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cammino di santiago - roberto pesenti

06/10 Le Mas-d’Azil – Saint-Lizier

(Gîte d’etape Halte Saint-Jacques)
27km

Stamattina mi sveglio con un’eccitazione molto particolare legata all’attraversamento della grande grotta. È l’ennesima esperienza inedita per me, e ha tutti i connotati per diventare memorabile.
Prima di lasciare l’ostello, però, l’ultima cosa su cui mi concentro è trovare un posto adatto per abbandonare qui le mie mini ghette. Le ho usate solamente una volta, in Italia, e lo ricordo perfettamente: fu la prima pioggia del mio cammino. L’accessorio non si dimostrò per nulla funzionale, e da allora mi promisi di liberarmene. Non volevo buttarle, però. Il chiodo fisso diventò subito lasciarle in qualche posto dove potessero essere raccolte da un altro pellegrino, con la speranza che quello le possa trovare più utili di quanto sia parso a me. Direi proprio che è arrivata l’occasione giusta.
È evidentemente una faccenda di poco conto, ma il fatto di essere in programma da così tanto tempo pare aver creato un’attesa sproporzionata: anche se non pesano nulla, una volta lasciate mi sembra che lo zaino pesi molto meno – probabilmente solo una simpatica suggestione da viandante esordiente.
Spento tutto, abbandono infine l’ostello, di cui conserverò davvero un bel ricordo.

Eccomi di nuovo tra le vie del paese. Prima di cena, ieri, avevo trovato il tempo di fare una passeggiata, percependo quasi immediatamente che questo luogo non mi affascinava solo per la sua bellezza. Ho avuto l’impressione emani un’energia propria, molto forte e particolare, e che qui si siano radunate persone che l’hanno riconosciuta e ci si sono stabilite. Parlo di un via vai di giovani e meno giovani fuori da un piccolo bar in piazza, e di altre viste a zonzo per le stesse vie che ho camminato: gente molto simile a quella incontrata nel campeggio a La-Motte-du-Caire, ma calata in un contesto più insolito. Descrivere queste perosne non mi è facile. Alternative, mi verrebbe da dire, con la sensazione di esser già giudicante e un po’ bigotto. Forse è un po’ così, perché nasconderlo? Conosco le mie piccole miserie, ma so anche che ho provato un senso di genuina curiosità, e di certo avrei tentato di attaccar bottone se non avessi avuto tutti quei problemi legati all’alloggio.

La sensazione di un luogo pregno di energie non scontate, però, è nata certamente anche da una lettura fatta ieri fuori dal Tempio. Qualcosa mi ha spinto a cercare informazioni sulla consolidata presenza protestante qui a Le Mas-d’Azil, scoprendo che questo paese fu teatro di tumultuose vicende storiche a riguardo. Pare sia stato un centro nodale per questa frangia di fedeli, e nel ‘700 ci furono scontri cruenti proprio qui. Da quello che ho letto si parla di un assedio di un mese, e con centinaia di morti, ma nel quale alla fine gli abitanti ebbero la meglio sull’esercito da cui erano stati attaccati. Probabilmente le mie percezioni energetiche non sono troppo affidabili e più che altro sono figlie di suggestioni, ma ciò non toglie che questo non è per nulla un villaggio qualsiasi.

Superate le ultime case, quando ormai sono ad un passo dall’imboccare la famosa svolta per la grotta, mi si affianca un’auto col finestrino abbassato e il guidatore mi chiama incredibilmente per nome, facendomi addirittura una domanda in spagnolo: “Roberto, peregrino! Y el desayuno?”. È il pastore! Gli sorrido, spiegandogli che avevo avvisato madame Ivonne che sarei partito troppo presto per approfittarne, ma probabilmente c’è stato un fraintendimento. Mi risponde allegramente che non c’è problema e augurandomi “Buen camino!”. Credo sia al massimo la terza volta che qualcuno usa questa precisa espressione per salutarmi, e fa sempre un gran bell’effetto! Saluto anch’io e lo lascio ripartire nel buio della fredda mattinata. Vedendolo fare immediatamente inversione di marcia, gesticolo dicendogli di fermarsi e abbassare di nuovo il finestrino; voglio chiedergli conferma di quello che in realtà ho già capito: è montato in macchina e venuto fino lì alle 7 della mattina solo per me. Incredibile! Lo ringrazio ancora, quasi commosso, e ci salutiamo definitivamente.

