(Albergue Municipal)
37km
Prima sveglia in solitaria da tempo immemore. Sorprendentemente, nonostante la maratona di ieri, i piedi sembrano stare abbastanza bene. A questo punto mi domando quanto riuscirei a camminare con uno zaino più leggero. Addirittura, per un istante mi immagino già a esplorare spicchi di mondo con questo passo. Alcuni ho scoperto che già lo fanno. Chissà!
Nella calma della stanza, mi regalo la mia colazione abituale, poi preparo tutto e mi metto in viaggio. Sono le 8 e in cielo non mancano delle grandi nuvole, ma qualche ritaglio di azzurro mi è sufficiente per partire pieno di slancio e ottimismo.
Uscito dal centro, attraverso il río Cúa e passo di fronte al Santuario de Quinta Angustia. Qualche guida lo cita e ieri avrei potuto visitarlo, ma non mi pento di aver dato un po’ di tregua ai piedi.
Lungo una strada in leggera salita, mi godo i paraggi stracolmi di vigne e uliveti. Raggiunta Pieros, constato quanto fosse vicino l’albergue a cui ho rinunciato ieri. Chissà se Alexandre e Aurora sono già partiti stamattina.
Poco dopo mi faccio ingolosire dalla variante su asfalto che mi risparmia la visita a Valtuille de Arriba. Sono consapevole che mi perderò un’immersione tra vigneti magnifici, ma ridurrò un po’ il chilometraggio, e oggi va bene così.
Incrocio un ragazzone con i dreadlocks che sta camminando in ciabatte nella direzione opposta alla mia. Non ha nulla con sé, quindi suppongo non sia un pellegrino. Quando mi vede, però, senza prima salutare né domandare nulla, mi rimprovera per essere rimasto lungo la strada e non aver seguito il percorso indicato. Ma guarda te! Ad ogni modo, io mi sento talmente a posto con la coscienza che gli rispondo solo con un sorriso sincero, lasciandolo piuttosto stranito.
La lingua d’asfalto prosegue assecondando le morbide onde delle colline. Forse come in nessun altro posto fin qui, i toni caldi dell’autunno si scatenano sulle foglie di ogni singola pianta. È un paesaggio capace di attrarre incredibilmente a sé, e attraversarlo regala grande gioia. Molto in lontananza, alla base di un pendío, vedo anche un agglomerato di case più grande di altri e mi convinco sia Villafranca del Bierzo, seppur con molti dubbi.
È già passata un’ora da quando ho iniziato a camminare in questo paradiso, e devo dire che aver scelto il percorso alternativo non è stata poi un’idea così malsana. Ad un tratto, però, un cippo mi indica che è tempo di ricollegarmi alla via originale. Ancora una volta ha stampata la distanza mancante a raggiungere Santiago, e credo che d’ora in poi sarà sempre così. Si potrebbe pensare sia piacevole restare aggiornati sui chilometri ancora da percorrere, ma per me ha anche un risvolto fastidioso: leggere in continuazione questi numeri, infatti, aumenta la tendenza a badare al chilometraggio – come se non bastasse quella che già ho per mio conto!
Per fortuna, però, il sentiero mi culla tra i pendii sinuosi di queste colline e ogni preoccupazione si dissolve alla svelta. La coloratissima parentesi tra i vigneti del Bierzo si conclude con la discesa d’asfalto che conduce alla tanto attesa Villafranca. Posta da tutt’altra parte rispetto a dove mi ero immaginato, è incastonata ai piedi dei alcuni monti oltre i quali comincia la Galizia, l’ultima regione che incontrerò nel mio pellegrinaggio.
L’impatto è davvero suggestivo: in cima ad un colle centrale, svetta la chiesa dedicata a San Francesco. Sembra una sentinella che vigila su tutto quanto le sta intorno, ed è il perno visivo del magnifico scenario che ho di fronte. Ne incontro subito un’altra, dall’aria molto antica: è dedicata al buon Santiago, ma sfortunatamente si accoda all’infinito elenco di portoni serrati incontrati finora.
Poco dopo ecco il Castello, tozzo e senza fronzoli. Da qui un inaspettato saliscendi mi conduce prima in Plaza Mayor e poi in un’altra area dall’aspetto più maestoso, con la chiesa di San Nicolas El Real, il giardino dell’Alameda e la collegiata di Santa Maria. È incredibile che una cittadina così piccola accolga una concentrazione tale di luoghi tanto sorprendenti! Sarebbe stata una meta di tappa perfetta, ma pazienza. Questa volta è andata così.
