(Hostal La Gallega)
52km
È certo, questo viaggio lo ricorderò per mille cose ma non per le belle dormite.
Sono le cinque passate, ed eccomi qui: sveglissimo e già mezzo malandato. La cosa più saggia sarebbe accettare le pessima nottata e alzarsi, ma come al solito rimango sotto le lenzuola a rigirarmi a oltranza, con la patetica illusione di potermi riaddormentare.
Nel frattempo si sveglia anche il professore francese e inizia a prepararsi nella penombra della camerata. È silenzioso come un ladro, incredibile quanto poco rumore riesca a fare! Lo saluto con un bisbiglio mentre passa di fianco al mio letto prima di uscire.
Mi ci vuole più di un’ora per trovare la forza di volontà, ma alla fine anch’io apro la zip del sacco a pelo. Grazie al cielo la stufa ha fatto il suo dovere e la stanza non è poi troppo fredda. Tento di prepararmi con la stessa grazia felina del prof, ma con risultati imbarazzanti e rumori da incubo; per fortuna gli altri sembrano dormire forte. Praticamente al buio, riesco addirittura a preparare il mio solito caffellatte freddo con pane, burro e marmellata: soddisfazioni da principiante della vita nomade.
Fuori, alla mia partenza, trovo un gran buio e due gradi sotto zero, tanto che solo indossando tre quarti dei vestiti che mi ero portato riesco a combattere la prima botta di freddo.
Torno davanti al ristorante, ultimo edificio del paese, e cammino per una buona mezz’ora tra strade e sentieri molto accessibili, proprio mentre la notte inizia a lasciar spazio all’aurora. Il buon passo e la salita mi aiutano a scaldarmi.
Alle mie spalle, lo spazio tra l’orizzonte e una striscia di nuvole lontane comincia a riempirsi di fuoco. Mi fermo per godermi la magia di quest’istante nei pressi di un lungo abbeveratoio. Da qui si riesce a vedere anche il campanile di Rabanal, in un perfetto controluce tra gli alberi. Tutto è calato in una calma eccezionale e resterei qui per un’altra mezz’ora, ma meglio mi metta in testa fin d’ora che oggi non posso concedermi lussi simili.
Appena ripartito, incontro anche il buon Salvadór mentre esce dalla selva. È raggiante, ma in verità la prima cosa che noto sono le borse sotto gli occhi. Come avevo intuito, ha passato la notte in tenda proprio qui dietro. Non oso immaginare il freddo che ha patito, ma dice che se l’è cavata bene. Mi invita a proseguire, però, perché ha notato il mio passo e mi confessa che in questo momento non potrebbe starmi a fianco nemmeno volendo. Temperature e ambienti come questi, in effetti, sono quelli in cui mi sento più a mio agio, e la fatica sembra accumularsi molto meno. Ci salutiamo augurandoci ogni bene.
Poco dopo trovo davanti a me anche due escursionisti spagnoli di mezza età; ci scambio giusto due battute, e poi anche loro si lasciano superare. Prometto a me stesso che adesso tirerò dritto almeno per un’ora, ma dopo qualche minuto eccomi di nuovo impalato a fissare alcune piante che si stanno colorando di una luce rossa, quasi fluorescente. Ho già vissuto una scena simile in Provenza, la mattina in cui partii dall’abbazia di Ganagobie. Fu una delle albe più belle di questo viaggio, e oggi sembra non essere da meno.
Non sto più nella pelle, sono come un bambino la mattina di Natale, faccio ancora due passi e mi volto a ricevere tutto quello che il sole sa dare al mondo in questi momenti sacri. Non la smetterò mai di dirlo: non c’è niente di più simile a un bacio! Peccato solo che la vista non sia ancora delle migliori. In questi momenti vorrei sempre la perfezione, ma qualche volta devo ammettere di averla trovata. Continuo la mia salita voltandomi un istante ogni decina di metri. Anche il sole continua la sua, ed è come una divertente rincorsa reciproca.