Pochi minuti dopo muovo i miei primi passi dentro la famosa grotta, camminando con un po’ di pericolo al lato della strada che davvero le passa dentro. Le luci sono poste in basso, a lato della carreggiata, illuminando così la bassa volta rocciosa in maniera particolarmente affascinante. Il fiume scorre a un livello inferiore e non lo vedo se non in un secondo momento, ma fin da subito posso sentire il fragore dell’acqua, amplificato da questa cassa di risonanza naturale.
La grotta non è dritta ma si snoda in almeno tre grandi curve. Dopo la prima, lo spazio interno si fa d’improvviso gigantesco, permettendomi di comprendere meglio l’unicità del luogo. Tra la strada e il fiume parte una moderna passerella pedonale, illuminata con faretti ben disposti. In un’enorme cavità sul lato opposto, quasi a sembrare incastonato nella roccia, sta l’ingresso all’area a pagamento. Immagino custodisca un piccolo museo e forse qualche angolo speciale, ma ovviamente è chiusa di prima mattina. Così come la passerella, la struttura ha un design moderno, che devo ammettere non stona affatto con l’atmosfera della grotta. Lo spazio è incredibilmente grande, ma la fascinazione maggiore nasce dal pensarlo vuoto e abitato da comunità preistoriche, come davvero fu. Da pelle d’oca!
Con viva eccitazione, raggiungo pian piano l’enorme uscita. Wow! Mai vista una cosa del genere. La vista dall’esterno su questo lato è bellissima, da lasciar senza fiato. Mi è già nata una gran voglia di visitare altri luoghi simili. Se non sbaglio, qui nel sud della Francia ce ne sono diversi, forse ancora più importanti. L’ennesimo buon motivo per tornare in futuro.

Proseguo a lato della strada per almeno un’ora. Corre in mezzo a un valletta piatta e disseminata di campi, con microscopici gruppi di case qua e là lungo la via. Sembra ci siano solo due posti dove potrei prendere uno snack e fare un po’ di scorta, uno fra poco e uno a Clermont, da dove poi comincerò a salire tra i colli. Sfortunatamente, il primo non ha ancora aperto e l’altro ha l’insegna ancora appesa, ma deve aver chiuso i battenti perché dentro è letteralmente vuoto. Non morirò per qualche ora di digiuno in più, ma psicologicamente è una vera frustrazione. Infatti, mi rendo conto più che mai di quanto i miei spuntini servano sia a darmi energia che a tenere alto il morale.

A metà della stessa strada incontro anche la chiesa di Raynaude, posta alla base della collina. Ha almeno due curiosità. La prima è che alle sue spalle, lungo il versante, s’inerpica una tortuosa via crucis scandita da cappelle appuntite e particolarmente grandi. È talmente scenografica da sembrare un presepe, seppur vagamente lugubre. La seconda è che all’imbocco della traversa che porta alla chiesa stanno ben due statue di Gesù: una ad un angolo e l’altra a quello opposto, una benedicente e l’altra morente in croce. È la prima volta in assoluto che vedo una così asciutta contrapposizione tra il Cristo vivo e quello morto, e mi accorgo di esserne affascinato. Forse è dovuto al fatto che, se un’immagine può avere la forza di un simbolo, due riescono già a diventare una storia. Chissà, è l’unica riflessione che riesco a fare.

