(Mémé de Juzet)
23km
Oggi camminerò meno chilometri del solito ma, viste le altimetrie, sarà una vera e propria tappa di montagna. C’è bel tempo, e questa è una grande notizia, perché non vedo l’ora di scoprire questo territorio nel pieno della sua bellezza. Parto verso le otto, abbastanza tardi rispetto al mio solito, con un freddo quasi piacevole.
Il GR riparte da un sentiero al limite del paese, il quale subito si immerge in un bel bosco; non avrei chiesto di meglio. Durante il tragitto, sfioro il torrente che seguo fin da ieri, la Bouigane. Lo attraverso a Saint-Lar, in corrispondenza del primo ponte che incontro.
La cittadina gode di una posizione tutt’altro che anonima, esattamente all’incrocio di tre valli. Lo stile delle case è del tutto simile a quello già visto ieri, ma stavolta senza quei colori tanto originali. La giornata splendida, però, neutralizza la tetraggine dei tetti scuri, lasciando prevalere il fascino di un caratteristico paesino montano.
Il sole finora non ha baciato che qualche alto versante in lontananza, ma le montagne vicine impreziosiscono comunque la scena, regalando ciascuna una tonalità di verde diversa.
Una volta raggiunta la chiesa, svolto per un sentiero che so già sarà il più impervio della giornata. La parte più aspra, lunga qualche centinaio di metri, ha una pendenza che mi mette davvero a dura prova. La mattina ha l’oro in bocca, però, e anche il sole sembra accelerare la sua venuta proprio per sostenermi.
Arrivato a un rustico altarino con un crocifisso e delle bandierine tibetane, capisco che il grosso è fatto e tiro un po’ il fiato. La salita non è finita, ma ora sembra continuare molto più morbidamente.
In dieci minuti, infatti, già scollino, in corrispondenza di una manciata di case immerse nella vegetazione. Gli abitanti sono fuori che chiacchierano: mi pare stiano confrontandosi su qualche sistemazione da fare alle proprie abitazioni. Il sentiero è stretto e passo proprio in mezzo a loro, ma a stento ricevo risposta al mio saluto sorridente. Per il morale sono piccole pugnalate, ma bisogna saperci convivere.
Raggiungo un abitato leggermente più grande del precedente: Escarchein. Sta a mezza costa e si affaccia su un pascolo gigantesco, occupato da una mandria di mucche rosse che prendono il sole beatamente accucciate. La sensazione che trasmettono è che abbiano assolutamente tutto quello di cui hanno bisogno e che se la stiano spassando nel loro dolcissimo far niente. Non le invidio, ma mi piace sempre dedicare un minuto ad osservarle; sembra quasi di poter assorbire un po’ della loro placiditá.
In fondo al paesino mi imbatto in una casa ricca di simboli pellegrini affissi qua e là. Non posso farci niente: ogni volta che incontro qualcosa che riguarda il mio viaggio mi ravvivo e nasce in me – spontanea e ingenua – la voglia di incontrare un volto solidale, il sorriso di qualcuno che mi auguri “Buen camino”, magari con il quale scambiare gioiosamente qualche aneddoto. Noto che c’è la porta-finestra aperta. L’interno è in penombra, ma c’è una televisione accesa. Pensando che possa far loro piacere, provo a chiamare, ad avvisare del mio passaggio, usando un tono di voce cordiale. In fondo, non credo siano molti, quest’anno, i pellegrini passati di qua. Purtroppo, tutto questo mio entusiasmo resta deluso. Non ricevo nessuna risposta, nessuno si affaccia. Pazienza, si prende quel che viene. Magari erano semplicemente occupati in altro o non mi hanno sentito, anche se la verità è che mi mi resta un po’ di amaro in bocca.
Poco dopo, supero il confine tra il dipartimento dell’Ariège e quello dell’Alta Garonna, nel quale camminerò solo per un paio di giorni.
L’Ariège è stata una terra che mi ha regalato tantissimo, sia dal punto di vista naturale, sia tenendo conto di come l’uomo ha “disegnato” il proprio insediarcisi. Penso alle piccole e magnifiche città incontrate, così come i tanti paesini splendidi, ma devo includere anche tutte le terre coltivate e dedicate al pascolo, che mi hanno riempito occhi e anima di meraviglia.
