(Camping municipale Le Mousserein)
25km
Inaspettatamente, la notte in tenda a Tallard è stata tra le peggiori, con tanti incubi e i soliti disagi con materassino, freddo e rumori vari. La mattina, mi alzo molto presto, esasperato, ma comunque determinato a lasciarmi tutto alle spalle e tuffarmi nella super tappa di oggi, che comincerà quasi subito con una salita particolarmente tosta.
Supero il ponte e mi lascio alle spalle la Durance, che non incontravo da quattro giorni. Mentre il cielo comincia ad aprirsi nei suoi migliori colori, vedo da lontano il castello. Per un attimo l’atmosfera sembra realmente incantata, fuori dal tempo. Anzi, non fuori, ma indietro nel tempo. Spesso mi è già capitato – come d’improvviso – di immaginarmi in un’epoca passata, e ognuna di quelle volte riallinearmi temporalmente non è stato per niente immediato.
Perso in pensieri di questo genere, e non certo al massimo delle mie forze, arrivo ai piedi della salita che mi aspetta. Tra Tallard e la cima c’è un dislivello di 700 m e più. Una volta lassù, dovrò poi scendere dalla parte opposta, e le cifre saranno più o meno le stesse. Di fronte a percorsi come questo, carico come un mulo, essere consapevole esattamente dei dislivelli, delle pendenze e della lunghezza di ogni tratto mi sta permettendo di gestire sempre meglio le mie energie.
La prima parte si rivela distruttiva e lunghissima, con un terreno incredibilmente friabile. Fortunatamente poi prosegue su altri meno difficili, snodandosi tra tratti di bosco anche molto belli e passaggi presso abitati anonimi. Incontro auto di cacciatori parcheggiate qua e là e godo di un paio di viste mozzafiato sulla valle.
A un certo punto, seguendo il percorso così com’è, capisco che finirei col raggiungere Venterol – un borgo certamente molto bello – ma significherebbe anche allungare la tratta di cinque chilometri solo per quel motivo: una vera e propria escursione di stampo prettamente turistico. Senza troppo rammarico, scelgo di rinunciare alla visita e risparmiare energie; oggi ne avrò molto bisogno e non voglio rischiare.
Scambio qualche messaggio con Sara, che finalmente riesco a far “confessare”: anche lei ha tagliato qua e là per le mie stesse ragioni, anche se finora era stata molto evasiva al riguardo. D’altronde, le sue tracce GPS non mentono, e avendo studiato meglio anche quelle delle settimane a venire, avevo già notato alcune piccole discrepanze rispetto allo sviluppo ufficiale della Via Domitia. Restandole infinitamente grato, è come se ora godessi di una consolazione aggiuntiva, e sento un po’ più legittimate la mia fatica fisica e psicologica.
Raggiunto il crinale, un’altra sorpresa si aggiunge a colorire la giornata: le indicazioni del GR sono in contraddizione con la traccia GPS che sto seguendo, e mi indicano di scendere decisamente in anticipo. Non c’è nessun vantaggio dal punto di visto chilometrico, ma d’istinto scelgo di affidarmi alla segnaletica.
Dopo aver superato un primo tratto piuttosto malmesso, incontro Cristiane, pellegrina francese fortunatamente anche anglofona. Mi spiega che il suo itinerario va “soltanto” da Montpellier a Briançon. È minuta e molto magra. Il viso, pur molto solare, mi fa pensare non abbia meno di sessant’anni. Nella piccola pausa che ci concediamo, io a scendere e lei a salire, mi accenna ai suoi tanti cammini. È davvero ammirevole. Come sempre è entusiasmante incrociare altri pellegrini, e avere l’opportunità di trovarne una così esperta e solare è un piacere doppio.
Mi avvisa che l’ultimo tratto di discesa è particolarmente brutto, con molti alberi caduti. La ringrazio e la saluto di cuore. Nonostante la notizia, parlare con lei mi ha rinvigorito eccezionalmente.
La discesa si rivela davvero orribile, e in effetti gli alberi in mezzo al sentiero scosceso sono tanti, rendendolo davvero scomodo e a tratti pericoloso. Mi imbatto anche in piante rampicanti molto tenaci che arrivano fin sopra la mia testa, soprattutto nelle ultime decine di metri. Ne esco con gran fatica. Poche centinaia di metri, ma di gran lunga le peggiori fin qui in terra francese.
Immediatamente dopo sbuco sulla la strada dipartimentale che corre a fondo valle. Si sviluppa in piano per chilometri e chilometri, snodandosi come un serpente tra infiniti meleti e pareti da scalata stupende e vertiginose.
Confesso che non avevo mai visto prima d’ora un campo di mele, e qui mi ci trovo letteralmente immerso. Filari e filari, ordinatissimi, carichi di un’enorme quantità di frutti e tutti protetti da reti simili a garze, che li fanno sembrare imbozzolati da qualche ragno gigante.
A capo di ciascuno filare c’è sempre una pila di grosse casse molto simili. La dimensione, di certo, è studiata per contenere il maggior numero di mele senza che si rovinino. Sui bordi sono stampati i nomi delle aziende proprietarie. Sono incredibilmente ingolosito da quei frutti giganteschi, ma purtroppo sono fuori portata.
