(Albergue Pons Minea)
31km
Ecco la sveglia: l’ennesima di questo viaggio. Ormai sono più di ottanta i letti in cui ho dormito: niente male come primo pensiero della mattina. Con la fantasia mi sollevo sopra l’Europa e dal mio vecchio appartamento vedo germogliare una linea colorata che li unisce tutti. Si allunga seguendo il tracciato che ho percorso, arrivando fino a qui, ai miei piedi. Ne raccolgo il capo e me lo lego in vita: anche oggi è tempo di alzarsi e portarla ancora più in là.
La casa è avvolta nel silenzio, non c’è anima viva. Si sente solo il russare di Lidy, soffocato dalle quattro o cinque coperte sotto cui si è sepolta. Comincio a sospettare che il mio progetto di partire presto non sarà così facile da realizzare. Certo, sono libero di incamminarmi quando voglio, ma c’è una cosa che manca e a cui non vorrei rinunciare. Ieri, infatti, ho chiesto al buon Armiche un timbro per la mia credenziale, ma lui ha rilanciato proponendomi un’alternativa: un piccolo disegno di proprio pugno. Essendo stanco, però, ha aggiunto che ci avrebbe pensato stamattina, ed ora eccomi qui a contare i minuti.
In cucina non trovo niente per fare colazione, se non delle bustine di tè. Mi scoccia curiosare troppo perché sono convinto che nelle stanze si senta tutto. Il fatto è che ieri non ho potuto far scorta di nulla e ora ho una fame incredibile.
Purtroppo passa mezz’ora prima che si svegli qualcuno, e almeno altri quindici minuti prima di veder arrivare anche Armiche. Nel frattempo, in tavola non viene messo nulla, nemmeno un biscotto. Ho capito che oggi dovrò rassegnarmi a partire a stomaco vuoto. Perlomeno, a differenza degli scarabocchi dell’hostalero di Fromista, l‘alchimista galiziano mi disegna un alberello niente male. È il mio semaforo verde: ora posso finalmente partire.
Saluto tutti con gran calore, felicissimo di averli conosciuti. Ieri ho pensato diverse volte alla possibilità di fermarmi, proprio come Laissa e Camille, ma tante cose mi hanno fatto scegliere di proseguire. Chissà che in futuro i miei passi non mi riportino da queste parti, non penso sia poi così improbabile.
Il sole oggi è padrone assoluto del cielo, e il suo tepore è quanto di meglio possa desiderare. Gli scenari collinari sono incantevoli, soprattutto quando la strada o il sentiero sfuggono dall’ombra della boscaglia. Sono immerso in un mare verde, in cui gli alberi e i muretti a secco dividono geometricamente i pascoli; qua e là, alcune fattorie sparse e rari paeselli.
Attraversata Furela, mi perdo a scattare decine di fotografie e vengo raggiunto per un attimo da Alexandre e Aurora. Li saluto cordialmente, ma poi gli torno subito davanti, ladciandomeli presto alle spalle. Il fatto è che ho un bisogno viscerale di attraversare in piena solitudine questo paradiso, illudermi che il suo abbraccio inebriante sia per me soltanto: voglio esserne inglobato, diventarne parte. È come se i miei passi, il mio sguardo e le mie emozioni si trasformassero in tasselli necessari perché quest’armonia arrivi al proprio culmine. Qui ho la sensazione di non rappresentare alcuna minaccia per ciò che mi circonda, e a mia volta mi sento totalmente al sicuro. Per qualche istante percepisco che questo potrebbe essere il posto giusto per me – ma quante volte mi è già successo?
Raggiante, continuo a lasciarmi cullare dai ripetuti saliscendi fino alla lunga discesa verso Sarria. Piccole villette sparse si fanno sempre più frequenti, finché le palazzine sanciscono l’entrata ufficiale in città.
Essendo nell’ultimo tratto del Cammino, quello più battuto, la densità di strutture ricettive per pellegrini è molto più alta che altrove. Il pensiero però è uno solo ora: mettere qualcosa sotto i denti. Scovo subito una panetteria particolarmente invitante e comincio comprando una grande empanada, un cornetto e del pane che terrò per domani. Più avanti faccio poi scorta di frutta, e infine mi fermo su una panchina a godermi i primi bocconi della giornata.
