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cammino di santiago - roberto pesenti

07/10 Saint-Lizier – Augirein

(Association Mémoire du 20éme siécle)
31 km

Oggi il cielo non offre mezze misure né scappatoie: piove a dirotto, e le previsioni dicono andrà avanti per ore. Non rimane altro da fare che coprirsi bene e partire con sana rassegnazione.

Seppure ci sia ancora buio, non c’è bisogno della torcia, perché il paese è ben illuminato. Scendo fino a valle e supero il ponte sul fiume Salat, un affluente della Garonna, ritrovandomi poi su una delle strade più trafficate che abbia mai incontrato fin qui. Spostandomi a piedi da quasi due mesi, trovarmi di fronte a questo marasma mi dá quasi ribrezzo. Mi domando come potrò tornare a questa specie di normalità.

La strada corre ai piedi di una collina che sono certo di dover superare, ma il buio e la pioggia mi impediscono di vedere i segnavia. Così, sono costretto a ripararmi tutto dentro la mantella per spulciare sul navigatore dove parta il sentiero. Purtroppo sbaglio comunque, e me ne accorgo solo in cima alla salita presa, scoprendola a fondo chiuso. Provo a trovare alternative, ma non resta che tornare sui miei passi, scendendo ancora da dove sono partito.

Riesco a scovare la via giusta, ma dopo dieci minuti mi accorgo di aver mancato la seconda svolta. Immobile sotto la pioggia battente, cerco di respirare molto profondamente per mantenere la calma. A mente più serena, quindi, trovo una soluzione un po’ rocambolesca per scendere sulla strada sottostante. Da lì, riesco infine ad agganciarmi al percorso esatto senza dover tornare indietro un’altra volta. Davanti alle prime indicazioni corrette tiro finalmente un sospiro di sollievo.

Attraverso una piacevole zona residenziale a mezza costa, tutta composta da villette immerse in grandissimi giardini di proprietà. Come previsto, la pioggia non sembra voler smettere di cadere; la notte, però, ha ormai lasciato spazio al giorno, e con la luce il cammino diventa un po’ meno duro.
Dopo una decina di minuti, attorno a me non restano che poche case sparse, mentre tutto intorno dominano prati verdissimi, resi brillanti dall’acqua piovana.

Il percorso mi riporta poi a valle, in corrispondenza di un bel ponte romano presso Aubert. La vista di un grande portico lì di fianco mi sembra un miraggio. Ho fatto pochi chilometri ma ho già perso un sacco di energie, e non vedevo l’ora di trovare un posto all’asciutto dove fare una pausa.
Appena dopo essermi rimesso in marcia, incrocio una vecchina che sta camminando col suo ombrello sotto la pioggia battente. Mi regala un affettuoso saluto sorridente. Sono piccoli doni sempre ben accetti, capaci di rinvigorire all’istante da ogni stanchezza.

Segue circa un’ora di cammino che mi fa risalire di nuovo lungo il versante, fino ad arrivare poco a monte di Engomer. Da lì, il sentiero entra in un bosco e d’un tratto si fa ripidissimo. Prima di affrontarlo, mi fermo a radunare le forze e soprattutto a preparami mentalmente. Dalla mappa so già che sarà breve, ma con lo zaino che mi ritrovo resta un ostacolo non così banale. Annoiato dalla fatica, però, decido di giocare con me stesso e mettermi alla prova, raccogliendo questa piccola sfida in modo quasi competitivo. Spremendo tutte le mie energie, comincio a salire a grandi passi tra le pietre fangose, mentre la pioggia filtra abbondante tra i rami sopra di me. Spinta dopo spinta, cerco di godere di quello sforzo piuttosto che pormi in una condizione di sopportazione. L’approccio si rivela efficace, trasformando l’esperienza in qualcosa di passionale: lascio che l’affanno si mescoli al vigore che ci sto mettendo. Può sembrare esagerato, ma diventa quasi come fare l’amore. Arrivato in cima, sono fradicio sia per la pioggia che per il sudore. Mi devo fermare a riprendere fiato e far rallentare il cuore, ma scoppio anche in una risata liberatoria.

Una volta sceso dall’altro lato, poi, trovo rifugio sotto il piccolo portico d’ingresso del Comune di Balaguéres-Alas. Mi fermo almeno una ventina di minuti, mangiando qualcosa e studiando i chilometri che ancora mancano.
Qualche abitante mi passa di fianco per entrare negli uffici, ma la cosa curiosa è che poi non vedo più nessuno uscire. Forse stanno usando una porta di servizio per garantire le distanze di sicurezza, oppure sono impiegati che lavorano qui, chissà. In ogni caso, con tutti spendo un bel saluto sorridente, racimolando però solo qualche mugugno bofonchiato senza nemmeno guardarmi.
Non è certo mia intenzione creare disagio, imbarazzo o addirittura fastidio, ma è anche vero che la mia conchiglia e tutto il resto dicono benissimo che ci faccio qui. Sono un innocuo pellegrino verso Santiago, pieno di aneddoti e sogni, ma questo non sembra rassicurare che poche persone. Che dire, c’est la vie.

