(Albergue Perreiro)
40km
Ultimo giorno della dodicesima settimana di viaggio. Piove a dirotto, e mentre facciamo colazione ci chiediamo fin dove vogliamo arrivare oggi. La meta più semplice da raggiungere è Palas del Rei, a circa 25 km da qui. Amedeo è disfatto ed è evidente che preferirebbe accontentarsi. Per motivi diversi, sia io che Tiziano siamo più ambiziosi e vorremmo fare uno sforzo fino a Melide, che però dista 40 km. La differenza è enorme, e per di più il tempo infausto ci rema contro. Troviamo un compromesso molto diplomatico scegliendo di rinviare la decisione alle prossime ore.
Non partiamo immediatamente, aspettiamo che la pioggia diminuisca almeno un po’. Ogni minuto che passa, però, mi convinco sempre più non sia poi una grande strategia. I ragazzi temporeggiano ulteriormente, e li capisco, ma io non ce la faccio proprio a stare un altro minuto qui fermo alla finestra. Scelgo quindi di tuffarmi, promettendo poi di aspettarli a Palas del Rei.
Eccomi quindi con la mia fidata mantella sotto l’incessante martellare dell’acqua. Durante le prime centinaia di metri vado un po’ in confusione, mi disoriento. Sembrerebbe impossibile vista la semplicità della rotta da prendere, eppure ultimamente sta capitandomi spesso. Ogni volta mi ritrovo a dover sostare un paio di minuti per chiarirmi le idee, e oggi – ahimè – non fa eccezione, nubifragio o meno.
Scendendo verso il fiume intravedo un paio di ponti: uno carrabile e un altro pedonale, ma inagibile. Sullo sfondo, invece, si staglia la sagoma di quello gigantesco superato ieri: il Puente Nuevo. La prospettiva di tutti e tre è talmente suggestiva da riuscire ad addolcire lo stress che mi provoca la pioggia battente.
Una volta raggiunta l’altra sponda, trovo finalmente un cippo che mi dà la certezza di aver scelto la strada giusta. La freccia gialla mi guida lungo un sentiero che inizia immediatamente a salire, e non poco. Per fortuna ora sono almeno riparato dagli alberi, perché l’acqua ha già riempito gli scarponi. Lo strato impermeabile, infatti, è messo male da un pezzo, e ne lascia filtrare parecchia all’interno, per di più ostacolandone l’uscita.
Il percorso regala una bella immersione nella natura per almeno mezz’ora. È una salita continua, faticosa in queste condizioni, ma allo stesso tempo perfetta per scaldarmi.
Inaspettatamente, incrocio altri due pellegrini: un uomo e una donna di mezza età. Portano zaini molto piccoli e mantelline trasparenti che sembrano davvero poco efficaci. Stanno fermi a consultare una guida al riparo di qualche albero, e rimangono un po’ straniti dal mio aspetto. Non posso dargli torto, visto che ho rispolverato la vecchia strategia che tanto ho usato in Francia: quella di tenere sotto la mantella una dry-bag gonfia quasi come un palloncino, appendendola alla cinghia pettorale dello zaino. I due vantaggi sono quelli che in quel punto cruciale il corpo non sta più a contatto diretto con la superficie fredda e umida della mantella, e al contempo sotto di essa si crea una cappa di aria calda molto piacevole. Il risultato è che io sto benissimo, ma per gli altri appaio come un grottesco incrocio tra il gobbo di Notre-Dame e Cappuccetto Rosso al nono mese di gravidanza – decisamente non un bello spettacolo.
Rispondo ai loro sguardi con un semplice sorriso e continuo il mio allungo, senza badar più nemmeno alle pozzanghere.
Il sentiero sfocia in una strada abbastanza larga, oggi comprensibilmente poco trafficata. Scende da O Cebreiro, ed è proprio quella accanto alla quale ho camminato con Martin quella mattina. L’ho ritrovata poi sia a Triacastela che a Sarria, ed è anche la stessa che include il Puente Nuevo di Portomarín.
