(Albergue Gaia)
37km
Sono le 7:30. Con Giuly siamo d’accordo di partire per le 8:15, prima però ho sentito il bisogno di tornare qui, in terrazza: dopo la luna magica di ieri sera, volevo godermi anche l’alba, ma è ancora presto. Sto a fissare il biancore dell’aurora premere nel cielo blu. Lo scolorisce, trascinandolo al lilla e al rosa salmone: sembra un’infusione.
Confesso che mi farebbe piacere veder spuntare Erika e scoprire se le sia rimasto negli occhi qualche riflesso di ieri sera, ma non mi illudo troppo; cerco di godermi solo la pace di questo momento.
Scendo a far colazione con Tiziano e Amedeo, mentre Erika fa capolino solo quando abbiamo già finito. Sembra stravolta, come se il fatto che tutti siamo già pronti a partire sia una sorpresa. Forse si aspettava qualcos’altro, o invece è solo più sensibile all’alcol di quanto pensassi. Curioso e sorridente, cerco il suo sguardo ma non sembra per niente contenta. Di sintonia, malizia e amorevolezza non c’è più traccia; difficile capire cosa le stia passando per la testa. In quei due occhi sembra esserci una rivolta, posso dire solo questo. C’est la vie.
Le chiedo comunque di seguirmi una volta ancora in terrazza, con una faccia tosta che per un attimo le crea ancora più disappunto. “Siamo perfettamente in tempo per l’alba”, le dico, ma non ne sembra per niente entusiasta. Il mio sorridere pare le faccia ribollire il sangue nelle vene, ma una parte di lei sa che non si può rifiutare uno spettacolo simile.
Ancor prima di superare la porta a vetri al primo piano, veniamo investiti da una luce capace di entrarti in fondo all’anima. Restiamo un po’ in silenzio davanti a quell’incanto, mentre lei pare ammorbidirsi un po’. Per sfizio piratesco, rubo un ultimo bacio. Erika lascia fare, ma non muove un muscolo e lo lascia morire sulle labbra. Non mi ha spinto via solo perché un’alba del genere non si merita battibecchi. La saluto con allegria, cosa che si sarebbe risparmiata volentieri.
In cortile la macchina è già accesa. Aspettiamo per qualche minuto il solito Amedeo e finalmente partiamo. Lungo il breve tragitto, ascoltiamo con interesse da Giuly alcuni aneddoti sul mondo degli albergues. Lei è una veterana, e ha storie da vendere. Arrivati a Sahagún, salutiamo anche quest’amica, felicissimi di averla conosciuta.
Diverse grandi architetture ci accolgono all’ingresso della cittadina e ci convincono a visitare un po’ il centro storico prima di partire. Superati un’imponente porta ad arco e una torre – resti di un monastero benedettino – scopriamo anche un’affascinante chiesa tutta in mattoni, dedicata a un mai sentito San Tirso.
Non lontano, un murales ricopre l’intero lato di una palazzina: raffigura un pellegrino moderno di fronte alla stessa porta da cui siamo entrati. Tra le vie deserte ne troviamo poi anche altri di recente fattura, probabilmente nati dall’apprezzabile volontà di rendere il paese più colorito e vitale. Superata la chiesa di San Lorenzo, arriviamo in Plaza Mayor, al centro della quale campeggia un piccolo palco coperto per concerti.
Ci fermiamo in un bar sotto ai portici per un rapido caffè, ma stamattina siamo più pigri del solito e finiamo col consumare un’altra colazione. Gli unici cornetti che vediamo stanno in uno di quei cabaret di cartone con cui vengono consegnati alle caffetterie la mattina. Ce ne sono giusto tre, percui ne prendiamo una a testa, muniti di tovagliolo e con gran naturalezza. Il barista ci guarda male, facendoci capire che siamo stati un po’ sfacciati a non aspettare ce le servisse. Per fortuna però sbollisce in fretta e scambiamo anche due parole. Ci racconta che è stato in vacanza in Italia qualche volta, e che gli è piaciuta molto. Quando ormai stiamo per uscire, però, non manca di aggiungere che “…comunque la Spagna è decisamente meglio!”. Purtroppo ci lasciamo sfuggire la frazione di secondo utile per una ribattuta ironica, trovandoci così costretti a concedergli l’ultima parola.
