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cammino di santiago - roberto pesenti

26/10 Burgos – Hontanas

(Albergue Municipal)
32km

Oggi siamo tutti concordi nell’iniziare la giornata con una pennellata di buonumore, e cosa può regalrcelo a quest’ora se non una bella colazione al bar? Il posto lo avevamo già adeocchiato ieri pomeriggio, e ci avevamo visto giusto. Fa sia da caffetteria che da panetteria, e offre prodotti deliziosi. Non ci facciamo mancare nulla e veniamo pure serviti da una commessa incredibilmente gentile.

A proposito di colazioni, qui in Spagna pare ci sia un’abitudine molto particolare: i cornetti vengono serviti sempre su un piatto grande, con forchetta e coltello. La vista delle posate mi lascia ogni volta perplesso, ma ormai ho capito che sono fondamentali per non restare disastrosamente appiccicati alla glassa con cui questi dolci da forno vengono guarniti.
Se devo parlare da ex-barista, poi, letteralmente rabbrividisco pensando a quanti piatti e stoviglie è costretto a lavare ogni giorno chi lavora nelle caffetterie. Ricordo bene quanto era dura reggere il ritmo di certe mattine dietro il banco, per non parlare di quelle volte in cui la lavastoviglie si inceppava. Sudo freddo al solo pensare cosa succederebbe qui in un caso simile! Ma passiamo oltre.

Il cielo è ancora coperto e fa freschino. Alle 8:30 circa alziamo il sedere dalle sedie, salutiamo, e cominciamo a dirigerci verso la prima meta del giorno: il Mirador del Castillo. È una terrazza panoramica circolare, posta poco più in basso del castello di Burgos – o almeno di quello che ne rimane. Io e Amedeo non eravamo al corrente dell’esistenza di questo luogo, ma Tiziano lo riteneva imperdibile. Ora devo ammettere che aveva proprio ragione. Non troppo impegnativo da raggiungere, regala una vista unica sulla città. Oltretutto è molto vicino alla cattedrale, della quale permette di cogliere ancora meglio l’imponenza e la bellezza.

Al centro della terrazza sta una grande rosa dei venti, le cui frecce sono create con semplici ma eleganti intarsi marmorei. Lungo tutta la circonferenza sono incisi nomi di grandi città di tutto il mondo, e ovviamente ognuno è posto lungo la direzione esatta in cui la città si trova. Mi inebrio non poco scorgendo per primo il nome di Lima, città in cui vissi tre mesi tanti anni fa e nella quale promisi di tornare senza mai onorare l’impegno. Che sia un segno?

Mentre i ragazzi si godono ancora un po’ il panorama e scattano qualche foto, io salgo a visitare l’area del castello – chissà mai ci sia qualcosa di aperto. Purtroppo no, ma mi imbatto nel primo Cruceiro: un piccolo crocifisso in pietra posto in cima a un pilone della stesso materia. Se ricordo bene quello che avevo letto sulla mia guida, ne incontrerò molti lungo il Cammino, soprattutto in Galizia.

Conclusa la bella puntata, scendiamo e ci riagganciamo al tracciato di oggi passando dal quartiere San Pedro de la Fuente. Sono abbastanza convinto che non sia noto in ambito turistico e pellegrino perché, in effetti, non ha proprio nulla di particolare. A me però rimane comunque impresso. Attraversandolo per quei pochi minuti mi è sembrato fin da subito di sentirmi a mio agio: un luogo semplice e vitale, arioso, alla mano. Piccole sensazioni legate a chissà che, e di certo alimentate dalla sincera allegria di una fruttivendola dalla quale faccio qualche acquisto.
È già la seconda commessa che incontro oggi così affabile. Può sembrare un’esagerazione, ma per me essere trattato con questa accoglienza vale più di qualsiasi cappella affrescata. Proprio per questo esco dal negozio con un sorriso raggiante, mentre stringo il mio sacchetto di frutta fresca e corro a raggiungere Tiziano e Amedeo.

