(spogliatoi campo sportivo)
19km
In ostello anche la colazione è condivisa. Siamo tutti un po’ rintronati dalla sera prima, ma diventa comunque un altro momento cordiale che apprezzo particolarmente.
Guardiamo insieme le previsioni. Sembra che inizierà a piovere fra non molto.
Rimango stupito di essere l’unico a voler approfittare di questa parentesi senza pioggia per partire. Vedo gli altri prenderla con comodo, andare a prepararsi o mettersi a leggere, così finisce che me ne vado senza riuscire nemmeno a salutare diversi di loro.
Attraverso la piazza principale ringraziando il buon Cavour che, sul suo piedistallo, sembra indicarmi la via.
Uscito dalla città e in piena campagna, in corrispondenza di una svolta in mezzo ai campi, mi imbatto nel primo adesivo con l’indicazione esplicita per Santiago. È un’emozione mica da poco! Un semplice quadrato bianco con una freccia gialla nel mezzo, attaccato alla bell’e meglio su un palo della corrente qualsiasi. Pura poesia!
Un altro segno, in realtà, mi accompagna da quando cammino sulla Francigena: un simpatico pellegrino stilizzato, con bordone, bisaccia e mantello. Anche questo lo trovo sotto forma di adesivo, oppure su cartelli in metallo, o altre volte dipinto qua e là. Camminare come me in senso contrario significa avere alcune difficoltà nel trovarlo, ma godere della compagnia di questi segni resta impagabile.
È una cosa che ho scoperto sulla via per Matera. Laggiù se ne alternano diversi, ma poco importa: quando sei solo, a camminare in terre mai viste prima, la compagnia di quelle tracce è testimonianza di una premura concreta nei tuoi confronti. Anche un piccolo simbolo su un guardrail può essere capace di iniettare calore in un momento di smarrimento; ci rassicura, siamo sulla strada giusta, invita a fidarsi e non tradisce mai.
Il cielo è uggioso, ma le risaie m’incantano sempre di più, e in fondo è bello anche conoscerle con condizioni atmosferiche differenti; le combinazioni cromatiche cambiano, e anche le emozioni che si provano sono diverse. Sotto un pesante soffitto di nuvole, il giallo perde di luminosità, mentre il verde sembra sempre cavarsela in qualche strano modo.
È memorabile il passaggio presso il piccolo borgo di Lignana, dove vengo attratto da un gruppo di uomini fuori dal bar del paese, tra i quali mi accorgo esserci un viandante come me. Mi accorgo subito che ha una luce molto particolare negli occhi e un’allegria contagiosa. Si chiama Luca, ha almeno dieci anni più di me, è originario di Trieste ma partito dalla Francia. Lui sì che è un vero pellegrino: senza tenda (“per non diventare un orso da campeggio”, spiega), con cellulare ma senza scheda, in pieno e allegro affidamento. Ricerca riparo sempre nelle parrocchie. Mi racconta di aver imparato a non demordere anche quando sono chiuse, perché non di rado si trova una porta lasciata aperta, per sbaglio o per provvidenza. La notte passata, però, ha dovuto accontentarsi del portico della chiesa di fronte, perché il sagrestano gli ha rifiutato l’ospitalità, eppure lo dice con tanta allegria da essere contagioso.
Nella veranda del bar tiene banco, mentre si rolla una sigaretta di Pueblo. Dice che è al quarto caffè offertogli, e un po’ si nota. Indossa un cappello Panama e un abbigliamento per nulla tecnico o traspirante. Non che io stia viaggiando con capi particolarmente sofisticati, ma penso banalmente a quanto tempo debbano impiegare i suoi per asciugarsi dopo averli lavati. In ogni caso, è molto bello vedere un pellegrino vestito in quel modo; mi ricorda mio nonno quando andava in montagna.
Gli uomini attorno si dimostrano incredibilmente aperti nel confrontarsi con gli originali racconti di viaggio, e creano un clima di accoglienza palpabile. Mi fermo anch’io per un cappuccino e, presentandomi, rubo un po’ la scena a Luca. Lui non sembra dispiaciuto, però. Anzi, ne approfitta andando a mettersi in coda per il Comune o la posta, lì di fronte. I miei racconti fanno commuovere uno degli uomini, cosa che mi colpisce incredibilmente.
Arriva presto l’ora di ripartire. Il barista, mio omonimo, decide di offrirmi la brioche, e pure un nocino. Grande!
Prima di incamminarmi, raggiungo Luca per salutarlo, e gli confesso grande ammirazione per il suo approccio al pellegrinaggio. Lui, contentissimo per quelle mie parole, mi regala un rosario ed un santino con un angelo custode, quasi eccitato per la fede che lo anima.
Attraverso ancora una volta risaie molto belle. Di nuovo, pochissimi elementi in gioco e massima resa emotiva. Il cielo ha cominciato ad aprirsi. È piovuta solo qualche goccia oggi; le previsioni hanno sbagliato.
Arrivo a Ronsecco: paesino che trovo deserto, ma mi strappa un sorriso lo slogan che campeggia su un gigantesco poster: “Un paese da vivere!”. Non ho percorso molti chilometri, ma vorrei fermarmi qui, oggi. Il motivo può sembrare assurdo: la prima sillaba del nome di questo posto è la stessa del mio nome. Non ha molto senso scegliere sulla base di una banale assonanza, eppure è qualcosa che sembra davvero “chiamarmi” a restare.
