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cammino di santiago - roberto pesenti

21/09 Cavaillon – Saint-Rémy-de-Provence

(Camping Pegomas)
30 km

È strano sistemare una casa perché la si deve lasciare. Ieri ho fatto lo stesso, sì, ma solo oggi ho la certezza di abbandonarla. L’ultima volta, probabilmente, mi è successo quando sono partito: chiudere la porta dietro di sé, girare la chiave e infilarla in una cassetta delle lettere. Piccoli gesti, eppure stracolmi di cose.
Sono azioni di un rito scritto nel DNA dell’essere umano: il passare oltre, il lasciarsi indietro. Non è un’esperienza solo personale, in modi diversi appartiene a ognuno, e percepirlo proprio mentre lo sto vivendo mi emoziona molto.
Dentro me sento anche l’assalto dei sentimenti e dei pensieri legati al futuro e al passato: vorrebbero impossessarsi della leggerezza di questi istanti, reclamano uno spazio, ma con fermezza riesco a neutralizzarli. In questo momento è giusto che tutto appartenga solo al presente.

Mi sono alzato molto presto. C’è ancora buio e l’aria è pungente. Le strade sono già solcate dal viavai di automezzi. Torno alla scultura del melone e, lasciandomi alle spalle Cavaillon, attraverso la Durance e le dico addio. Insieme al caro fiume saluto anche la Vaucluse e muovo i primi passi nel dipartimento delle Bouches-du-Rhône, la bassa valle del Rodano. Sarà l’ultimo sul mio percorso nella Regione Sud (o PACA, acronimo di Provenza, Alpi e Costa Azzurra), dopodichè passerò in Occitania.

Perdo tempo nel cercare un sentiero che non trovo, e alla fine ripiego su una strada secondaria che gli dovrebbe essere parallela. Come sempre mi gusto il cielo notturno schiarire lentamente, dando forma al mondo attorno a me.

Quando il sole fa capolino, dall’orizzonte o da dietro una nuvola, vedo apparire la mia ombra per terra. Muovendomi più o meno sempre verso Occidente, quando c’è bel tempo vivo ogni volta la stessa scena.
Per tutte le albe che ho visto ho dovuto voltarmi, dar le spalle alla grande meta. Ovviamente ne è valsa sempre la pena, qualcosa di simile a un bacio di un genitore prima di andare a scuola.
Anzi, a dirla tutta non è più solo questo. Col tempo, il rapporto col sole è diventato più solido e più intimo: i nostri incontri quotidiani, le ore passate assieme, le carezze alle spalle, il suo spiarmi tra i rami, il regalarmi calore ed energia, oppure tutte le volte che ho seguito i suoi raggi come fossero suggerimenti… Tutto questo e molto altro l’hanno reso ai miei occhi molto più che una stella, e qualcosa di diverso da un genitore: per me ormai si è fatto più simile a un amante.
Chi me lo sente dire, come è naturale che sia, fa sempre una faccia un po’ stranita, mostra un leggero imbarazzo. Ogni volta io mi diverto ribadendo la cosa, con un sorriso in volto che non lascia dubbio sulla mia convinzione.
Mi capisce un po’ meglio chi ha vissuto esperienze simili, anche se resta inevitabilmente qualcosa di personale, che ha il suo posto nel cassetto dei sentimenti provati, uno di quelli che possono essere aperti quasi solo da sé stessi. Lo sto riempiendo come non mai, quel cassetto.


Ora però è tempo di abbassare il volume delle frequenze interiori e ricominciare a lasciar parlare i passi, l’asfalto, i cipressi, i canali a bordo strada e i primi vigneti.

La via è stretta e tranquilla, piacevole da percorrere; il clima, poi, è perfetto.
Quando il cielo ormai si è fatto azzurro e luminoso, comincio a intravedere il campanile della chiesa di Orgon in lontananza, su una bassa collina. Si chiama Notre-Dame-de-Beauregard, leggo nella guida. “Dallo sguardo bello”, se traduco bene: un nome splendido.
Seppur con un po’ di rammarico, rinuncio a salire fin lassù per visitarla. Purtroppo, ammetto che sto cominciando a stancarmi dei troppi portoni chiusi. Sarà per la prossima, forse. La prossima, sì, perché ho già in me questo desiderio, quello di tornare qui, in Francia. Rituffarmi in questa terra meravigliosa, ma a una condizione: in quell’occasione non vorrei affrontarla come terra di passaggio, ma come la meta stessa. Con tutta la ricchezza che sto incontrando da quando ci sono entrato, un viaggio tutto tra i suoi confini me lo immagino come un vero banchetto. Chissà, speriamo.