Arriviati ai curatissimi giardini che costeggiano il fiume, attraversiamo il Puente de Malatos. Da secoli è uno storico punto d’uscita dalla città e il suo nome richiama il fatto che una volta qui vicino c’erano un ospedale per lebbrosi e un altro solo per pellegrini.
Io non ho studiato la storia del Cammino, ma nella mia ignoranza continuo a stupirmi nel pensare al fatto che congregazioni di religiosi e di guerrieri, eremiti, re e regine, si occupassero – chi un modo, chi un in altro – di allestire questa via di passaggio, di difenderla, di arricchirla di servizi essenziali come questi ospedali.

Cosa voleva dire concretamente raggiungere a piedi Compostela in epoche passate? Ai giorni nostri è comune la constatazione di quanto non sia un’esperienza qualunque. Il tempo per come lo conosciamo e le priorità alle quali siamo solitamente assuefatti si sovvertono; ogni elemento affronta una grande trasformazione, scuotendo mente, anima e corpo. Ma un pellegrino medievale? Senza zaini ultra resistenti, telefono cellulare, mantella, scarponi tecnici, bancomat, e tutte le comodità che oggi sembrano irrinunciabili, che tipo di esperienza poteva vivere? Sono domande che mi danno le vertigini.

In questi stessi istanti passo davanti alla statua di Santo Domingo de la Calzada, di cui so molto poco, se non che votò gran parte della sua vita al Cammino stesso. Pare che addirittura progettò e costruì dei ponti – altro comfort che oggi diamo per scontato – ma che in passato sapeva stravolgere la geografia di un territorio in maniera radicale. Per questo motivo la mano scolpita del santo stringe degli strumenti di misura ingegneristici.

Proseguiamo lungo una pista pedonale a fianco della strada. Si chiama Paseo de la Universidad, perché attraversa il quartiere dove stanno alcune grandi facoltà. Tutto è ordinatissimo, con tanto verde ben tenuto contornato da edifici imponenti ma non soffocanti – alcuni più moderni, altri dalle facciate antiche.
Incontriamo ancora qualche statua bronzea – evidentemente tipicità di Burgos –  tutte di epoca recente. Lungo il viale, una di queste rappresenta una donna in carrozzina dall’espressione particolarmente fiera. Nei pressi di un secondo cruceiro, invece, un’altra meno originale raffigura un incrocio un po’ pacchiano tra un pellegrino del passato e Gesù Cristo.

L’uscita dalla città finora è davvero superba. Gli ultimi caseggiati che incontriamo sembrerebbero case popolari. Devono essere già parecchio datate, ma trasmettono un sereno senso di frugalità; mi ricordano il quartiere Garbatella di Roma.
La particolarità che più distingue quest’ultima area abitata di Burgos, però, è che sta di fronte a un grandissimo campo. Ricordo che avevo già visto una situazione simile entrando a Pamplona. Credo sia un innegabile privilegio vivere a un passo da città come queste e al contempo godere di tutto il respiro che regala la campagna.

Terminarto l’asfalto, prendiamo una larga pista ghiaiosa, lasciandoci definitivamente alle spalle ogni edificio. Nel giro di qualche chilometro, incontriamo ben quattro sottopassi che ci permettono di superare i grandi svincoli stradali fuori della città. Nel mentre, il cielo si apre un po’, regalandoci un azzurro stupendo e infondendoci slancio. Sento che è il momento di rituffarmi in una delle mie sgroppate solitarie, con buona pace dei miei due compari, che ormai spero si sarannno abituati al mio carattere spesso affamato di solitudine.

Mi fermo ad aspettarli solo una volta arrivato al paesino di Tardajos, dove trovo un bar ben soleggiato con posti fuori a sedere. Ad un tiro di schioppo, riconosco l’albergue che avevamo prenotato prima della soppressione della navetta e mi rendo conto che ci siamo dimenticati di disdire, mannaggia! Provvedo all’istante, sentendomi parechhio in colpa e sperando che questo non abbia compromesso parte delle già esigue entrate di questo periodo.

