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cammino di santiago - roberto pesenti

23/10 Nájera – Belorado

(Albergue Municipal)
44,5km

Anche oggi inizio la mia marcia giornaliera senza gli amici di Laigueglia. Ci sono tante cose che mi spingono a farlo. Alcune le ho già descritte, ma ce ne sono due che riguardano propriamente la mattina: una è il desiderio intimo e forte di vivere altre albe da solo, e l’altra – forse meno poetica – è il gusto di fare colazione da me con pane, burro e marmellata, intinti in un bel tazzone di latte freddo mescolato con il mio fidato caffè in polvere. È un piacere nato dallo sforzo ben comprensibile di limitare al massimo le spese quotidiane, ma anche dalla necessità di partire molto presto – quando i bar sono ancora chiusi – per non farmi rubare troppe energie dal caldone di metà giornata.
La curiosità è che, tappa dopo tappa, l’attrattiva per le albe e il gusto per questo tipo di colazione si sono legate tra loro in modo molto stretto. Queste frugali scorpacciate, infatti, sono vere iniezione di gioia – oltre che di calorie – e ogni volta mi fanno partire già carico di una sana gratitudine, che diventa poi il terreno migliore per riconoscere ed accogliere tutti gli altri doni della giornata. Tra questi, spesso, il primo e uno dei più grandi è proprio il poter assistere al sorgere del sole: un momento che ho scoperto capace di nutrirmi tanto quanto le mie abbuffate mattutine.

Sta di fatto che quando mi butto in strada c’è ancora un gran buio, e all’inizio addirittura pioviggina, con il rischio che debba rinunciare al “bacio” mattutino che tanto amo. Per fortuna smette quasi subito e il cielo va via via schiarendosi, deliziandomi con la flebile luce della notte che finisce.

Dimenticavo! Come da programma, Zoe è partita molto prima di me. La aspetta una tappa molto lunga per riuscire a lasciare La Rioja, e sa che ha bisogno di tempo per colpa dei suoi problemi ai piedi.
Probabilmente si fermerà nel primo o nel secondo paese oltre il confine castigliano. Stamattina l’ho sentita uscire ma non l’ho salutata. Un po’ per non svegliare i miei due compagni di stanza, e un po’ perché sono certo che la incontrerò lungo il tragitto.

Tornando a me, concludo una salita poco impegnativa lungo una strada ghiaiosa, superando il passo tra le due colline rocciose alle spalle di Nájera. Già al di là di queste, il cielo si comincia ad aprire sempre più e davanti a me il percorso si protende serpeggiante verso l’orizzonte. Con mia grande sorpresa, affonda in mezzo ad un’infinità di vigneti: piccoli appezzamenti tutti incastrati l’uno con l’altro, apparentemente ancora più colorati di quelli visti ieri, anche se tutto è ancora velato dalla fredda luce azzurra.

In poco più di trenta minuti, però, quello stesso cielo vira su sfumature sempre più rosate fino allo spuntare tanto atteso del piccolo disco d’oro, dalla corona di raggi pungenti e bellissimi. Come sempre mi succede camminando verso ovest, mi godo il nascere del sole a partire dall’ombra di me stesso che da un momento all’altro vedo apparire lì davanti a me. La sequenza è sempre la stessa: sorrido come un bambino e mi giro di scatto a fissare quel cuore accecante che arriva a trovare me e tutto quanto. Intorno a me, la luce del mio insostituibile amico scatena lo sbocciare di molti più colori di quanti me ne aspettassi. Cromaticamente, è di certo una delle albe più belle vissute finora.

Spalle alla meta, rimango fermo impalato a scattar foto e godermi il momento eccezionale. D’un tratto, noto che all’orizzonte sta avvicinandosi un altro pellegrino, che però non riconosco. Cammina con due corti rami che usa come racchette. Lo aspetto con piacere e curiosità, per condividere quest’istante con un altro viandante mattiniero come me.
Si chiama Gideon, e viene camminando nientepopodimeno che dalla Danimarca! Credo sia in assoluto la persona partita da più lontano tra tutti noi, ultimi peregrinos di questa stagione unica e controversa. Credo abbia più o meno l’età di Tiziano. È sbarbato e sorridente, con gli auricolari nelle orecchie e un cappello da baseball. Dopo essere rimasti un po’ in contemplazione assieme, proseguiamo spalla a spalla, continuando la nostra conoscenza. Parla un inglese perfetto e super fluente – tant’è che non capisco tutto – ma riesce comunque a mettermi a mio agio: ha infatti una straordinaria gentilezza e uno spirito curioso, oltre al fatto che si dimostra molto disponibile a raccontarsi.