Già prima di arrivare a Foncebadon, la vallata comincia a mostrare la sua ampiezza e la sua profondità. Raggiunto questo secondo paesino tutto dedicato al Cammino, resto un po’ deluso perché avevo ascoltato bei racconti e ottime impressioni a riguardo. Nonostante qualcosa di molto caratteristico e il panorama mozzafiato, c’è tanta desolazione e molte piccole aree lievemente degradate che stridono molto alla vista. Uscendone, supero anche il professore francese, che in effetti ha un passo davvero affaticato e decide anche di fermarsi a fare uno spuntino.
Poco oltre, la vista di alcune mucche al pascolo mi tocca il cuore. Sono giovani e rosse, sparse in un recinto ampissimo. Per un attimo mi fanno tornare in Francia, proprio come i tetti a lose appena visti nel piccolo villaggio.
Lungo il versante spoglio e verde, la strada non smette di salire e la vista della vallata migliora ad ogni passo. In cielo si è creato uno strano gioco di controluce, con il sole che ora sta nascosto dietro la sottile striscia di nuvole parallela all’orizzonte.
Dopo qualche minuto di contemplazione e fotografie, giro le spalle a tanta maestosità e mi concentro sul capire dove si trovi la tanto attesa Cruz de Hierro.
Strano a dirsi, ma la raggiungo senza troppa suspense. La conformazione della via e le proporzioni del luogo, infatti, non alimentano particolarmente l’attesa. Tra l’altro è anche piccolissima! Sta in cima ad un palo di legno molto alto, piantato nel grande cono di pietre lasciate da chissà quanti pellegrini. L’asta è carica di piccoli oggetti o immagini, affissi per testimonianza del proprio passaggio o in sostituzione di un più tradizionale sassolino.
Mi tolgo lo zaino e salgo sulla pila. Non c’è nessun’altro, e mi sento a mio agio. È sempre bello che in cima a una salita ci sia qualcosa che renda unico quel punto. Per i lunghi cammini come questo, in fondo, vale un po’ lo stesso: i luoghi memorabili sono fondamentali, scandiscono l’esperienza, sia fisicamente che simbolicamente.
Non so quanto tempo sia passato da quando ho iniziato a stringere il mio sasso nella mano, ma ora è venuto il momento di lasciarlo. Lo appoggio in disparte, in una posizione anonima. Non riesco a vivere come avrei bisogno questo gesto. I pesi che porto sul cuore sono tanti, e anche se sono arrivato fino a qui, anche se è sempre più vicina la realizzazione di questo sogno pieno di fatica e meraviglia, qualcosa mi impedisce ancora di sentirmi sgravato.
Affido tutto alla semplicità di questo rito e al potere simbolico che trattiene e sprigiona; è il meglio che possa fare. Per un attimo accarezzo la speranza che un soffio di liberazione venga a farmi rinascere, ma allo stesso tempo mi sorge anche un dubbio: e se quel soffio mi avesse già fatto visita il giorno in cui mi sono convinto a partire? Accompagno questo pensiero a sedersi sulla mia spalla, e gli chiedo di restare a farmi compagnia.
È arrivato il momento di lasciare anche le altre pietre che ho raccolto. Dietro a ognuna ci sono persone e legami che sento vivi e pulsanti dentro di me, ci sono le loro croci più grandi. È un gesto a cui do forma con lentezza, ma senza ostentazione. Lo vivo con serena sincerità: per ogni piccolo sasso lascio che un volto si faccia nitido davanti a me.
Ovviamente non accade nulla di strano. L’unica eccezionalità sta in questo tempo dedicato a desiderare così intensamente il bene di qualcun altro. Forse anche averlo fatto all’interno di un lunghissimo pellegrinaggio conta qualcosa, chissà. Io ci spero.
Rimane solo un’ultima cosa da fare ora. Dalla tasca sfilo un braccialetto, lo apro e lo chiudo attorno a una cordicella già appesa al palo. È il ricordo di Stefano, una delle anime luminose a cui sto dedicando i miei passi e alle quali chiedo tutte le mattine il dono che loro avevano in vita, quello della gioia e della gratitudine. Avevo promesso a qualcuno che lo avrei portato con me; così ho fatto, e sento che questo è il posto giusto per salutarlo.