Di nuovo, vengo raggiunto da Aurora e Alexandre; hanno l’aria di essere molto più freschi di me. Ovviamente stavolta li lascio passare e riparto solo una decina di minuti dopo, attraversando il río Sarria – omonimo alla città – e salendo poi la suggestiva Escalinata Maior (la y sostituisce la i probabilmente per il prevalere del gallego sul castellano, che ormai sembrano competere nella nomenclatura di ogni luogo). La via successiva è il fulcro dell’accoglienza pellegrina locale, ma trovo tutto chiuso. La chiesa di San Salvadór segna il culmine della mia breve salita. Più in alto rimarrebbero da visitare i resti del castello, ma mi accontento.
Arrivato al Convento da Mercé e al cimitero, una ripida discesa mi fa tornare quindi in mezzo alla campagna, dove l’antico Ponte de Áspera sul río Pequeño sembra capace – nella sua semplicità – di far ripiombare il pellegrino indetro di qualche secolo.
Il sentiero torna poi a salire, attraversando un bosco e sbucando su un armonioso altipiano collinare: non c’è altro che il sentiero ghiaioso, qualche albero, alcune staccionate, dei muretti a secco ed erba ovunque.
Più avanti, un piccolo nucleo di case – Vilei – non rovina l’atmosfera; fa già parte di Barbadelo, un comune composto da una ventina di agglomerati simili.
Resto incuriosito da una strana costruzione di cui non capisco la funzione e che non ho mai visto prima: è come una palafitta in pietra e mattoni, ma stretta, lunga e tutta traforata. Si innalza all’interno di un cortile, occupando lo spazio in diagonale; una cosa davvero insolita. Mah!
Trovo l’indicazione per una chiesetta dedicata al buon Santiago, ma rinuncio alla deviazione. Dedico invece qualche minuto a perlustrare tutto il perimetro dell’albergue municipal che sta proprio di fronte al cartello. Ho assolutamente bisogno di una fontana o di un rubinetto, perché ho dimenticato di fare scorta d’acqua a Sarria. Ne trovo uno, ma purtroppo la tubatura è chiusa e non c’è acqua corrente. Non mi resta che proseguire.
La vista di una signora in un cortile poco sopra a dove sto camminando mi restituisce qualche speranza, ma appena inizio a chiamarla lei entra in casa. Insisto comunque, sperando che anche i latrati di tutti i suoi cani la attirino di nuovo fuori, ma nemmeno stavolta cavo un ragno dal buco. A rischio di farmi insultare, salgo la via che conduce all’entrata principale, ma non ho nemmeno bisogno di suonare perché di fronte alla casa trovo una fontanella che sembra aspettasse solo me. Ah, giubilo! Che fortuna!
Sono già un po’ stanco ma non sono nemmeno a metà strada, quindi per dissetarmi e riempire la borraccia mi concedo solo un paio di minuti. La meta di oggi è una certa Portomarín, ma il vero traguardo per cui ho già l’acquolina in bocca è il cippo che segna i 100 km esatti da Santiago de Compostela; dovrei incontrarlo tra un paio d’ore. Son sicuro che poi, con l’entusiasmo accumulato, mi berrò senza fatica quel che manca della tappa.
Tra l’altro, il meteo dice che comincerà a piovere proprio tra due ore. È difficile da credere guardando ora il cielo, eppure le previsioni qui in Spagna sono sempre state piuttosto affidabili.
Un chilometro dopo, incontro inaspettatatmente un minuscolo bar aperto e non so resistere alla tentazione di un caffè; è già l’una passata, ma ancora non mi va di pranzare. La signora che mi serve sembra quasi stupita di vedere un pellegrino. L’unico altro cliente è un vecchio signore; sta seduto al tavolo e mi guarda sorridente, così abbozzo un saluto. Inaspettatamente mi risponde all’istante, presentandosi con nome, cognome e luogo di nascita. Non contento, aggiunge a ruota anche parrocchia, comune, comarca e provincia, e concluso l’elenco torna a sorridere soddisfatto. Io fatico a trattenere una risata, ma ringrazio e a mia volta mi presento: non vado oltre al mio nome e al Paese da cui vengo, anche se la tentazione di replicare l’intera lista di coordinate è stata forte.
Questi primi piccoli scambi mi danno anche un assaggio dell’accento del posto, scoprendolo molto diverso da qualsiasi altro mi sia capitato di sentire dai Pirenei a quaggiù.
La via continua poi totalmente in piano, tra scenari agresti tutti diversi eppure al contempo tanto simili. Incontro vacche e pecore bellissime, passando anche per qualche boschetto non male. Qua e là, il sentiero é addirittura selciato – qualcosa di inaspettatamente elegante.