Percorriamo assieme e piacevolmente parecchi chilometri, finchè incontriamo quello stesso pellegrino barbuto che ieri mattina a Logroño faceva yoga fuori dalla camerata. È impegnato nella medesima attività, in mezzo a un paesaggio superlativo e rivolto al sole con la pace stampata in volto.
Quando ci vede, interrompe la pratica e, senza proferire parola, ci invita ad osservare meglio l’albero che stiamo superando. Ha la particolarità di avere ancora molti fichi maturi appesi ai suoi rami; sono passate settimane da quando ne ho trovato uno ancora così carico. Non resisto! Con l’acquolina in bocca, mi avvicino immediatamente per coglierne uno. La pianta, però, sta aldilà di un piccolo avvallamento. Ingolosito, lo approccio troppo di fretta e finisco con lo scivolarci dentro in maniera ridicola, quasi fossi un cartone animato.
Mi rialzo imbarazzato ma anche divertito, cercando uno scambio di risate con lo yogi. Il suo sguardo tristissimo, però, mi lascia esterrefatto. Non faccio a tempo nemmeno a chiedergliene conto, perché mi basta seguire il suo sguardo: sta fissando il mio zaino, indicandolo come faceva con la pianta un attimo fa. In un istante realizzo che uno dei miei amati bastoncini si è spezzato a metà e ora è totalmente inservibile.

Ci faccio istintivamente una risata, in fondo senza mentire troppo, ma di certo faticherò un po’ a rinunciarci. È un cimelio a cui ero affezionatissimo: non solo perché con il suo gemello mi ha accompagnato lungo tutto il Cammino Materano e – ovviamente – da Bergamo fin quaggiù, ma anche perché formavano la coppia più leggera di sempre, e dico sul serio. Ne ho soppesati decine di altri durante queste esperienze, e tutte quanti ben più pesanti dei miei. Tra l’altro li comprai per soli 3€ da un rigattiere, che evidentemente non immaginava valessero almeno venti volte di più. Ad ogni modo, non c’è nulla da fare. Lo tengo comunque con me, promettendomi di togliere il meccanismo interno e tenerlo come scorta.

L’amico yogi è ancora turbato dall’accaduto. Sembra quasi si senta vagamente in colpa, così lo consolo spiegandogli quanta gioia mi abbia dato assaporare l’ultimo fico ancora maturo della stagione. Il tentativo va a segno, perché sul suo volto rugoso e abbronzato torna a splendere un bellissimo sorriso. Comunque è la seconda volta in questo cammino che mi capita un disguido sporgendomi troppo per strappare un frutto dalla pianta. La prima è stata quando mi sono slogato una caviglia mentre tentavo di cogliere una mora, e anche in quel caso era l’ultima matura vista in Francia. Secondo me anche Adamo al casting per la Genesi ha perso la parte da protagonista per lo stesso motivo.

Nei chilometri successivi terminano i vigneti e anche con Gideon esauriamo un po’ gli argomenti, cosicchè con gran naturalezza torniamo a camminare in silenzio. Quand’è così, ciascuno tende anche a tornare al proprio passo naturale. Metro dopo metro, quindi, mi ritrovo a camminare da solo dopo meno di un’ora.
Nel frattempo, però, sopraggiungono altri pellegrini, tra i quali anche Richard e Arnaud. Soprattutto quest’ultimo sembra scatenato e, sorpassassandomi, mi saluta raggiante: mi svela che oggi è lui quello che ha bisogno di correre. Divertito, gli auguro buon cammino e lo lascio avventarsi sull’orizzonte.

Poco dopo vedo spuntare anche Zoe in lontananza. Non ci metto molto a raggiungerla; mi spiega che continua ad avere problemi, ma prosegue comunque imperterrita, col suo carattere testardo celato dietro un sorriso sempre luminoso.
A differenza di ieri, decido di non sorpassarla perché voglio approfittare della sua compagnia più che posso. Oggi, infatti, ci fermeremo una decina di chilometri più in là di lei e non è scontato ci si vedrà ancora.