Quando scendo, la sagoma del professore spunta dalla curva alle mie spalle. Gli sorrido e riprendo il cammino, lasciandolo godere di quell’altare come ho appena potuto fare io.
Ogni cosa è cosparsa di brina. È la prima volta che la incontro in questi mesi, e come ogni novità ricevuta in dono dal Cammino, mi gusto la piccola bugia esclusivamente per me. Tutt’intorno vedo solo altre montagne: alcuni versanti sono ricoperti di bosco – qualcosa di simile a una gran pelliccia marrone – altri invece sono nudi e imbiancati, con qualche bestia a pascolare.
Presso la minuscola Manjarin, mi imbatto in un grumo di cartelli colorati, posto fuori da una specie di anacronistico presidio templare. Ognuno ha inciso il nome di un luogo del mondo e la distanza che lo separa da qui. Il borgo sembra composto semplicemente da una manciata di casette, mentre dal lato opposto della strada restano alcuni ruderi di abitazioni più antiche. Supero tutto sbrigativamente, come sempre poco attratto dalle rievocazioni dell’ordine templare, e spesso perfino dalle tracce che ha lasciato. Può suonare strano e insapettato, ma capire di essere istintivamente disinteressato a qualcosa mi reagala un senso di leggerezza che provo molto raramente, un sollievo straordinario.
Continuo lungo un tratto quasi in cresta, senza alberi attorno. Arrivato al culmine, mi godo per un attimo il panorama sulla valle. Mi aspettano ancora un’infinità di chilometri, ma mi sento pronto. La visuale si fa più ampia man mano avanzo, e mi sforzo di capire dove stia Molinaseca – la metà esatta del mio percorso di oggi.
A quasi tre ore dalla partenza, arriva quindi il momento di scendere. Seguo le indicazioni e imbocco il sentiero che si snoda poco distante dalla carreggiata tutta tornanti. Purtroppo è ripido e sassoso: rischio in continuazione di slogarmi le caviglie, ma mi ostino a non cedere al richiamo dell’asfalto.
Con l’arrivo a El Acebo, dovrei essere ormai entrato nel Bierzo, l’ultima comarca della Castilla y León. Fuori da un piccolo albergo con cucina, il proprietario e il cuoco stanno fumando una sigaretta. Il primo mi saluta con sospetta euforia, mentre l’altro resta zitto, con un’espressione gelida e inquietante. Mi sento nei panni di Pinocchio quando incontra il gatto e la volpe, ma ho una voglia matta di bere un caffè. Lascio quindi che il proprietario esaurisca i suoi saluti esageratamente effervescenti e poi tento di entrare, ma lui mi trattiene con fare sornione e comincia a chiedermi informazioni: da dove vengo, quanti pellegrini c’erano a Rabanal, quanti altri stavano dietro di noi, e così via. Credo voglia solo capire quanto gli convenga stare aperto in quest’ultimo giorno prima del confinamento, non lo posso biasimare. In nome di un po’ di caffeina, cerco di rispondere con garbo alla mitragliata di quesiti, fino a che finalmente riesco a chiedere se sia possibile…
”Pranzare? Certo, abbiamo un buonissimo menù del Pellegrino!”
“No, grazie…è ancora troppo presto per mangiare, e comunque ho già un panino con me. Vorrei solo un caffè”.
A questa risposta, la sua espressione di ostentata allegria tradisce un po’ di frustrazione. Credo mi manderebbe volentieri a quel paese, ma riesce a fare uno sforzo e invitarmi comunque ad entrare – sempre sotto gli occhi da killer del cuoco muto.
Mentre fa scaldare la macchina, mi stordisce con mille chiacchiere riguardo alla bassa qualità degli espressi in Spagna – “Soprattutto per voi italiani!” – ma si dice certo che il suo mi piacerà moltissimo, e bla bla bla. Io sorrido con qualche sforzo, perché ormai non ho altra voglia che berlo in un sol sorso e andarmene. Prima che ci riesca, però, mi offre zucchero e, scoprendo che non ne uso, riparte con altre mille considerazioni di cui avrei fatto volentieri a meno.