Ogni elemento sembra riesca ad impreziosire lo stesso infinito paesaggio, ma senza mai stravolgerlo. Possono essere mucche bianche e nere anziché rosse, muretti coperti da un muschio verdissimo come qui non ne avevo mai visto, una serie di alberi ramificati in maniera stramba, e così via: semplici dettagli, insomma, ma tutti capaci di tenere ben viva la brace dello stupore.
Sicuramente alcuni momenti sono più memorabili di altri, per esempio quando mi sono trovato di fronte a certi alberi secolari o salendo un paio di bellissimi sentieri lastricati in mezzo alla campagna; o ancora il momento in cui ho capito cosa fosse un horreo.
Horreos, già, perché così si chiamano le strutture in pietra e mattoni che sto trovando sempre più frequentemente lungo la via. Sono dei semplici granai, ecco svelato il mistero. Si presentano in infinite varianti e, non so bene come, hanno un fascino magnetico. Di certo contano l’elevazione e la disposizione frequentemente obliqua. Spiccano su ogni altro elemento architettonico, quasi fossero vere e proprie sculture, e la loro diffusione connota il territorio in maniera straordinaria.
Avanzando senza sosta, attraverso una decina di piccole frazioni e su ogni cippo il conto alla rovescia dei chilometri prosegue inesorabilmente (sempre con quei maledetti decimali). Ora, però, ci siamo! Ho davanti a me una lunga discesa che subito dopo torna ad impennarsi. Nel mezzo c’è un ristorante, con parecchie macchine parcheggiate fuori. Secondo i miei calcoli, il mojon dei 100 km sta in cima alla salita. Sono emozionato e ho voglia di gustarmi questo momento, di dedicargli tempo, di sentirne il profumo. Scelgo di temporeggiare e di prendermi un altro caffè, un po’ come i ciclisti in fuga che smettono di pedalare pochi metri prima del traguardo.
Nel ristorante sembra ci sia parecchia gente. Mentre aspetto, noto una piccola lavagna – lì evidentemente per intrattenere i bambini dei clienti. Istintivamente mi inginocchio e comincio con cura a scriverci sopra “Bergamo – Santiago, 2400 km”, come se fossi già lá.
Quando la proprietaria torna dalla sala, legge la scritta e me ne domanda conferma. È stupita, anche se di certo avrà incontrato chissà quanti pellegrini da tutta Europa arrivare dalle proprie case fino a lì. Io sorrido e annuisco, poi scambiamo due battute e ordino il caffè. Curioso, le chiedo anche se per caso quest’oggi siano passati di qua altri due italiani, uno alto e biondo e l’altro più basso e moro. Si sono fermati attorno a mezzogiorno, mi dice; li ricorda bene. Sono contento; a questo punto è molto probabile che li ritrovi stasera. Proverò a mandargli un messaggio una volta arrivato al mojon; penso che anche loro saranno contenti per me.
Non perdo altro tempo, ringrazio la signora e vado incontro a quel pezzo di pietra che saprà ricordarmi quanta strada hanno fatto queste gambe per arrivare ad abbracciarlo.
Come previsto, bastano pochi minuti. Eccolo là, sta all’ombra di una pianta, senza fronzoli particolari. Stavolta non sento il bisogno di esplodere in urla di gioia come al mio arrivo in Galizia. Con le mani sorrette dai bastoni e col sorriso sulla faccia, rimango solo a guardare quei numeri, stavolta incisi nella pietra e non in una targhetta di ottone: cento, virgola, zero, zero, zero. Mi piacerebbe conoscere il tizio che ha deciso si usasse una numerazione tanto inutilmente dettagliata.
Le prime gocce iniziano esattamente mentre tolgo il telefono per farmi un selfie. Non potevo essere più sincronizzato di così. Mantella al volo, quindi, e si riparte!
Fortunatamente non sembra scendere a secchiate, e devo dire che rende la camminata addirittura più piacevole.
Ai due amici scrivo di essere entrato anch’io nel club dei “centenari”. Loro sono già a Portomarín e mi propongono di condividere una tripla, come già tante altre volte abbiamo fatto: accetto volentieri. Forse non ci siamo ancora ripresi del tutto dalla separazione di qualche giorno fa, ma evitare di riunirci per stanotte sarebbe stata una forzatura. D’altronde il Cammino ti accompagna a capire che va bene così, che le cose belle fuori programma vanno assecondate senza tante storie, e se fai il crapone sarà solo più forte la zuccata che darai. Ad ogni modo sono contento mi abbiano riaccolto.