Dopo non più di un paio di chilometri, mentre mi sporgo per strappare almeno una mora matura al bordo della strada, appoggio un piede sul ciglio rotto dell’asfalto e la caviglia si distorce, innescando una sensazione acuta che conosco fin troppo bene, perché nella vita ne ho fatto esperienza un’infinità di volte. Mi accascio e poi mi metto subito seduto, mentre impreco dandomi del cretino. Mi spoglio subito lo scarpone, poi il calzino. La caviglia è solo leggermente gonfia, esattamente come mi aspettavo. Le conosco molto bene. So che sarà una slogatura gestibile. In una frazione di secondo spoglio lo zaino, lo apro ed estraggo cavigliera e ghiaccio spray. Ora posso dire di aver utilizzato proprio tutto quello che avevo portato, dando un minimo senso a quella montagna di chili. Respiro profondamente, mi riposo quanto basta a riprendere la calma e lentamente riparto. La meta non è dietro l’angolo, mancano ancora diversi chilometri, ma perlomeno in piano.
Può sembrare assurdo slogarsi lungo una strada asfaltata quando si sono percorsi centinaia di chilometri sui terreni più irregolari, ma tutto sta nella soglia di attenzione. L’asfalto ha una superficie per lo più regolare, e la mente spesso si concede il lusso di distrarsi, soprattutto quando si è in cammino in terre straniere, mai viste e piene di attrattiva. Sui sentieri, invece, la concentrazione è totale: ecco il motivo.
Mi trovo spesso a chiedermi se tutti dedichino così tanto impegno nel focalizzare dove mettere i piedi quando camminano in montagna. Subito dopo, di solito, penso a chi fa skyrunning, restando immancabilmente ammutolito. È incredibile la capacità del cervello umano di scannerizzare in tempo reale ogni tipo di terreno e permettere ai piedi di poggiarsi per migliaia di volte nei punti più sicuri e stabili.
Quello che però mi meraviglia di più è pensare a tutte le altre migliaia di volte in cui quegli stessi piedi finiscono nei punti sbagliati, ma le caviglie riescono ad attivarsi all’istante, irrigidendosi quanto basta a sostenere il piede, per poi lasciare che si slanci di nuovo.
No, non credo siano pensieri di tutti, forse nemmeno di tutti gli atleti, ma è così che vivo io il camminare e il correre da venticinque anni, a partire dalla prima slogatura sulle scale delle scuole medie. Ma in fondo ci si abitua a tutto, no?
Con presupposti simili è divertente pensare che quest’anno ho già camminato più di mille chilometri e solo oggi, per la prima volta, la mia caviglia si è solo un po’ storta. Sono molto fortunato. Il mio corpo non è poi così male come tutti quegli ortopedici e fisiatri volevano farmi credere ancora minorenne.
Zoppicante, quindi, ma forte e determinato, continuo a percorrere la strada asfaltata fino a raggiungere La Motte-du-Caire. Mi sono lasciato alle spalle il dipartimento delle Alte Alpi e sono entrato ufficialmente in quello delle Alpi dell’Alta Provenza.
Come Tallard, anche questo paesino è attraversato dalla strada principale. È più piccolo e meno caratteristico, ma il clima non mi dispiace. È domenica e l’unica cosa aperta è un bar-pizzeria. C’è un po’ di gente seduta ai tavoli fuori. Mi prendo qualcosa e mi dirigo poi al campeggio, dieci minuti fuori dal paese. Per arrivarci, devo attraversare il letto di un torrente, che per fortuna è quasi secco. Scopro solo dopo che avrei potuto seguire una strada asfaltata, ma perlomeno così ho fatto molto più alla svelta.
Il campeggio sale dolcemente sopra i piedi della montagna. È davvero grande e ha una curiosissima particolarità: la presenza di alcuni alloggi dalle forme strambe, tondeggiandi, quasi come le case dei puffi ma senza i pois bianchi. Non c’è nemmeno la solita divisione in piazzole, il che mi piace un bel po’: lo rende un luogo meno artificiale.
C’è parecchia gente, anche se sembra poca per via delle dimensioni del posto. Noto subito che l’età media è giovane. Pare strano, ma non mi era ancora capitato dalla partenza, ormai quasi un mese fa. Oltretutto quasi tutti hanno dei look un po’ fuori dagli schemi: dreadlocks, lunghe barbe, piercing, cani, stile un po’ trasandato.
Se non vedo male, ognuno è lì con un mezzo proprio: per molti è un camper, per altri veri e propri furgoni, oppure semplicemente auto e tenda a fianco.
Ho la netta impressione ci sia una sorta di comunanza, che non sia un caso ci sia radunata gente così simile. Tutti sembrano godersi l’ozio del pomeriggio domenicale, e mi faccio l’idea che forse ieri notte ci sia stato un evento musicale nelle vicinanze.