Chiedo quanto gli debba, ma non mi dà subito risposta. Devo ancora sopportare gli inviti a guardarmi intorno, se per caso ci sia altro che mi possa servire: “Una banana? Un mandarino? Delle patatine?”. Non vedo l’ora di andarmene, ma cedo all’acquisto di una busta di frutta secca; non tanto perché mi abbia convinto lui, né la fame, ma sempre per la presenza silenziosa del cuoco ancora di fianco alla porta, con le braccia conserte e con lo sguardo fisso su di me. Finalmente posso salutare e filarmela a passo spedito. Che situazione!
Il resto del paesino – piccolo e sviluppato lungo un’unica via – mi aiuta a ritrovare la giusta pace. Non è niente male, infatti: tutto pietre e balconi in legno.
Dopo altri tre quarti d’ora di discesa, incontro quello successivo – Riego de Ambros -altrettanto pittoresco. Stavolta però non vengo calamitato da nessuno, e lo attraverso dritto per dritto. Il prossimo sarà Molinaseca, a valle, ma prima ci sono ancora una manciata di chilometri lungo sentieri sempre più lontani dalla strada.
Ritrovo anche parecchi alberi, tra i quali ne scovo uno in particolare, in fondo a un praticello laterale. Ha una forma molto insolita e mi colpisce come provenisse da una fiaba: sembra tanto il gobbo di Notre-Dame degli alberi, non scherzo. Alla base è tozzo in maniera impressionante: sono certo che sia l’albero dal tronco più largo che ho incontrato in Spaga. Compete per diametro con quelli visti a Bagnères-de-Bigorre, ma per forma è l’esatto opposto.
Mi ci avvicino. Ha una specie di aura propria. Per qualche momento mi appogio a braccia aperte sulla sua corteccia. Era tanto che non mi capitava; d’altronde son cose che vengono spontanee, ed essere tornato da solo ha certamente influito.
Il sentiero sbuca infine sull’ultimo tratto di strada immediatamente prima di Molinaseca. Su e giù per questi monti, ho già camminato quasi 25 km oggi. Per molti – me compreso, se potessi – sarebbe già di per sé una tappa.
Il cielo è limpido e il sole spacca le pietre. L’orologio dice che è ora di pranzo: ogni cosa sta andando come avevo programmato. Tutto gongolante, passeggio lungo il marciapiede lastricato, godendomi lo spettacolo da cartolina: agli alberi colorati d’autunno, Molinaseca risponde coi suoi tetti grigi, con la gran chiesa che svetta su tutto quanto. Bellissimo l’antico ponte sul río Meruelo, anche se il fiume quest’oggi è ridotto a poca cosa. L’acqua però è limpida, e c’è tutta una sponda in selciato che scende dolcemente fino alla riva. Sembra una spiaggia, peraltro perfettamente soleggiata. In un istante mi è tutto chiaro: mi fermerò a pranzare qui.
Il posto è ideale anche per lasciare i piedi a mollo. L’acqua ovviamente è gelata, ma perfetta per togliere la fatica dei chilometri già percorsi e rinvigorire per quelli mancanti. Spero solo non mi crei problemi con la digestione.
Dopo mezz’ora il risultato è miracoloso! È stata la pausa migliore che potessi desiderare. È l’una quando ricomincio a camminare. Passo per la via centrale del paese, apprezzandone la bellezza ma senza soffermarmi. Supero l’ennesima statua dedicata al pellegrino e l’immancabile cruceiro, dopodiché mi lascio alle spalle anche questo storico borgo.
Mi ci vogliono circa quaranta minuti per raggiungere l’apice dell’ultima collina prima della discesa. Qui resto sorpreso davanti ai primi famosi vigneti del Bierzo: i colori delle foglie sulle viti sono letteralmente fiammeggianti e mi riportano indietro nel tempo di quasi due settimane, quando camminavo nel bel mezzo de La Rioja. In lontananza si riesce a veder il nucleo centrale di Ponferrada. Salta subito all’occhio la sua posizione strategica particolarmente favorevole: è posto tra due alture, rappresentando un’inevitabile via di passaggio per accedere alla grande conca che le sta oltre.