Carico di gioia e gratitudine, scendo ancora fino a raggiungere il comune di Portet-d’Aspet. Mi ricorda incredibilmente Saint-Lary, il primo che ho incontrato oggi. Anche qui devo superare una grande salita appena uscito dal villaggio, ma per fortuna meno dura di quella affrontata all’alba.
Lungo il sentiero passo davanti a una cappella dal nome simpatico: Notre-Dame-du Pomès. Io penso che si riferisca alle mele anche se la parola è scritta diversamente, perché dentro c’è una recente statua di una donna che ne tiene una in mano. Inoltre, non è questa la sua unica originalità: la figura, infatti, stringe a sé un bambino, ma ha ben poco di una Maria – per lo meno per come siamo abituati a vederla raffigurata. È molto scollata, dalle gambe scoperte, e il seno ben pronunciato sotto la veste, modellato con poca maestria. Se è vero che non emana la consueta pietà mariana, ammetto però che trasmette una vampata di femminilità che di solito viene totalmente omessa dalle rappresentazioni canoniche. Me ne ricorderò. Ma ora, bando alle ciance e camminare!
Ahimè, incappo subito in un bel tratto fangoso come quello di ieri e, viste le tante cacchette ovine sparse ovunque, sospetto ci sia passato lo stesso gregge incontrato ad Argein. Superarlo è davvero una pena, tanto che alla fine gli scarponi sono letteralmente raddoppiati di peso per tutto quello che gli è rimasto attaccato. Inizia poi un ultimo sentiero che, tagliando i tornanti stradali, mi porterà fino ad un passo chiamato Col de Portet-d’Aspet.
A metà salita, incontro un vecchio con una gran barba bianca che mi regala un gentile saluto. Immediatamente dopo di lui c’è una casa e, passando di fronte alla cassetta della posta, leggo quasi per caso un cognome che attira inevitabilmente la mia attenzione: Garibaldi. Per un centinaio di metri rido tra me e me per la simpatica abbinata tra il ben noto cognome e il volto irsuto dell’anziano appena incrociato. Fosse davvero lui il signor Garibaldi – come probabile – sarebbe una coincidenza molto divertente.
Poco dopo arrivo in cima al passo, dove posso godermi un meraviglioso panorama e una grande soddisfazione. Non è stata certo una scalata memorabile e in fondo sono solo a poco più di mille metri d’altitudine, ma tutto conta relativamente. Di fatica ne ho fatta, quindi mi merito sia la gioia che una pausa. È il punto più alto della giornata; da qui in poi non resterà che scendere.
Me la prendo comoda e riparto verso le undici. Rimanendo a mezza costa, la via segue le varie nervature del versante. Il sentiero, visto in pianta, procede quindi per larghi zig zag, e su ciascun segmento incontro ambienti dalle caratteristiche a volte radicalmente diverse. Solo una cosa hanno in comune: sono tutti scenari splendidi.
Per un primo tratto cammino su un morbido sentiero di foglie secche e gli alberi intorno a me – dalla corteccia argentea – hanno la particolarità di avere le basi ricoperte da un muschio molto abbondante, vellutato, di un verde smeraldo intenso come mai ne ho visti prima. Man mano che procedo, vedo quello stesso muschio prendere sempre più il sopravvento su piante e rocce, tanto che a un certo punto ogni cosa sembra avvolta da quella pelliccia verde. È stupefacente. Per qualche minuto mi sento dentro ad una fiaba.
Il secondo tratto è lungo e luminoso. Alla mia sinistra, verso la valle, non ho più il bosco a nascondermi il panorama, ma solo una fila di piccole piante frondose e arbusti, e lo stesso alla mia destra. Sembrano siepi, e l’effetto è quello di un labirinto a cielo aperto.
Il sentiero continua in leggera salita, fino a solcare la nervatura della montagna più protesa verso l’interno della valle. Qui c’è una roccia sulla quale riesco a salire senza rischi. Sembra di stare sulla prua di una nave!