Ci ho visto bene scegliendo di prendermela comoda, perché la pioggia d’improvviso cala, fino a smettere. È il momento!
Scendo in paese, scoprendolo particolarmente originale. Un torrente lo divide a metà. Sulle sponde non ci sono parapetti, solo qualche vaso di fiori appoggiato per terra. Gli edifici che vi si affacciano hanno tetti in lose e scuri di legno. In alcuni casi, sia per le facciate che per gli infissi vengono usati colori sgargianti, con abbinamenti audaci e quasi sempre ben riusciti. In altri, invece, gli unici colori sono il grigio scuro del tetto e un tono più chiaro per i muri: un’accoppiata piuttosto mesta, soprattutto in giornate piovose come oggi.
Non sono certo in alta montagna, eppure molti dettagli mi rimandano a quei contesti, a quell’atmosfera.

Rinuncio ad una nuova salita e raggiungo in piano il villaggio di Audressein, che si presenta subito con il suo asso nella manica: l’antica e preziosa chiesetta di Notre-Dame de Tramesaygues, dalla forma originale che la rende unica.

Da qui in poi, lascio il fiume Le Lez e seguo il suo affluente, la Bouigane, lungo la valle della Bellongue, come da programma. È straordinario il numero di piante e fioriere che sono disposte lungo il suo argine.
In Francia esiste una vera e propria certificazione per le città e i villaggi “in fiore”. Lo so perché lá dove si ottiene questo marchio, viene affisso un cartello all’ingresso del paese, e l’ho già incontrato parecchie volte. Informandomi, scopro addirittura che non è solo una questione riguardante il numero di fiori presenti, ma che viene tenuto conto di tutto il patrimonio paesaggistico e vegetale, oltre che del rispetto dell’ambiente e la qualità della vita. Davvero lodevole.

Il paese successivo si chiama Argein. Lì, prima dell’ennesima deviazione collinare, sosto un momento per valutare il da farsi. Proprio in quel momento sopraggiunge un piccolo gregge di pecore. Il pastore che le conduce, riconoscendomi come pellegrino, mi indirizza con tono stranamente duro verso la salita, come se mi avesse letto nella mente. Turbato e divertito allo stesso tempo, accetto l’ordine e m’incammino.
Non più di dieci minuti dopo, però, sto già maledicendolo perché il sentiero è quasi impraticabile: ci saranno almeno 20 cm di fango, mescolato per bene con tutti gli escrementi del suo gregge. Ma non sarebbe stato più civile consigliarmi il percorso alternativo?!


Grazie al cielo la tortura si conclude relativamente presto, e mezz’ora dopo mi trovo a scendere in un altro borgo splendido, chiamato Aucazein. Le sponde del fiume che lo attraversa sono incantevoli, ricoperte da un’erba di un verde impensabile. Presso un piccolo ponte – ovviamente fiorito – si ammira una villa di rara bellezza. Addirittura su una delle sue facciate spunta anche un delizioso mulino ad acqua.
Mentre mi perdo a bocca aperta in quell’immagine, però, una coppia di cani di piccola taglia e slegati iniziano a seguirmi, abbaiandomi contro con insistenza. Non fanno paura, ma mi stufa questa faccenda di esser perseguitato ovunque dagli amici a quattro zampe. Vista l’assenza di pericolo, scelgo di far loro una foto come testimonianza simbolica di tutti i fastidiosi incontri dello stesso tipo avuti fin qui. La cosa buffa, però, è che puntando il telefono verso di loro immediatamente si immobilizzano, come per mettersi in posa. Cani vanitosi.

Lasciato l’abitato, percorro un rettilineo con altre grandi case immerse nel verde, in alcuni casi con orti fioriti come ne avevo visti solo nelle Hautes-Alpes. Poco dopo, trovo un bar-ristorante dove faccio una veloce pausa caffè. C’è solo il proprietario, seduto al computer nella sala buia. Non lo dice, ma per i due minuti in cui mi trattengo riesce in ogni modo a farmi capire che per lui sono una scocciatura e nient’altro. Lo saluto con il mio miglior sorriso, ma rimane a fissarmi accigliato e impassibile. Una vera pasta d’uomo.

Il GR mi accompagna tra altri minuscoli villaggi, continuando a salire lungo la valle.
Mi godo la vista di nuove splendide ville a Saint-Jean-du-Castillonais, dove un uomo in furgone si ferma apposta per salutare il mio arrivo, ma è una falsa cortesia. In realtà vuole propormi un alloggio, e quando lo avviso che ne ho già prenotato uno, insiste per sapere dove. Gli rispondo senza problemi; lui storce il naso e se ne va senza nemmeno salutare. Confesso che all’inizio mi ero illuso, ma per fortuna ho ancora vivo in me lo squisito ricordo della vecchina che mi ha salutato stamattina sotto la pioggia.