Il percorso che mi condurrà alla città non si sviluppa su una linea retta, ma seguendo una larga curva periferica, così come già fu per l’arrivo a Vercelli e quello a Mont-Dauphin. Superati i vigneti, gli scenari non si posson più dire superbi, ma vedere coi propri occhi una terra diversa dalla propria è comunque sempre un regalo della vita.
In terre anonime e meno memorabili come questa non va cercata la bellezza, sarebbe frustrante. Molto meglio lasciar prevalere la curiosità: così facendo ho scoperto che tutto può diventare in qualche misura interessante. Per riuscirci, rilasso lo sguardo e la mente, limitandomi a guardare e a stare in compagnia di ciò che vedo. Non sempre questo mi gratifica, ma è comunque il miglior approccio che ho sperimentato in situazioni come questa.
Per accedere al corpo più compatto della città devo superare il ponte Mascarón, sul río Boeza. Non so dire bene perché, ma mi aspettavo che da qui iniziasse una sorta di red carpet verso il centro storico di Ponferrada. Purtroppo scopro che non è così. Il percorso passa tra orti e case diroccate, per poi sbucare – finalmente – in una prima via improvvisamente curatissima: lastricato, case e palazzine tutte ben verniciate, balconi fioriti, lampioni a lanterna e così via. Immediatamente dopo, ci si affaccia su una prima bella chiesa, seguita dal simbolo più rappresentativo di questa città: il grande castello dei Templari.
Il progetto titanico di oggi non prevede soste turistiche. Chissà, forse sarebbe stata la volta buona perché mi ricredessi nei confronti del famoso ordine cavalleresco, ma non garantisco. Il bambino che c’è in me, infatti, sembra quasi indifferente anche a un luogo così grande e ben conservato.
Proseguo quindi la mia marcia, salendo fino a Plaza Virgen de la Encina. Da lì intravedo la torre dell’orologio, oltre la quale so esserci una seconda grande piazza, ma niente riesce ad attrarmi abbastanza. È insolito per me, ma questo approccio sta anche un po’ divertendomi.
Lasciato il nucleo storico, è tempo di scendere verso il secondo fiume di Ponferrada, il río Sil. Da qui, già non c’è più traccia di altre antichità – almeno così mi pare – e prevalgono scenari comunemente commerciali. Peccato, la città si estende ancora per chilometri e lo spicchio più prezioso è già alle mie spalle. Cerco almeno di approfittare del fatto di essere attorniato da negozi e mi compro una confezione di antinfiammatori – li acquisto solo per prudenza, perché quelli che avevo li ho lasciati tutti a Linda. In un supermercato faccio anche un po’ scorta di cibo e, già che ci sono, mi prendo pure un caffè al bar.
Mentre lo sta preparando, la signora al banco mi chiede da dove io provenga. Saputo che sono italiano, comincia a cantare a gran voce la più famosa canzone di Toto Cutugno. Noncurante del mio imbarazzo, continua senza sosta fin quando ho terminato il mio caffè. Che dire, anche questo è viaggiare.
Una volta ripreso il cammino, la strada mi conduce di fronte al Museo Nacional de la Energía, per poi risalire nel quartiere residenziale di Compostilla. È meno congestionato dei precedenti e più a misura d’uomo, ma molto datato – eccezion fatta per alcune ville particolarmente lussuose.
Il percorso ufficiale tra i confini di Ponferrada forse è stato studiato per offrire ai pellegrini una traversata quanto più gradevole possibile, ma confesso che c’è un po’ da preoccuparsi se questo è il meglio che possa dare la città.
Superata la periferia urbanizzata, il ritorno della campagna regala un po’ di sollievo alla vista. Il mio passaggio si alterna tra appezzamenti agricoli e piccole frazioni, iniziando da quella di Columbrianos, con la caratteristica iglesia de San Blas.