Guardiamo l’orologio, ma già sappiamo che è ora di darsi una mossa: sono arrivate addirittura le nove e oggi ci aspetta un’altra tappa bella impegnativa, seconda solo a quella del passaggio in Castilla y Leòn.
Per uscire dal paese attraversiamo il Puente Canto, sul río Cea. È visibilmente molto antico. Pare sia stato scenario di una grossa battaglia combattuta da Carlo Magno, o almeno questo è quello che leggo. Il nome del grande re è oggettivamente altisonante e stimola la fantasia, ma alla pari dei Templari non riesce a toccarmi particolarmente a fondo.
Imbocchiamo l’ennesima pista in terra battuta a lato strada – tutta dritta, ovviamente. “Che palle!”, penso tra me, ma subito vengo punzecchiato dai ricordi di tutte le imprecazioni spese tra gli aspri dislivelli della Via Domitia. Durante quei giorni desideravo più di ogni altra cosa proprio strade come queste, e ora me ne lamento tanto: dev’essere probabilmente una questione di karma.
Più avanti, vicino a Calzada del Coto, incontriamo lo svincolo da cui parte la variante scelta da Erika. Le dedico un rapido pensiero, divertendomi a immaginare un nuovo, inaspettato incontro futuro – magari ancora sulla via di Compostela.
Nei chilometri successivi un’infinita fila di giovani piante ancora cariche di foglie variopinte rende la via molto più graziosa. In un paio d’ore raggiungiamo e attraversiamo Bercianos, per poi ricominciare lungo un percorso ancora più ricco di alberi, che scatenano splendidamente la tavolozza autunnale.
In un punto anonimo del percorso, notiamo poco lontano dalla carreggiata una giovane pellegrina che sta trafficando con due grandi palloncini a forma di numero. Sono gonfiati a elio e le svolazzano sopra la testa mentre si avvicina a noi. La salutiamo allegramente, ma saltiamo parecchi convenevoli, chiedendole quasi subito quale sia il motivo di quei palloncini. Ci spiega che sono un ricordo della festa di ieri sera, con cui ha celebrato il proprio compleanno e quello di altri due pellegrini del suo gruppo.
Il destino vuole che anche lei si chiami Erika, anche se stavolta è belga. È piccoletta, ma ha un passo incredibile. Nonostante abbia davvero un bel viso, ha un grugno ostinato, come se stesse andando da qualcuno che vuole prendere a cazzotti. In realtà, presentandoci, si rivela una persona tranquillissima; sta andando così veloce semplicemente perché vuole raggiungere i suoi amici, che per qualche ragione sono molto più avanti di lei.
Insieme arriviamo a El Burgo Ranero, dove in un certo bar l’aspetta il resto della ciurma. Ci lascia dopo un paio di isolati, dopodiché anche noi ci mettiamo alla ricerca di un posto per pranzare. Troviamo un piccolo negozio di alimentari aperto, dove io prendo un empanadas di tonno strafarcita e Amedeo un panino. Tiziano, invece, decide di andare in cerca di una tavola calda perché oggi ha voglia di un bel plato combinado, con carne, uova e patatine.
Usciti dal negozio con qualche dubbio sul conto, troviamo una panchina al sole un centinaio di metri più avanti. La situazione è un po’ buffa perché il buon Tiziano sta esattamente dall’altra parte dell strada, comodamente seduto nel dehor di un bar. Ci invita a raggiungerlo, ma ci sembra una cafonata occupare posti mangiando cose prese altrove. La sorpresa più grande, però, è che tutto il resto dei tavoli è occupato dalla numerosa comitiva pellegrina di Erika.
Sono quasi una decina, molto festosi, e lei è l’unica ragazza. Sembrano tutti poco più grandi di lei, tranne uno che dovrebbe avere all’incirca cinquant’anni. Curiosamente, nessuno sembra indossare cose tecniche e colorate come tanto spesso capita di vedere. Uno addirittura porta un gran maglione – capo strano da vedere in cammino, perché ingombrante e pesante. Di fianco a loro, Tiziano sembra ancora più composto del solito.