Attraverso Orgon senza pause e imbocco poi una via che rapidamente mi cala nel cuore del Parco Naturale delle Alpilles, la piccola catena montuosa che impreziosisce questa pianura già splendida.
Appena possibile, il GR mi fa abbandonare l’asfalto e mi conduce lungo una via sterrata; ai miei lati, vasti uliveti e vigne a perdita d’occhio. Tutto le piante sono disposte con il massimo ordine e il colpo d’occhio è di un’armonia spiazzante.
Attraverso anche alcuni boschi e tutto mi fa capire quanto mi stia avvicinando al Mediterraneo. È una natura splendida, e oltretutto la mano dell’uomo qui sembra aver trovato l’equilibrio perfetto con il territorio. Macino chilometri con una gioia incredibile e, come sempre in momenti simili, ringrazio il cielo ad ogni passo per aver trovato il coraggio di partire.

Tornato sulla strada asfaltata, scorgo un colle su cui spicca una chiesetta molto affascinante. Ai suoi piedi, c’è il paesino di Eygalières. Quando ci arrivo, ne resto incantato. Come altri luoghi, non sembra avere attrattive specifiche, ma è nella cura complessiva che si realizza il suo fascino, in quel buon gusto diffuso di cui continuo a stupirmi.
Alcuni indizi mi fanno capire sia un luogo di ricezione turistica, ma allo stesso tempo sembra possa offrire una grande vivibilità. Percorro la traversa principale, quella che mi condurrà in cima al colle. Le case sono tutte piuttosto basse, spesso con pietre a vista. Tra le ultime, si incunea una breve scalinata che si immerge tra gli alberi che coronano l’altura. Quando arrivo in cima, riconosco la cappelletta che mi ha attirato qui, ma mi rendo anche conto che tutt’attorno ci sono altre costruzioni affascinanti, disposte armoniosamente per tutto il poggio. C’è una chiesa adibita a museo di storia locale, alcuni ruderi diventati favolose terrazze panoramiche e, in cima, una torretta con un orologio. Sopra quest’ultima, un elegante gabbia in ferro battuto sostiene una campana. È un dettaglio particolarmente elegante che ho già notato su diverse torri e campanili per tutta la Provenza.

Dal punto più alto posso vedere perfettamente la piana lungo cui ho camminato – perlomeno da Orgon fino a qui. Prosegue a perdita d’occhio e fra poco mi ci tufferò di nuovo. Di fronte a me, invece, le Alpilles: non sono certo maestose, ma la loro dimensione mi dà l’impressione di essere perfetta per questo paesaggio, dove ogni singolo particolare sembra al posto giusto e con le caratteristiche migliori. Un’armonia che sono certo non dimenticherò.
Ridiscendo con il solito sorriso imbambolato. Mi diverte accorgermene e non mi preoccupo più di cosa potrebbe pensarne chi mi incontra. Anzi, sono convinto capirebbe subito cosa me l’ha procurato, e forse sorriderebbe a sua volta tra sé e sé.

Il percorso che pensavo si sarebbe perso nella landa pianeggiante, mi porta invece ai piedi delle Alpilles. A quanto pare, da lì partono chilometri di sentieri che si snodano fino a Saint-Rémy-de-Provence. Immergendomici, attraverso scenari che sembrano l’uno completamente diverso dall’altro, ma sembra si mantenga sempre e comunque una tale perfezione estetica che pare quasi impossibile.
Guardandoli meglio, poi, inizio ad accorgermi che gli elementi del paesaggio sono sempre quelli incontrati nelle ore precedenti. Si ripetono, cambiando semplicemente nelle proporzioni e combinandosi in assetti diversi, e anche questo non fa altro che aumentare la mia meraviglia.
Qui più che mai, tra vigne e uliveti di rara bellezza, prendo atto di come l’agricoltura, oltre al suo scopo produttivo, possa essere anche uno straordinario strumento di valorizzazione territoriale. Non è certo una scoperta, ma farne esperienza diretta è sempre toccante.

