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cammino di santiago - roberto pesenti

26/08 Pavia – Garlasco (PV)

(casa del pellegrino @ comunità Exodus)
24km

Anche questa volta lascio l’ostello prima dell’alba e parto. Gelo credo sia partito molto prima di me. In direzione contraria, non sapeva dove sarebbe arrivato, ma parlava ieri di un chilometraggio per me impensabile. Gli ho passato il numero di don Roberto, sperando possa conoscere anche lui Emilio e la sua famiglia.

Il cammino mi fa passare in mezzo a chilometri di bosco sulle rive del Ticino. Li avrei di certo apprezzati molto di più se non fossero stati letteralmente infestati da una quantità immensa di ragnatele invisibili. Per evitare che mi si spalmino tutte su viso e corpo, utilizzo in qualche modo le racchette ma fallisco miseramente. Perlomeno non sento nessun dolore al ginocchio, grazie al cielo: la comodità del letto sembra aver fatto miracoli.
La giungla trasparente di fili sembra interminabile, e capisco ben presto che non mi resta altro da fare che camminare più speditamente possibile per superarla. È uno sforzo mentale devastante: l’accumularsi sulla pelle di quei fasci senza corpo mi obbliga continuamente a ripulirmene, ma senza mai poterli vedere. In qualche occasione mi sembra di essere diventato pazzo.

Reagisco istintivamente con euforia isterica e gioco perlomeno l’arma dell’umorismo, iniziando a recitare un monologo comico e delirante: mi immagino gigante in corsa dentro quella megalopoli di ragni minuscoli. Inarrestabile, sto devastando case tessute con cura e sacrificio. Me le porto via col mio passo veloce, lasciando gli abitanti senza più nulla, chi disperato, chi fatalista. Inventandomi reporter per “RagnoTV Pavia”, simulo interviste alle vittime della catastrofe, imitando impressioni a caldo sulla scia di quelle che sempre si ripetono nei notiziari reali in casi simili. L’assurdo escamotage, che sembra già sintomo di un esaurimento nervoso, invece me ne protegge.
Uscito dall’inferno filamentoso, sono stremato ma finalmente libero.
Uno scorcio da cartolina, col primo sole riflesso sullo specchio d’acqua del fiume, mi rasserena del tutto, aiutandomi a ricalibrare lucidità e respiro.
Prima di lasciare le rive del Ticino, mi fermo a mangiucchiare qualcosa dalle mie scorte, seduto in una canoa fuori da un bar chiuso: degna conclusione di queste prime ore all’insegna del nonsense.

Seguendo una strada asfaltata tra campi e cascine sparse, arrivo poi a Villanova Ardenghi, dove incrocio un sorridente pellegrino sardo che sta cercando di raggiungere Roma a passo molto spedito. Mi dice che ieri si è fatto quaranta chilometri, sfasciandosi totalmente i piedi, ma si è imposto di arrivare alla capitale sfruttando le poche ferie a disposizione. Viene da chiedersi se sia il modo migliore di vivere il pellegrinaggio, ma la verità è una e nota: non esiste “un modo migliore”. In ogni caso, con quel sorriso, qualcosa mi dice che ce la farà.

Successivamente, il percorso si tuffa tra i campi seguendo ancora una volta un canale che li irriga. Sono ormai in piena Lomellina. Il rischio che queste pianure risultino monotone esiste, eppure mi scopro immune a questo problema. Camminare in quuesto paesaggio fatto di pochissimi elementi è un piacere, anche se mi salva il fatto sia scandito, tra un paese e l’altro, da casolari e fattorie. Fossero davvero solo campi e null’altro, immagino sarebbe davvero un’esperienza estenuante.

Raggiunta Gropello Cairoli il ginocchio torna a bloccarsi, e più del solito. Arrivo fino ad una cappelletta vicino all’ennesimo cimitero (sembra d’obbligo che il cammino li costeggi tutti!) e mi siedo per riposare e non farmi prendere dal panico. Il problema è grosso e sembra non voglia risolversi nemmeno con gli antinfiammatori, che comunque prendo. Letteralmente, prego che la mia avventura non si frantumi contro questo problema, perlomeno non così presto. Sulla scia dei deliri mattutini, finisco col parlare anche col mio corpo come fosse un’entità a sé. Tento di ascoltarlo meglio, gli faccio delle domande e delle promesse. Alla peggio, avrò almeno evitato di piangermi addosso inutilmente. Quando mi rialzo, dopo una mezz’ora abbondante, il ginocchio sembra ristabilito. Non mi faccio trascinare da facili suggestioni, ma non escludo che l’aver tentato di stabilire una nuova “alleanza” col mio corpo abbia giovato. In ogni caso, nonostante tanti tentativi ed esperimenti, non posso ancora dire di aver capito cosa riesca ad essere decisivo per calmare l’infiammazione. Incrociamo le dita.