Qui corre tra campi, boschi e stabilimenti industriali, tutti di grandissime dimensioni, il che mi dà la sensazione di star avanzando molto più lentamente, unendosi al disagio della pioggia incessante. Mi sento particolarmente messo alla prova – forse più psicologicamente che nel fisico.
Ai bordi di un incrocio perso nel nulla cosmico, trovo una pensilina benedetta. Finalmente al riparo, mi godo qualche minuto di tregua e scatto un paio di foto. Di solito non ci riesco mai quando piove troppo, ed è uno dei miei grandi rammarichi, perché a volte proprio sotto l’acqua ho attraversato paesaggi davvero suggestivi.
Torno sulla carrettera scatenando a ritmo serrato il mio personale passo di marcia. Ormai mi conosco alla perfezione: rallentare sotto questa pioggia e all’inizio della tappa vorrebbe dire per me rischiare di perdere metà delle forze.
La pista predisposta per i pellegrini sta a lato della carreggiata, ma è completamente inzuppata d’acqua. In alcuni punti si inoltrerebbe tra campi e boschi, ma oggi è totalmente impraticabile, così mi limito a rimanere sul bordo della lingua d’asfalto.
A quasi dieci chilometri dalla partenza, però, scelgo di fare un’eccezione: incuriosito dalle indicazioni per un sito archeologico che sembra importante, imbocco la svolta per Castromaior. Dopo il minuscolo paese, il sentiero sale verso un poggio quasi spoglio. Una volta in cima, la cosa che mi dà immediatamente sollievo è scorgere in lontananza qualche sprazzo di azzurro: forse c’è davvero speranza che quest’acquazzone finisca, prima o poi.
Infrangendo le stesse regole che mi ero autoimposto, resto minuti interi fermo sotto la pioggia, completamente ipnotizzato dal panorama. È uno di quei momenti in cui non è solo la bellezza a immobilizzarmi, ma un’inebriante sensazione di improvviso svuotamento da ogni cruccio, piccolo o grande. Sono attimi di calibratura talmente perfetti da sembrano irreali: ti senti leggero, libero e al posto giusto, tutto contemporaneamente.
Tra l’altro, basterebbero pochi metri per affacciarmi sui resti dell’antichissimo insediamento fortificato, ma mi sento già sazio e ci rinuncio senza rimpianti.
Torno alla carrettera e raggiungo l’Alto do Hospital, un crocevia che mi è parso di capire abbia da tempo immemore una grande importanza. Attendevo da un pezzo di arrivarci, ma senz’altra aspettativa che trovare ristoro in uno dei bar adocchiati su Google Maps. Purtroppo non mi era passata per la testa nemmeno per un secondo l’idea che li avrei trovati tutti chiusi. Pazienza, non resta che incassare il colpo e sperare in qualche imprevisto positivo.
Una prima consolazione arriva nel giro di pochi minuti, quando finalmente smette di piovere e il cielo, pian piano, inizia incredibilmente ad aprirsi. Ho la netta sensazione che la giornata stia per prendere tutt’altra piega: incrociamo le dita!
Passato il ponte sulla statale, la strada sale di nuovo e attorno a me noto boschi compatti di piante familiari, ma che non avevo mai visto fin qui. Sono eucalipti, tutti alti almeno una quindicina di metri. Osservando le loro cortecce tutte sbucciate e le foglie lunghe e affusolate, mi sembra di percepirne vagamente anche il profumo, forse per suggestione. La cosa più bella, comunque, è alzare il naso e potersi godere finalmente la bomba d’azzurro che ha fatto quasi del tutto piazza pulita di quei maledetti nuvoloni.
