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cammino di santiago - roberto pesenti

09/11 O Pedrouzo – Santiago de Compostela

(Albergue Blanco)
21 km

È ancora presto per alzarsi, ma un grande lucernario fa sì che comunque la camerata sia già tutt’altro che buia. Forse è un intelligente escamotage per stimolare i pellegrini a non poltrire troppo a lungo, chissà. Fissarlo mi aiuta ad anestetizzare la cascata di pensieri che mi disordina la testa. Tutt’attorno c’è ancora un certo silenzio, a parte i piccoli rumori di chi ancora sonnecchia.

Pochi minuti e sento suonare la sveglia di Tiziano, che la strozza in un secondo. Immediatamente si mette seduto, i piedi sul pavimento: mi chiedo ancora come faccia ad essere sempre così squillante la mattina. Mi colpì per questo fin dal primo giorno a Saint-Jean-Pied-de-Port. Non sono mai riuscito a fare meglio, nemmeno lontanamente.
Ci salutiamo a bassa voce: “È il grande giorno”, “Sì”. Mi sorride in una maniera particolare, microscopici dettagli tradiscono tutta la sua trepidazione. Mentre va in bagno, mi metto seduto anch’io, ma per un paio di minuti casco come sempre in una nuova immobilità.

Al suo ritorno svegliamo anche Amedeo, che coi suoi mugugni sonnolenti comincia fin da subito a strapparci risate. Scambiamo prima qualche battuta a voce bassa, ma fatichiamo a contenere l’emozione che ci ribolle in petto e presto il volume delle nostre buffonate comincia ad alzarsi sempre più. È un modo istintivo di darsi morale; non che ci manchi proprio oggi, certo, ma in fondo è l’ultimo giorno di un sogno molto lungo, ed è normale che i sentimenti siano ambivalenti.

Il nostro baccano sveglia velocemente tutti quanti gli altri. Si inziano a sentire le zip dei sacco a pelo che vengono aperte, qualche frase biascicata in francese – probabilmente qualcuna per maledirci. Sagome improbabili con salviette sulla spalla e spazzolino nella mano cominciano a strisciare le ciabatte in direzione del bagno.
Vado anch’io a darmi una sciacquata fredda alla faccia, tra buongiorno in varie lingue e sorrisi assonnati.

Quando torno, Tiziano ha già quasi finito di prepararsi. A me, invece, tocca ancora rimettere tutto nello zaino: arrotolo i panni asciugati e li sistemo ordinatamente, ritiro la corda usata per stendere, infilo il sacco a pelo come ho imparato, metto il caricatore nella solita busta. Spremo poi dal tubetto un dito di arnica-gel e la spalmo sui piedi finché si asciuga, poi tolgo anche una punta di vaselina e ne tiro un velo nei punti di maggior attrito: un rito collaudatissimo, ormai.
Prendo infine le scorte per la colazione e salgo in cucina. Abbiamo un sacco di squisitezze stamattina: le metto in tavola come se lo facessi per la mia ragazza, mi piace apparecchiare per gli altri. Taglio il pane, apro il vasetto di marmellata, appoggio un coltello sul burro scartato, preparo le tazze e inizio a far scaldare latte e caffè. Tiziano arriva poco dopo, mentre per Amedeo ci vuole come sempre qualche minuto in più.

La cucina è una specie di veranda con una gran parete in vetro che si affaccia sulla terrazza in cima all’albergue. Il cielo è nuvoloso, peccato, ma va bene anche così. Non fa nemmeno troppo freddo. Mangiamo con gusto, ma non basta a finire tutto – evidentemente abbiamo esagerato con la spesa.
A un certo punto sale anche Manu, la svizzera coi dreadlock. Dopo averci salutati, curiosamente comincia a lavarsi i denti nel lavandino della cucina, lasciandoci molto perplessi perché ci sono parecchi bagni giù al piano. Una volta finito, ci chiede se avanza del latte. “Certo, te lo lasciamo nel pentolino, ok?”, “Grazie!”. Prima di scendere, raduniamo ordinatamente anche tutto il ben di Dio che non abbiamo saputo terminare: sicuramente sarà un regalo gradito per lei e gli altri.