Arrivo nei pressi di Garlasco relativamente presto. Oggi la mia tappa si conclude qui. Soggiornerò presso una sede della fondazione Exodus di don Mazzi. È una specie di cascina, una cui ala è dedicata all’accoglienza pellegrina, mentre il resto compone una comunità residenziale per minori in fase di recupero dopo esperienze di tossicodipendenza, e forse anche per altre problematiche.
Sono entusiasta di poter conoscere un luogo simile; penso possa arricchire molto la mia esperienza. Quando sono partito da Bergamo avevo il sogno di poter intercettare tante realtà diverse durante il cammino in Italia, compresi ecovillaggi, di cui recentemente avevo iniziato a sentir parlare e che mi avevano incuriosito. La durezza fisica vissuta fin qui, però, mi ha fatto capire che a piedi è complicato far spazio a grandi e piccole deviazioni.

Ad ogni modo, mi presento con grande entusiasmo, ma forse troppe aspettative. Mi accoglie un’educatrice e incontro subito qualche ragazzo, solo contatti brevi. Fra non molto pranzeranno, ma le precauzioni per l’epidemia di Covid mi impediscono di poter partecipare al pasto comunitario; sarebbe stata un’ottima opportunità per conoscere tutti e informarmi meglio sul progetto.
L’educatrice mi fa capire che forse per cena potrebbero trovare un modo per inserirmi in sicurezza, ma purtroppo i loro orari sono troppo in là rispetto ai miei. In queste settimane, infatti, per me è quasi d’obbligo cenare e andare a letto molto presto, così da poter poi partire la mattina con temperature più basse possibile. Peccato davvero.

Entrato nell’appartamento destinato ai pellegrini, mi imbatto in non poca incuria, ricordando che Arcangelo ieri me lo aveva timidamente accennato quando gli dissi che sarei venuto qui. Non riesco a sentirmi a mio agio del tutto, ma me ne faccio una ragione.
Docciato e sistemata ogni cosa in stanza, chiedo dove posso lavare e stendere le mie poche cose, e un paio di ragazzi insistitono per potersene occupare. È il loro turno in lavanderia oggi e dicono che possono occuparsene facilmente. Hanno anche un’asciugatrice, quindi già nel tardo pomeriggio potrò avere tutto pronto e asciutto. Preferirei fare da solo, ma scelgo di accettare. Li ringrazio e mi incammino verso il supermercato per fare rifornimento.

Lungo il tragitto, finisco col dedicare qualche pensiero a questo paese diventato tristemente famoso tanti anni fa sulle pagine di cronaca nera di tutti i giornali: solo poche riflessioni inconcludenti, ma per un attimo riescono a rattristarmi.

Una volta tornato e sistemata la spesa, faccio ancora capolino in cortile per chiedere la carta igienica. Un educatore mi accompagna in magazzino e, nel frattempo, tento anche con lui di strappare qualche informazione sulla comunità e sulla fondazione, ma abbozza solo una mezza risposta e poi se ne torna da dove era venuto con imprevedibile nonchalance.
Non so bene cosa pensare. Mi sembra così strano che nessuno abbia piacere a parlare un po’, eppure il clima è tutt’altro che frenetico. Non mi resta che accettare la situazione così com’è.

Prima di cenare, scendo a chiedere se sono pronti i miei vestiti, ma i ragazzi abbozzano frasi strane e capisco che non se ne sono occupati. Mi assicurano che lo faranno immediatamente e tutto sarà pronto alla svelta.
All’orario che mi hanno indicato, ridiscendo ma sembrano averla presa di nuovo con calma, e anche gli educatori non se ne occupano. Mi sento trattato male, lo dico sinceramente, e ne soffro.
Dispiaciuto di doverlo fare, vado in lavanderia a fare un po’ di pressione con la mia presenza. I panni erano già lavati da almeno mezz’ora e bastava un giro di asciugatrice, ma incredibilmente devo insistere.
Mentre seccano, percepisco un’insofferenza palpabile per il mio rimanere lì. Ben presto le parti si invertono, e sono io a finire col provare talmente tanto disagio da scegliere di ritirare le mie cose ancora umide e stenderle in casa. Probabilmente non asciugheranno nella notte, ma ormai non mi importa più.

Alla fine sono stato molto combattuto sul donativo da lasciare, ma non ho voluto rifarmi in maniera infantile di quanto vissuto. Mi concedo solo di lasciare una nota agli operatori su quanto accaduto, molto simile a quello che ho appuntato qui.
Riesco a stemperare il nervosismo riflettendo al mio meglio sull’accaduto e poi vado a dormire, molto più tardi del solito.

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Italia, Lombardia