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cammino di santiago - roberto pesenti

13/10 Bagnères-de-Bigorre – Lourdes

(La Ruche)
25km

Roberto, oggi tu andrai a Lourdes. A Lourdes! Mi viene un po’ da ridere a pensarci. Quando ero ragazzo, si veniva invitati ad andarci perché si era stati sfortunati come non mai in qualcosa, di solito addirittura più volte. Era un modo goliardico di compatire qualcuno.
Negli ultimi sei anni, però, ho scoperto meglio le implicazioni reali della sofferenza umana e ho esplorato piuttosto a fondo cosa significhi l’esperienza devozionale profonda. Almeno un po’ sono maturato, e non sono più portato a deridere sarcasticamente tutto questo, eppure una parte di me resta ancora un po’…grulla, diciamo. E così, eccomi qui a sghingnazzare da solo sul fatto che non solo sto andando a Lourdes, ma addirittura ci sto arrivando a piedi, e da casa! Meravigliosa imprevedibilità della vita!
Ad ogni modo, sono genuinamente felice: questo è importante ora.

Mi gusto quattro chiacchiere e una piacevole colazione col buon Yoris, poi mi infilo la solita mantella e mi butto. Si parte!
Il tempo purtroppo fa abbastanza schifo. Non piove ancora, ma le previsioni dicono sia questione di momenti. Alternative non ne ho, però – e nemmeno ne voglio.
Esco da Bagnères-de-Bigorre affidandomi per l’ultima volta al solito opuscolo. Un po’ mi spiace, perché mi ci ero affezionato: tanto essenziale, ma incredibilmente utile, facile da consultare e pure leggerissimo. Dovrebbero pubblicarne uno per ogni pezzetto di cammino e renderlo facilmente reperibile per la via. Non sarebbe una cattiva idea.

Nella mattina ancora buia, la traversata del centro cittadino non è memorabile. C’è un gran traffico, che forse è la cosa che ultimamente riesco a sopportare meno. L’unico momento di distrazione è quando incrocio una comitiva di bambini che stanno andando a scuola. Vedendomi conciato come al solito da Babbo Natale gobbo e “incinto”, mi guardano con tutte le varianti di una faccia perplessa. Che dire? Almeno avranno qualcosa su cui ridere prima dell’intervallo.

Mentre inizia a piovere, lascio la strada principale nei pressi della cittadina di Pouzac, e da lì entro in una valletta laterale simile a tante altre viste in questi giorni.
Sarà la pioggia, ma tutto attorno sa un po’ di già visto, e comincio presto ad annoiarmi. Non è un problema, però. Quando è così, ho qualche carta da giocare per sopperire alla monotonia. Da una parte mi gusto la parte prettamente fisica del camminare: il ritmo, la coordinazione, la progressione, ascolto il corpo e ci dialogo. L’altro escamotage è passare in rassegna tutte le persone a cui tengo, …ma proprio tutte! A ciascuna, in quel microscopico istante in cui pronuncio il suo nome, dedico una goccia d’amore, di speranza che stia bene, che i suoi guai possano risolversi e che possano arrivare novità interessanti.
Faccio così fin dalla partenza, in realtà. D’altronde, in ore e ore di cammino ci sono sempre momenti più vuoti degli altri, e in questo modo riesco a riempirli con qualcosa di significativo e a farli scorrere con molta meno fatica.

Dopo quasi un’ora, faccio una pausa in corrispondenza di un netto cambio di pendenza, ma fortunatamente lo strappo non si protrae troppo. Salendo un po’ di quota vengo anche ricompensato con un panorama niente male e smette pure di piovere.
Una cosa precisa e insolita, però, riesce a catturare la mia attenzione: la vista di una grande costruzione isolata nel bel mezzo di una montagna vicina. Non sembra niente che io abbia mai visto in una posizione simile, e infatti, cercando sul web, scopro che è un ospedale, un ospedale in mezzo ai boschi. La cosa ancora più strana, però, è il pensiero che mi nasce in testa e che mi strappa l’ennesima risata: “Chissà che bestemmie i fornitori che devono arrivare ogni volta fin lassù!”. E, tutto sommato, non credo nemmeno di aver torto.

Poco dopo raggiungo il piccolo villaggio di Neuilh, posto sulla cima della collina. Arrivato in fondo, mi trovo davanti il Comune e noto che alle sue spalle c’è un discreto panorama sulla valle dove scenderó nelle prossime ore. Non essendoci recinzioni, mi avvicino meglio e scopro che sul retro dell’edificio non c’è che una sottile striscia di terreno che subito scivola verso la strada sottostante. È proprio su quel margine che mi posiziono per godere della vista migliore, giusto qualche secondo.
Quando torno sui miei passi e comincio ad allontanarmi, mi accorgo poi con la coda dell’occhio che attaccati alle finestre degli uffici ci sono due impiegati che mi fissano stupiti e sospettosi. Eppure mi pareva di essere riuscito a non far rumore.
Il piccolo episodio non mi turba, ma rinvigorisce il mio sospetto che ogni volta che attraverso un paesino che sembra perfettamente disabitato (la maggior parte) c’è comunque sempre qualcuno che si accorge di me.