Proseguo così per diversi chilometri – ormai oggi ne ho già percorsi quasi quaranta! La stanchezza non manca, ma pensavo avrei sofferto di più. Sono le quattro del pomeriggio e sono passate otto ore e mezza dalla mia partenza: non potevo fare di meglio. Un mojon ha stampata la distanza mancante a Santiago: mi rimangono 203,9 km (anche i decimali adesso!).
Fuentesnuevas è l’ultima località sul mio percorso appartenente al municipio di Ponferrada. Anche qui è evidente che gli edifici sono tendenzialmente vecchi; l’impressione è che risalgano ad almeno tre, quattro decenni fa, in alcuni anche mezzo secolo. Sono rarissime quelle nuove o ristrutturate, me ne sto rendendo conto fin da quando ho lasciato Molinaseca. Mi domando cosa abbia rallentato lo sviluppo e il rinnovamento urbano in quest’area, ma non ho la risposta. Il bagaglio che porto via con me è composto proprio da queste impressioni e dalle domande che ne sono nate. Rimarranno ricordi “aperti”, diciamo così.
Ad un tratto, due adolescenti escono da un cortile poco avanti a me e cominciamo a camminare nella mia stessa direzione, così mi ritrovo involontariamente a seguirli. Siamo solo noi e mi sento davvero uno stalker. Mi metto in testa di superarli, ma è più dura del previsto e ci riesco solo dopo un chilometro. Tra l’altro, per non cascare in una fastidiosa alternanza, faccio di tutto per mantenere un passo molto sostenuto.
Non so proprio dire dove stia trovando l’energia anche per questo inutile allungo, eppure riesco a sostenerlo. Sono convinto che l’aver immerso i piedi nel fiume durante il pranzo sia stata una scelta perfetta, ma non può essere solo quello. Dopo undici settimane di cammino, sono certo che stia influendo anche il clima, l’assetto mentale con cui ho affrontato la tappa e come sto gestendo idratazione e alimentazione. Mi sento fiero di quello che sto riuscendo a fare, e le buone condizioni fisiche mi stanno permettendo anche di divertirmi mentre lo faccio.
Il percorso prosegue per ore nella sterminata campagna, tagliata dalla strada asfaltata su cui sto camminando. Terminate le varie frazioncine, arrivo al primo comune autonomo, Camponaraya, che non si discosta troppo dai nuclei abitati che l’hanno preceduto. Pensare di essermi lasciato definitivamente alle spalle Ponferrada mi dà un gran sollievo.
Faccio una meritatissima pausa su una panchina nei pressi della chiesa. La coppia di ragazzini che avevo seminato mi raggiunge, e il caso vuole che la loro destinazione sia una casa di amici proprio di fianco a dove mi sono seduto.
I minuti passano. Mancano ancora sei chilometri, non posso rischiare di raffreddarmi troppo. Gambe in spalla!
Appena fuori dal paese, supero una grande azienda vinicola con all’esterno un’improbabile grappolo scolpito. Da lì parte una salitella alberata che culmina in un cavalcavia autostradale. Giunto dall’altro lato, scopro con gioia che finalmente sto per tornare a immergermi tra meravigliose colline stracolme di vigneti. Alcuni splendono dei colori sgargianti dell’autunno e infuocano il paesaggio in maniera mozzafiato. Ho la sensazione di essere riemerso dopo una lunga apnea. Camminare in contesti simili è una benedizione per chiunque.
Dopo i primi saliscendi, un’altra sorpresa: in lontananza scorgo due viandanti coi loro grossi zaini colorati. Mi sforzo di capire se siano persone che già conosco, ma senza successo. Ancora una volta, incapace di sopportare il dubbio e il camminargli alle spalle, comincio una nuova rincorsa – non riesco a credere di avere ancora tutte queste energie in corpo!
Li raggiungo a ridosso di un boschetto di pioppi e – sorpresa! – uno dei due già l’avevo incontrato. Si chiama Alexandre, ed è uno dei ragazzi francesi che accompagnavano il vecchio Serge nelle mesetas. Aveva dormito di fianco a me a Hontanas, poi ci si era rivisti a Fromista, a Carrión de los Condes e forse anche a San Juan de Ortega.