In sua compagnia e con il resto di questa carovana sparpagliata, raggiungiamo Cirueña – o almeno i suoi quartieri più recenti. Ogni isolato ha uno stile architettonico diverso, ma le case all’interno di ciascuno sono identiche l’una all’altra. In particolare mi colpiscono delle villette che sembrano ispirarsi a delle case medievali, qualcosa di simile a quelle viste a Mirepoix.

Mancano circa cinque chilometri a quella che sarebbe stata la meta tradizionale di questa tappa: Santo Domingo de la Calzada – cittadina intitolata a un santo molto importante nella storia di questa via di pellegrinaggio.
Prima di arrivarci, saliamo una piccola altura. La vista della strada che poi scende in mezzo ai campi colorati é una di quelle più suggestive del Cammino. All’ombra di un albero aspettiamo Amedeo e Tiziano, che mi hanno avvisato essere poco dietro di noi. Arrivano con gran disinvoltura e l’immancabile allegria, e con loro proseguiamo fino alla città del santo.

Zoe mi racconta qualcosa in più sulla propria famiglia, stupendomi per certe splendide originalità e aiutandomi a capire meglio quale sia la sorgente di quella sua speciale energia interiore. Chiacchierando, arriviamo in centro. Mentre i prodi liguri scovano un bar dove fare una meritata pausa, io accompagno l’indomita amica in un negozio di articoli sportivi. Ascoltando il proprio corpo, ha intuito che con un paio di sandali potrebbe darle sollievo ai piedi nei momenti peggiori, e vorrebbe acuqistarli subito. Ne trova di ottimi, ma il prezzo è esorbitante e così usciamo a mani vuote, andando a brindare a tempi migliori insieme agli altri.

Ci rimettiamo gli zaini in spalla piuttosto alla svelta e raggiungiamo la piazza della torre Extenta e della Cattedrale. Lì ritrovo Xavier e i suoi amici seduti a riposare al sole, a riprova che questo cammino spagnolo è tutto un magnifico perdersi e ritrovarsi. Per un attimo mi stacco dalla ciurma per verificare che sia possibile o meno visitare la chiesa, ma ancora una volta rimango deluso. Pazienza.
Tornato con gli altri, qualcuno confessa che l’aperitivo gli ha aperto lo stomaco, e d’altronde ormai è mezzogiorno e mezzo. Troviamo un tavolo da picnic proprio prima del ponte sul río Oja, dietro all’Ermita del Puente. È passato solo un quarto d’ora e già stiamo posando ancora a terra i nostri zaini, dai quali sfiliamo del pane e i soliti affettati confezionati.

Vista la doppia pausa ravvicinata e i tanti chilometri che ancora ci aspettano, decidiamo di intrattenerci poco e torniamo a fare quello che ci piace di più: muover passi. Dopo un ultimo tratto su asfalto, torniamo per fortuna su terra battuta, sfiorando l’autostrada e passando tra grandi campi ondulati.
Dopo pranzo e sotto il sole non si può certo dire che siamo al massimo delle nostre forze, tanto che ringraziamo il cielo alla vista di un bar aperto a Grañon, dove ci regaliamo un buon caffè tonificante.
Dico “buono”, ma in realtà il caffè qui in Spagna è un po’ come in Francia: lunghissimo. Si può sempre chiedere un café solo, pari a un nostro espresso, ma il fatto è che all’estero amano poco la concentrazione a cui siamo abituati in Italia, e i baristi non sono predisposti a curarlo troppo, salvo rare eccezioni.

Mentre sostiamo davanti all’ennesima chiesa chiusa, Tiziano ci racconta dell’emozionante momento di preghiera che in anni normali si può vivere qui la sera. Il sacerdote del paese, infatti, è uno degli animatori spirituali più noti del Cammino e ogni giorno i pellegrini possono sperimentare in questo luogo un’intensa esperienza di condivisione. Purtroppo a noi non è dato viverla quest’anno, ma siamo sempre più consapevoli che ci sono altri aspetti che ci rendono indiscutibilmente dei privilegiati.