Qui finisce la grande salita di oggi. Se decidessimo di arrivare fino a Melide, so già che non mancheranno altri infiniti saliscendi, ma almeno il dislivello più duro so di essermelo lasciato alle spalle. Dopo qualche minuto, la vista di un arcobaleno incastonato tra colli poco lontani sembra sancire definitivamente la vittoria del bel tempo. Per fortuna, però, le belle notizie sembrano non finire qui. Basta un altro quarto d’ora, infatti, perché un’altra visione arrivi ad illuminare la giornata: un bar miracolosamente aperto e totalmente inatteso.
Sono da poco passate le 11 e finora sono riuscito a percorrere una quindicina di chilometri. Non c’è momento migliore per fare il pieno di carburante!
Dopo aver dato un’occhiata alla lista, decido di fare le cose in grande stamattina e ordino un hamburger con uovo fritto! Il barista è simpaticissimo, e lo stesso vale per la famigliola che sta uscendo poco dopo il mio arrivo. Prima di andarsene, infatti, decidono di ritagliarsi qualche minuto con il solitario pellegrino arrivato fin lì dallo Stivale. Tra loro, il più anziano supera i novant’anni, ed è l’unico a non portare la mascherina. Mi spiega che fa fatica a respirare e che non può fare altrimenti. Parla senza ombra di sconforto; al contrario, mi saluta con un gran sorriso. È una merce sempre più rara – vuoi per le mascherine stesse, vuoi per il pessimismo – ma per fortuna resta contagiosa quanto il maledetto virus.
Ricevo anche una dritta speciale su dove andare a mangiare il polpo a Melide. Arrivarci sarebbe un’altra impresa, ma comincio ad averne sempre più voglia.
Dopo mangiato, scrivo ai ragazzi chiedendogli dove siano rimasti. Purtroppo sono troppo indietro, e non me la sento di rimanere fermo ancora. Vorrà dire che ci riuniremo a Palas del Rei.
Li avviso anche del fatto che questo è l’unico posto aperto che ho trovato, e gli consiglio di mangiare qualcosa qui. Oggi infatti è domenica, ed molto improbabile trovino delle alternative.
Prima di tornare a camminare, mi faccio un ultimo piccolo regalo accettando il bicchierino di liquore al caffè che mi offre la casa. Una squisitezza! Straordinariamente tonificato in anima e corpo, adesso davvero non rimane altro che salutare e riprendere la via.
La strada riprende in piacevolissima discesa, immersa in una campagna calma e finalmente soleggiata. Lungo la via scopro anche un cruceiro costruito circa 350 anni fa! Ovviamente fin dall’Italia ho già incontrato cose ben più datate, ma resta curioso imbattersi in un manufatto così antico, soprattutto in mezzo a tutta questa natura, qui così dominante e rigogliosa.
Superata la croce di pietra, arrivo a Ligonde. Leggo che non è un paese a sé stante, ma frazione del comune di Monterroso. La cosa incredibile, però, è che quest’ultimo è formato da ben trenta piccoli nuclei diversi, e per soli 3000 abitanti! Sono dati che appunto perché mi paiono capaci di dare un’idea molto chiara di come sia strutturato questo territorio. Dovessi esprimerlo diversamente, direi che sembra una vera e propria costellazione di insediamenti, sparsi su un infinito tappeto verde.
Al mio ingresso in paese, vengo “accolto” da una docile mandria di mucche che arriva in senso contrario al mio e che, con mio gran piacere, mi ingloba per alcuni secondi. Più avanti, poi, trovo qualche altro segno di vita: c’è gente a passeggio, altra che pulisce il cortile, chi porta a spasso il cane. Sono tutti anziani, ma non mi stupisce troppo, e in fondo non stona in questa cornice.
Le case non sono accomunate da un unico stile, ma questo non rende il paese meno caratteristico. Rimangono ricorrenti i piccoli capanni, le stalle, alcune grandi aie, gli orti, gli horreos, i pollai. In mezzo a un campo c’è anche una pompa eolica, come quelle che si vedono nei film, fuori dai ranch texani, sempre arrugginite e cigolanti.
