(Hontel Manjon)
23,5km
Suona la sveglia anche per questa decima domenica di viaggio, il mio settantesimo giorno di cammino: sono numeri che emozionano. Ci aspetta una tappa breve rispetto alle ultime, poco più di venti chilometri.
Purtroppo piove, anche se non eccessivamente, ma le previsioni sono crudeli: oggi non vedremo mai il sole, e l’acqua ci farà compagnia più o meno tutto il giorno. D’altronde sorella pioggia è perlopiù una benedizione, e chi si limita a lamentarsene è un frignone. Certo, per il camminatore è causa di disagi, però non ci siamo solo noi a questo mondo, e tutte le ore passate in mezzo alla natura aiutano a riconoscere questa verità elementare.
E poi, diciamoci la verità, come posso lamentarmi mentre sono dentro al sogno che ho tanto desiderato? Ci si lagna per abitudine, ma l’anima non è scema, e per fortuna in certi casi ci pensa lei a bussarmi in testa e ricordarmi la verità.
In queste prime ore, però, il pensiero più fastioso è un altro: il ricordo della faccia tosta del proprietario dell’albergue. Stamattina, infatti, non ha saputo rinunciare ad un odioso colpo di coda prima che ce ne andassimo. Dietro al banco del bar, mentre aspettava impassibile le nostre ordinazioni, ha ignorato sfacciatamente ogni pellegrino che gli ha chiesto i prezzi della colazione. Eravamo allibiti e abbiamo immediatamente capito che ci avrebbe presentato un conto impropriamente salato. Ovviamente sapevamo che si sarebbe parlato al massimo di pochi euro in più, così abbiamo tutti preferito evitare nervosismi. Ahimè, una volta alla cassa, il sottoscritto non si è dimostrato all’altezza del proposito e ha presentato una schietta lamentela.
Certamente mi resterà impressa a lungo nella memoria la faccia tosta con cui mi ha risposto, permettendosi pure di farci passare per fessi. In ogni caso, la conseguenza peggiore non sono certo quegli spicci, ma il fatto di esser riuscito a inquinare il nostro umore per tutte le prime ore della mattina – o almeno il mio.
Per fortuna il camminare ha un gran potere pacificante, e anche grazie all’inesauribile goliardia di Tiziano e Amedeo, il mio ribollire piano piano si smorza del tutto.
Raggiungiamo Atapuerca prima delle nove e, grazie a qualche cartello e ad una curiosa scultura, scopro che qui sono stati fatti ritrovamenti umani importantissimi, risalenti a centinaia di migliaia di anni fa.
Come molte altre volte, provo un certo dispiacere a non poter informarmi meglio. D’altro canto, ormai ho appreso che il cammino è un’esperienza molto più frenetica di quanto si possa pensare: i pochi chilometri orari del procedere senza mezzi bastano per sfiorare mille realtà differenti, segni della grande storia del mondo e dell’uomo, e al pellegrino curioso sono date poche occasioni per approfondire quanto vorrebbe.
È proprio il fluire ciò che più contraddistingue quest’avventura: si incontrano un’infinità di cose e persone, ma quotidianamente le si saluta per andare oltre. Fortunatamente già questo basta a riempirsi le tasche di meraviglia e di ottime lezioni, trovandosi comunque di frequente in uno stato di appagamento profondo.
Da Atapuerca si sale alla Cruz de Madera, posta in cima ad un colle dal quale già si riesce a scorgere la grande città che oggi ci aspetta.
Il luogo dove è piantata la croce è semplice e spoglio, come piace a me. Qualcuno a terra ha creato una spirale con dei sassi. Sarà per le suggestioni archeologiche in cui ci siamo appena imbattuti, ma la croce e la spirale sono segni primitivi fortissimi e per un attimo mi sembra di percepire dentro me una specie di riverbero ancestrale. Ancora una volta, però, tutto sfugge come brezza e già stiamo urlando di eccitazione scendendo verso Burgos.
La pioggerella della partenza è già finita. Lungo la discesa ci imbattiamo nel covone di paglia più grande visto fin qui. Ha le dimensioni di un capannone di piccole dimensioni e, pur nella sua povertà, emana un gran fascino. È sempre bello percepire come elementi umili come questo abbiano comunque una propria forza estetica: oggettivamente, sono capaci quasi da soli di rendere pittoresco anche il paesaggio più anonimo.