In realtà, scambiando due parole con i miei vicini, scopro invece che sono tutti lì per lavorare alla raccolta delle mele. Cominceranno domani e continueranno per per due settimane. Mi spiegano che molti di loro viaggiano per l’Europa in base alle stagioni di raccolta di frutta e verdura.
Non avevo mai sentito parlare di questa opportunità, e non immaginavo nemmeno che molti ragazzi e ragazze lo facessero per lavorare e viaggiare al tempo stesso. Davvero interessante.
Mi rilasso un po’ anch’io, poi torno al bar in piazza per farmi una bella pizza. È la prima che mangio in Francia. Il mio orario di cena è da casa di riposo, in linea con le abitudini che ormai ho da settimane. La cucina non è ancora aperta; mi dicono quanto c’è da aspettare e decido di mettermi a leggere il mio Kindle su una panchina in piazza.
Prima dell’orario concordato, mi strappa dalla lettura la sensazione che qualcuno poco lontano stia urlando sempre più forte. Scopro che è il ristoratore che, impietosito, ha fatto preparare la mia pizza prima del solito. Non stava nemmeno urlando, in realtà, ma aveva dovuto alzare la voce per attirare la mia attenzione, ovviamente nella sua lingua, sulla quale il mio cervello non è ancora sintonizzato. C’è molta gente ai tavoli e mentre mi avvicino tutti mi guardano, per fortuna con semplici sorrisi e senza derisione. Mi gusto il piatto più lentamente possibile, perché è inaspettatamente buono.
Per risparmiare, non prendo niente da bere, accontentandomi dall’acqua del rubinetto del campeggio. Quando l’oste mi comunica il conto gli confesso che deve aver perso per strada un euro, ma decide di abbuonarmelo, insieme a una brioche confezionata che mi porge sorridendo. Credo la mia faccia sia diventata quella di un bambino la mattina di Natale. C’è davvero un bel clima in questa curiosa cittadina!
Mentre torno al campeggio, continuo a stare attento a come appoggio il piede. Tutto sommato, sono stato fortunato. Le slogature peggiori, d’altronde, sono soprattutto le prime, dopodichè si diventa più propensi a slogarsi, ma le conseguenze si fanno meno gravi ogni volta che succede. Il fatto che una spruzzata di ghiaccio spray e una buona cavigliera mi bastino, senza nemmeno riposare, dà l’idea di quante volte già mi sia capitato.
Arrivato alla tenda, mi godo il cielo farsi rosa mentre il sole si è ormai già nascosto dietro qualche montagna. Mentre sto leggendo, poi, uno dei due ragazzi con cui avevo parlato nel pomeriggio mi chiede se voglio cenare con loro. Gli spiego che ho già mangiato, ma che mi unirei volentieri per quattro chiacchiere, soprattutto perché sceglie di rivolgersi a me in inglese, avendo capito qualche ora prima le mie difficoltà con la sua lingua.
È un giovanissimo francese alla sua prima esperienza di raccolta, a differenza dell’amico più esperto. Mi racconta cose interessanti: dipinge, per esempio, e quest’anno avrebbe voluto andare in Nepal per fare tre mesi di silenzio in un monastero, ma l’epidemia di Covid non gliel’ha permesso. Ci ritenterà l’anno prossimo, dice.
Passo con lui una piacevole mezz’ora, poi li lascio cenare in pace, anche perché si è già fatto buio e le uniche luci nel campeggio sono quelle provenienti dai bagni.
Mentre mi ci dirigo per lavarmi i denti, noto che c’è una nuova arrivata e si trova in una situazione assurda: sta tentando di montare da sola una tenda enorme, delle dimensioni di una stanza, e con sé non ha nemmeno una torcia, mentre io riesco a vederla proprio perché porto in testa quella frontale. Mi avvicino per offrirle una mano. È italiana, si chiama Elena e, nonostante la situazione piuttosto folle e una nitida stanchezza, ha un sorriso esplosivo. Mi chiede solo di fare luce mentre lei monta in qualche maniera la maxi tenda. Dice che una volta viaggiava con una più piccola, ma visto che è in viaggio continuamente da due anni e si sposta in auto, preferisce di gran lunga il comfort che le dà questa. Anche lei si unirà domani alla raccolta delle mele. Mi spiega di essere arrivata tardi perché viene dal Belgio, dove ha raccolto altra frutta, e ci ha messo ben 14 ore per arrivare qui. Mi racconta di essere stata anche in Trentino quest’anno, dove per colpa dei pesticidi le si è rovinata la pelle del volto. Spera passerà, ma non ha fatto troppe polemiche perché era pagata in nero e già l’aspettava un altro raccolto altrove. Vive così per alcuni mesi l’anno, poi spende gli altri viaggiando liberamente. Concluso il montaggio, mi fa capire con gentilezza che ha ancora parecchio da fare prima di poter andare a dormire e che spera di potermi salutare domani mattina, così la saluto e raggiungo i bagni.
Mentre mi sto lavando i denti, penso a quanta energia positiva è concentrata qui in questo momento, e sono emozionato per la possibilità di aver potuto mettere in circolo anche un po’ della mia.