Sospeso in questi pensieri, noto che sull’ultimo palo elettrico del paese c’è disegnata una freccia e, di fianco – pennellate in un corsivo elementare – la scritta “St. Jacques”. Da qui parte un’altra strada poco entusiasmante, tutta all’ombra degli alberi che la costeggiano e che impediscono ogni vista sulla valle. Ci vuole quasi un’ora di cammino per raggiungere il villaggio di Arrodets-ez-Angles, e finalmente vedere aprirsi il paesaggio. Peccato solo che nel frattempo ricominci ancora a piovere.

Sono oltre metà tappa, ma mi manca ancora il passaggio sugli ultimi colli – questa volta solo su terra, niente asfalto. Con tutta quest’acqua, spero il terreno sia in condizioni decenti. Purtroppo basta un quarto d’ora per scoprire che invece è tutto esposto e spesso fangoso. Oltre alla pioggia, poi, tira un forte vento e alcuni tratti sono piuttosto pericolosi. Il pendio sotto di me scende per 500 metri fino a fondovalle ed è quasi completamente spoglio, tanto da darmi l’impressione di essere in cima ad un enorme scivolo. E ciliegina sulla torta, c’è anche un po’ di nebbia a rendere lo scenario ancora più selvatico.
Sorprendentemente, però, mi rendo conto che proprio tutto questo mi inietta una grande eccitazione, trainata da un fortissimo senso di libertà e avventura che sto provando. Il risultato è una mezz’ora di gioia, sforzo e adrenalina che mi ci voleva proprio.

Superato il tratto più complesso, il sentiero comincia a scendere all’interno di due file d’alberi, anche se alcuni li trovo tristemente sradicati, altri ai lati del percorso e altri ancora nel mezzo.
Poco prima di arrivare a valle, passo da una radura concava dominata da una suggestiva fortezza a forma di torre, bassa e tozza. Una tavola informativa ne narra le vicende più significative, e pare che ora sia di proprietà privata.
Appena sotto, trovo un melo con qualche frutto appeso, in una zona non recintata. Stacco una piccola mela gialla bitorzoluta. Mentre me la gusto, immerso in quel paesaggio ancestrale, mi immagino teletrasportato in un passato lontano, con qualche guardia del conte di turno pronta ad arrestarmi per aver rubato dai giardini di sua altezza. Che dire? Meravigliose fantasie da pellegrino.

Lasciato alle spalle l’ultimo poggio del giorno, arrivo a Les Angles, dal nome della stessa famiglia che possedeva il forte e comandava in passato questi territori.
La pioggia insistente rende i paesini come questo scenari ideali per un film  sui vampiri o sui lupi mannari, quelli “vecchia scuola” però. L’unica nota frivola sono i soliti vasi di fiori appesi alle balaustre di un ponticello.
C’è anche un antico lavatoio coperto, che sfrutto per mettermi al riparo almeno per qualche minuto e mangiare qualcosa. È quasi ora di pranzo e manca ancora un’ora e mezza di cammino. Potrebbe sembrare poco per uno che cammina da settimane, ma la pioggia porta sempre fatica in più.

Mentre esco dal villaggio, però, finalmente smette. Immerso tra campi e pascoli, mi fanno dono della loro compagnia diversi grandi rapaci che danzano e giocano nell’aria. Pensando alla classica scena in cui gli avvoltoi ruotano sulla testa della vittima che hanno scelto, per un attimo mi viene un nodo alla gola. “Non mi pare di esser messo così male, però”, mi dico per riderci su.

Affrontata l’ultima salitella, inizio finalmente a poter scorgere Lourdes in lontananza. Ci siamo!
Una volta sceso, cammino costeggiando campi di granturco e pascoli, godendo addirittura di qualche inatteso squarcio d’azzurro. In corrispondenza della prima periferia incontro alcune persone, ma tutti sembrano accigliati e nessuno mi restituisce il saluto. Certo, io posso attingere a tutto l’entusiasmo per quello che sto vivendo, mentre capisco che gli altri possano essere schiacciati dallo stress quotidiano. Nonostante ciò, mi stupisco sempre di come un gesto così semplice possa costare tanta fatica. Il fatto che questo sia un luogo fondato sull’accoglienza di pellegrini, poi, mi lascia ancora più perplesso.
Inaspettatamente, gli unici a regalarmi consolazione sono due bellissimi asini. Pur chiusi in un cortile, lo attraversano tutto per venire a curiosare dalle mie parti mentre io mi fermo ad aspettarli. Si dice che ognuno abbia quello che si merita, d’altronde.

Man mano che proseguo, sempre più dettagli mi ricordano che la città è profondamente plasmata sull’accoglienza di gruppi numerosissimi. Lo dicono le infinite indicazioni di strutture ricettive, i tanti parcheggi per i bus, i cartelli dedicati a innumerevoli luoghi spirituali.
L’assenza radicale di visitatori, però, rende tutto questo estremamente desolante, tanto che comincio a provare dispiacere per gli abitanti, immaginando i danni economici a cui stanno andando incontro.