Nel frattempo, sopraggiungono prima Tiziano e poi Amedeo. Mentre ci rilassiamo un po’ con un aperitivo, veniamo raggiunti anche da Beppe, Linda e gli altri del gruppo. Chiediamo loro dove siano diretti oggi e ci rispondono a Hontanas, proprio presso l’albergue che ieri non ha mai risposto alle nostre chiamate. Pare che a loro, però, tutto sia filato liscio, così subito ritentiamo. Se ci fosse posto, potremo evitare di fermarci a Hornillos del Camino, ben dieci chilometri prima – troppi per noi.

Per una mia personale malizia dovuta ad alcuni dettagli delle chiamate fatte ieri, questa volta uso il telefono di un amico spagnolo. Effettivamente qualcuno ci risponde ma, immediatamente dopo che ho dato il mio nome per i tre letti, la linea stranamente cade. Richiamiamo, ma una strana vocina maschile ci dice che abbiamo sbagliato numero. Al momento resto stranito, mi scuso e metto giù, ma poi controllo: non era vero. Riprovo a chiamare, quindi, ma nessuno risponde più. Siamo infuriati e increduli, ma decidiamo comunque che oggi sarà proprio lì che andremo, e quel che sarà sarà.
Questa decisione da una parte ci riempie di felicità per essere tornati al programma iniziale, ma allo stesso tempo siamo comunque un po’ incazzati per il pessimo trattamento ricevuto. Non importa: il cielo si è fatto limpido e ci aspettano una decina di chilometri in più del previsto, non c’è tempo di mugugnare. Ci diamo quindi la carica lun l’altro e riprendiamo il cammino, salutando i ragazzi in attesa di festeggiare tutti insieme stasera.

Chiunque abbia intrapreso questo pellegrinaggio o abbia spulciato qualche guida, ha già nelle mente almeno una manciata di nomi di luoghi, regioni e città. Tra i tanti, in questi giorni ce n’è uno in particolare che sta risuonando sempre più frequentemente nei nostri discorsi: quel nome è mesetas. Quando – come me – sei un pellegrino novizio in terra spagnola, sentirne parlare evoca immagini da far west, qualche timore ragionevole e altri un po’ meno. Beh, si dà il fatto che oggi l’immaginazione comincerà a lasciare spazio alla realtà.
Non so se ci sia un inizio chiaro, una soglia evidente oltre la quale tutto cambi, e nemmeno se ne resterò stupito o deluso. Di certo sono molto curioso e per niente agitato; i pensieri d’altronde sono tanti, e la marcia prolungata fa sì che non diventino mai ossessivi. Eccomi sereno, quindi, forte di quanto già superato fin qui e pronto a fare conoscenza dell’ennesimo scenario per me totalmente inedito.

In compagnia di queste riflessioni attraversiamo con tutta calma Tardajos. Il paesino mi dà una strana sensazione, come di già visto, anche se in vita mia non sono mai stato qui e nemmeno in un posto simile. Forse mi richiama qualche film, oppure semplicemente possiede qualcosa di archetipico, direbbe qualcuno: degli elementi che la nostra memoria primitiva segnala di avere già nel proprio database. Chissà!
Camminiamo tra case basse e simili tra loro, coi loro muri di mattoni ocra chiaro e poco più. La chiesa mi affascina: giusto un po’ rialzata, massiccia, fatta di volumi squadrati, si sposa perfettamente con il resto. C’è una piazza con una grande aiuola al centro e qualche albero. Per la vie non si vede nessuno, ma l’impressione prevalente non è la desolazione, bensì l’ariositá. Riflettendoci, mi pare nasca dalle proprorzioni di tutto quanto: sembrano proprio azzeccate, quasi rilassanti.