Prima del ponte medievale sul río Burbia, l’ennesima statua del pellegrino mi porge il saluto di Villafranca. Superate le ultime case sulla sponda opposta, infatti, il mio attraversamento mio malgrado già si conclude. La strada asfaltata va quindi immergendosi in una stretta valle verdeggiante, scavata dal río Valcarce, affluente del primo.
Purtroppo, però, l’armonia del paesaggio impatta presto in un ospite molto ingombrante: la sopraelevata Autovia Noroeste, che collega Madrid a La Coruña, un serpentone d’asfalto di cui dovrò iniziare a sopportare la presenza.
Il percorso per il camminatore consiste in una pista ben protetta che corre parallela alla statale. Quest’ultima si snoda in larghe curve, come se giocasse tra i piloni della sorella maggiore che incombe sopra la mia testa. Entrambe hanno gli stessi punti di partenza e di arrivo, ma per fortuna quella al mio fianco non è molto trafficata.
A un certo punto, supero una coppia di pellegrini francesi che ancora non avevo conosciuto. Mi salutano cordialmente, e io faccio altrettanto, ma stavolta non tento nemmeno di attaccar bottone; sto bene così.
La svolta per Pereje diventa una gradita interruzione alla monotonia. È un piccolo paesino senza troppi fronzoli, ma con il pregio di avere una preziosissima fontanella pubblica. Il tubo da cui dovrebbe sgorgare l’acqua, però, spunta direttamente da una parete di roccia, senza che si vedano rubinetti o pulsanti. Eppure la vasca di pietra dove va a riversarsi ha le pareti umide, il che conferma sia funzionante. Proprio non riesco a capire come attivarla: dopo qualche tentativo, ho l’impressione di essermi rincretinito. Com è possibile che non ci riesca? Intuisco di dover smantellare la forma mentis per cui una fontana pubblica funzioni sempre e solo con meccanismi tradizionali, e così mi viene il dubbio che forse qui si siano ingegnati con una soluzione innovativa. Così è, infatti: il pulsante per attivare il flusso d’acqua è di quelli da premere coi piedi, ma è mimetizzato a terra in maniera geniale, quasi perversa. L’idea è bizzarra, ma riesce a strapparmi un sorriso mentre riempio la borraccia.
Nel frattempo vengo raggiunto dalla coppia di prima. Stavolta mi presento, e regalo loro anche le brioche al cioccolato che mi sono avanzate. Ieri, infatti, avevo comprato una confezione famiglia ad un prezzo stracciato, ma stamattina ne ho già mangiate cinque, tra colazione e spuntini, e suppongo sia meglio non andare oltre. Con malcelato orgoglio, gli mostro anche l’ingegnoso meccanismo della fontana, ma senza riuscire a produrre la mia stessa sorpresa.
Può sembrar strano, ma per un attimo ho l’intuizione che questo microscopico episodio racconti qualcosa di molto ricorrente nella mia vita. Ad ogni modo, bevo un ultimo sorso d’acqua fresca e ritorno sulla pista di fianco alla statale.
Fin quasi dall’inizio del mio pellegrinaggio, spezzoni noiosi come questo mi spingono a trovar qualcosa per occupare il tempo, nella speranza di farlo scorrere un po’ più velocemente. Solitamente le soluzioni sono due.
Una è cominciare a camminare con una certa cadenza inventata da me: è un ritmo fatto di passi e mezzi passi che potrebbe sembrare assurdo, ma che in realtà nasce dalla necessità di variare il più possibile i punti di appoggio del piede, e ormai posso dire per certo che funziona ottimamente.
L’altra occupazione la coltivo quotidianamente, e risulta perfetta anche per questi momenti: si tratta di un pregare secondo un modo tutto mio, molto intimo. Eterno scettico, ma anche testardo credente nel profondo, negli anni passati ho scelto di approfondire almeno un po’ quale sia il senso e la forza della preghiera ripetitiva. Il risultato è che ho finito con l’abbracciare la struttura del rosario, ma ristrutturandolo profondamente.
Senza stare ad approfondire, quello che conta è che sia la strategia atletica sia quella spirituale riescono sempre nel loro obiettivo, rendendomi gratificanti anche le percorrenze più monotone.