La giornata va un po’ rabbuiandosi per il maltempo. L’asfalto e i tratti pavimentati brillano bagnati dall’acqua. Sono opache e inghiottono luce, invece, le pietre dei muretti che incanalano i sentieri, o quelle dei muri di chiese e vecchie case. Le foglie già cadute e rinsecchite – ora inzuppate e arrese – fan da tappeto per il viandante, mentre quelle gialle ancora sugli alberi sembrano l’eco sospeso delle frecce che mi guidano.
D’un tratto, in lontananza, il belare di un gregge viene squarciato da un pianto fortissimo, come di un neonato senza pace. Ma com’è possibile ci sia un bimbo disperato sotto questa pioggia?! Aguzzando bene la vista, però, scopro che è solo un agnello raccolto dal pastore. Addirittura per un istante si innesca nella mia mente una specie di sogno, come se quell’uomo che sembra uscito da un presepe sia il me futuro. Resto incantato e scosso contemporaneamente, senza capire nella visione se quel Roberto stringa un bambino o un animale. È uno dei momenti più enigmatici vissuti da quando sono partito.
Seguono As Rozas, Moimentos, Mercaidorio, A Parrocha, Villachá: pugni di case a cadenza costante che ritmano il mio procedere. I loro nomi hanno un suono tutto diverso da quelli incontrati nelle altre regioni spagnole, ad eccezione dei Paesi Baschi. Curioso: quelli erano i primi che attraversavo qui sul Francese, mentre ora sono ormai alla sua conclusione.
Patria del Santo e fine anche della terra, la Galizia è sperone verde a tuffo nell’oceano. C’è magia da queste parti, l’alquimista ha ragione, e io sono da solo in mezzo a tutto questo: è un miracolo riservato ai pochissimi che hanno sfidato quest’annata folle. Benedetto il giorno in cui ho deciso di partire!
Sta su un fiume, Portomarín, e i fiumi stanno in basso; infatti ora si scende, e cambia tutto nel camminare. Il peso va trattenuto, si contraggono altri muscoli, chi ha bastoni e sa come usarli prepara un’altra danza. I miei due sono diversi tra loro: uno era rimasto orfano nella Rioja e l’altro è il fratello adottivo rimediato ad Astorga; uno si muove silenzioso e leggero, l’altro l’esatto contrario, però mi divertono insieme. Li scambio ogni due, tre chilometri, o come viene. Roba da pellegrini: riti e abitudini che strappano un sorriso, ma salvano da dolori e squilibri. La voce del corpo si fa sentire, quella della testa riesce ad addormentarsi un po’, quella del cuore canticchia in continuazione e saluta ogni cosa io incontri – sembra quasi sia già stata qui.
Ad un tratto, davanti a me, scorgo altri due camminatori: una mantella rossa e una verde. Stavolta, però, non faccio corse per raggiungerli. Gli resto alle spalle per un po’, notando una cosa buffa: lui porta un grande zaino che lo fa gobbo come e più di me, mentre lei non ne porta nessuno e trotterella sculettando, parlando in continuazione mentre il compagno annuisce soltanto. Non è una bella scena, ma almeno contribuisce a farmi apprezzare ancor di più il mio viaggiare libero e solitario.
Quando la pioggia finisce, rallento fino a fermarmi, così da lasciarli proseguire e godere di qualche minuto di presenza profonda in questo fazzoletto di mondo. Fermo semplicemente a respirare, mi cade l’occhio sul braccialetto che Laura mi ha voluto dare in prestito prima che partissi. Amica unica e insostituibile, è pellegrina verso Santiago da diversi anni. Vittima di ferie troppo brevi, infatti, ha dovuto frazionare il percorso e non ha ancora raggiunto la meta.
Ma proprio mentre abbraccio il ricordo di lei, ecco all’improvviso un ricordo fulmineo: quando mi legò il braccialetto al polso mi disse che l’ultimo luogo in cui ha interrotto il suo cammino è proprio Portomarín!
*
Ricordo perfettamente quel momento e mi si riempie il petto di emozione. Ti chiesi: “Sei sicura di volere che sia io a portarlo oltre, fino a Santiago, senza di te?”. Con gli occhi lucidi, mi rispondesti subito di sì.
Ti confesso che non so ancora se riuscirò a raggiungere il campo delle stelle, amica mia, ma almeno fino a qui sono riuscito ad arrivare, hai visto? E tutta d’un fiato!
Che bello sarebbe se tutto il mio viaggio rimanesse impresso in questa striscia di tessuto blu; ti farebbe un po’ da cicerone quando verrà il tuo turno di tornare qui e completare quello che hai iniziato. L’importante, comunque, è che ti restituisca la sensazione di essere vicini, come ha fatto con me per tutti questi giorni.