Arrivato a Clermont, come previsto lascio la strada e comincio una salita, sempre asfaltata ma molto più stretta. Sembra destinata al passaggio di pochi mezzi. In cima a quei colli, infatti, trovo poi uno sparuto numero di ville agricole e fattorie, immerse tra grandi prati e alcuni pascoli recintati.
Il sole manca, il cielo sembra di cotone, ma i mille verdi della natura pacificano l’anima, puntellati quà e là dal biancore di qualche animale: mucca, asino o pecora che sia.
Cammino su e giù per circa 7 km, fino ad arrivare all’antica chiesa di Notre-Dame de Noguès, lassù in mezzo ai campi, diroccata e con un tetro cimitero accanto. Resta poco dell’edificio, quasi solamente un bel campanile esagonale in mattoni, ma il tutto conserva un gran fascino.
Sorpasso un altro piccolo colle, scendendo poi fino a Lescure, dove l’unica cosa degna di nota che incontro è una villa dal giardino meraviglioso, anche se a renderla unica è l’essere costruita a cavallo di un piccolo fiume. Forse era un mulino, chissà.

Da lì, poco dopo, i segnavia mi fanno salire per una viuzza in mezzo al verde, lungo la quale incrocio un cagnone che mi si avvicina in maniera particolarmente dolce. Alzando lo sguardo vedo arrivare con calma il suo padrone, accompagnato da un secondo cane, uguale al primo. Mi fa piacere poter familiarizzare anche con questi animali ogni tanto, visto che solitamente il mio rapporto con loro è pessimo in questo viaggio. Il motivo è che il viandante inevitabilmente è l’eterno estraneo, il fastidioso intruso da sommergere di latrati fino allo sfinimento. In fondo non fanno che il loro dovere, mi dico sempre, tentando così di sopportarli meglio.

L’uomo mi saluta con genuina cordialità e senza fretta, così approfitto per scambiare due parole mentre accarezzo i due grossi animali. Si chiama Olivier, è svizzero d’origine e mi si illuminano gli occhi scoprendo che nella vita fa il pittore. Se non sbaglio, è il terzo che incontro, dopo Petrus a Susa e il marito di Sylvie a Pepin. Senza contare Peter, conosciuto alla Maison Iris.
Lo ascolto con ammirazione, perché si occupa di espressionismo astratto – stile che amo molto. La cosa che mi lascia a bocca aperta, però, è che si procura lui stesso i pigmenti con i quali produce i propri colori, estraendoli direttamente in natura. Rimaniamo qualche minuto a parlarne, e grazie a questo incontro ritrovo un sacco di energie.

Proseguo poi la mia salita, sbucando in breve tempo su un viale alberato che taglia a metà una grandissima piantagione di pini, tutti di piccola o media taglia. È un luogo isolato, immerso tra le colline, dove il tempo sembra sospeso, forse per l’ordine perfetto con cui tutto è piantato.

All’ora di pranzo e mi fermo a mangiare le mie sardine e verdure in scatola su un muretto, nei pressi di un grande pascolo ovino. Alla ripartenza, noto che il recinto non è ben chiuso. Quando vedo le prime pecore uscirne mi nasce il piccolo istinto di intervenire in qualche modo – chissà come poi! – ma mi trattengo. Lo spettacolo delle bestie che mi camminano di fianco calme, libere e ruminanti è troppo bello. Escono una dopo l’altra, seguendo la capofila, che però non ha per niente l’aria di sapere dove stia andando.
In cima al pascolo, invece, un gruppo di almeno sei, sette caproni si sta scornando. Sembrano due bande di ragazzotti che si provocano fuori da un locale. Mi fermo qualche minuto ad osservare anche quelli, pensando a chi questo lo fa per lavoro, vuoi perché pastore o perché studioso. Quante vite possibili!
Il pensiero che mi nasce spontaneo da tanto tempo è che stare a contatto con la natura e gli animali regali uno sguardo privilegiato sull’esistenza, proprio perché ci si confronta con forme di vita diverse. Con una buona sensibilità, sono convinto che se ne possano trarre insegnamenti unici.

Mentre comincia a piovere io continuo lungo il sentiero, che sale dolcemente e mi fa passare tra campi di grano giallissimi: l’ultima volta che ho visto questo colore prevalere su tutti gli altri ero di fronte alle risaie prima di Arles. Sono già passate due settimane, e quante cose ho visto nel frattempo!
Immediatamente dopo, mi trovo a camminare attraverso la piccola e caratteristica cittadina di Montjoie-en-Couserans, che al centro ha la sua attrazione principale: l’antica chiesa di Notre-Dame-de-l’Assomption. La facciata è prolungata in altezza da una fortificazione, in un modo molto suggestivo. La differenza tra i due segmenti, infatti, è talmente netta da far sembrare che un castello sia atterrato sulla chiesa, quasi fosse un Tetris surreale. Mi stupisce anche la sproporzione tra l’imponenza dell’edificio e la piccola piazza antistante, racchiusa tra le case come un nido. Mai visto niente di simile.