Mi godo per un attimo il panorama e poi comincio la lenta discesa attraverso un bosco ombroso, simile a quello iniziale. Qui faccio un incontro davvero inusuale: un’intera famiglia sta percorrendo lo stretto sentiero in direzione opposta alla mia. La curiosità è che lo stanno facendo con ben due asini! Devono star affrontando un viaggio non da poco, perché le bestie sono incredibilmente cariche. Quella in coda ha anche un piccolo peso aggiuntivo: una dolcissima bambina la cavalca, con in testa un caschetto da fantina. Gli altri sembrano essere i suoi due giovani nonni, seguiti da quella che credo sia la madre. Mi arrampico per un metro abbondante tra gli alberi per permettere loro di passare. Dentro me, come al solito, spero di poter scambiare almeno due battute con questa favolosa carovana e rivolgo loro un saluto allegro per rompere il ghiaccio. Purtroppo ricevo solo una risposta inaspettatamente dura, e a malapena uno sguardo. In compenso, almeno la bambina ricambia con irresistibile simpatia. Tra l’altro, ho usato senza pensarci un italianissimo “Ciao!”, e solo in un secondo momento realizzo che la piccola mi ha fatto eco con la stessa espressione. È un dettaglio minimo, ma è un sacco di tempo che scambio saluti in francese, e questo frivolo imprevisto mi stampa per qualche minuto un bel sorriso in volto.
Mentre si allontanano rubo una foto ricordo, conquistato dal buffo ondeggiare della bimba sopra il suo asino. Inaspettatamente, si volta per un istante anche la madre e mi sorride in silenzio. Un’altra poetica piccolezza.
Poco dopo, passo attraverso un bosco di betulle talmente perfetto da convincermi definitivamente di essere davvero in una fiaba – o almeno nello scenario ideale per qualche storia della Tavola Rotonda. Mi guardo attorno di continuo, con lo sguardo meravigliato di un bambino a Disneyland.
Resomi conto che si è già fatto mezzogiorno, scelgo di approfittare di quest’angolo di paradiso per fermarmi a pranzare. Il sole mi fa compagnia con qualche suo raggio tra le fronde, e io mi godo in silenzio l’ampissima gamma di colori di questi luoghi, dilatata dal fatto d’essere a cavallo tra due stagioni.
Riparto dopo una ventina di minuti, lasciandomi alle spalle questi boschi magici e tornando su asfalto. Incontro prima le poche case di Escabires e poi – qualche tornante sotto – quelle di Razecueillé. Da lì, la strada scende dolcemente fino ad accostarsi al fiume Le Ger, giungendo quindi al ponte che lo attraversa. Eccomi a valle, finalmente. È stata dura, ma che posti ho potuto vedere!
Per concludere l’itinerario di oggi non mi resta che superare la collina che sta sull’altra sponde del fiume. Mentre salgo per una larga strada, posso godermi la vista di quasi tutto il versante percorso nelle ore precedenti, gongolando ancora per le meraviglie incontrate.
La fatica si fa sentire, ma per fortuna torno presto a scendere, raggiungendo una larga conca che ospita la destinazione di questa giornata – Juzet d’Izaut – dove ho prenotato un letto in camerata presso un gîte.
Stavolta si tratta di una villa agricola di tre piani, con un bel giardino e quello che una volta era di certo un fienile. Le finestre sono aperte e si sente musica ad alto volume. Suono il campanello, ma nessuno risponde. Succede lo stesso chiamando il numero di telefono, nonostante dalla strada io possa sentire squillare entrambi. Passano i minuti e psicologicamente la situazione si fa un po’ frustrante, anche perché sono arrivato proprio all’orario concordato. Grazie al cielo, infine, il proprietario si accorge di me e mi accoglie. Mi spiega che stava imbiancando una stanza all’ultimo piano e aveva lasciato il cellulare a quello inferiore.
Il posto è molto bello anche all’interno, ma Michel – la persona che mi ha aperto e che credo essere l’unica in casa – sembra inspiegabilmente teso, e io non riesco a sentirmi del tutto a mio agio. Cercando di non pensarci troppo, mi occupo di sistemare tutte le mie cose e farmi una bella doccia rigenerante. Scendo poi in paese, dove gli unici negozi aperti sono una macelleria e un piccolo panettiere.