Il cammino mi sta letteralmente immergendo in dimensioni che non avevo mai conosciuto prima. Queste settimane rigorosamente a passo d’uomo mi stanno regalando tempi di contemplazione eccezionali, permettendo a mente e spirito di cogliere e godersi un’incalcolabile quantitá di dettagli e suggestioni.
Nonostante possa sembrare paradossale, però, convivo anche con la sensazione martellante di non avere mai il tempo per conoscere nulla come vorrei. Si tratti di una nuova persona oppure un qualsiasi particolare che rende unico un territorio, io lo posso giusto assaporare, prenderne un boccone di rapina, ma mai conoscerlo a fondo.
Probabilmente sono una persona che per qualche motivo non è mai sazia, ma resto convinto ci sia dell’altro. È come se tutto ciò non appartenga solo a me, ma si radichi anche nella condizione stessa del pellegrino, il cui procedere è lento, sì, ma sempre anche incessante. Sulla strada verso la meta, la distensione pare non potersi separare dal suo opposto, la frenesia. Si sfiora tutto, forse si lascia anche un segno qua e là – e si resta marchiati a propria volta – ma ogni incontro sfocia sempre raidamente in un addio.

In tutto questo, mi sto scoprendo più che mai poroso, nel senso che tutto ciò che riesco a strappare dal mio incedere quotidiano sembra sempre trovare poi una nicchia nella mia memoria. Non potrò quindi arrivare a conoscere tutto come vorrei, ma quello che mi è dato cogliere pare riesca a trattenerlo.
Durante il riposo serale o nelle pause diurne mi capita spesso di trovarmi già a lustrare quei ricordi, a soppesarli, a spiarne meravigliato le rifrazioni e le sfumature.
Certo, un’eseprienza di cammino si assocerebbe maggiormente allla pratica del lasciar andare fiducioso, ma il trattenere sembra faccia parte di me in maniera irrinunciabile.
Stando così le cose, è facile immaginare che già da tempo mi senta stracolmo, e per un po’ sono stato anche preoccupato: a volte ho avuto paura di appesantirmi a tal punto da arrivare a sentirmi sazio, e magari essere tentato dal lasciare a metà il viaggio.
Per fortuna, tutti questi sono stati gli scalini che mi hanno portato a una visione nitidissima, e forse anche un po’ arrogante perché già proiettata oltre Santiago: ho deciso che al mio ritorno scriverò tutto.
È un’altra sfida splendida, che fa capolino mentre ancora sto vivendo questo grande sogno. Ci penso da giorni, e tutto mi è sempre più chiaro. La cosa davvero speciale, però, è che non è solo una risposta alle necessità di sfogarmi, di alleggerirmi. La portatata di questa scommessa va ben oltre, è certo. Anche se non sono che uno dei tantissimi che intraprendono avventure simili ogni anno e in ogni parte del pianeta, scrivere di questo pellegrinaggio produrrà valore anche per qualcuno che non sono io. Sarei un ipocrita se non confessassi che la sento un po’ anche come una piccola chiamata: quella, cioè, di essere pellegrino oggi, e domani…testimone.
Proprio questa parola mi rimbomba nella testa sempre più spesso, e tutto quanto insieme ora mi regala una lieve quiete che sembra essermisi depositata sul fondo del cuore, e che spero più di ogni altra cosa che ci resti.
Ovviamente le fotografie che posto ogni sera su Whatsapp sono già un assaggio di questa proiezione, e già producono da settimane frutti che mai mi sarei aspettato, ma sicuro che il racconto che immagino sarà qualcosa che andrà ben oltre.