Mentre sono immerso in queste pratiche, davanti a me spunta la sagoma di un nuovo pellegrino. Anche stavolta lo zaino e l’andatura non mi ricordano nessuno che io abbia già visto, e ormai si sa cosa mi piace fare in questi casi.
Cambiata la marcia, riesco a raggiungerlo in una decina di minuti. Arrivatogli a fianco, scopro sul suo volto un’espressione estremamente amichevole. Basta questo per convincermi a non superarlo e, al contrario, attaccarci bottone.
Si chiama Gregory, ed è francese. Dimostra circa 25-27 anni. Gli chiedo se gli possa far piacere camminare un po’ insieme, e accetta volentieri.
Mi racconta che ha iniziato il suo viaggio a piedi da qualche parte all’interno della Francia, e sorprendentemente scopriamo di aver condiviso alcune tappe. Addirittura a Pamiers ha soggiornato nello stesso posto dov’ero stato io. Ci scambiamo e confrontiamo alcuni ricordi di tratte comuni, e si emoziona molto vedendo le mie fotografie.
La vera straordinarietà di Gregory, però, sta nella scelta di vivere questa esperienza senza denaro. Non significa non ne usi, ma non ne ha portato con sé. È qualcosa che farà solo temporaneamente, un esperimento con un inizio e una fine, ma fin da subito mi convinco sia un gesto dal potenziale incredibile, sotto molti punti di vista.
Basa la sua sussistenza sulle offerte spontanee che riceve e sui ricavi della vendita di semplici braccialetti o portachiavi che produce egli stesso. La cosa più interessante, però, è che non li propone in maniera tradizionalmente commerciale – la mentalità è tutt’altra. Il suo non è un artigianato di valore; quello che lui cerca di innescare è il valore simbolico dello scambio. Alla maggioranza dei suoi acquirenti non interessa l’oggetto, ma il piacere stesso di sostenerlo nel suo sogno tanto azzardato, questa scommessa con la vita fatta basata su un estremo affidamento: “Molte persone, così facendo, sentono di entrare a far parte della mia avventura, e a quanto pare è qualcosa che li fa felici. Credo sia questo che comprino realmente”.
Ero già a conoscenza del fatto che qualcuno adottasse quest’approccio per vivere in maniera più radicale l’esperienza di pellegrinaggio, ma lui è il primo che incontro che lo sta effettivamente concretizzando.
Gli chiedo di farmi qualche esempio di come sia riuscito a barcamenarsi in questo modo durante i mesi passati. Molte storie che mi racconta sono ricche di solidarietà, di generosità e di accoglienza, ma non sono certo mancati i contrattempi, i rifiuti, i sacrifici, i momenti di sconforto: tutte difficoltà legate al vestire i panni di chi può quasi solo ricevere, ponendosi in dialogo con la vita a mani vuote.
Sta sperimentando sulla sua pelle un sovvertimento delle maggiori logiche che strutturano la nostra società, e mi dà la sensazione lo stia facendo con grande umiltà e sensibilità, cercando di accogliere a cuore aperto ogni lezione possibile.
Parla di tutto con un’enfasi misurata, e trasuda una gioia pacata; non si lamenta mai della fatica che gli sta costando, e mentre ripercorre quello che gli è capitato finora sembra che continui a trovarci cose nuove di cui essere grato. È di certo uno degli incontri più toccanti avuti fin qui.
C’è anche dell’altro. Gregory mi racconta che prima di partire non era credente, ma gli è successo qualcosa che lo ha stravolto. Vittima di un problema al ginocchio che stava sempre più compromettendo il suo viaggio, accettò di seguire alcune inaspettate indicazioni da parte di una sorta di guaritore, andando ad inginocchiarsi in una particolare chiesa. Con quel semplicissimo rito, mi confessa, il dolore che i farmaci non erano riusciti a curare passò rapidamente, già a partire dalle ore successive.
Accogliendo quell’esperienza come stava facendo con tutto il resto, iniziò ad aprirsi enormemente alla fede in Dio. “Signore, cosa posso fare per te oggi?”, questo è come Gregory comincia le sue giornate da allora. Alcune volte, senza intimorirsi e con totale affidamento, chiede invece qualcosa per sé, qualcosa di elementare, di cui però sente particolarmente bisogno, “…e ogni volta in qualche forma lo ottengo!”.