Superato il centro, l’atmosfera cambia e passiamo in mezzo a qualche isolato di fattura decisamente recente, con normali villette a schiera. Mi fa piacere notare che perlomeno rispettino i colori visti prima. Forse hanno tentato di restare fedeli a un’identità comune, così come avevo già notato nei Paesi Baschi – soprattutto quelli francesi.

Oltrepassati anche questi quartieri, continuiamo su una strada asfaltata che attraversa grandi campi, ancora una volta occupati qua e là da pile di paglia dal fascino umilissimo. Superato un piccolo fiume, svoltiamo ai piedi di una collinetta totalmente spoglia e modellata a gradoni, tanto da assomigliare a una piramide Maya.
Poco dopo raggiungiamo Rabé de las Calzadas: un paese diverso ma al contempo molto simile al precedente. Una fontana dalle forme essenziali occupa il centro di una paizzetta, e sono certo sia stata una manna per migliaia di pellegrini. Le facciate e le strade mi danno un senso d’ordine che non mi dispiace affatto. Anche qui non incrociamo praticamente nessuno.

Il villaggio finisce poi all’improvviso, e d’un tratto ci si trova tra capanni agricoli. Sul lato corto di uno di questi campeggia una grande freccia gialla. Quello lungo, invece, è dominato da un murales raffigurante un trio singolare: Martin Luther King, Gandhi ed Albert Einstein. Poco oltre, una piccola chiesetta – l’Ermita Virgin del Monastero – e poi ancora capanni, nuovamente dipinti con decorazioni sgargianti.

Da qui in poi iniziano ad aprirsi scenari campestri spogli ma pieni di fascino. La pista ghiaiosa sale e si snoda lentamente al centro di una valletta dai poggi sinuosi. I campi ne frammentano in forme geometriche la superficie, e di quando in quando un albero solitario scandisce il nostro procedere.
È proprio qui che nasce in me un’intuizione pungente, e subito la condivido con Amedeo: “Ne usciremo cambiati”, gli sussurro. Ai posteri scoprire se sarà davvero un’esperienza così profonda.

L’incontro con questi luoghi sospesi riattiva in me il solito bisogno di solitudine. Comincio ad affondare passi con maggior vigore, mentre lo sguardo continua a girare tutt’attorno, famelico. Sono estasiato.
Di certo l’atmosfera è così straordinaria anche perché ci siamo solo noi. L’impressione è quella d’essere quasi predestinati a qualcosa che nemmeno sappiamo, ma che la via ci sta portando a scoprire.

Dopo tre quarti d’ora la salitella finisce, e mi trovo senza aspettarmelo su un altopiano completamente spoglio che si perde all’orizzonte. Non c’è davvero niente, solo campi aridi e sterminati. Già di per sé pazzesca, quest’estensione sembra amplificarsi ulteriormente grazie alle nuvole. Quelle che oggi occupano il cielo sono particolarmente grandi. Simili e distaccate tra loro in maniera inusualmente regolare: sembrano un plotone infinito di bambagia. Vedere queste file sempre più piccole perdersi in lontananza dá quasi le vertigini.
Il vento tira forte, creando un’inevitabile rimbombo nelle orecchie, ma senza riuscire a infastidirmi. In lontananza, ai miei lati, file e file di pale eoliche. Rarissimi alberi e qualche cippo con il solito quadrato blu e la conchiglia gialla spezzano questa orizzontalità quasi metafisica. “Siete sulla giusta strada”, sembrano pronunciare sorridendo. “Tutto questo è per voi”, gli fa dire ancora la mia immaginazione. Su uno di loro, un consumato scarpone da trekking fa bella mostra di sé, regalando poesia.