Salutiamo il bel paesino e torniamo a scendere tra le morbide onde dei campi, alcuni arati e asciutti, altri umidi e scuri, altri ancora già impreziositi dal velo verde di giovani germogli.
Un’altra ora e raggiungiamo un nuovo gruppo di case affacciato su una strada provinciale. In mezzo a una piazzetta, un mojon più tozzo e grande del solito ci regala la gioia di un altro grandissimo traguardo raggiunto: l’arrivo in Castilla y Leòn. Ce l’abbiamo fatta, siamo riusciti a sfuggire anche alla seconda chiusura regionale! Il nostro cammino può continuare!

Il paese si chiama Redecilla del Camino. Comprensibilmente oggi saranno molti i pellegrini a fermarsi qui, sazi dei 30 e passa chilometri già percorsi. Richard è uno di quelli; lo troviamo infatti fuori dall’unico albergue aperto, appollaiato in ciabatte e pantaloncini su una panchina soleggiata. Ci saluta con il suo immancabile buonumore, ma resta quasi sconvolto nell’apprendere che i tre italiani oggi proseguiranno fino a Belorado. Noi ci ridiamo sopra e facciamo un po’ gli sbruffoni, ma la verità è che mancano ancora una dozzina di chilometri e i nostri corpi stanno già lanciando ammonimenti molto chiari.

Meno di due chilometri dopo, arriviamo a Castildelgado; è qui che salutiamo Zoe. Siamo un po’ emozionati perché non sappiamo quando ci si potrà rivedere. Certo, le variabili sono tante e tutto può succedere in quest’annata folle. Chissà. Di certo io mi ci sono affezionato tanto, e nel lungo abbraccio con cui la lascio tento di imprimere quei messaggi già ribaditi tante volte: la gioia di averla conosciuta e l’ammirazione per la sua incrollabile forza di volontà.

Pochi istanti dopo, le nostre gambe tornano già a mordere la strada. Passo dopo passo, lo spazio tra noi e la giovane amica si va ingigantendo. Siamo in Spagna da meno di una settimana, ma abbiamo vissuto quest’esperienza più di una volta: a quanto pare, Cammino significa anche questo. È di certo parte di ogni percorso di vita vivere tratti comuni di strada e poi doversi salutare, ma qui se ne fa esperienza con inusuale frequenza e il poco tempo passato assieme spesso ha un peso specifico maggiore rispetto alla quotidianità. È una palestra che aiuta a cogliere con maggiore sensibilità il valore delle vite e delle storie di ciascuno, il dono datoci di poter essere protagonisti di questi incroci preziosi. Ho il presentimento che chiunque esca da quest’esperienza sarà più portato a riconoscere con gratitudine quanto valga l’incontro, lo scambio e la solidarietà con l’altro da sé.

Eccoli ancora qui, i tre moschettieri dello stivale, che a passo lungo e stanco si immergono nelle vallate aride e sinuose di questa terra apparentemente vuota, ricca invece di storia e di storie.
Come in mattinata, incontriamo qua e là veri e propri muri di paglia fatti di balle rettangolari messe una sopra l’altra e lasciate alle intemperie. Inesperto in materia, non so spiegarmi quanto e come possa essere vantaggioso rinunciare ad ogni protezione. Va detto, però, che in Francia e in Italia mi è piaciuta gran poco la vista di decine e decine di grandi balle cilindriche avvolte in pellicole dai colori sempre dissonanti con quelli del paesaggio attorno. Nell’armonia e nella bellezza diffusa incontrata in territorio francese, quegli incontri sono stati spesso le note più stridenti. Sembrava di trovarsi di fronte a grandi marshmallow rosa, neri, verdolini, bianchi, lasciati lì a macchiare scenari incantevoli.

Sono questi alcuni degli ultimi pensieri lucidi che riesco a fare prima che inizi a subentrare sempre più la stanchezza, che passo dopo passo comincia inesorabilmente a rimbecillire tutti e tre. Camminiamo ai bordi di una strada provinciale e grossi camion sfrecciano di fianco a noi, spostandoci ogni volta di qualche centimetro ma anche sostenendoci con i loro clacson strombazzanti.
Amedeo è il più provato, ma tutti e tre stiamo impazzendo per la frustrante assenza di qualsivoglia indizio che segnali l’avvicinarsi di Belorado. Da un tempo che ci sembra infinito, infatti, siamo in una specie di grandissima conca e la strada va incuneandosi tra due colli che però impediscono di vedere oltre. L’ocra dei campi secchi è affascinante, ma dopo 40 km percorsi l’unica cosa che riesce a darmi sollievo è sapere che siamo agli sgoccioli di questa tappa un po’ suicida.
Come altre volte in condizioni simili, azzardo dei disperati sprint per evitare di rallentare troppo e finire letteralmente col trascinarmi, ma fra poco credo proprio che crollerò.

