(Albergue Fagus)
30km
Esser riusciti a entrare in Castilla y Leòn è stato un gran sollievo, ma sappiamo bene che non è finita qui. L’ennesima ondata pandemica sta producendo confinamenti territoriali a catena. In Navarra ce la siamo cavata saltando un paio di tappe, le piccole dimensioni de La Rioja ci hanno permesso di superarla in un paio di giorni, ma la regione in cui ci troviamo ora è davvero troppo grande per pensare di farla franca così facilmente. Nel caso in cui decretassero a breve un’altra chiusura, rischieremmo di dover saltare come minimo una decina di tappe.
È una prospettiva già presa in considerazione da ognuno dei pellegrini di quest’ultima carovana diretta a Santiago. C’è chi non accetterebbe una mutilazione simile del percorso; qualcuno invece non si farebbe grossi problemi, e prenderebbe di nuovo i mezzi per proseguire direttamente in Galizia – sempre che non chiudano contemporaneamente anche quella. A qualcun’altro ho sentito dire che tenterebbe di continuare comunque a piedi, sfidando le regolamentazioni straordinarie con la convinzione che la Guardia Civil non starebbe a perder tempo con un piccolo manipolo di viandanti.
Per quanto mi riguarda, sarebbe lacerante abbandonare questa piccola grande impresa proprio ora, ma non sono più disposto a proseguire se non coi miei passi, e allo stesso tempo non sono così convinto che al pellegrino spettino più diritti che a un cittadino qualsiasi, soprattutto in una situazione tanto complicata come questa.
Insomma, i pensieri sono tanti. Non sono ancora vere preoccupazioni, ma so che potrebbero diventarlo.
Le informazioni che abbiamo attualmente dicono che in Castilla y Leòn sono già attivi importanti confinamenti interni, quelli delle due maggiori città: Leòn e Burgos, il capoluogo.
Riguardo alla prima, fingiamo di non pensarci nemmeno. Come minimo manca ancora una settimana prima che ci possiamo arrivare a piedi, ed è evidente che in questo tempo può succedere di tutto. Burgos, invece, dista una cinquantina di chilometri abbondanti, che per noi equivalgono a un paio di giorni di cammino. Essendo ufficialmente vietato entrarvi, però, sono stati istituiti degli autobus appositamente per i pellegrini: partono da Atapuerca (a 35 km da qui) e portano oltre il capoluogo.
Per quanto mi riguarda, è un’ipotesi che non voglio minimamente prendere in considerazione, tanto che già ieri sera mi sono messo a cercare gli allogi più disparati tutt’attorno alla città. Mi è già capitato di camminare fuori traccia, e la cosa mi risulta tutt’altro che spaventosa.
Tiziano, invece, nei suoi precedenti cammini si è talemente innamorato delle cattedrali di Burgos e Leòn che ha un desiderio ostinato di tornare ai loro piedi.
Forte della sua ampia rete di contatti, vaglia ogni spiraglio e raccoglie tutte le testimonianze possibili di chi – davanti a noi di una o più tappe – può darci consigli preziosi. È proprio grazie alle sue ricerche scopriamo che in maniera non ufficiale è concesso ai pellegrini l’attraversamento della città, ma a condizione di non pernottarvi. Era la notizia che aspettavamo! Non ci resta altro che organizzarci.
L’obiettivo di oggi è quello di avvicinarci il più possibile ai confini orientali del capoluogo, e rassegnarci poi a un’altra tappa disumana domani. I primi alloggi disponibili oltre Burgos, infatti, sono talemente lontani che ci costringeranno a replicare i quaranta e passa chilometri del giorno passato. L’idea un po’ ci spaventa: sappiamo che possiamo farcela, ma è chiaro che ne usciremo sfiancati, e senza grandi possibilità di rallentare nemmeno in seguito.
Amedeo sembra quello che più di tutti sta soffrendo questo genere di distanze e di ritmi, ma come dargli torto? D’altronde gli mancano sia l’esperienza trascinante di Tiziano, sia un fisico ormai ben rodato, di chi cammina già da più di undici settimane. Purtroppo per lui, o per fortuna – ce lo dirà il Cammino – il legame inscindibile con l’amico lo trattiene da qualsiasi idea di separazione.
Ad ogni modo lo sappiamo bene, tutte queste sono ben lontane dall’essere delle tragedie. Fatichiamo, sì, ma ammettiamo costantemente di esser comunque dei privilegiati che stanno scegliendo tra opzioni tutte positive. La verità meno espressa è che in fondo questa dimensione quasi epica a cui ci costringe la pandemia ci sta anche un po’ appassionando.