Finite le abitazioni, un mojon indica di imboccare un canale selciato che scende in una magnifica conca verde. È un passaggio minuscolo e anonimo, ma ancora una volta sembra intriso di una bellezza rara. Camminare per la Galizia mi sta piacendo immensamente!
Ricevo un messaggio da Tiziano: dice che hanno appena ordinato il mio stesso hamburger nel bar che gli ho consigliato. Grandi! Approfitto per avvisarli di una novità: spulciando la mia guida ho scoperto che ci vogliono ben 5 km in meno di quanto pensavamo per arrivare a Melide. Questo basta a convincere me e lui a fissarla come obiettivo definitivo di questa giornata, nonostante il buon Amedeo non sia per niente entusiasta.
Chiusa la chat, continuo imperterrito il mio affondo in questo paradiso terrestre. Bastano la fioritura di un campo, l’edera sui tronchi, la vista di un lavatoio ben tenuto, una staccionata da telefilm, o il riflesso del cielo sull’asfalto bagnato: ogni cosa sembra scalpiti per far sí che io mi accorga della sua esistenza, della dose di poesia che porta all’insieme.
Che dire? Ho una direzione e le forze per seguirla, e sembra davvero non abbia bisogno d’altro che questo. Mi sento un privilegiato: non vorrei essere altrove ora, o nei panni di qualcun’altro. Sto vivendo un’esperienza di centratura e di equilibrio che prometto a me stesso di non dimenticare mai.
Non è finita. Ecco davanti a me un uomo e una donna a passeggio, romanticamente mano nella mano. Camminano nella mia stessa direzione; sullo sfondo, una casa splendidamente colorata, isolata tra i campi.
Fantastico sulla possibilità che sia casa loro, e su quella di essere io un giorno nei panni di lui: immerso nella meraviglia, senza fretta, con la pace nel cuore e la mano stretta in quella di chi amo. Chissà.
Arrivo presto ad un grande bar aperto. Come quello dove ho mangiato – e già diversi altri visti in questi primi giorni galiziani – ha la particolarità di avere una grande tenda da sole nera, sulla quale si staglia la marca di birra Estrella Galicia. Dà quasi l’impressione sia il segno distintivo di una catena di locali, mentre invece è solo una sponsorizzazione: l’equivalente delle insopportabili sedie rosse con cui la Algida ha riempito il mondo, ma meno tamarro. Mi prendo una bella spremuta fresca e riparto, ormai vicinissimo a Palas del Rei.
Con mia grande sorpresa, non devo incanalarmi in strade sempre più dense di case e palazzine per entrare nei confini della cittadina. Scendo invece tra campi e piccoli boschi, fino a raggiungere un’area picnic racchiusa in una grande conca erbosa.
Sugli alberi resistono ancora molte foglie delle migliori tinte autunnali, mentre quelle cadute hanno intessuto un vero e proprio tappeto. C’è una gran quantità di tavoli e postazioni barbecue. Immediatamente immagino numerose comitive di pellegrini che si fermano qui, riposandosi all’ombra e a festeggiando a suon di grigliate. Speriamo proprio sia così, perché il posto lo meriterebbe.
Sono quasi le due, il mio stomaco brontola e ho davanti una panchina che sembra aspettare solo me. Spoglio lo zaino e appoggio i bastoncini. Sfilo pane, borraccia e l’ennesima confezione di affettato a lunga conservazione. Può suonar male, ma per me è una prelibatezza – soprattutto se ripenso alle peggio cose in scatola mangiate in Francia. Mi godo un quarto d’ora di puro godimento: è decisamente il posto migliore dove abbia pranzato in questi mesi.
Una volta finito e riattrezzatomi, riprendo la marcia ed entro in paese. Purtroppo noto un netto calo di bellezza rispetto alle ore appena passate, e davvero continuo a chiedermi come il flusso di migliaia di pellegrini – in costante aumento fino a quest’anno – non abbia permesso a questi centri urbani di rifarsi il trucco.