Al vedermi, per fortuna, si mostra molto più solare ed estroverso rispetto alle volte passate. Con lui c’è una ragazza che invece non ho mai incontrato prima. Ci presentiamo: si chiama Aurora, ed è belga. Ahimè, l’impressione è che proprio non abbia voglia di intrusioni – il motivo non so dirlo. Forte dell’apertura del compagno, però, resto comunque a camminare al loro fianco. In fondo mancano solo tre chilometri al mio arrivo; mal che vada mi dovrà sopportare per una mezz’oretta o poco più.
Alexandre mi racconta a grandi linee come si sia diviso dall’amico che avevo visto con lui, e di come poi abbia incontrato Aurora. Riguardo a Serge, invece, mi spiega che ha preferito interrompere il cammino e tornare in Francia.
Stasera loro alloggeranno a Pieros, la località immediatamente dopo Cacabelos – quella dove invece ho prenotato. Staranno in un piccolo albergue che anch’io inizialemente avevo preso in considerazione, attratto dalla parvenza un po’ hippie. D’istinto, abbozzo l’idea di disdire la mia prenotazione e unirmi a loro, ma Aurora interviene subito e, pur in maniera molto discreta, fa capire che non ha piacere ad avermi tra i piedi.
Non me ne faccio un cruccio e ritiro io stesso l’idea. In ogni caso mi gusto la loro compagnia fino a destinazione, lasciandoli poi con i canonici auguri di buen camino.
Per oggi ho scelto un posto che si pubblicizza anche come pulperia, cioè come ristorante specializzato nel pulpo a la gallega, piatto tipico galiziano. Siamo ancora in Castilla y León, è vero, ma evidentemente questa tradizione gastronomica include anche il Bierzo. Certo, visto che il polpo è uno dei piatti più ambiti per i pellegrini sulla via di Santiago, potrebbe anche darsi sia solo una questione di mercato. Poco importa, qualcunque sia la verità io ho già l’acquolina in bocca pensando a quel premio succulento, coronamento ideale della riuscitissima maratona di oggi.
Purtroppo però qualcosa va storto: l’impatto con la proprietaria, infatti, spegne immediatamente i miei sogni gastronomici. Con aria cinica e irremovibile mi comunica che la cucina è chiusa, quindi niente polpo. Se è mia intenzione mangiare qui stasera, posso scegliere solo tra pasta precotta e bruschette.
Alle sue spalle, il locale ha metà della luci spente e due vecchi stanno seduti a un tavolo, stringendo il loro calice e borbottando su ogni cosa. Insomma, il clima è veramente triste, quindi decido che andrò a mangiar fuori.
Le domando se aspetta qualche altro pellegrino, con la speranza di poter condividere un po’ della mia gioia per la grande impresa. Fattasi ancora più scura in volto, mi risponde che no, sono solo io, e aggiunge pure che lei non ci guadagna praticamente niente ad avermi qui stanotte. Caspita, che accoglienza calororsa! Mi piacerebbe dirle che, se volesse, potrei sempre proseguire fino all’albergue di Pieros, ma evito di complicare ulteriormente le cose.
Mi mostra dove dormirò: una stanza da quattro tutta per me. Avrei preferito una camerata in compagnia, ma anche un po’ di pace non guasta. A memoria, questa è la prima notte che passo da solo da quando arrivai a Saint-Jean-Pied-de-Port. Che dire? Se così doveva essere, che così sia!
Mi sistemo con molta calma e regalo ai miei poveri piedi un meritatissimo massaggio fai-da-te. Per farlo uso un oggetto insolito, trovato per puro caso ai bordi della strada il terzo giorno di Francia. Ricordo esattamente anche il luogo: fu lungo una curva prima di Champcella. Si tratta di una pallina da golf e, per quanto forse possa parere strano, quando la vidi pensai subito che sarebbe stata ideale proprio per sciogliere la muscolatura dei piedi a fine tappa. Dopo la manipolazione, invece, uso dell’arnica gel, mia fedele compagnia fin dall’inizio del cammino. Arrivo a metterla anche due volte al giorno, giusto lá dove so di averne più bisogno, e sono convinto abbia sempre fatto il suo dovere – forse anche perché non mi sono mai aspettato miracoli.