Nonostante lo spettro del lungo chilometraggio, partiamo comunque piuttosto tardi, quasi alle 8:30. Il cielo fa da palcoscenico a qualche strappo di nuvola che danza il proprio lento, mentre altre più pigre stanno appollaiate sull’orizzonte a nasconderci per dispetto il sole che sorge.
Io sono riuscito anche oggi a ritagliarmi un tempo per la mia colazione fai da te. Amedeo e Tiziano, invece, non vogliono altro che un bar, e stavolta sono usciti addirittura prima del sottoscritto. Purtroppo, però, trovano tutto ancora chiuso, inaugurando la giornata in modo molto diverso da come speravano.
Dopo un paio di chilometri siamo già in piena campagna. Camminiamo su una pista di ghiaia che solca un quieto mare di colline. Come ieri, i campi sono per lo più aridi, e quelli che fanno eccezione sono coperti da una moquette verdolina d’erba giovane. Qua e là si vedono alberi, qualche arbusto, e in lontananza alcuni boschi.
Respiriamo pace e ampiezza, ingredienti ideali per goderci la nostra lenta e inesorabile marcia. Diventano una maledizione solo quando si ha bisogno di luoghi dove poter riempire lo stomaco, e nei casi peggiori la desolazione può farsi davvero atroce.
Il primo paese lo incontriamo dopo più di un’ora: si chiama Tosantos, ma non c’è niente di aperto per fare uno spuntino. I miei compagni sono ancora a digiuno e cominciano a preoccuparsi seriamente. Anch’io vado parecchio in sofferenza la mattina se non faccio colazione e spuntini vari, però ho anche imparato che la paura di non trovare niente per ore sembra amplificare la fame.
Sento i due cominciare a rimbalzarsi lamenti e maledizioni. Ne nascono siparietti esilaranti – o almeno questo è l’effetto che fanno a me – ma tento di trattenere le risate per non aumentare l’esasperazione.
Grazie al cielo, separandoci tra le viuzze del paese successivo – Villambistia – uno di noi scova finalmente un piccolo bar aperto e richiama gli altri come se avesse trovato una miniera d’oro. Ormai sono già quasi le dieci. Ci raduniamo con sollievo impagabile attorno a un tavolo interno, sotto gli occhi divertiti di qualche vecchio abitante del posto, lì a bere un cicchetto.
Alle spalle del barista, una lista di golosità scatena ancor di più la fame accumulata, e ognuno si regala qualche stuzzicheria. Si aggiungono poi, uno alla volta, anche gli amici pellegrini conosciuti ieri sera e partiti poco dopo di noi. Alla fine il bar arriva a riempirsi senza troppo riguardo per le precauzioni dovute al periodo, ma nessuno sembra badarci.
Conclusa l’indispensabile pausa di rifornimento e rinvigoriti per bene, ci si rimette tutti in marcia, salutando con gratitudine il simpatico proprietario e il resto della rappresentanza locale.
I chilometri immediatamente successivi li spendo con Tim, il ragazzo austriaco di origini indiane. A dispetto di un’apparenza piuttosto composta e riservata, si dimostra una persona allegra ed espansiva, oltre che particolarmente in gamba. Ascoltarlo è un piacere, ma dopo Espinosa del Camino esprimo al mio estemporaneo compagno il bisogno di isolarmi un po’. Nonostante me ne esca con questa richiesta da un momento all’altro, lui non batte ciglio e la accoglie con la stessa simpatia dimostrata fin qui.
Riflettendoci, mi rendo conto che questa mia esigenza aumenta di portata quando parlo inglese troppo tempo. Me la cavo ottimamente, ma allo stesso tempo ho imparato a conoscere le mie lacune peggiori. A partire da queste, succede che mi ingolfo sempre più man mano che le conversazioni procedono, fino al punto in cui il mio cervello getta la spugna sfinito. La mia autonomia sembra aumentare in base a quanto l’interlocutore mi metta a mio agio, ma la dinamica rimane più o meno sempre questa.
Tiziano e Amedeo, nel frattempo, ci avevano distaccati di due o trecento metri. Pur con passo sostenuto; li raggiungo solo quando si fermano a fare pausa fuori da un bar a Villafranca Montes de Oca. Ormai è quasi mezzogiorno: l’orario perfetto per una birra con qualche tapas. Qui assaggio per la prima volta la morcilla, un insaccato locale simile al nostro sanguinaccio.
Con l’arrivo scaglionato di tutti gli altri, la corona di sedie si allarga e la compagnia si ricompone. L’unica che manca all’appello è Linda, di cui si sono perse le tracce chilometri addietro. Al suo arrivo, ci spiega che ha tentato di raggiungere l’Ermita de Nuestra Señora de la Peña, consigliato in effetti da ogni guida come luogo importante per la storia del Cammino. In effetti, tutti noi l’abbiamo palesemente snobbato, trascinati altrove da una fame comune che oggi sembra senza fondo.