Trovo un mini-market aperto, ma ancora per poco. Chiamo gli altri per sapere se posso comprargli qualcosa, perché poi probabilmente non troveremo più nulla fino a Melide. A differenza mia, però, preferiscono non appesantire lo zaino.
Ci troviamo una mezz’ora dopo all’uscita da Palas del Rei, e ovviamente ci godiamo una meritata pausa tutti insieme. Io, però, sono costretto a rovinarla con una brutta notizia: mentre li aspettavo ho fatto qualche calcolo e ho scoperto che la guida è sbagliata. I chilometri ancora da fare sono davvero sedici, e non undici.
Siamo tutti abbastanza stanchi – chi più chi meno – ma sembra che la novità non muti le opinioni originarie: Tiziano ed io preferiamo proseguire comunque, mentre Amedeo sarebbe ben contento di fermarsi. Purtroppo per lui, ci lascia troppi spiragli per insistere e alla fine cede sconsolato.
Tra l’altro nel frattempo il cielo si è chiuso e ha iniziato pure a piovigginare. Questo peggioramento aumenta il malumore del nostro compagno, ma ormai la decisione è presa. Sfoderiamo all’unisono giacche impermeabili, mantelle e coprizaino: è ora di partire alla conquista di Melide!
Camminiamo una decina di chilometri per lo più su asfalto, attraversando o costeggiando boschi di piccole dimensioni, con alberi spettacolari o giovani colonie di eucalipti. I microscopici paesi non smettono di cadenzare il nostro procedere, assieme agli immancabili mojones e alle loro targhette piene di numeri.
Carballal, A Pallota, Casanova, Porto de Bois, O Coto, tutti nomi che diventano traguardi intermedi a cui affidarsi per sentir meno la stanchezza: il segreto è concentrarsi solo su quello successivo.
Per grazia divina, ad un certo punto il cielo si riapre e la Galizia ricomincia a regalarci piccoli scenari da sogno. L’unica pecca è la desolazione data da tutti i bar e gli albergues chiusi, ma ormai abbiamo imparato a conviverci.
Passate le cinque, arriviamo a O Leboreiro, particolarmente pittoresca. Qui incontriamo il nostro primo cabazo, esposto in bella vista davanti alla chiesetta di Santa Maria. Ha la stessa funzione degli horreos e a sua volta è rialzato da terra. Ha però tutt’altra forma, essendo una gran cesta in vimini coperta da un cono di paglia.
Per qualche motivo questo paesino mi mette in testa la sensazione che iniziamo ad esserci, ma la verità si fa presto scoprire: mancano ancora quattro chilometri per arrivare a destinazione, che alla fine di una tappa già sofferta sono davvero un’infinità.
Quando il cervello resuscita dai sempre più frequenti stand-by, proviamo anche a spenderci in improbabili grida motivazionali: un déjà-vu che mi ricorda tanto l’agognata Belorado. Purtroppo però scadono presto in un becero umorismo, poi in imprecazioni di ogni genere e si conclude infine in furiose promesse di non fare mai più una cazzata simile.
Come sempre è Tiziano quello che ha ben chiaro a che punto siamo, ed è lui a tentare di rincuorare Amedeo, ormai sfinito dalla fatica e già vagamente delirante.
Con gli ultimi sprazzi di lucidità, però, mi accorgo che i numeri del nostro capitano non tornano. D’un tratto capisco: sta rubando un po’ su quanto ancora ci manca, nella speranza che l’altro non se ne renda conto. Non posso crederci: è un’idea geniale e diabolica al tempo stesso! Ridotti come siamo, direi che una mossa simile può essere classificata come raffinata psicologia.
A parte gli scherzi, però, la verità è che stiamo raschiando davvero il fondo del barile. Riusciamo a trascinarci fino a Furelos – ultimissimo paese prima dell’arrivo – ma in più di un’occasione mi chiedo come il mio corpo ora sia lo stesso dei 90 km in 48h fatti solo qualche giorno fa.