Lavati anch’io i denti, è ora di mettersi gli scarponi. Torno a sedermi sul letto, ma quando li prendo in mano mi ritrovo di nuovo immobile, come all’alzata. Imbambolato, resto a guardarli: hanno resistito fin qui – non da Bergamo, quello è vero, ma comunque da Torino. Gli ho voluto bene da subito, da quando sono uscito dal negozio avendoli già indosso. Ancor prima dei Pirenei avevano già un angolo tutto consumato, e davo per scontato sarebbero durati al massimo altri duecento o trecento chilometri, invece eccoli qua.
Osservo le mani allacciarli secondo una procedura nata man mano lungo il cammino e ripetuta un’infinitá di volte: stringhe ben larghe sulla punta e strette alla caviglia. Nemmeno una vescica in migliaia di chilometri! Di questo dettagli vado orgoglioso. Dicono si sia predisposti, e forse io non lo sono, ma so che li ho trattati bene questi due piedoni piattissimi, proteggendoli e impomatandoli ogni giorno. Non ho mai curato nessun’altra parte del mio corpo con lo stesso amore per così lungo tempo, e credo che questo abbia pagato.

Bene, non resta che caricarmi lo zaino sulle spalle. Mi stupisce quanto sia diventato ormai da mesi un gesto estreamente eccitante: mi dà una vera scossa sentirne il peso cadere, stringerne i legacci ascoltandone gli inconfondibili rumori, accomodarlo, tastarne le superfici.
Sono feticismi sani, che era inevitabile diventassero protagonisti a pieno titolo di un’avventura come questa. Hanno riempito cuore e memoria tanto quanto i paesaggi da sogno attraversati o gli impagabili incontri vissuti. Ora direi che è davvero tutto pronto!

Avviandoci verso l’uscita, scopriamo che i ragazzi francesi e quelli svizzeri stanno facendo colazione ad un tavolo all’ingresso – ecco perché non li ho visti salire in cucina. Gli comunico sorridendo che abbiamo lasciato parecchia roba per loro, ma rispondono chi con sufficienza e chi quasi con imbarazzo. Proprio non capisco queste reazioni.

Con Tiziano usciamo a fumare una sigaretta in attesa di Amedeo. Prima che arrivi, però, mi accorgo di aver scordato un’ultima cosa, e rientro ancora. Incrocio così un ragazzo della comitiva francese che sta scendendo dalla cucina ed è carico di tutto quello che avevamo lasciato. Mi ringrazia stupefatto, e la stessa cosa fanno gli altri quando appoggia il bottino sul tavolo. Solamente una preferisce esibirsi in una smorfia di poco apprezzamento: simpatica.

Nonostante io proseguirò di certo il mio cammino oltre Santiago, questa è probabilmente l’ultima tranche in compagnia dei due amici liguri. La stanchezza accumulata in questi giorni è stata tantissima e non se la sentono di affrontare altre tappe. Il biondo veterano, d’altronde, le ha già percorse in passato e quest’anno si sente sazio così. Amedeo invece è semplicemente cotto fino al midollo. Ormai è quasi certo che si trasferiranno a Muxía con l’autobus; addirittura questo pomeriggio, da quello che ho capito.
Laggiù Tiziano ha un riferimento a cui è legatissimo, e che ci ha già nominato un’infinità di volte: parlo di Pepe, il proprietario di un albergue nel centro del paese. Negli anni passati pare si sia mostrato incredibilmente premuroso col biondo amico, facendogli anche scoprire con infinita disponibilità alcuni luoghi magici di quel tratto di costa. La sua idea è quella di godersi del meritatissimo riposo e farsi accompagnare di nuovo tra fari e calette in compagnia del fidato Amedeo, e quale coronamento migliore per questa straordinaria avventura!
Anche se probabilmente sarà proprio quello che succederà, nel chiaccherare fuori dall’albergue percepisco per un istante un ultimo margine per qualche inaspettato cambio di programma. Staremo a vedere. Cominciamo prima ad arrivare alla grande meta e farci inondare da tutta l’emozione che ci regalerà, poi sia quel che sia.