Arrivata l’ora di uscire, comincio innanzitutto con una passeggiata improvvisata per il paesino. Non mi fa una buonissima impressione a dire il vero, e purtroppo non trovo nemmeno granché di aperto per la cena che tanto bramo.
Decido che non c’è momento migliore per affidarmi al Cammino, e così mi metto in testa di chiedere consiglio per strada al primo che passa. Il destino mi fa incrociare un tizio che sembra essere mio coetaneo. Gli domando per un posto dove si mangi bene e si spenda poco, ma prima mi chiede dove abbia scelto di alloggiare. Con una smorfia mi confessa che non potevo fare scelta peggiore, e che sono stato fortunato se stasera non hanno aperto la cucina. Mi consiglia poi un paio di alternative, e ci salutiamo cordialmente. Che dire? È proprio vero che basta chiedere.
Prima di andare a cena, scelgo di fare la mia solita tappa al supermercato, ma qui succede l’inaspettato: trovo in offerta alcuni prodotti da forno ad un prezzo stracciato e, anche se so che la qualità sarà scadente e che mi ero promesso un succoso pulpo per stasera, cedo alla golosità del momento e ripiego su un paio di gigantesche empanadas.
Una volta per strada, poi, contratto con me stesso sul da farsi (sono matto, lo so) e arrivo a un compromesso: una me la mangio subito – perché davvero non ce la faccio più – dopodiché mi trovo comunque un ristorantino e mi prendo un solo piatto, giusto per premiarmi.
Mentre sto sbranando lo snack in un vicolo, però, il destino fa sì che l’unica persona che passi sia proprio il tizio di prima. Rimane comprensibilmente un po’ perplesso nel vedere che ho rinunciato al ristorante e mi sono imboscato in quell’angolo buio. Spiegatogli il mio piano malandato, mi prende ancor più in simpatia e decide che stasera cenerò al locale del suo amico Santi. Il posto si chiama “El mono del camino” – “La scimmia del cammino” – e incredibilmente è proprio di fronte a dove alloggio.
Si rivela essere un luogo come non ne avevo mai visti prima: praticamente è un alto garage riadattato a fast food, molto grezzo ma originale. La cucina è ridotta al minimo e la dispensa non è nient’altro che una scaffalatura di metallo piena di prodotti precotti orientali. In cima, inaspettatamente, ci sono appese un sacco di magliette e felpe. Sono in vendita, ma posso solo immaginare quanto siano impregnate dei fumi – pur buoni – delle mille cotture. Al di là di tutto, però, mi ci sento a mio agio fin da subito.
Santi si rivela un po’ brusco all’inizio, ma poi si scioglie. Avrà almeno una decina d’anni più di me, porta un cappellino da baseball e una felpa col cappuccio. La ciliegina sulla torta è che il suo diminutivo sta per Santiago, una piccola coincidenza che mi fa sentire al posto giusto.
Come era chiaro, ama sperimentare ispirandosi alla cucina asiatica, che mi sembra di aver capito abbia conosciuto in un’esperienza in Korea. Mentre cucina, mi racconta un po’ di aneddoti curiosi riguardo alla sua vita e al Cammino. Alla fine mi serve un pasticcio che sa di piccante e poco più, ma non importa. Mi piace comunque la piega che ha preso la serata, e insieme ai due inediti compagni, brindo finalmente ai miei cinquanta chilometri.
Questa cifra altisonante, però, non è la sola da celebrare: oggi, infatti, ho raggiunto 80 giorni di cammino e ora sono a meno di 200 km dalla meta! Sono numeri che mi gonfiano di emozione, ma allo stesso tempo introducono anche qualche prima traccia di rammarico per un’avventura che, pur avendo ancora molto da regalarmi, sta avvicinandosi inevitabilmente alla sua conclusione.
Domani mi aspettano molti meno chilometri, ma da affrontare ci sarà l’ultima grande salita, quella che mi porterà a superare le porte della Galizia e arrivare alla famosa O Cebreiro.