Superato il Ponte de San Xoan, io e Tiziano spremiamo le forze rimaste e acceleriamo alla disperata, esaltati dall’aver letto un cartello col nome del nostro albergue. Purtroppo facciamo presto la tristissima scoperta che l’alloggio sta dall’altra parte di Melide, a più di un chilometro di distanza.
Potrebbe essere il coplo di grazia, ma all’improvviso nella nostra disperazione irrompe la voce di uno sconosciuto: saluta il nostro arrivo come se ci conoscesse, tanto da sembrare quasi un miraggio. In realtà non è altro che un ristoratore particolarmente originale che cerca di agguantare al volo qualsiasi pellegrino in transito. L’insegna Pulperia La Garrancha, però, riesce miracolosamente a risvegliarci forze inattese: è infatti proprio quella che mi ha consigliato la signora incontrata al bar stamattina, e sembra davvero invitante!
Raggiunti anche da Amedeo e divertiti dallo stile estroverso del personaggio, garantiamo senza tentennamenti la nostra presenza a cena.
Quando finalmente arrivviamo all’alloggio sono le sei del pomeriggio passate: questo vuol dire che oggi abbiamo camminato quaranta chilometri in dieci ore scarse. Ci ha ammazzato, ma la nostra virilità spolpata sembra trarne un minimo beneficio.
In camerata c’è solo un ragazzo francese. Ci scambio volentieri due chiacchiere: mi racconta che sta percorrendo il Cammino a modo suo, quasi del tutto in tenda e senza rispettare granché la traccia ufficiale. Gli piace andare a cercarsi escursioni montane ovunque possibile, il che mi apre all’ennesima variante creativa con la quale può essere affrontata questa avventura.
Sto avendo il privilegio di raccogliere una quantità di testimonianze davvero incredibile. Ogni voce ha scolpito una nuova sfaccettatura al concetto che avevo di viaggio, di libertà, di vita. Ogni persona è la prova incarnata di una possibilità in più, e probabilmente questa è la cosa più preziosa che questo pellegrinaggio sta regalandomi.
Siamo tentati dal collassare sulle brande, ma se lo facessimo sappiamo che non ci rialzeremmo più. Ci diamo quindi subito una lavata e, fingendocene ritemprati, torniamo per strada con non poco sforzo. In perfetto orario per la cena, non ci rimane che ripercorrere a ritroso la nostra via crucis fino al ristorante.
Il locale è grande e tutto in legno, ma siamo praticamente soli. Finalmente davanti ai menù, inizia a rigermogliare nuovo entusiasmo, e quando arrivano le birre ci sembrano la cosa più buona mai assaggiata. Per fortuna anche il pulpo a la gallega che prendiamo è all’altezza delle recensioni ricevute, e mai premio sarebbe stato più apprezzato.
Un’ora doUn’ora dopo, prima di uscire, troviamo il proprietario a cucinare in un’insolita postazione davanti alla porta d’ingresso. Sta infilando un gran forcone nell’altissimo pentolone davanti a sé e ne sfila un polpo intero, schiantandolo poi sul tagliere di fianco. Si diverte a vederci lì a bocca aperta, e ci invita a scegliere un ammazzacaffè per concludere la cena. Non ci tiriamo indietro, e cominciamo a scambiare due parole con lui e qualche cliente – ovviamente mentre il polpo finisce a pezzetti sotto il coltellaccio dell’oste.
Il momento è talmente piacevole che i giri diventano tre, due dei quali addirittura offerti. Al settimo cielo, ci congediamo e fumiamo una sigaretta prima di andare a morire nei nostri letti. Un ultimo selfie ci aiuta a capire come siamo ridotti male, ma ciò non toglie che questa serata resterà di certo e comunque tra le migliori del viaggio.