Ci tiene a farmi capire che non è il favore in sé che lo entusiasma, ma la sensazione di un dialogo reale. Tra gli esempi, fa rientrare addirittura anche me. Mi confessa, infatti, che proprio stamattina aveva chiesto qualcuno che gli facesse compagnia, una persona con cui oggi potesse confrontarsi.
So bene che queste parole, da sole, potrebbero non essere altro che una semplice dimostrazione di ingenua suggestione, o adirittura presupposti per un grossolano raggiro. Non posso avere la certezza di nulla, è vero, ma analizzo con cura tutti i dettagli non verbali che riesco a notare in lui e mi convinco definitivamente che sia una persona onesta e lucida.
Sconosciuti fino a poche ore prima, eccoci a condividere cose incredibilmente intime come se nulla fosse: una magia che si sta ripetendo incessantemente fin dalla mia partenza.
Arriviati a Trabadelo – il secondo paesino lungo questa statale – troviamo aperto il bar di un albergue. È già mezzogiorno, ma non abbiamo ancora così fame. Ci limitiamo a una pausa caffè, arricchita da qualche mio snack e dai fichi che lui ha raccolto il giorno prima. Ce la prendiamo con calma, guardando ancora qualche fotografia e ridendo parecchio.
Tornati in cammino, raggiungiamo dopo un’ora altri due piccoli nuclei abitati: prima La Portela de Valcarce, e poi Ambasmestas. Fuori da un bar, c’è la coppia incontrata stamattina che sta pranzando seduta a un tavolo, e in quelli vicini altre facce già viste; da come saluta, Gregory sembra conoscere tutti.
Lo avviso che ho fame anch’io, ma mi fermerò più avanti. Ho già con me il pranzo e non posso sedermi a consumarlo qui; cercherò il primo posto tranquillo lungo la strada. Mi risponde che anche lui ha del pane con sé, e gli fa piacere farmi compagnia. Troviamo un angolino perfetto pochi minuti dopo, tra un bar chiuso e un albergue dismesso.
Una volta accomodati in qualche modo, scopro che il mio compagno di viaggio ha sì del pane con sé, ma è un semplice tozzo non farcito. Dice che a lui può bastare, mostrandomi di nuovo il sacchetto di fichi trovati ieri, ma proprio non mi convince. Io ho ancora la seconda empanada gigante comprata a Cacabelos, e devo insistere perché lui accetti di condividerla. Cede solo quando gli assicuro che mangerò anche un po’ dei suoi fichi. Prima, però, va a rovistare tra qualche cespuglio. Dopo un paio di minuti torna inaspettatamente con un mazzo di menta fresca, che finiamo per abbinare in maniera un po’ bizzarra al nostro pasto.
Man mano che passano i minuti, nonostante la compagnia di questa splendida persona sia stata anche per me un dono enorme, mi accorgo che ancora una volta sta tornandomi il bisogno di proseguire da solo.
I motivi sono sempre diversi, ma so bene che in parte conta il passo dell’amico appena conosciuto. Le energie che ha a disposizione sono molte meno delle mie, e lo costringono a viaggiare più lentamente. Fra non molto, poi, inizierà la salita vera e propria e tutto si accentuerà.
Come se non bastasse, mi confessa anche di essere della stessa idea dei ragazzi visti prima, che preferirebbero non raggiungere per forza O Cebreiro quest’oggi. Le chiusure imposte dalla Castilla si attiveranno da qui a qualche ora, ma loro sembrano tutti convinti di riuscire comunque a trovare dove mangiare e dormire.
Quando comunico a Gregory la mia scelta, conferma tutto quello che mi ha trasmesso nelle ore prima e non mostra altro che benevolenza. Ci abbracciamo forte e ci lasciamo augurandoci l’un l’altro il meglio possibile
Tornato a confrontarmi da solo con la natura e la via da seguire, supero Vega de Valcarce e passo per l’ultima volta sotto l’autovía. Dopo tanti chilometri in sua compagnia, mi fa quasi effetto vederla allontanarsi fino a sparire.
Probabilmente è anche per questo che, a partire dal paesino dopo – Ruitelán – il letto della valle mi appare più largo. È anche occupato da pascoli verdissimi, in mezzo ai quali scorre il río Valcarce, il quale però è talmente esile che fatico molto a chiamarlo fiume.
In lontananza, sull’altra sponda, c’è un accrocchio di case: è Las Herrerías. Lo raggiungo e proseguo godendomi il resto della valle, che ora regala una bellezza ben più apprezzabile rispetto al principio.