L’altopiano termina quasi bruscamente, affacciandosi su una valle larghissima che scende di un centinaio di metri. Dal ciglio, e nemmeno troppo in lontananza, posso vedere Hornillos del Camino. Il panorama è bellissimo, l’ennesima cartolina. La strada scivola giù per il pendío, una curva dopo l’altra, e percorrerla è un’emozione unica. Attorno, solo campi.
Arrivato in fondo, mi fermo e aspetto qualche minuto. Tiziano e Amedeo spuntano dalla soglia che ho da poco superato. Li vedo scendere con calma. Spontaneamente mi ci immedesimo e mi pare quasi di rivivere ogni passo. Immaginando che anche loro ora stiano provando qualcosa di straordinario, mi si stampa in faccia un gran sorriso che parla da sé e che ritrovo sulle loro facce quando ci riuniamo.

Proseguendo verso Hornillos, alcuni campi tornano verdi e in mezzo a questi le immancabili pile di paglia rettangolari. Attraversiamo il río Hormazuela e facciamo il nostro ingresso in paese, ancora una volta fascinoso e deserto. Notiamo varie insegne di attività legate al Cammino, ma pare tutto chiuso. Arriviamo al piccolo obelisco che sta sotto la chiesa. Sono le due del pomeriggio passate e iniziamo a sentire chiaramente i nostri stomaci brontolare. Ci intrufoliamo in un vicolo per appartarci a pranzare. Appena imboccato, notiamo l’albergue dove avevamo intenzione di fermarci quando avevamo escluso Hontanas. Ancora una volta ci siamo dimenticati di chiamare. Lo facciamo ora, con colpevole ritardo, senza il coraggio di confessare di essere proprio fuori dalla porta.

In fondo alla stradina a fondo chiuso troviamo da sedere comodamente, anche se proprio accanto ad un minuscolo cimitero, alle spalle della chiesa. Mentre componiamo i nostri super panini e cominciamo a divorarli, una donna abbastanza giovane esce dal camposanto vestita con abiti da lavoro; lo stava sistemando. I suoi tratti non sembrano spagnoli e ne abbiamo conferma quando la sentiamo scambiare due parole con qualcuno poco sotto. Ci viene da pensare che probabilmente sia una hospitalera voluntaria rimasta qui nonostante l’epidemia.
Ci rilassiamo di gusto, per più di mezz’ora. Mancano ancora più di due ore all’arrivo e di certo arriveremo molto stanchi, ma ho il presentimento che questa sarà una tappa memorabile, più di altre.

All’uscita del villaggio, restiamo sorpresi di incontrare Beppe, Tim, Kiki e Linda (Sergi non fa più parte del gruppo perché aveva solo pochi giorni di ferie a disposizione).
Si sono fermati da poco e stanno pranzando. Non li abbiamo sentiti passare e nemmeno loro si erano accorti di noi. Linda ha una caviglia infiammata ma non perde il suo sorriso, aiutata anche dall’inesauribile esuberanza di Kiki. Ci fermiamo con loro solo un paio di minuti e poi ritorniamo a camminare.

Saliamo per circa tre quarti d’ora, incuneandoci tra dolci colli. Sembra una replica più estesa di quanto già vissuto dopo Rabé de las Calzadas, e di nuovo riaffiora il solito desiderio di sentirmi splendidamente solo in questo ennesimo paradiso. Stavolta, però, lo realizzo al contrario, rallentando progressivamente e godendomi l’allontanarsi dei due compagni di viaggio.
Con un sorriso impossibile da trattenere, mi godo ogni cosa. Sembriamo pionieri in terre anocra disabitate, tre pacifici invasori. È un’emozione sconfinata.

Al termine di questo salire, ancora una volta torna a presentarsi ai nostri occhi un altro scenario tanto piatto ed esteso da sembrare irreale. Gli elementi sono quelli già descritti prima, ma le proporzioni sembrano incredibilmente ingigantite. La luce del sole che comincia a scendere, poi, rende tutto ancora più magico.Nel mezzo di questo palcoscenico senza platea, mi metto d’un tratto a cantare a squarciagola alcune delle mie canzoni preferite, col vento che rimbomba nelle orecchie, le lacrime agli occhi e scoppi di risa esplosivi, così come alcune volte già mi capitò di fare da solo qua e là per la Francia.