Salendo nella parte alta del paese, faccio poi uno degli incontri più bizzarri di questo cammino. È un uomo altissimo e porta dei dreadlock molto lunghi. Veste in maniera un po’ folle, con un kilt scozzese, degli scarponi da trekking, una felpa di qualche gruppo hard rock e un gilet di piumino viola. Lo fermo per un’informazione, ma in realtà muoio dalla voglia di sapere qualcosa su di lui. È molto sorridente e capisce le mie intenzioni, ma sembra disponibile ad accontentarmi, e finiamo col presentarci. È tedesco e si chiama Thoe. Non parla inglese, ma tenta comunque di farmi capire qualcosa di sé. Quando gli chiedo che lavoro faccia, mi risponde sorridendo che è una specie di sciamano. Non mi interessa insistere; anzi, mi piace restare con questa idea stralunata, così approfitto per salutarlo e lasciarlo proseguire. Sarebbe stato un incontro originale ovunque, ma in una valletta come questa mi pare ancora più inusuale; un po’ mi chiedo se possa valere lo stesso anche per lui.

Qualche centinaio di metri dopo, imbocco una discesa e in una decina di minuti arrivo ad Augirein, meta del giorno. Finalmente!
Ho trovato alloggio presso l’Association Mémoire du 20éme siécle. Sento per telefono la referente, la signora Eliane, che mi dà un paio di semplici indicazioni per raggiungerla. Quando apre la porta della casetta, resto sbalordito, scoprendo che stanotte dormirò in una casa-museo!
L’abitazione si sviluppa su tre piani, ognuno molto piccolo. La particolarità è che è piena fino all’orlo di oggetti domestici di tutti i tipi, raggruppati meticolosamente per tipo e dimensione. Come dice il nome del posto, sono tutti legati al secolo passato – soprattutto ai primi cinquant’anni, mi pare.
Ci sono collezioni di ogni cosa: piatti, macina-caffè, scatole di latta, bicchieri, soprammobili, pentole, brocche, vasi, bambole, merletti, e chi più ne ha più ne metta.
Per quanto sia effettivamente una casa, mi chiedo come siano arrivati a decidere di ospitarci qualcuno. A mia disposizione ho tutti i normali servizi di un alloggio qualsiasi, ma il fatto è che in ogni minimo angolino ci sono esposte decine e decine di cose. Nella mia camera, così come nel bagno e nella cucina. Davvero fatico a credere ai miei occhi! La faccenda per lo più mi diverte, lo confesso, e sono già sicuro che diventerà un ricordo particolarmente speciale.

Prima che cali il sole riesco anche a visitare il paesino, scoprendolo curato e fiorito come gli altri visti oggi. Pur piccolo, ha una parte bassa e una alta; in quest’ultima, c’è una chiesa di cui la signora mi lascia le chiavi per poterci entrare. Un’altra cosa insolita, ma ormai chi le conta più?

Per cena mi scaldo un risotto pronto ai frutti di mare, comprato ieri. Pensavo fosse la solita ciofeca, invece si rivela inaspettatamente buono. La confezione ha una grafica strana. L’impostazione grafica dei prodotti è un altro ambito visuale di cui mi sono interessato, e così mi accorgo che i caratteri usati sono totalmente fuori da ogni trend attuale. Leggo che si tratta di una marca basca. Questo mi fa tornare in mente una recente vacanza proprio nei Paesi Baschi, anche se spagnoli. Ripensandoci, in effetti, mi rendo conto che avevo già incontrato quel font, e non certo su una scatola di risotto. Mi nasce un presentimento: non sarà che questo popolo che tanto ama sottolineare ciò che lo distingue, ha scelto di farlo anche usando un carattere testuale tutto suo? Se così fosse, sarebbe una cosa molto interessante, ma purtroppo non riesco ad accertarmene. Non mi resta che portare ancora un po’ di pazienza; non manca poi molto, ormai, a raggiungere i territori baschi francesi. Lá, forse, riuscirò a togliermi il dubbio.

Prima di addormentarmi, passo un po’ in rassegna le infinite cose che riempiono la mia piccola stanza. Tra tutte, ne scopro una puttosto inquietante: una cornicetta con la foto di una giovane ragazza emaciata e inespressiva. Sembra una fototessera che, per qualche motivo, immagino risalga agli anni venti. Non bastasse l’aspetto di quel volto, tra il vetro e la fotografia c’è una ciocca bionda di capelli, e mi viene abbastanza automatico pensare che siano proprio della ragazza ritratta. Ci faccio una risata per stemperare la sottile angoscia che mi crea quella cosa tanto macabra, e mi infilo sotto le coperte. Dalle imposte chiuse arriva il rumore sordo e costante del vicinissimo fiume. Se non fossi così stanco, credo che difficilmente dormirei stanotte.

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Ariège, Francia, Occitania