Prima di andare oltre, mi rimane il dubbio di cosa significhi l’appellativo “de Couserans” all’interno del nome del paese. Parrebbe indichi quest’area territoriale, ma vado spesso in confusione con tutti i nomi che incontro, tra Regioni attuali e soppresse, dipartimenti, aree vitivinicole, aree di riferimento storico-culturale, prefetture, etc.
Perdo quindi qualche minuto sul web, trovando conferma che Couserans era una provincia storica della zona dei Pirenei francesi e prende il nome dal popolo che anticamente l’abitava: i Consoranni. Piccole cose, niente più che assaggi di un Paese, la Francia, dalla storia davvero ricchissima. Questo mi fa pensare spesso a Sara, che è archeologa e in Francia ci ha pure lavorato. Chissà come dev’essere interessante vivere l’esperienza di un cammino storico con quelle competenze. Mi diverto a immaginarla un po’ come Neo di Matrix, che vedeva la matrice dietro l’apparenza delle cose. Un giorno glielo dirò, sono sicuro che ci farà sopra una bella risata.

Continuando le mie ricerche, scopro anche che la cittadina dove dormirò stanotte – Saint-Lizier – era il centro principale di quest’area ed è stata anche sede vescovile per secoli. Si trova ormai ad un passo.
Quando ci arrivo, visito un po’ il centro della parte bassa, dove si trova l’antica cattedrale. Fortunatamente è aperta, così come anche il bellissimo chiostro alle sue spalle.
Concluso il piccolo tour, mi reco al vicino ufficio turistico, per far timbrare la credenziale e pagare il mio pernottamento. Qui, infatti, il Comune ha creato un ostello specificatamente per i pellegrini, che in francese viene definito gîte d’étape.
Chiedo anche se sia possibile visitare il palazzo vescovile, arroccato nella suggestiva parte alta della città, ma purtroppo le restrizioni legate al virus lo impediscono. Chissà quanto diverso sarebbe stato il viaggio senza questo genere di inconvenienti. Meglio non pensarci e godermi il privilegio di aver già potuto camminare tantissimo, senza problemi troppo grandi e – soprattutto – in salute.

Una volta conclusa l’accettazione, vengo accompagnato all’alloggio dalla giovane e gentile impiegata. Si trova proprio alle spalle dell’ufficio, innestato in un’ala di una grande dimora. L’entrata è molto suggestiva, con cespugli di lavanda, rose e un salice piangente.
L’interno, invece, mi fa l’effetto opposto. Può sembrare ridicolo, ma il motivo è che le pareti sono tutte dipinte di viola e rosa shocking. Non vorrei far torto a nessuno, ma mi sembra di stare nella casa di Barbie. Mi chiedo chi abbia fatto questa scelta tanto azzardata. Da buon italiano, però, mi dà una leggera consolazione la prova che anche i francesi possono – a volte – avere un pessimo gusto.

Mi do una sistemata ed esco per una gita obbligata al supermercato, che sta un chilometro fuori dal paese. Quando l’ho cercato sul web, ho scoperto che ha anche delle lavatrici e asciugatrici a gettone, per cui porto con me una bella borsa di panni sporchi, già tutti lavati al gîte per risparmiare il più possibile, e li metto a seccare mentre faccio la spesa.

Finito tutto, non mi rimane tempo per ulteriori passeggiate. Peccato, mi sarebbe piaciuto perdermi almeno un po’ tra le vie della parte alta di Saint-Lizier. Magari avrei trovato qualcosa di simile alla mia amata Città Alta, a Bergamo.
L’ennesima buona ragione per tornare, magari concentrandomi proprio sull’Ariège, che mi sta davvero incantando.

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Ariège, Francia, Occitania