Dopo un tempo indefinito, sazio di questa totalità, il corpo mi segnala di avere ancora voglia di proiettarsi energicamente in avanti, e così comincio una giocosa rincorsa ai miei compagni.
Incontro per primo Tiziano, seduto a bordo del sentiero, con un’espressione felice e al contempo commossa; lo sguardo perso laggiù, in quell’orizzonte capace di sfamare l’anima. Non faccio altro che salutarlo con un tocco di mano sulla spalla e un sorriso muto ma eloquente, senza fermarmi.

In lontananza ora ho nel mirino il buon Amedeo, che eccezionalmente sembra aver messo una marcia di cui non si conosceva l’esistenza. Ci metto parecchio a raggiungerlo, scoppiando qualche volta a ridere tra me e me per quest’assurdo ma divertentissimo inseguimento. Una lieve discesa e la successiva salita spezzano il suo ritmo e mi permettono di raggiungerlo. Si accorge di me solo quando gli sono di fianco, immerso com’era nella musica che stava ascoltando in cuffia.

Personalemnte, ascoltare musica non è mai stato un mio bisogno durante questo lungo viaggio. Ugualmente, anche gli occhiali da sole sono un accessorio che ho smesso di usare quasi subito, ma per qualche motivo stanno ancora qui nel marsupio che ogni giorno porto in vita. Abbino musica e lenti oscurate perché percepisco entrambi come filtri fastidiosi che mi distaccano dall’ambiente tutt’attorno. Ma ognuno è fatto a suo modo…

Con Amedeo cominciamo a scambiare due parole, entrambi gonfi di meraviglia per la tappa di oggi. L’aver rallentato, però, ha cominciato anche a far affiorare più nitidamente la stanchezza.
Decidiamo di fermarci ad aspettare “il biondo” nei pressi dell’unico edificio incontrato in questi ultimi chilometri, una specie di casa affacciata su una cava. Un cartello indica che vendono degli snack, ma tutto è spento. Mi chiedo come si possa campare da un’attività simile, sperduta nel mezzo del niente, e magari ci abitano pure. Per un attimo immagino appartenga a qualche proprietario agricolo, poi però capisco che è un vero e proprio albergue. Quanta audacia occorre per avviare un’attività in un contesto simile?

Una volta raggiunti da Tiziano, ripartiamo con addosso tutti una gioia profonda e pacificante. Sappiamo che manca pochissimo, ma Hontanas ancora non si vede. Sembra la replica dell’esperienza vissuta con Belorado, anche se oggi siamo decisamente meno stanchi.
Poco dopo scopriamo il trucco: Hontanas sta affossata in una conca e la si può vedere solo all’ultimo momento, una volta arrivati sulla soglia. L’effetto è superlativo, sia per il morale che per gli occhi – peccato solo per un piccolo cantiere proprio all’entrata del villaggio. Scendiamo felici e incantati, ovviamente scattando qualche foto ricordo.

Arrivati alla chiesa, la scopro aperta e avviso i ragazzi di andare pure avanti mentre io do un’occhiata all’interno. Chiuso il portone dietro di me, ho subito la netta sensazione che qui raccoglierò ricordi importanti. Tutto è sobrio e luminoso, direi anche povero – e in un tempio questa per me è una caratteristiche estremamente positiva. Lo sfarzo in cui mi sono imbattuto spesso in terra spagnola si limita qui ad un piccolo abside, ma l’angolo più magnetico della chiesa sta subito alla mia sinistra: è uno spazio allestito quasi fosse un salottino. È posto di fronte ad un altare minimale alle cui spalle sta appeso un reticolo di grandi fotografie. Ritraggono e celebrano importanti testimoni del nostro tempo, e non solo. Riconosco Teresa di Calcutta e Frére Roger di Taizé, Martin Luther King e Charles de Foucault, Gandhi e San Francesco, uniti ad un’altra decina di persone di ogni continente, sesso ed età, delle quali non so nulla. Una cosa però li accomuna in modo lampante: la stessa umanità docile, decisa e generosa impressa sui volti di ciascuno.
A terra sono stesi un paio di tappeti, dei cuscini colorati e una ventina di bibbie scritte in altrettante lingue. Su un banchetto c’è un bricco con del the caldo e qualche biscotto. Su un altro, invece, sono poste delle ciotole piene di piccolissimi rotoli colorati: un foglio dice “pensieri positivi” e delle bandierine fanno intuire siano scritti in lingue differenti.
Rimango molto poco, ma leggo che ci sarà una messa alle 17:30, fra meno di mezz’ora. Decido che ci andrò.