Tornando infine nella sana concretezza del presente, vivo ore di cammino deliziose, sempre ai piedi della bassa catena montuosa. Una volta fatto il primo passo nel territorio di Saint-Rémy, mi imbatto in un’altra grande sorpresa: senza quasi accorgermene, mi scopro appena fuori le mura di cinta del Monastero Saint-Paul de Mausole. È un luogo molto antico, ma è noto soprattutto per aver ospitato per circa un anno Vincent Van Gogh, poco prima della sua morte. La celebrità del posto nasce soprattutto dal fatto che proprio durante questa residenza sono nate alcune delle opere più celebri dell’artista olandese. Il monastero in quel tempo svolgeva la funzione di ospedale psichiatrico, ma anche ai giorni nostri pare sia rimasto una struttura specializzata nel medesimo ambito.
Dirimpetto all’entrata c’è un bel viale ai cui lati stanno degli uliveti molto suggestivi, eredi di quelli che lo stesso Van Gogh ritrasse.
L’emozione di essere lì è sottile e acuta. Me la gusto con rilassatezza, lasciandole tempo e fermandomi anche a pranzare su una panchina lì di fronte.

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Quando riparto, nemmeno troppo stanco, scorgo al di là della strada due monumenti romani particolarmente imponenti. Ho letto ieri che poco lontano da qui c’è uno splendido sito archeologico, ma non ho abbastanza tempo per visitarlo. Mi dedico quindi ben volentieri a contemplare da vicino quello che la via mi regala. Avvicinatomi, scopro un grande arco di trionfo e un mausoleo, entrambi molto ben conservati e datati circa duemila anni fa! Sono di una bellezza indescrivibile. Non ho più parole oggi, davvero.


Dopo averci girato intorno per una decina di minuti, proseguo verso il centro della cittadina. Incastonati nel marciapiede, distanti una decina di metri l’uno dall’altro, ci sono dei medaglioni di ottone con inciso il nome Vincent, replica della famosa firma. Accompagnano e dirigono la visita dei turisti, in abbinamento a delle tavole incorniciate con rappresentazioni di quadri di Van Gogh ben commentati.

Raggiungo in pochi minuti l’ufficio turistico, dove ottengo il timbro per la mia credenziale, dopodiché resto mezz’ora a spasso per il centro storico.
Le vie interne di Saint-Rémy sono deliziose. Ci sono negozi, bar e ristoranti molto attraenti, e non mancano ovviamente le gallerie d’arte. Di solito, la concentrazione commerciale non è una cosa che apprezzo, ma qui sembra sposarsi bene con tutto il resto.
Definitivamente sazio per tutto quanto visto oggi, faccio un po’ di spesa e raggiungo il campeggio.

Le sorprese, però, pare proprio non vogliano finire. La prima è che questo è il primo campeggio che incontro che ha inclusa la piscina, e il pomeriggio assolato mi permette di godermela per un’ora abbondante.
La seconda è che lì faccio conoscenza con Nina e suo figlio, il piccolo e vivacissimo Lionel. Sono svizzeri e sono in vacanza con un furgone spettacolare: un Volkswagen Ocean nuovo e luccicante. Mi racconta che è stata per tanti anni una viaggiatrice zaino-in-spalla, ma questo veicolo è sempre stato il suo sogno e da poco è riuscita a permetterselo. Parliamo usando lo spagnolo, la lingua di suo marito. Si entusiasma venendo a sapere cosa sto facendo e passiamo qualche minuto molto piacevole chiacchierando, finché Lionel – gelosissimo delle attenzioni della mamma – non la richiama al suo dovere.

Una volta tornato in tenda, controllo le previsioni per domani: sono disastrose. Sembra pioverà a dirotto per tutta la mattina, a partire dalle sei. Decido quindi di fissare la sveglia molto presto, per riuscire almeno a smontare la tenda all’asciutto, rassegnandomi ovviamente a prendere poi tutta la pioggia che verrà.
Escludo immediatamente di seguire il percorso originale che mi porterebbe a salire e scendere l’ultimo ramo delle Alpilles, fino a Fontvieille. Affrontare al buio e sotto un nubifragio un sentiero di una decina di chilometri senza altro che natura è un’esperienza che decido di risparmiarmi.
Individuo un tracciato alternativo, tutto su asfalto. Sarà sicuramente meno bello, ma è senza dubbio l’unica soluzione.

Non mi piace l’idea di arrivare ad Arles sotto una pioggia torrenziale e spero soprattutto non mi affatichi eccessivamente. La cosa più saggia, comunque, sembra prendere quello che verrà con serena rassegnazione e goderselo quanto più possibile. Sono a un passo da un altro grande traguardo e sono eccitatissimo; speriamo di dormire stanotte.

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Bouches-du-Rhône, Francia, PACA