Tornati a camminare in piano, iniziamo ad intravedere davanti a noi il quartetto di cui fa parte Xavier, il ragazzo che ho conosciuto nella campagna dopo Logroño. Un centinaio di metri dietro di loro, notiamo anche un pellegrino incappucciato che non ci pare di aver mai visto. Mosso da infantile curiosità, accelero il passo per raggiungerlo, e con mia grande sorpresa scopro che è Leonardo, il pugliese conosciuto in albergue a Nájera. Impossibile ci abbia superati camminando, però, e infatti mi confessa di aver scavalcando qualche paese prendendo un autobus, a causa di problemi nel trovare alloggio. Mi fa piacere averlo ritrovato, ma mi accorgo subito che avrebbe piacere a continuare in solitudine, così lo saluto augurandogli il meglio.
La strada asfaltata serpeggia nella dolce pianura ondulata. Non succede niente di memorabile per l’ora successiva, e anche questa è parte essenziale del cammino. Dopo un paio di abitati anonimi, imbocchiamo una deviazione che dovrebbe farci evitare l’attraversamento di tutta la periferia di Burgos – nota per non essere esattamente gradevole.
Pur sviluppandosi nella campagna, l’area non eccelle in bellezza, anche perché il tracciato ci fa costeggiare buona parte del recinto aeroportuale. Ancora una volta, però, va benissimo così: tutti e tre preferiamo sassi e ghiaia all’asfalto, così come la pace di lande pur non superbe al grigiume di anonimi quartieri cittadini.
Il sentiero, in realtà, non dura poi molto. I piedi sulla strada ce li dobbiamo rimettere per attraversare la piccola Castañares, che non sembra né antica né caratteristica, ma regala comunque un’impressione di ordine e buona vivibilità. Oltretutto, proprio qui incontro il primo grande nido di cicogna sopra un campanile: è un’immagine immortalata più o meno in ogni guida, un’altra delle tante visioni particolarmente rappresentative del Camino Francés.
Poche decine di metri dopo, ricomicia a piovere, ma il malumore viene subito stemperato da una gradita sorpresa. Quando il paese già si conclude e ci avviciniamo al río Arlanzón – di cui seguiremo il corso – incrociamo un signore che da sotto il suo ombrello ci saluta cordialmente, spronandoci e indicandoci spontaneamente i chilometri per raggiungere Burgos.
Sono piccoli segni di solidarietà e partecipazione gratuita alla sfida che ci siamo scelti. Ci fanno sentire davvero ben accolti, e riescono addirittura ad accendere in noi energie nuove. Sorpresi ed entusiasti, ringraziamo per il graditissimo regalo e proseguiamo verso la meta agognata.
Lungo il fiume, comodi sentieri battuti ci guidano all’interno del Parque de Fuentes Blanca. In questa cornice, scelgo d’un tratto di partire in quarta. Forse è la pioggia a farmi quest’effetto, non sarebbe la prima volta. È una specie di risposta “aggressiva” al calore che toglie, al frastuono sotto il cappuccio, ma anche un modo di giocare con lei, di correrle addosso e divertirmici.
Incrociamo gente di tutti i tipi – a passeggio, di corsa, in gruppo, in coppia, da soli, giovani e vecchi. Siamo a due passi dalla città e questo dev’essere probabilmente uno dei luoghi dove la domenica mattina si va per svagarsi e cambiare aria.
A un certo punto, proprio alle porte di Burgos, la boscaglia un po’ selvatica lascia spazio a un’area spoglia e asfaltata, dove troviamo concentrata ancora più gente. Fermo la mia corsa, tiro il fiato e aspetto gli altri.
La città è dall’altra sponda del fiume, ma le piante alte e frondose che stanno sulle rive nasconodono la vista dei palazzi. Prima di attraversare, camminiamo ancora per un paio di chilometri lungo il Paseo de los Atletas – una pista d’asfalto che attraversa l’ultimo lembo di parco. La pavimentazione è praticamente nera, ma ricoperta da un’infinità di foglie giallissime: ricorda un po’ il dorso delle salamandre.
La tappa non è stata straordinaria e ci sentiamo tutti un po’ stanchi. Do ancora qualche colpo di reni solitario per sfottere la mia fiacchezza, fino a quando arriviamo al ponticciolo che ci conduce finalmente tra le vie del capoluogo.
I primi isolati non ci ripagano granché degli sforzi fatti, ma ci divertiamo a farci trascinare dallo sculettare di una ragazza lontana davanti a noi, di cui non conosceremo mai il viso ma che ci ha comunque ravvivato il buon umore.
Il primo vero assaggio dell’eleganza di Burgos ce lo regala Plaza de las Bernardas, dove molti dettagli danno l’immediata certezza di star per entrare nel centro storico della città. Ce lo conferma subito dopo l’ampia Plaza San Juan, dove un museo, un’antica chiesa e una biblioteca dall’architettura moderna compongono una scenografia pregiatissima.