L’albergue è distante pochi metri. Tiziano e Amedeo si stanno registrando, e non sembra gli sia stato posto alcun problema. La donna al banco, però, sembra piuttosto cupa e al suo fianco sta un uomo minuto di mezza età. Appena concluso anche con me, è lui che ci accompagna nella camerata al primo piano e ci dà le indicazioni per la cena di questa sera e la colazione di domani mattina.
Riconosco immediatamente la voce stranamente acuta sentita al telefono oggi; è lui che sosteneva avessi sbagliato numero. Per ora, però, decido sia saggio non dire niente. Ci avvisa che si cenerà addirittura alle 18:15. Subito facciamo presente che ci pare un orario veramente assurdo, e fortunatamente riusciamo a ottenere una proroga di almeno venti minuti. Appena se ne riscende, lascio le mie cose a terra e vado alla messa.

Ci siamo solo io, il prete e altre due persone. Nonostante ciò, scelgo di non avvicinarmi all’altare maggiore; preferisco restare seduto nell’angolo coi cuscini.
Dopo tanti mesi, sento nitidamente che questo è un momento irrinunciabile per tornare ad accogliere l’Eucaristia. Custodisco questo intento durante letture, salmi e omelia, che non fanno altro che rafforzarlo e sostenermi nella scelta. Vivo così un’esperienza molto intensa, particolarmente significativa per il mio pellegrinaggio da credente poco ortodosso.
Per mia sorpresa, prima della fine della cerimonia, il sacerdote mi chiama – “Ven, peregrino!” – e sull’altare mi mette al collo una piccola croce, prendendola da un contenitore che ne è pieno. Capisco che è un rito comune in questo luogo e lo vivo con sincera gratitudine.

Una volta uscito, vedo fuori dall’albergue Tiziano e Beppe che sorseggiano delle piccole bottiglie di birra e gassosa, l’unica cosa acquistabile per fare aperitivo. Comincia già a fare freschino e per oggi rinuncio alla doccia.
Oltre alla comitiva di amici, arrivano anche tre francesi, due giovani e uno più che cinquantenne. L’impressione è che tra noi e loro non scatti una gran sintonia, e qualche scambio di battute lo conferma.

Andrés – così si chiama il tizio minuto dalla voce acuta – pare sia restato l’unica figura di riferimento dell’albergue, e a furor di popolo riusciamo a convincerlo a ritardare ancora un po’ la cena.
Ci divertiamo parecchio tutti in gruppo allo stesso tavolo, a parte i tre francesi che siedono da soli a quello di fianco. Linda, nonostante partecipi allegramente, sta soffrendo ancora per la sua caviglia. Il dolore sembra non voler passare, tanto che è plausibile possa impedirle di proseguire. Decido di regalarle un blister di pastiglie di Voltaren, ma insistendo anche perchè vada a mettere il piede a bagno nell’acqua gelata, per disinfiammarla un po’ come avevamo fatto noi a Zubiri nel fiume.
Riuscito a convincerla, dopo la cena la accompagno ad una fontana poco distante. Soli sotto a una luna quasi piena, comincia a venirmi un batticuore simile a quelli adolescenziali. Inutile nasconderlo oltre: fin dal primo momento Linda mi ha scatenato una chimica irresistibile, e una parte delle mie premure erano sfacciatamente orientate a trovarmi proprio in una situazione simile. Purtroppo però  non riesco a cogliere l’attimo giusto per sfilarmi le vesti dell’amico apprensivo, finendo così per lasciarmi scappare un’occasione golosissima. Peccato.