La strada comincia a salire, e finalmente una freccia gialla mi fa imboccare un sentiero che va ad immergersi nel bosco. Qui faccio ben presto uno strano incontro: un ragazzo giovanissimo, dal viso e dai capelli d’angelo, sta fermo e tremolante in disparte. È vestito quasi fosse estate e non capisco se abbia freddo o sia spaventato per qualcosa. A quanto pare l’intuizione corretta è la seconda: mi spiega di avere appena vissuto un bruttissimo incontro con un cane slegato, che lo ha seguito e minacciato più volte; addirittura pare lo abbia anche morso, ma per fortuna in maniera lieve.
Gli chiedo come potrei essergli utile, se vuole che mi fermi con lui per un po’ fintanto che si tranquillizza, ma mi risponde che non c’è bisogno e che è sicuro gli basteranno pochi minuti per riprendersi. Lo penso anch’io, ma fatico a lasciarlo in queste condizioni. Non mi era mai capitato di incontrare qualcuno così spaventato, così gli ribadisco la mia offerta. Lui capisce l’onestà della mia premura, ma a sua volta replica la propria risposta, stavolta sorridendo un po’.
Non restandomi altro da fare, gli faccio quindi i miei auguri e torno subito a concentrarmi sul percorso. Il sentiero si impenna, portandomi presto 150 m più in su, in corrispondenza di una località chiamata La Faba. Una volta oltrepassata, le piante vanno via via diradandosi, lasciando la pista sempre più spoglia. Il panorama si spalanca e la cosa che mi colpisce ogni ora di più è la straordinaria dominanza di verde – solo il bianco del cielo gli si contrappone.
Sono immerso tra i monti, a un passo dal confine con la Galizia. Non riesco a vedere da dove sono arrivato di preciso, e nemmeno a capire dove diavolo sia O Cebreiro: sono in un nuovo pezzo di mondo diverso da qualsiasi altro incontrato fin qui, ed è bellissimo. Esserci da solo, poi, in contatto intimo con tutta questa natura, mi scatena riso e commozione contemporaneamente.
Sfioro infine Laguna, l’ultima località della Castilla y León, dopodichè il sentiero va appianandosi, rimanendo esposto sempre più. Incredibilmente, non mi sento nemmeno affaticato. Com’è possibile dopo tutti i chilometri che ho camminato?! Sto volando sulle ali di un entsiasmo incontenibile.
Proprio in questo stato d’animo, con mia grande sorpresa ecco anche spuntare il grande e coloratissimo mojon che sancisce il passaggio in Galizia! Non possono essere che urla di gioia, ormai. Le scateno senza alcun trattenimento nel grembo di queste fantastiche montagne, con la speranza che qualcuno da qualche parte mi senta e ci faccia una risata. Chissà quante migliaia di altre urla folli come queste hanno già riecheggiato in questa conca!
È un’emozione gigantesca, che non si fonda solo su questo traguardo, ma su tutti quelli che ho raggiunto per arrivare fin qui. Mi sento esplodere dentro un turbine di ricordi, un frullatore pieno di tutto quello che è successo tra quel 17 agosto e oggi. C’è anche un sottile e vivace senso di leggerezza, un sollievo fresco, vera allegria. Bravo Robi, e grazie Vita, mi stai donando privilegi grandissimi!
Figlio del mio tempo, infine, non rinuncio alle foto di rito. Le pubblicherò stasera per quel centinaio di amici e conoscenti che ci hanno preso gusto a seguirmi – e mai questa parola fu più appropriata.
E ora avanti, non è finita!
Il sentiero prosegue come una piacevolissima passeggiata, ed in meno di quindici minuti eccomi arrivato a O Cebreiro. Ora che sono qui, rido di me stesso e del mio senso dell’orientamento che oggi era proprio sottosopra per quante volte mi ha illuso di vedere in lontananza questo luogo.
Le costruzioni sono su un piano più alto rispetto a quello della strada e non capisco immediatamente che aspetto abbiano. Noto però che c’è una cima tondeggiante alla mia destra, coperta solo d’erba, e istintivamente la salgo per vedere da lì il mio primo panorama galiziano. Ancora una volta mi trovo davanti uno sterminato alternarsi di montagne completamente ricoperte di vegetazione.