A un certo punto notiamo che inizia a parlare con qualcuno del gruppo. Pur non riuscendo a sentire che si dicono, l’impressione è che dopo pochi minuti l’atmosfera si vada scaldando. C’è uno scambio di battute, ma i sorrisi ci sembrano un po’ nervosi. È come se il gruppo lo stia un po’ sfottendo, tant’è che a un certo punto il tono di voce si alza decisamente e i sorrisi spariscono. Vediamo Tiziano finire il suo piatto e alzarsi, scambiando qualche ultima battuta stizzita prima di dirigersi verso di noi. È tesissimo, col viso paonazzo. Quando gli chiediamo cosa sia successo, sfoga tutta la sua rabbia raccontando come un fiume in piena l’accaduto.
Mentre mangiava, si è accorto che stavano chiedendosi che fare riguardo all’attraversamento di Leòn. Credevano che la città fosse ancora ancora confinata per il Covid, ma in realtà siamo stati recentemente informati che la chiusura è stata sospesa. È stata una notizia straordinaria, soprattutto per Tiziano, che va in brodo di giuggiole ogniqualvolta si parli di quel luogo e della sua cattedrale. Posso solo immaginare, quindi, la gioia che aveva in volto quando ha spiegato al gruppo che non dovevano preoccuparsi di nulla.
Pare che quello piú anziano, però, per qualche strano motivo abbia deciso di non credergli. Inscenando un dibattito paradossale, è arrivato addirittura ad accusarlo di voler infrangere la legge. Con dei presupposti simili, è facile capire come il botta e risposta si sia inasprito. Il nostro compare ha tentato sempre più nervosamente di spiegare che l’informazione era certa e che gli sembrava una normalissima cortesia quella di metterli al corrente, ma si è guadagnato solo risposte arroganti e derisorie.
Non l’ho mai visto così agitato, e nessun tentativo di tranquillizzarlo sembra funzionare. Ci dice che ha bisogno di camminare, e forte. Proprio mentre sta pronunciando queste parole, però, un manipolo di quei ragazzi si rimette lo zaino in spalla e lo anticipa. L’effetto è quello della benzina sul fuoco. Come ieri, l’amico decide ancora una volta di prendersi la sua rivincita sulla strada, raggiungendo i contendenti e superandoli.
Per un istante penso a quanto sia infantile una reazione simile, ma l’attimo successivo capisco che, tuttosommato, è un modo molto civile ed efficace per sbollire un’incazzatura così tosta, e che anche io non sono poi tanto diverso. Proprio come ieri, lo sprono quindi a darci dentro e lo guardo compiaciuto mentre parte in quarta.
Con Amedeo cerchiamo di sistemarci a nostra volta il più alla svelta possibile, per tentare di seguirlo almeno da lontano e non perderlo lungo la via. Sembra proprio un déjà-vu, tanto folle quanto avvincente, e anche stavolta sappiamo che sarà impossibile tenere il suo passo.
Il gruppo braccato dal Don Chisciotte ligure non è compatto, e sembra separarsi con gran libertà. Addirittura alcuni li troviamo appollaiati in un campo d’erba a lato strada dopo non più di mezz’ora. Stranamente hanno anche una bici con loro.
A un certo punto, raggiungiamo il ragazzo con il maglione che avevo notato fin dalla pausa pranzo. Ha rallentato vistosamente e ora sta camminando a piedi scalzi e con le scarpe in mano. Pur non essendo io un purista dell’abbigliamento sportivo, resto sinceramente stranito dallo scoprire che sta facendo il Cammino con un’improbabile paio di Converse. Alterna qualche decina di metri sullo sterrato ad altrettanti sull’asfalto. Amedeo lo sorpassa spedito, ma io non resisto e mi ci affianco, troppo incuriosito da tutte quelle stramberie.
Attacco bottone facilmente. Il suo nome mi sfugge un attimo dopo averlo sentito, mentre invece mi rimane impresso fin da subito un senso di genuinità e libertà di spirito. È francese, ma si destreggia volentieri con spagnolo e inglese – il che mi mette perfettamente a mio agio.
La bici che abbiamo visto prima è sua. Generosamente, la sta prestando agli amici del gruppo che stanno avendo problemi ai piedi o alla schiena. Come i suoi vestiti, non sembrerebbe molto adatta a questo genere di avventura, ma questi sono pensieri razionali, probabilmente del tutto inadeguati con lui.
Man mano ci parlo, mi convinco sempre più sia una persona che abbraccia i propri sogni di pancia, senza preoccuparsi troppo di quale sia il modo migliore per raggiungere il suo obiettivo. Le scelte irrazionali riguardo ad abbigliamento e attrezzatura gli comportano certamente alcune fatiche in più, ma credo sia una dote preziosa il non perdersi in preziosismi.