Avanzando tra la gente che esce da messa, superiamo un altro piccolo ponte, stavolta sul río Vena. Sembra antico e i parapetti in pietra sono impreziositi da un paio di piccoli leoni rampanti, aggrappati a dei blasoni che mi incuriosiscono, ma di cui non riesco a scoprire nulla. Passati sotto l’arco di San Juan, proseguiamo lungo una stretta via con del pavè, la cui striscia centrale è scandita da conchiglie d’ottone incastonate. Siamo perfetti sconosciuti per chiunque, ma questi particolari ci fanno sentire protagonisti su una passerella trionfale fatta apposta per noi.
Tiziano ha trovato posto presso una pensione non lontana, ma condividiamo l’idea sia d’obbligo innanzitutto raggiungere la famigerata cattedrale, e proprio lì farci timbrare le credenziali. Ci arriviamo dalla parte posteriore, purtroppo semicoperta da un cantiere, ma grazie al cielo tutti gli altri lati sono liberi e ben visibili. È un edificio incredibilmente imponente, e soprattutto di straordinaria eleganza.
Siamo ancora fasciati nelle nostre tenute anti-pioggia e sinceramente stanchi, nonostante la distanza più breve del solito. Oltre che dall’acqua, però, sentiamo di essere bagnati anche dalla fortuna di aver potuto raggiungere in serenità il nostro traguardo, e questo ci rende oltremodo felici.
Mentre Tiziano si fa immortalare degnamente per il suo blog, io mi accorgo di una chiesa minore alle nostre spalle. Ormai disabituato a trovare portoni aperti, entro a dare un’occhiata veloce. È la Parrocchia di San Nicola di Bari, della quale non conosco né fama né storia, ma le decorazioni che trovo all’interno mi danno l’impressione di essere preziosissime e ben conservate.
Scendo poi coi ragazzi verso l’ingresso della Cattedrale, sognando di star per vedere qualcosa di sconvolgente. Purtroppo però facciamo l’amara scoperta che in questo periodo l’accesso è sì consentito, ma all’interno un’enorme parete in cartongesso ostruisce la vista ad ogni cosa. La sola eccezione è l’elegantissima cappella dedicata a Santa Lucia, dove attualmente vengono celebrate le funzioni.
Increduli, proviamo in qualche modo a imbucarci, ma veniamo immediatamente scoperti e rimandati indietro. Non ci resta che consegnare le nostre credenziali, ritirandole poco dopo arricchite di un nuovo suggello.
Resto a fissare la mia con grande orgoglio perché con quello di oggi ho riempito tutta la prima metà. Per via del lungo viaggio, questo per me è già il secondo “passaporto pellegrino” dalla partenza. A differenza del primo, però, ha gli spazi per i timbri distribuiti su due facciate anziché una sola. Purtroppo questo significa che quando appenderò le due credenziali, un lato della seconda rimarrà inevitabilmente nascosto. Sarebbe stato spettacolare vedere per intero tutta la carrellata di marchi colorati, da Bergamo fino a Santiago de Compostela – sempre che ci arrivi, ovviamente. Magari basterà fare una copia a colori del lato nascosto… Vabbé, ci penserò in futuro, è ancora presto per questi pensieri. Ora non resta altro che andare a scaricare il peso dei nostri zaini presso l’hostal, poco lontano da qui.
Le vie del centro sono sobrie ed eleganti. Gente ce n’è davvero poca, e d’altro canto dobbiamo accontentarci. Significa più sicurezza per la nostra salute, mettiamola così, ma allo stesso tempo porta con sé anche un po’ di amarezza. Immagino debba essere bello poter festeggiare la conclusione di tappa in una città grande come questa e in tempi meno severi; di certo si finirebbe a brindare con pellegrini mai conosciuti prima e con qualcuno del posto. Come già detto, è un rammarico a cui dobbiamo abituarci, ma questo non significa che dobbiamo rinunciare a celebrare le nostre gioie. Al contrario, ci impone di farlo per ogni minimo successo che riusciremo ad ottenere nonostante queste rigide condizioni, e infatti stasera usciremo a mangiare e bere come si deve. Ce lo meritiamo, e non vediamo l’ora.
L’hostal si trova vicino al Fiume Arlanzón. Il pavimento del corridoio è in moquette, cosa che apprezzo solo a casa dei miei genitori e che mi fa rabbrividire in ogni altro posto. Il quadro dietro al banco della reception rappresenta una gran mappa del Cammino Francese. Mentre un ragazzo registra il nostro arrivo, la guardiamo tutti e tre un po’ incantati, per poi scambiarci silenziosi sorrisi di sorpresa e orgoglio per quanto già percorso.