Quasi come non avessi camminato, scendo poi sorridente e rilassato verso il paesino, che ora comincio a vedere meglio. Stavolta il colore in assoluto dominante è il grigio, che sembra davvero accomunare ogni cosa: dalle pietre usate per i muri, fino alle tegole e al selciato – non c’è molto altro, d’altronde.
Conto più o meno una ventina di edifici. I pochi alberi sono completamente spogli e, anche se tutto è curatissimo e molto caratteristico, il risultato è comunque piuttosto tetro. Per fortuna la mia immaginazione si diverte a riempirlo di un gran via vai di pellegrini contemporanei, proverbialmente coloratissimi, salvando l’euforia che già iniziava lievemente a smorzarsi.
Passando di fianco alla chiesa e trovandola aperta, ne approfitto immediatamente. L’interno è molto sobrio, il che mi fa sentire perfettamente a mio agio. Nonostante la presenza di una persona ad una sorta di reception, mi inginocchio e bacio il pavimento, come segno spontaneo ed universale di gratitudine. Il gesto colpisce molto l’involontario spettatore, che subito esce dalla sua postazione per accogliermi.
È un religioso, e mi propone un rito di benedizione che è autorizzato a svolgere anche senza essere sacerdote. Accetto con piacere, ripensando a quella ricevuta nella mia città il giorno della partenza.
Concluso il tutto, mi regala un piccolo sasso nero e lucido con verniciata sopra una freccia gialla. D’istinto penso sia un semplice souvenir del Cammino, ma in realtà c’è un motivo più grande percui proprio qui vengono offerti questi omaggi. Per spiegarmelo mi indica una tomba a pochi metri da noi: mi spiega che lì sta sepolto il sacerdote Elia Valiñas e che questa fu la sua parrocchia per lunghissimo tempo. Purtroppo però io non ho mai sentito quel nome prima d’ora, e resto a guardarlo con un’espressione interrogativa. Un po’ deluso, comincia quindi a raccontarmi che fu grazie all’iniziativa di questo prete che venne operata una prima fondamentale tracciatura di tutto il Camino Francés, e fu sempre sua l’idea di utilizzare le famose frecce gialle che poi ne sono diventate il simbolo. Scopro anche che svolse quel suo grandissimo lavoro proprio l’anno della mia nascita, giusto per elettrizzare ancora un po’ questa giornata già memorabile.
Percependomi attento e grato per benedizione, regalo e spiegazioni, mi porta anche davanti alla reliquia che dovrebbe testimoniare un miracolo eucaristico avvenuto in questa stessa chiesa nell’anno 1300. La storia è essenziale ed affascinante, e per un attimo provo ad immaginarmela totalmente reale. Chiaramente, se così fosse quel piccolo resto conservato gelosamente sarebbe intriso di potenza assoluta, ma purtroppo non riesco mai a credere davvero alle narrazioni associate alle reliquie. Ad ogni modo, mi trattengo dal manifestare la mia opinione e, dopo aver ascoltato tutto, non faccio altro che ritirarmi ringraziando.
A meno di duecento metri il paese già termina, e lo fa proprio con il grande albergue municipal. Vista la chiusura della Castilla y León, spero di trovare qualche comitiva di pellegrini, anche se sono al corrente che molti di quelli che mi sono lasciato alle spalle hanno deciso di non cedere all’allarmismo e continuare il loro Cammino quasi come se nulla fosse.
Se devo proprio essere sincero, però, la cosa che aspetto con ansia è scoprire se con il mio sprint ho raggiunto ancora Tiziano e Amedeo. Sorrido nel pensarci, tanto che anche alla reception la mia faccia stenta a tornar seria. La donna al banco, però, sembra sintonizzata su tutt’altra frequenza: trasmette talmente poca voglia di stare lì, che mi fa quasi sentir di troppo.
Mentre sbrigo le solite cose, sento qualcuno salire le scale di fianco. Mi giro e, d’improvviso, mi trovo davanti Amedeo. Lo sapevo!
Inutile negare che la situazione, inevitabilmente, porta con sé un sottile imbarazzo, ma prevale comunque il piacere di ritrovarsi. Qualunque sia la verita, mi godo con gusto abbracci e risate. Lo seguo poi al piano di sopra e, dopo pochi passi, riconosco in una delle brande il buon Tiziano. Senza pensarci un secondo, mi ci fiondo sopra e per un attimo lo scuoto con tutta la forza che ho, urlando qualche parola di gioia e sorpresa. Quando infine lo guardo meglio in volto, mi dà l’impressione di star vivendo emozioni contrastanti, ma d’altronde è più che comprensibile. Mi dice che anche a questo giro se l’era sentita che sarei arrivato fin qui per via della chiusura, e per la seconda volta ci ha azzeccato.