Quando finalmente raggiungiamo la fine della vallata, scorgiamo dall’altro lato della strada il cartello con il nome della meta. Forse per la gioia, mi pare di vederlo brillare di luce propria, tanto che mi nasce il dubbio sia un miraggio. Inevitabili le urla di sfogo euforico e qualche foto di rito. Dietro a sorrisi un po’ forzati cerchiamo di  nascondere le facce da disperati che ormai portiamo da più di un’ora.
Per l’occasione, poi, sorprendo i miei compagni con un premio inaspettato: delle barrette ai cereali tenute gelosamente da parte proprio per questo momento. Non regalano la gioia mistica di una birra gelata, ma vengono comunque molto apprezzate: un vero e proprio boost per la pur poca strada ancora da fare.

Raggiunto l‘albergue, scopriamo che la tizia che lo gestisce se n’è già andata a casa, e che per ricevere il codice d’accesso dobbiamo prima inviarle le nostre carte d’indentitá. Seguono minuti interminabili, soprattutto perché ho un bisogno esplosivo di andare al bagno. Quando finalmente riusciamo a entrare, scopriamo che dentro ci sono già una decina di altri pellegrini, tra cui addirittura altri tre italiani.
Due di questi sono Linda e Giuseppe: lei giovane archeologa toscana sempre sorridente e un po’ naïf, lui maestro di danza sardo, di qualche anno più grande di me. Sembra piuttosto acciaccato, ma ben sostenuto dal bel gruppo con cui camminano. Ci sono Tim (un giovanissimo austro-indiano), Sergi (un meteorologo catalano) e Kiki (una francese particolarmente simpatica e frizzante).

L’altro italiano, invece, si chiama Matteo e sta viaggiando in bicicletta con Marta, la sua compagna spagnola. Sono due viaggiatori permanenti da circa un decennio: lavorano dove trovano, in giro per il mondo, giusto il necessario per finanziare il loro girovagare. Lui è piemontese e sembra avere un buon umore innato. Alla pari di lei, irradia un’energia splendida, di una limpidezza che non ho mai incontrato prima.
Matteo ha anche la particolarità di aver ormai perso la naturalezza della lingua madre. Pur parlando italiano quasi perfettamente, non riesce ad evitare di puntellarlo qua e là con parole spagnole o inglesi, tra l’altro con un accento tutto suo. Resta comunque un narratore piacevolissimo da ascoltare, soprattutto per noi pellegrini più o meno occasionali.

Vivo tutto questo a cavallo tra l’arrivo e il dopocena in albergue. Nel mezzo c’è anche tempo per una delle birre più meritate di sempre, che ci beviamo al tavolo di un bar nella bella piazza del paese, ammutoliti dalla fatica ma in fondo felicissimi. Per cena, li convinco a comprare in un negozio di alimentari una pella confezionata. Ne avevo già mangiata una della stessa marca la sera prima e mi era sembrata dignitosa. Per qualche motivo, questa volta si rivela invece piuttosto disgustosa, tanto che anche il pacifico Amedeo non si trattiene dal cazziarmi, seppur solo con velenoso ed esilarante umorismo.

Finisce così questa giornata lunga e ricchissima, coronata anche dalla notizia che perfino l’Oficina del Peregrino a Saint-Jean-Pied-de-Port ha eccezionalmente chiuso i battenti per questa stagione. Questo decreta che la carovana di pellegrini arrivata oggi in Castilla rappresenta ormai per certo l’ultimo manipolo di camminatori sul Francès. Con buona probabilità, nessun’altro dopo di noi potrà raggiungere Santiago a piedi per quest’anno, ma anche il nostro sogno resta comunque appeso a un filo.

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Categorie:

Castilla y Leòn, Spagna