Per la gioia del buon Amedeo, questa volta non ci sono letti a castello. Pur trovandoci al piano alto di un palazzo, la vista dalla finestra non è un granchè e il cielo grigio non aiuta l’entusiasmo.
Le energie sono poche, ma i miei compagni di cammino hanno il solito rito da perpetuare, quello della cerveza di fine tappa. Come altre volte, mi scuso con loro per la mia attitudine più introversa, ma mi faccio immediatamente perdonare con un’offerta irrinunciabile: ho scoperto che a pochi isolati c’è una lavanderia a gettoni, e mi offro di portare a lavare e asciugare i vestiti di tutti e tre. Sarà anche l’occasione per attraversare qualche angolo di città a modo mio e di leggere un po’ mentre aspetto che i panni siano pronti.
Quando scendo, attraverso l’ennesimo ponte e mi godo l’elegante viale fiorito che costeggia il fiume. Qui mi imbatto anche in un museo dedicato all’Evoluzione Umana: è particolarmente grande e con alcune interessanti statue bronzee al suo esterno, ma ovviamente chiuso. In tempi di pace sanitaria, sarei di certo entrato a visitarlo, anche solo velocemente.
Il tempo in lavanderia non è di certo entusiasmante, ma riesce comunque a regalarmi un po’ di dignitoso relax. Ho la fortuna di trovare proprio lì di fianco un piccolo negozietto dove fare scorta di pane e affettati per tutto il gruppo.
Finiti tutti i cicli e fatta la spesa, rientro poi nel centro storico passando da una maestosa porta in marmo. Comincio a girare a zonzo, senza mappe, solo a fiuto. La città è indiscutibilmente bella, ma un po’ troppo composta per i miei gusti. Non ho dubbi, però: prima della pandemia sono certo che il suo volto era molto diverso. È facile immaginarsi tutti questi locali aperti, soprattutto la sera, e le vie intasate di gente festante. Credo di non sbagliarmi.
D’improvviso ricomincia a piovere a dirotto, ma per fortuna sono stato prudente e ho portato con me la mantella. Una volta in stanza, ritrovo Tiziano e Amedeo che dormono profondamente. Quando infine si svegliano, decidiamo di prenotare insieme l’alloggio di domani, a Hontanas.
Nonostante siamo certi che l’albergue che stiamo chiamando sia aperto, nessuno risponde se non la segreteria. Lasciamo un messaggio, ma scegliamo comunque di mettere le mani avanti e prenotiamo al paese precedente. Non lo facciamo di buona voglia, però, perché ci sono quasi 10 km di differenza tra i due e questo scombussolerebbe parecchio i nostripiani.
Ora, comunque, non ci resta che trovare un buon posto dove cenare. Mi prendo la responsabilità della scelta e parto con la classica ricerca incrociata tra le recensioni sul web. Provo anche a scrivere a Linda, scoprendo che pure loro sono in città, ma presso un ostello dove dice ci siano anche altri pellegrini. Mi sembrava che Tiziano mi avesse detto non ci fossero ostelli aperti. Mi sarebbe piaciuto stare ancora tutti insieme, ma ormai lo capisco. Più di una volta mi ha spiegato di aver già vissuto l’esperienza delle camerate condivise nei cammini passati, e per quest’anno ha chiarito fin dall’inizio di preferire qualcosa di più riservato. I prezzi delle due soluzioni non si discostano granché e ci sono certo alcuni vantaggi, ma vengono inevitabilmente a mancare molte occasioni di conoscenza e convivialità. Ad ogni modo non ho troppo da lamentarmi, in fondo sono io che scelgo di affidarmi a lui. Dopo la gran fatica fatta innumerevoli volte in Francia per trovare un alloggio, l’esserne dispensato in questi giorni è un sollievo che ho bisogno di godermi ancora un po’.
Per fortuna, comunque, almeno il locale trovato su internet si dimostra più che all’altezza dei bisogni di tutti e tre. Ci godiamo una gran cena, bagnata da una bottiglia di rosso de La Rioja che rievoca i freschi ricordi di quei vigneti già lontanissimi dietro di noi.
Graziati da una serata fredda ma non piovosa, passeggiamo poi tra le vie semideserte del centro. Ovviamente, appena trovato un baretto aperto, non ci facciamo mancare anche un paio di orujo a testa, che ci scaldano per bene e ci fanno tornare alla pensione felicemente storti.