Con i due amici scambiamo qualche considerazione sulla situazione complessiva, regalandoci anche qualche risata al pensiero della gran corsa che ho fatto per arrivare qui stasera. I primi minuti dell’inaspettata rimpatriata sembrano scorrersene via lisci, e ringrazio il cielo anche di questo. Tenendo conto che siamo quasi solo noi nella camerata, non sarebbe stato il massimo se il nostro incontro fosse andato storto.
Quando scendo a farmi una doccia, ritrovo il ragazzo tremolante che ho incontrato prima della salita. È appena arrivato, e ne approfittiamo per presentarci, visto che oggi avevamo dimenticato di farlo. Il suo nome è Martin e deve avere poco più di vent’anni. Ora sta meglio, anche se si è preso davvero un bello spavento.
Entrambi in mutande, restiamo reciprocamente incuriositi dai tatuaggi dell’altro. Mi racconta che il suo se l’è fatto da sé perché quello è il suo lavoro. Ha uno stile assolutamente di nicchia: usa forme astratte e tetre, seppur con colori sgargianti. Trasmette una strana inquietudine, stridente se paragonata al suo viso angelico e al corpo glabro. Per vedere di più del suo lavoro, gli chiedo come si faccia chiamare su Instagram, trovando una prima conferma alle mie sensazioni: “Tendresse in Tenebris”, mi risponde.
Le sorprese però non sono finite. Facendo cenno alla tappa di oggi, scopro che Martin un paio di settimane addietro ha conosciuto Gregory, ma la cosa più stupefacente è che da allora anche lui sta sforzandosi di percorrere il Cammino senza denaro. Quello che aveva racimolato negli ultimi giorni l’ha usato per l’albergue, ma per la cena dice che si arrangerà con qualche avanzo rimastogli. L’impressione, però, è che abbia meno slancio rispetto al suo mentore, oltre al fatto di sembrare fisicamente più indebolito. Chiaramente sono curioso e anche un po’ in apprensione per lui. Forse da questi presupposti, mi nasce all’improvviso un’idea: gli propongo per domani di partire insieme, dopo una buona colazione offerta da me. Accetta di buon grado, cosa che non davo così per scontata. Rispetto alla cena, invece, mi dice che preferisce rimanere in camerata e addormentarsi il prima possibile.ossibile.
Per quanto mi riguarda, avrei ancora qualche scorta per stasera, ma l’entrata in Galizia merita una più degna celebrazione. Tra l’altro, non c’è nemmeno il rischio di perder tempo a decidere dove andare, infatti oggi a O Cebreiro è solo uno il ristorante aperto. Addirittura so già cosa mangiare, perché da qualche giorno ormai ho un’unica cosa in testa: assaggiare per la prima volta il pulpo a la gallega. Per la mia pancia pare non contare nulla il fatto che siamo vistosamente lontani dal mare e a 1300 m d’altitudine: ha cieca fiducia che lo troverò comunque sul menù. Tiziano e Amedeo sono assolutamente d’accordo, anche se mi svelano che loro si sono gà tolti la voglia l’altro ieri a pranzo, e proprio a Cacabelos, tra l’altro!
E così, ci copriamo per bene e scendiamo al ristorante. Consumato un ultrameritato aperitivo, ordiniamo quindi un’abbondante porzione di pulpo, che per fortuna nostra è pure squisito!
Le chiacchierate durante la cena sono a tratti meno sciolte che in passato, ma non abbastanza per impedirci di goderci al meglio il momento. Tutto si conclude poi con gli irrinunciabili brindisi di orujo, strozzati un po’ dal conto finale – a nostro dire troppo alto, ma purtroppo inappellabile. Nessun problema, comunque, non basta certo qualche spiccio per rovinare la gioia del grandissimo traguardo di oggi.
La Castilla y León è finalmente alle nostre spalle, e ora ci aspetta un’immersione nel verde strabordante della Galizia. Il sogno di arrivare a Santiago è ancora in balìa degli eventi, ma ogni giorno lo sentiamo sempre più vicino a realizzarsi.