
Un quarto d’ora dopo arrivo a Vals, dove c’è un’altra chiesa, stavolta molto particolare: sembra scolpita nella roccia, qualcosa di davvero affascinante. Ahimè – ebbene sì – anche questa è chiusa! Sembra davvero una maledizione.
Un abitante del piccolo borgo, riconoscendomi come pellegrino, si presenta e mostra rammarico per il fatto che io non possa visitare la chiesa, perché ne va orgoglioso. Io, sentendomi un po’ debole e affamato, mi permetto di deviare il discorso praticamente sul nascere, chiedendogli se ci sia un bar aperto. Mi spiega che c’è solo un ristorante – lì a pochi metri, tra l’altro. Provo a entrare, ma dicono che sono ancora chiusi e non possono servirmi nulla, nemmeno un caffè. Non mi pareva una richiesta impossibile, ma pazienza.
Vedendomi deluso, il gentile paesano sceglie di regalarmi qualche savoiardo e un paio di frutti. Lo ringrazio molto: il gesto stesso mi carica più di quello che mangio.
Poco dopo comincia a piovere, e decido di evitare il sentiero che mi porterebbe a salire e scendere l’ennesima collina, preferendo proseguire tra i campi. Passo dal paese di Font-Communal raggiungendo poi Saint-Amadou, e così facendo riesco a risparmiarmi qualche chilometro.
La pioggia mi dà un po’ di tregua, e ne approfitto per sedermi in una piazza a pranzare. Passano solo poche persone, ma girano lo sguardo altrove quando mi passano accanto. Non mi aspetto certo cerimonie, ma non mi abituo mai al rifiuto volontario perfino del contatto visivo. Riesco a comprenderlo nelle città, ma in un luogo desolato come questo mi ferisce sempre un po’. D’altronde, i piccoli nuclei abitati raramente offrono vie di mezzo: o un’accoglienza dal calore unico, o un’ostinata indifferenza. Bisogna accettarlo senza giudizio, e prendendo ciò che viene.
Meglio mi dia una mossa, però, perché mancano ancora più di due ore di cammino alla fine della tappa.
Attraverso altri due piccoli abitati, ritrovandomi poi su un sentiero che prima corre dritto tra alte file d’alberi e poi si snoda in una pianura quasi totalmente spoglia. La cosa che mi resta più impressa di questo tratto sono alcuni incroci. Sì, dei semplicissimi incroci! Come nel disegno di un bambino, qua e là due strette lingue d’asfalto senza alcun guardrail si attraversano l’un l’altra letteralmente in mezzo al niente, formando un quadro talmente asciutto da sembrare surreale – o metafisico, addirittura.
Per spezzare la noia inevitabile di questi chilometri, mi regalo una lunga e bella chiamata con Beppe. Era tanto che non ci sentivamo. Mi accorgo che è strano quell’accorciamento improvviso della distanza che ci divide, ma ne sorrido perché mi ricorda anche quanta ne ho percorsa.
Terminato l’asfalto, inizio a camminare lungo un sentiero erboso scandito da qualche albero, ma poi la traccia prosegue di nuovo nel mezzo di una piana brulla e ancor più vasta di quella precedente.
È un luogo speciale, fatto soltanto d’erba e cielo che riposano sotto lo sguardo dei Pirenei. Ancora una volta è tanto elementare da sembrarmi i disegni che si fanno all’asilo, e attraversarlo mi regala venti minuti di pace e isolamento totali.
Mentre iniziano gradualmente a tornare gli alberi e le case, pare quasi di riemergere alla realtà dopo un momento di trance. Incontro anche molte coppie a passeggio per il pomeriggio domenicale. La cosa strana è che quando ricomincia a piovere, solo pochi aprono l’ombrello. Sembrano non preoccuparsene, facendomi sentire un po’ ridicolo mentre sfodero di nuovo la mia ingombrante mantella. Un signore mi osserva sorridendo, dicendosi certo che smetterà in pochi minuti. Lo scroscio si rivela particolarmente forte, ma in effetti dura poco. Il vecchio oracolo aveva ragione, anche se credo comunque che ora sia fradicio, ma probabilmente ancora col sorriso in volto.
A partire da un grande sottopasso autostradale, lo scenario campestre scompare e lascia spazio alla periferia di Pamiers.
Un quarto d’ora dopo, sono seduto a riposare su una panchina a un passo dal centro, mentre aspetto che apra il supermercato. Sotto di me scorre quello che sembra essere un canale, ma in realtá è una piccola diramazione dell’Ariège, il fiume che dà il nome al dipartimento. Crea una specie di fossato attorno al nucleo storico della cittadina. Alcune villette si affacciano sul corso d’acqua, e ciascuna ha una passerella privata che dal giardino porta sul viale dove sto.
Una volta fatta scorta di cibo, raggiungo la gentilissima signora Cathy, con la quale ho potuto mettermi in contatto grazie all’aiuto di Brigitte. Mi mostra dove potrò dormire stanotte: un foyer per gruppi di giovani e pellegrini.
Quando se ne va, mi dedico ad esplorare meglio gli spazi dell’edificio. Il riscaldamento non funzione e fa molto freddo. Diversi indizi mi fanno capire che negli ultimi giorni c’è stata un’invasione di ragazzini: gli spazi non sono stati rimessi in ordine e nemmeno puliti. Comunque, so bene che devo solo ringraziare il cielo di aver trovato aiuto e calore da parte di volontari come Brigitte e Cathy, e che per un pellegrino come me questo posto resta una manna dal cielo. C’è addirittura una cucina sufficientemente attrezzata, e in un angolo della dispensa trovo anche diverse bottiglie aperte di vermouth. Stasera aperitivo!
Prima, però, mi ritaglio del tempo per visitare velocemente il centro storico. Non mi fa impazzire, ma c’è un certo viavai. Arrivo all’enorme chiesa, affascinante ma chiusa, e incrocio qualche altro edificio non male. Nonostante ciò, rimango titubante su questa cittadina. È qualcosa di istintivo, forse anche perché ci sono parecchie facce losche, giovanotti dall’aria inutilmente sbruffona, che sembrano presidiare alcuni angoli del quartiere. Niente di particolare, ma semplicemente non incontravo gente simile da settimane e mi fa sentire un po’ a disagio. Infine, torno nella casa gelida e mi chiudo in cucina, sperando si crei un po’ di tepore mentre preparo la cena.
Non sempre è piacevole rimanere da soli quando si alloggia in un centro urbano. Sarebbe stato bello se madame Cathy fosse passata a far due chiacchiere. Capisco non sia dovuto, ma è un pensiero spontaneo di questo momento.
Una volta mangiato e bevuto, lavo i piatti e scaldo un po’ d’acqua per una tisana. Prima di dormire voglio studiare un po’ le prossime tappe.