In compenso, la cena si fa sempre più divertente, scorrendo tra grandi risate. Andrés ci serve bene, anche se si esibisce continuamente in battute e versi che più che rallegrarci ci lasciano perplessi. Lui sembra non accusare troppo il colpo e resta serissimo, continuando a inscenare le sue brevissime gag e tornandosene poi subito in cucina, come se fuggisse.
Le rare volte che riusciamo a trattenerlo, scopriamo che fa da anni l’hospitalero volontario, ma in realtà il suo lavoro è il clown in contesti di oncologia infantile. Questo non fa passare del tutto la nostra titubanza, ma ovviamente produce in noi più stima nei suoi confronti.

A un certo punto i cugini francesi si alzano e salgono in camerata, così pensiamo bene di accaparrarci in maniera molto genuina la bottiglia di vino che hanno lasciato quasi piena, pensando che tutto sommato era inclusa nel menù. Andrés, però, ci rimprovera aspramente. All’inizio cerchiamo di ammorbidirlo simpaticamente perché ci sembra veramente una piccola cosa, ma si mostra ostinatamente duro.
Essere ripresi in questo modo per una situazione così banale mi risveglia piano piano tutto ciò che avevo soffocato riguardo alla strana vicenda della prenotazione. Forse anche un po’ per il vino bevuto, quando arriva a toccare il tasto della correttezza cambio registro e ribatto con l’episodio della bugia che aveva recitato al telefono oggi con me. Lui nega assolutamente, ma poi rapidamente cede a una ritrattazione, arrivando a sostenere sia stato forse il compagno della gestrice. A quel punto sorprendentemente tenta un rilancio dichiarando che però l’uomo è un agente della Guardia Civil, e addirittura ci mostra un berretto che pare ufficiale. Rimane disarmato quando gli dico con semplicità che mi interessa poco, perchè sono certo che invece la voce fosse la sua, e di nessun altro. A quel punto cede del tutto, e quasi si addolcisce. Non sono stato molto elegante, ma è andata così.

Prima che tutti torniamo in camerata, sceglie poi di spiegare a me e pochi altri dove siano le vere radici del problema. Tutto sembra sia nato dal fatto che un paio di settimane prima, in un altro albergue, tre italiani che prenotarono anch’essi col nome Roberto abbiano fatto qualche danno e se ne siano andati impuniti. In questi casi, i gestori della regione fanno girare la notizia perché il fatto non si ripeta altrove. Gli rispondo che comprendo il discorso, ma mi pare ovvio che non siamo le stesse persone, soprattutto visto tutto il tempo che è passato. Questo fatto comunque mi rimane ben impresso.

La serata si conclude come al solito: ciascuno nella sua branda coi volti illuminati dalla luce azzurra dei cellulari – chi per abitudine, chi per programmare un po’ le tappe successive, chi per postare aggiornamenti sui propri social. Tiziano ed io facciamo parte di entrambe queste ultime categorie: lui ha il suo da fare su Facebook e Instagram, mentre io continuo a limitarmi agli stati su Whatsapp.
D’un tratto Serge, il francese meno giovane, comincia a russare come un carro armato. Amedeo ha il sonno talmente pesante che non mi preoccupo minimamente per lui. Riguardo a me, pur distante, mi infilo immediatamente i tappi per le orecchie che da anni porto in qualsiasi viaggio faccia, e spero tanto che anche Tiziano abbia i propri, perché gli sta proprio di fianco. Tanti auguri, amico mio!

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Castilla y Leòn, Spagna