Senza ora prenderlo a modello, semplicemente rifletto sul valore di un’approccio più rilassato, fiducioso e proteso all’agire. Io tendo spesso ad essere apprensivo o teso davanti alle traversie in cui mi imbatto, ma testimonianze concrete come questa mi suggeriscono il valore del tuffarsi con più leggerezza. Si può risultare un po’ più rocamboleschi nel proprio procedere, ma in fondo chi se ne importa!
Mi racconta di un campo che ha ereditato, e nel quale ha costruito anche una specie di casa, una struttura più che essenziale in cui a volte dorme. In futuro vorrebbe ospitarci anche persone disposte ad aiutarlo per brevi periodi, coltivando la terra secondo i principi delle permacultura, appresi in alcune esperienze in giro per il mondo.
La permacultura, in effetti, è un termine che risuona spesso tra i viaggiatori a lungo termine. In ogni continente esistono infatti molte opportunità di lavoro in questo campo, spesso remunerate semplicemente con vitto e alloggio – un’opzione particolarmente proficua per chi non ha altro scopo che girare il globo. È una possibilità che sto considerando da molti anni anch’io, forse troppi. Non so se la esplorerò mai, ma mi ha sempre attratto questo legame così prolifico tra realtà sedentarie e anime nomadi.
Mi racconta che il gruppo cammina insieme da tempo e che si è rivelato da subito un laboratorio eccezionale di supporto reciproco e di nuove amicizie.
Riguardo ai piedi nudi, mi spiega invece che lo fa sia perché ha problemi con le scarpe, sia perché gli piace la connessione col terreno. Purtroppo però deve alternare anche un po’ con l’asfalto, perché la pelle non è ancora abbastanza spessa.
Dopo un quarto d’ora assieme, lo ringrazio per la compagnia e la condivisione e lo lascio al suo passo, tentando di tornare a raggiungere almeno Amedeo. Non mi ci vuole molto, in realtà, perché la sgroppata di prima lo ha appesantito. Io però mi sento bene e non me la sento di rallentare. Decido così di superarlo, ritagliandomi anche oggi una parte di percorso tutto solo.
Il paesaggio in questa zona sembra ripetersi in maniera quasi ipnotica, è come se cambiasse ma al contempo rimanesse sempre uguale a sé stesso. Mi fa venire in mente uno strumento il cui nome non ho mai conosciuto, ma dopo qualche ricerca scopro che si chiama zootropio. Si tratta di quelle ruote con disegnati alcuni fotogrammi che, fatte girare abbastanza velocemente, danno l’idea di un breve movimento infinitamente ciclico.
Per fortuna dopo un po’ raggiungo Tiziano, che ha vistosamente rallentato il suo passo. Lo ritrovo splendidamente sereno, segno che il suo piano ha funzionato. Ci godiamo qualche centinaia di metri di cammino rilassatissimo, per poi fermarci in un’area di descanso a lato strada. Amedeo arriva meno di dieci minuti dopo, visibilmente messo alla prova.
Recuperiamo un po’ di forze con uno snack, e con calma ripartiamo. Mancano ancora una dozzina di chilometri, e sono già le tre del pomeriggio.
Il percorso non riserva nessuna novità eclatante, se non che la lieve pendenza a salire avuta fin qui ora si inverte. Davanti a noi, c’è ancora uno dei ragazzi incontrati al Burgo Ranero; ci ha sorpassati poco prima che ripartissimo, ma ha un passo talmente sostenuto che ci limitiamo a tenerlo nel mirino. Lo raggiungiamo solo all’ingresso del paese di Reliegos, quando tutto d’un tratto si ferma per fotografare alcuni gattini sul marciapiede.
Di fronte a lui, dall’altro lato della strada, bodegas simili a quelle di Moratinos – stavolta però tutte in fila, una dopo l’altra: una visione davvero affascinante.
Il paese si rivela particolarmente desolato. Non è troppo vecchio né decadente, ma semplicemente non si vede anima viva. Anzi, una la troviamo, proprio quando usciamo dal percorso in cerca di un bar. È un tizio più o meno della mia età; sta seduto a una curva, sotto il sole, come se aspettasse qualcuno.