Entro nella prima, che ha le pareti costellate di scatole coloratissime di patè fatti in casa. L’impatto visivo è accattivante, ma il prezzo è troppo alto per le mie tasche. Mi dedico quindi a i pochi altri prodotti sugli scaffali e alla lunga vetrina frigo, ma fin dal primo istante sento durissimo su di me lo sguardo della commessa dietro il banco. È esattamente ciò che amo meno dei piccoli negozi, dove l’indecisione del cliente – di solito – non è ben accolta dal personale, e spesso ci si trova ad essere osservati con malcelata insofferenza. Certo, questo succede anche per prevenire eventuali furti, ma per me resta ogni volta un’esperienza spiacevole.
Tento di distendere l’atmosfera stabilendo un minimo dialogo e dando spiegazioni del mio tentennamento. Spiego con gioia di essere un pellegrino venuto dall’Italia e in cammino verso Santiago, ma non batte ciglio. Proseguo comunque fiducioso, confessando serenamente di star cercando prodotti adatti al mio budget.
D’improvviso, la sua reazione è sconcertante. Sbuffando e con sguardo astioso, pronuncia nella sua lingua la frase: “Tutti uguali voi italiani!”.
Rimango scioccato. Per quanto sia un episodio minuscolo, non mi era mai capitato di essere disprezzato per la mia provenienza. Balbetto una risposta col mio misero francese, tentando di moderare la situazione: spiego che gli italiani che arrivano da lei probabilmente sono spesso pellegrini che stanno affrontando un lungo viaggio proprio come me, ed è normale che debbano fare economia. Non è quindi la nazionalità, ma le proporzioni del viaggio che potrebbero essere la ragione di questo fatto.
Non riesco nemmeno a finire le frasi, che la signora rilancia subito aspramente, coinvolgendo addirittura un cliente appena entrato. Indicando me, gli comunica sprezzante che sono italiano, sbuffando una seconda volta per sottolineare il concetto già più che chiaro.
La situazione è insostenibile, ma concentro le mie forze e, senza più darle retta, riesco velocemente a trovare quello che mi serve al prezzo che volevo spendere.
In cassa, la maleducata non molla, e quando le dico che ho solo il bancomat si mostra esasperata e ricomincia a lamentarsi. In realtà ho con me anche contanti, ma è la mia misera vendetta nei confronti di quell’arpia. Le strappo lo scontrino di mano e me ne vado, mentre ancora sta insistendo col suo brontolio ostile.
Nel negozio accanto mi fermo a prendere un solo panino ma, nonostante la mia spesa irrilevante, vengo trattato comunque con la normale cortesia che si addice a circostanze tanto elementari di vita civile.
Quando torno all’alloggio sono emotivamente stravolto. Michel è in salotto. Sono incapace di spiegare in francese quello che è successo, ma ne ho bisogno, così uso Google Translate. Legge il racconto e reagisce abbozzando un minimo d’empatia, ma…nei confronti della negoziante! Per fortuna si ferma subito, forse perché vede esplodere il fuoco nei miei occhi. Capita l’antifona, non mi resta che andare in camera a sbollire.
Quando scendo nella piccola cucina per l’ora di cena, lo trovo ai fornelli a preparare il proprio piatto. Una volta sedutosi, accende la televisione a volume massimo su una specie di quiz a sfondo musicale.
Non cerca minimamente la relazione con me. È tutto concentrato sulla tv, e fa solo commenti su quello che vede succedere sullo schermo. Io preparo il mio pasto e mi siedo a tavola. Fatico molto a sopportare quella situazione, anche perché odio la televisione – soprattutto durante i pasti.
Forse però c’è una spiegazione. Sara, da Milano, mi ha detto di aver dormito proprio da loro sei anni prima e di essersi trovata benissimo. Erano una coppia, infatti, ma la compagna era malata. Qui lui ora è solo e noto alla parete molte foto di un’unica donna. Mi faccio l’idea che sia venuta a mancare, e inizio a vedere Michel e i suoi atteggiamenti sotto un’altra prospettiva. Non so se sia davvero cos’, ma così facendo riesco a calmarmi. Finisco col fare anch’io qualche commento sul programma, e riusciamo anche ad avere qualcosa di simile ad un breve dialogo prima di andare a dormire.
La giornata finisce così, lasciandomi molto a cui pensare.