La tecnologia è meno poetica di questa mia fantasia, ma di certo più efficace, così ti mando un vocale per condividere qualcuno tra questi pensieri appena nati. Mi rispondi con una faccina commossa, ma sono sicuro che sul tuo sorriso è scesa anche una lacrima vera: ho fatto centro. Ti voglio bene!
*
Una ventina di minuti dopo sono di fronte all’altissimo ponte che conduce a Portomarín. La vallata scavata dal fiume Miño è incredibilmente larga e profonda. L’acqua è abbastanza bassa e svela la presenza di un secondo ponte, molto più basso e datato.
Le rive sono ricoperte di erba smeraldina, da cui stranamente spuntano resti di antiche case. Prima di attraversare, passo qualche minuto in una pensilina che fa da punto panoramico. All’interno sono affissi dei cartelli che raccontano con testi e immagini la storia di questo luogo. Pare che la cittadina, in origine, stesse proprio lì sotto, ma nei primi anni Sessanta sia stata riedificata più in alto – nella posizione attuale – a causa della costruzione di un bacino artificiale che ha stravolto il normale flusso del fiume. Da allora, infatti, il livello dell’acqua può salire enormemente, sommergendo ogni volta i resti del paese originario.
Un’ultima cosa particolarmente toccante è che gli edifici più importanti – tra cui l’antica chiesa – furono smontati pietra dopo pietra, numerandone ognuna e ricomponendo il tutto nel mezzo del nuovo abitato. Incredibile!
Felicemente sazio di questa originalissima dose di storia locale, lascio la postazione e mi avvio verso l’altra sponda. Le vertigini mi fanno salire qualche brivido per la schiena, ma fortunatamente più che immobilizzarmi mi diverte. Il cielo è diviso a metà proprio sulla mia testa – nero da un lato e azzurro dall’altro – proprio come a un certo punto era già stato ieri. Le acque del fiume lo riflettono, tanto che sembra di vivere a cavallo di due istanti opposti.
Conclusa la traversata, mi imbatto subito in una rotonda da cui stranamente parte una ripida scalinata in granito, l’ultima fatica di questa tappa. In cima sta una una torretta con una cappella, passando sotto la quale si accede finalmente alle prime vie di Portomarín. Scopro solo più tardi che quello che ho salito non è altro che un pezzo dell’antico ponte.
L’albergue dove mi aspettano Tiziano e Amedeo è a due passi, tanto che scorgo quasi subito le loro sagome inconfondibili, vagamente simili a quelle di due moderni Don Chisciotte e Sancho Panza. Sono fuori dall’ingresso a fumare una sigaretta e quando mi vedono sembra sia una bella emozione per tutti e tre. Celebriamo subito con un brindisi a base dell’immancabile cerveza, iniziando immediatamente a condividere qualche cronaca dei due giorni di cammino separati.
Dopo non molto, però, la pioggia ci obbliga a ripararci all’interno, e io ne approfitto per darmi finalmente una sistemata. Ci regaliamo poi qualche ora di sano riposo, ma appena smette di piovere confermo di essere rimasto il solito, andando a farmi un giro da solo in paese. Devo rifornire le mie scorte, ma come sempre sono anche curioso di scoprire il luogo dove mi trovo. Soprattutto, m’interessa visitare la famosa chiesa ricostruita, che ho scoperto essere una vera icona per il Cammino. Purtroppo la trovo avvolta dalle impalcature, e nemmeno l’interno si rivela particolarmente entusiasmante: peccato.
La sera ceniamo in una semplice trattoria, dove ritrovo a sorpresa Lidy, che però resta seduta in un tavolo separato. Mentre mangiamo e beviamo, ragioniamo sul fatto che mancano solamente tre o quattro tappe per concludere questo viaggio tanto avvincente, e ormai ha davvero poco senso che io mi divida ancora dai due amici. Il Cammino sembra aver insistito perché ci ritrovassimo ed è un invito che scegliamo di accogliere con un entusiasmo tutto nuovo.
I passi di ritorno dal ristorante, brilli e nel buio della sera, si colorano di una confidenza già tornata a pieno regime. Pur nella goliardìa del momento, la consapevolezza di quanto vissuto tocca il suo apice: i passi condivisi e quelli no sembrano diventati pieni e vuoti di una collana che sta per prendere la sua forma definitiva, ma che ormai già mostra la sua straordinarietà. Non resta che aspettare il gioiello che la renderà unica: quegli ultimi passi lenti ai piedi del grande santuario, quell’incontro verso cui ogni cosa si è orientata fino a qui.