Mentre la combriccola pare sempre più a suo agio, io comincio invece a sentire i piedi che fremono e scelgo di partire, ancora una volta in solitaria. Saluto il gruppo, lasciando qualcuno perplesso e molti allegramente indifferenti. Dopo una sola curva inizia la salita verso i Montes de Oca, e già so che il tragitto avrà il suo culmine presso l’Alto de la Pedraja, intorno ai 1130 m d’altitudine. Sembrerebbe una gran cifra, se non fosse che oggi siamo partiti da circa 800 m.
Anche se con diversi saliscendi, quello su cui salgo è in sostanza un altopiano. Si cammina per lo più seguendo un largo sentiero ghiaioso e su entrambi i lati grandissimi boschi. Ci cammino per una decina di chilometri e l’impressione è quella di una specie di limbo, una scenografia monotona e ripetitiva. Mi resta giusto il ricordo della boscaglia ingiallita qua e là dall’autunno e quello di un cielo che torna a chiudersi tra nuvole spesse.
Unico fatto rilevante è che nel mezzo della traversata mi riunisco con i miei due affezionati compari. Proprio insieme e grazie a loro, riceviamo novità su Burgos: è stata sospesa la navetta che la attraversa perché le misure di sicurezza sono state modificate, ed ora ai pellegrini è concesso il pernottamento. Ovviamente i nostri programmi cambiano all’istante, e il capoluogo castigliano diventa immediatamente la nuova meta della tappa di domani.
Per quanto riguarda oggi, invece, cominciamo a cercare quale tra i pochi albergues aperti potrebbe fare al caso nostro. Questo Camino Francés in piena pandemia, infatti, è radicalmente più spoglio rispetto ad un’annata normale e costringe a prenotare ogni volta in anticipo: siamo talmente pochi sulla via che senza reservas gli albergues non aprono nemmeno. Ne troviamo uno papabile ad Agés, il paese prima di Atapuerca. Per telefono il gestore ci avvisa che non ci sono negozi aperti in paese, di nessun tipo, ma potremo tranquillamente cenare e fare colazione da lui. Andata!
Felici e sollevati, continuiamo ancora per qualche chilometro la nostra immersione nel silenzio della natura, arrivando infine alle porte di San Juan de Ortega e del suo monastero. Veniamo nel frattempo raggiunti da Richard, che oggi sta letteralmente correndo. Rallenta giusto vicino al paese, e in quella frazione io e Tiziano – già perplessi -notiamo che i suoi movimenti sono nitidamente scomposti, come se stesse sopportando qualche dolore. Lui sfoggia comunque il suo sorriso ormai proverbiale, che però si spegne quando gli proproniamo di fare attenzione nel sovraccaricare troppo le articolazioni. Un attimo dopo, mi rendo conto che forse ci siamo trasformati per un istante in qualcosa a cavallo tra due zie amorevoli e degli iettatori della peggiore specie, ma me lo tengo per me e ci rido solo un po’ da solo.
Prima di arrivare al monastero, deviamo nel caratteristico Descanso de San Juan. Mentre recuperiamo un po’ di energie e di calore con una buona merenda di fianco alla stufa, cominciamo a consultare gli alloggi disponibili per Burgos. Nel frattempo il bar viene letteralmente invaso dai pellegrini che avevamo alle spalle, tra i quali Arnaud, Matteo e Marta. Devo ammettere che anche un incallito amante delle traversate solitarie come me non può che essere contento di queste rimpatriate non programmate che spezzano e colorano le tappe.
Penso poi a ciò che forse vivrò solo in futuro, e cioè un Cammino senza Covid, stracolmo di persone da tutto il mondo, di chiese, bar e albergues aperti, tanti brindisi e tavolate affollate e caciarone. Nei racconti di chi ne ha vissuto uno, o più d’uno, imparo che non è però tutto oro quello che luccica. Mi descrivono piccoli grandi fastidi che quest’anno non esistono minimamente, o sono totalemente stravolti. È l’ennesima conferma che stiamo vivendo un’esperienza unica, degna di essere gustata senza inutili rammarichi.
Dopo aver salutato tutti ancora una volta con un caloroso “Buen Camino!”, andiamo a prenderci gli ultimi tre chilometri. Attraversiamo inizialmente qualche bosco, poi si apre davanti a noi una radura oltre la quale si scende verso la nostra meta, Agés. L’alloggio si trova proprio all’accesso del villaggio, ma scegliamo di superarlo e far prima due passi per dare un’occhiata in giro. Al primo crocevia troviamo un’aiuola allestita con un tavolo da picnic e una grande macina di pietra conficcata a terra. Un’originale insegna indica il nome del posto e la distanza che ci divide da Santiago. Dice manchino 518 km: incredibile la velocità con la quale questa esperienza stia scorrendo via!