Ad un certo punto, metto da parte la guida cartacea e comincio a seguire i cartelli per la grotta. Capisco troppo tardi, però, che è stato un errore ingenuo: quelle indicazioni erano per gli autoveicoli, non per i pedoni, e a quanto pare alle auto viene fatto fare un gran giro, perché mi ritrovo totalmente fuori rotta. Come se non bastasse, poi, il cielo torna a chiudersi e scurirsi, minacciando pioggia a breve. Devo sbrigarmi.

Mentre mi dirigo a passo spedito verso il centro, però, la densità di hotel, di negozi e ristoranti, pur vuoti o chiusi, si fa man mano più asfissiante. La città è oggettivamente imbruttita da una presenza pubblicitaria sovrabbondante e dal luccichio di un infinità di paccottiglia esposta ad ogni angolo.
Dentro me sapevo che avrei trovato tutto questo, ma non immaginavo in questa misura.

Tappandomi il naso, arrivo infine al vero cuore di Lourdes: il santuario costruito sopra la famosa grotta.
Appena superati i cancelli, però, la vista di quegli immensi spazi vuoti mi dà il colpo di grazia. Progettata per afflussi enormi, la piazza principale è attraversata da non più di dieci persone, e il senso di desolazione raggiunge il suo apice. Anche il grande ponteggio che copre completamente la torre più alta non aiuta ad apprezzare la sontuosa facciata. Ovunque si poggi lo sguardo c’è una impressionante prevalenza di grigio, e come se non bastasse comincia anche a piovere.
Se non voglio deprimermi troppo, non mi resta altro da fare che raggiungere quel piccolo luogo da dove è partito tutto quanto: la grotta.
Una volta laggiù, dopo la tempesta di messaggi e simboli appena superata, prevale inevitabilmente un senso fortissimo di sobria povertà. Non è solo una constatazione razionale, un commento all’evidenza: ho addirittura l’impressione che la grotta emani davvero un senso profondo di umiltà, che la effonda. Questo è esattamente quello che sento, e mi pacifica.
Toccato nel profondo, arrivo a capire che ho giudicato troppo accanitamente quello che ho visto qui intorno, ma al contempo raggiungo la certezza interiore che la mia spiritualità potrebbe trovare un solo rifugio accogliente da queste parti: quella roccia.

Rimango sotto la pioggia per un buon quarto d’ora, fermo: il tempo per acquietarmi definitivamente e ritrovare il mio centro. Prima di andarmene entro anche nel santuario, lasciando in sospeso ogni altra riflessione ma uscendone dopo pochi minuti.

Carico di tutto quanto vissuto, mi avvio poi verso la pensione presso cui ho prenotato. Si chiama La Ruche, e amici pellegrini mi hanno anticipato che è un luogo estremamente speciale per chi-come-me è in cammino verso Santiago.
Il proprietario, Jean-Louis, ha fama di essere un vero hospitalero intriso di spirito giacobeo, e ho la fortuna di farne effettivamente esperienza. Mi accoglie con premura e cortesia.
La casa è calda e ricca di segni e simboli legati a Compostela, ai cammini che là convergono e alle storie di chi, come me, ha voluto cimentarsi in questo genere di avventura. Parlando con lui, scopro quanta passione l’abbia spinto a portare avanti questo suo impegno negli anni, e quella stessa brace mi scalda definitivamente lo spirito dopo i “geloni” del primo impatto con la città.

La sera, durante la cena cucinata amorevolmente da Jean-Louis stesso, condividiamo la tavola con altri due ospiti, due uomini polacchi. Presentandoci, mi confessano subito che non parlano francese. Tra me e me provo inizialmente sollievo, ma poi il padrone esclama llegramente che invece lui non parla inglese. A quelle parole il discorso viene improvvisamente lasciato in sospeso e gli occhi dei tre si fissano su di me: vogliono che io faccia da traduttore. Vorrei farmi invisibile. Come mai potrò riuscirci – mi domando – se ancora balbetto a malapena le solite quattro frasi per prenotare un letto e comprarmi un panino? In ogni caso non ho scelta.

Sarà il vino, la stanchezza o la loro gentilezza, ma succede il miracolo: contro ogni pronostico riesco nell’impresa, scoprendo io stesso di aver fatto dei progressi che non sospettavo. È una bella sensazione, anche se so bene che non ce l’avrei fatta senza la pazienza che tutti hanno speso perché l’impresa riuscisse. Pazienza: merce rara di questi tempi.

Conclusa splendidamente la cena e tornato in stanza, penso alla giornata e al fatto che tra soli quattro giorni supererò i Pirenei, inaugurando una stagione tutta nuova di questo viaggio. L’impatto con Lourdes non è stato come speravo, ma non ha meno valore. So che domani – come ogni giorno – ripartirò comunque molto arricchito, non ho dubbi.

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