Proprio di fronte a lui, spicca una gran vecchia casa verniciata in maniera folle. La facciata è stracolma di disegni e scritte, fatte evidentemente da tante mani diverse. Ricorda le pareti dei bagni di qualche locale underground, ma è più simpatico. Si chiama bar Elvis e sembra sia famoso per i pellegrini, ma purtroppo è chiuso. Chiediamo se ci sia qualcosa di aperto, ma ci spiega che dobbiamo rassegnarci. Accettiamo la triste notizia e ci sediamo ai tavoli fuori dal locale, che almeno sono all’ombra.
Durante la pausa riceviamo il comunicato ufficiale che i pellegrini già presenti all’interno della Castilla y Leòn saranno autorizzati a proseguire il Cammino nonostante la situazione sanitaria. La novità ci rasserena, pur consapevoli che tutto può comunque cambiare da un momento all’altro. Senza una cervezita con cui consolarci, passiamo qualche minuto ancora divertendoci a pensare ai modi più folli per raggiungere l’agognata cattedrale in caso di nuove chiusure, ma a bocca asciutta ci annoiamo alla svelta e così ci rimettiamo in marcia.
Man mano che i chilometri si sommano, finiamo col diventare sempre più silenziosi e stanchi. Di fronte a un dettaglio o un paesaggio particolarmente belli, però, abbiamo ancora la spontanea abitudine di ricordarci l’un l’altro quanto siamo fortunati a essere qui. Credo sia qualcosa che ci rafforzi, sia individualmente che come gruppo.
Arriviamo infine alle porte di Mansilla de la Mulas, la tanto attesa meta di oggi.
Amedeo è al telefono con la madre per noie legate al lavoro. È strano sentir parlare di quelle cose, pressioni di una realtà lontana 2000 km. Telefonate simili sono necessarie, a volte, ma fanno scoppiare la nostra “bolla”, spezzano la magia di questo viaggiare lento. Essere strappati da questa condizione di centratura armoniosa fa render conto di star percependo in maiera totalmente nuova il valore del tempo e dello spazio, e rinunciarci brucia.
Passiamo davanti all’albergue che aveva interrotto la chiamata deridendoci; un po’ di rogna ci sale, ma ormai siamo stanchi anche per quella. Passiamo poi da una piazzetta a lato strada, al centro della quale spicca l’ennesimo cruceiro. Stavolta però ha una particolarità: alla base sono poste tre statue iperrealistiche di pellegrini della nostra epoca, seduti e stanchi morti. È una trovata un po’ kitsch per i miei gusti, ma mai quanto le statue colorate che mi è capitato di vedere in Francia, in qualche paesino alla base dei Pirenei.
L’albergue che abbiamo prenotato sta dall’altro lato dell’incrocio. Aspettiamo Ame ed entriamo. È piccolo ma curatissimo, e con ogni comfort. La signora che ci accoglie è pure molto gentile – cosa graditissima e mai scontata.
Ci sono una lavatrice e un’asciugatrice che gestisce lei personalmente. Vista l’ora, ci affrettiamo a far la doccia e a lasciarle più panni possibili, così da non doverci pensar più per qualche giorno.
In stanza facciamo conoscenza con Martin, un signore svizzero di mezza età, robusto, occhialuto, coi capelli grigi alle spalle. Ha l’aria pacifica e un po’ stralunata, ma sembra una persona a modo. Il mio sesto senso mi suggerisce che potrebbe essere una persona molto interessante da conoscere, ma purtroppo non abbiamo abbastanza tempo: ci aspetta una cenetta coi fiocchi in un locale vicino, e prima devo fare anche un po’ di spesa.
Mentre passeggiamo verso il centro, scopro che il paese mi piace, ma non so dire perché. È divertente quanto la cosa stupisca i miei due amici, che invece non ci vedono proprio niente di attraente.
Comprato tutto il necessario, ci dirigiamo verso “La curiosa”, un bar-ristorante che abbiamo scelto sia per l’aperitivo che per la cena. Spendiamo appena più del solito, ma ci servono un pasto da veri gourmet, non scherzo! Restiamo entusiasti.
Una volta usciti, le fatiche e i nervosismi della giornata sembrano svaniti – sicuramente grazie anche alle birre prima di cena e all’ennesima bottiglia di tinto della Rioja. Torniamo infine nei nostri sacchi a pelo, accompagnati dalle solite battute demenziali di Amedeo e pronti a goderci in pace il meritato riposo.