Il Comune ha appena chiuso, mentre trovo la chiesa aperta. È dedicata a San Lorenzo, come quella di Bergamo dove tutto è iniziato. Non sono un cultore della devozione ai santi, ma non posso negare che una parte di me è rimasta legata all’immagine tradizionale del coro di eletti appollaiati tra le nuvole, che cala la propria protezione su chi ancora si barcamena in questo mondo. Con questo approccio più ludico che devoto, mi affido al santo finito sulla graticola, sperando che mi aiuti a trovare riparo per stanotte.
Entro nella parrocchia e piego a terra un ginocchio, poi l’altro; questo lo faccio ogni volta che trovo una chiesa aperta. È un gesto che ripeto senza scetticismo, e per me è cosa rara. Forse è così perché ci trovo un valore universale: in qualsiasi forma Dio esista, sento dentro me la convinzione che ci sia, che un principio unico e amorevole abbia originato e regga l’esistente e il suo infinito mistero. Inginocchiarmi è farne memoria, ammettermi piccola parte privilegiata, coinvolgere il corpo nell’esprimere gratitudine, pregare che la salute non mi abbandoni.
Dopo un attimo, inizia a suonare da poco lontano della musica latina a massimo volume. Sorrido stupito ed esco.
Viene dal cortile del baretto di fronte, ma ancora non vedo nessuno. Entro. Qualcuno c’è, invece, e sono subito ben accolto. In pochi minuti scopro che è gestito da una famiglia molto ampia. I veri responsabili sono Fabio e sua moglie, una coppia più giovane di me. Hanno un figlio e una figlia, e tutti gli altri componenti li aiutano.
Ovviamente pranzo lì, con delle ottime lasagne e del pollo a un prezzo onestissimo. Spiego chi sono e cosa sto facendo. Anche Fabio mi parla di sé, e anche con lui nasce un momento di condivisione toccante. Il culmine è quando mi confessa quanto ami sua moglie, che lo ha saputo “raccogliere da terra”, mi dice, e gli si bagnano gli occhi mentre lo racconta.
Mi spiega che il bar è un circolo Arci; lo hanno preso in gestione poco prima del lockdown. A causa delle chiusure forzate hanno rischiato che tutto andasse in fumo fin da subito, ma dice che la gente del paese si è dimostrata incredibilmente solidale, e con il loro aiuto stanno riuscendo a rialzarsi.
A riprova che fare del bene è contagioso, chiama direttamente il sindaco per chiedere se può aiutarmi per stanotte. Questi si conferma davvero gentile, e fa venire una persona a darmi le chiavi di uno spogliatoio del campetto dietro la chiesa. Grandioso!
Terminato il pranzo, chiedo se loro abbiano un timbro per la mia credenziale. Mi dicono di no, ma il padre di Fabio se ne inventa uno incredibilmente creativo. Con un pennarello colora la piccola tau che porta al collo e la preme sulla carta. Fa poi lo stesso con un tappo di plastica, per disegnare la corona esterna. Chapeau!
Li saluto e prometto tornerò anche per cena.
Passo tutto il pomeriggio a pulire e sistemare lo spogliatoio. Potrei viverla in maniera più spartana, ma sono fatto così, e oltretutto mi piace l’idea di lasciarlo più pulito di come l’ho trovato. È un minimo segno di gratitudine che forse qualcuno noterà, ma poco importa.
Dopo la doccia, spendo un po’ di tempo parlando con una delle cognate di Fabio, che ha portato il nipote a giocare lì di fianco.
Una volta andati loro, arrivano tre altri ragazzini. Sembrano molto incuriositi della mia presenza. Li saluto divertito e attacco bottone, approfittando di una rete di recinzione tra noi che mi fa sembrare forse meno minaccioso. Mi fanno domande sulla mia esperienza e rispondo con gioia. È la prima volta che mi capita di parlare del mio pellegrinaggio con dei bambini.
La sera torno al bar, come promesso. Fabio e la moglie sono fuori per un catering. Il papà e la mamma mi trattano benissimo, cucinando solo per me almeno tre etti di carbonara e della torta salata da portar via. Parlo molto con entrambi, e mi colpiscono per la loro umanità. Lui in particolare, così come ha fatto il figlio, mi racconta di vicende molto intime, eventi durissimi, che sarebbero veri e propri cataclismi per chiunque. Nonostante ciò, mi impressiona constatare quanto ancora riesca a trasmettere amorevolezza; penso che molti al suo posto si sarebbero induriti gravemente. Quando il discorso si sposta su temi più sociali, fa alcune affermazioni molto severe su cui non sono d’accordo, ma mi sento perfettamente a mio agio perché il suo sguardo, la sua espressività e le premure che ha per me e per i familiari continuano a parlarmi di un uomo dal cuore davvero buono. Forse anche questo è il caso, come spesso capita, che alcune ostinate asprezze si formano su grandi ferite. Non posso saperlo, ma è quello che sento. Quando arriva l’ora di andarmene, sceglie di farmi pagare una cifra minima, mandandomi a letto pieno e felice.
La notte succede qualcosa di brutto: alle tre dei giovanissimi ragazzi si ritrovano nel piazzale del campetto, a quindici metri da dove stavo dormendo. Uno urla come un pazzo, ce l’ha col mondo. L’aggressività con cui sbraita fa gelare il sangue nelle vene. L’impressione è quella di una scena già vista qualche volta, da adolescente, quando alzavamo troppo il gomito e non sapevamo che farne di tutta l’inquietudine che portavamo dentro. La cosa, però, si prolunga moltissimo e la tensione in certi momenti è insopportabile, nonostante tutti tentino di calmarlo. Alla fine ci riescono e se ne vanno. Confesso di aver avuto un po’ paura nei momenti più accesi, ma soprattutto mi è rimasto addosso un profondo dispiacere per lui.