Mentre facciamo qualche fotografia, un uomo si affaccia dalla propria finestra e ci domanda dove alloggeremo. Dice di essere il proprietario dell’unico negozio di alimentari, ma ci spiega che in questo periodo sta tenendo chiuso per assistere la moglie malata. Istintivamente mi dà l’impressione che voglia comunque tentare di venderci qualcosa. Non mi dispiacerebbe far scorta di qualche spuntino per domani, ma quando glielo chiedo esplicitamente conferma che proprio non può. Evidentemente aveva davvero solo voglia di fare due parole con noi.
Torniamo quindi sui nostri passi e ci presentiamo in albergue. L’uomo che ci accoglie ha uno strano atteggiamento sornione, e fin da subito sembra più furbo che simpatico. Ce ne danno subito conferma i prezzi che applica a qualsiasi cosa, non certo allineati a quelli incontrati fin qui in strutture simili. Sarà di certo un periodaccio anche per loro, ma il fastidioso umorismo con cui addirittura ci schernisce fa pensare che sia solo un gran volpone.
Come a Zubiri, abbiamo preso una stanza con due letti a castello, e il povero Amedeo è vittima ancora una volta di un velato nonnismo da parte di me e Tiziano, che per la seconda volta ci accaparriamo impunemente i letti di sotto.
Mentre i due amici si sistemano, trovo il tempo per chiamare per la prima volta Valerio, un pellegrino italiano che come me è partito da casa per raggiungere Santiago. Si trova a Saint-Jean-Pied-de-Port all’albergue di Patrizia, la quale gli ha dato il mio numero sperando potessi essergli utile in qualche modo.
Fin da subito capisco di avere a che fare con un ragazzo in gamba e incredibilmente entusiasta. Mi spiega che ha formato un piccolo nucleo di audaci pellegrini assieme ad alcuni ragazzi stranieri, partiti a loro volta da lontano e trovatisi lì proprio come noi tre. Purtroppo non posso che confermar loro le difficoltà a cui stanno per andare incontro e il fatto che non sono certo bazzecole – basti pensare alla chiusura di Roncisvalle, o al confinamento della Navarra e della Rioja. Per ovvia conseguenza, poi, praticamente tutte le strutture ricettive lungo il cammino sono ormai chiuse in quel primo terzo di Spagna.
La risposta di Valerio mi sorprende, anche se qualcosa mi aveva già fatto intuire come avrebbe reagito. Mi spiega che sono pronti a pronti a dormire nei fienili o dove capita e ad affidarsi alla generosità della gente. Oltretutto, se il Francés si dimostrerà inaccessibile, hanno già programmato di cambiare rotta e imboccare il Camino del Norte.
Una parte di me vorrebbe solo augurargli il meglio e urlare d’entusiasmo per la loro sfrontatezza, ma scelgo invece di concludere come ho iniziato, riflettendo ancora insieme a lui sulla situazione concreta a cui stanno andando incontro. Il Camino del Norte è meno battuto, infatti, e trovare alloggio potrebbe essere ancora più complicato. Nemmeno questo però sembra intaccare il suo ottimismo.
A questo punto davvero non mi resta che felicitarmi con loro per il coraggio e lo slancio vitale, augurandogli le migliori fortune. È stata una piccola grande emozione poter esser interlocutore minimamente utile a un pellegrino che sta alle mie spalle, esattamente come già lo fu Danilo nei miei confronti.
Dopo essermi dato una sistemata anch’io, scendo nella sala al pianterreno. Qui mi unisco ad Amedeo e Tiziano nella riprogrammazione delle prossime tappe, scoprendo che nel frattempo sono arrivati a sorpresa anche gli amici conosciuti ieri sera: Beppe, Linda, Tim, Kiki e Sergi.
Arriva presto l’ora di cena, e nella piccola sala i nostri due tavoli sono abbastanza animati per creare un clima piuttosto divertente. Il cibo non è male, ma le porzioni sono davvero povere per quello che ci viene fatto pagare. Ad ogni modo, non avevamo scelta. Non ci resta che consolarci con uno shot di orujo – un distillato di bucce d’uva, “cugino” della nostra grappa. Basta quel sorso per mandarci tutti a nanna a mente leggera.
Domani sarà il turno della grande Burgos. Tiziano non sta nella pelle; Amedeo è cotto, ma le sue continue lamentele e i finti battibecchi con l’amico sono esilaranti.
Sono contento. La strada per Santiago è ancora lunga e incerta, ma è già un mezzo miracolo essere qui e avere ancora la possibilità di continuare. Oltretutto domani sarà addirittura il mio settantesimo giorno di viaggio!