Prorpio tra una battuta e l’altra e sicuramente un po’ a sorpresa, mi si scatena all’improvviso l’irresistibile voglia di partire da solo anche oggi. È un impulso quasi irrazionale, ma ormai ho imparato più che bene quanto sia necessario che io lo segua quando si presenta. Sono un po’ rammaricato, ma non esito e glielo comunico, promettendo di farmi trovare lungo il percorso.
È chiaro non sia un gesto di particolare fratellanza, e non posso sapere quanto sia irritante per loro il colpo incassato. Nonostante ciò, anche questa volta lo accettano senza farmelo pesare, e dentro me gli sono profondamente grato.

Pieno d’entusiasmo, quindi, li saluto e mi tuffo nella strada deserta. È incredibile che non ci sia nessuno, e non è nemmeno troppo presto. Continuo a ripetermi di essere un vero privilegiato per poter gustarmi anche quest’ultima, fatidica tappa in totale intimità: solo io e questa terra che attraverso, che mi fa spazio e mi accompagna. Da non credere! In uno qualsiasi degli anni precedenti avrei dovuto accettare di condividerla con decine o centinaia di persone, molte delle quali sintonizzate su tutt’altra onda dalla mia, ma in futuro sarò curioso di provare anche quello.

Cammino lento, oggi più che mai. Ho solo una ventina di chilometri davanti, senza asprezze: un dolce tuffo tra le braccia della cattedrale, tutto da godere.
Ovviamente ho stampato in volto il sorriso ebete del bambino che esce per andare alla gita scolastica: era inevitabile, e me lo tengo stretto con gran gusto. Mi piace sentire che mi tira le guance e mi assottiglia gli occhi. Conosco la mia faccia quand’è spremuta così, come quando ti viene una battuta che sai già farà ridere solo te e allora cerchi di trattenerla – di solito senza mai riuscirci. Un amore lontano mi diceva sempre: “Hai la faccia da cazzata. Dai, sentiamola”. Ecco, proprio quella.

Un complesso scolastico e un campo sportivo sono le ultime cose che incontro prima dell’uscita dal paese. Proprio lì di fronte parte il sentiero che subito fa affondare i pellegrini tra le braccia dell’ennesimo bosco di eucalipti.
Il cielo sarebbe anche acquerellato d’azzurro, ma c’è ancora una spessa bruma appoggiata lì, in testa agli alberi, che spero se ne andrà presto. Ai loro piedi, invece, il primo mojon della giornata coi soliti decimali, ma stavolta non mi innervosiscono: oggi ho le farfalle nello stomaco. Ci siamo, ci siamo!

Anche stamattina è fatta di cose semplici: zaino, passi, bosco, case, prati, ancora bosco e ancora case. Guardo ogni particolare come se fossi ai Musei Vaticani, non vorrei perdermi nulla. Sento addirittura la voglia di salutare tutto e tutti, come fossi una celebrità che sfila sul red carpet di Cannes: ringrazio per gli applausi del muschio e la commozione delle foglie cadute; gli eucalipti mantengono il loro contegno, sempre sull’attenti, mentre gli altri alberi si protendono e si contorcono come groupies dietro le transenne. Che bella la fantasia!

Cammino ozioso come un perfetto flâneur. Sopra di me tutto è più limpido, ma niente alba oggi, peccato. Alcune case dal gran giardino non hanno nemmeno la staccionata; sembra una cosa insignificante, ma invece dá grandissimo respiro. Un pellegrino in tenuta super tecnica mi sfreccia a fianco e in pochi istanti sparisce davanti a me. Mi domando quante volte sia stato io quel corridore…

Al mio approccio svagato, però, tocca fare i conti con due cose: la prima è che da sempre mi stanco di più se cammino troppo lentamente, e la seconda è che cominciano due chilometri di salita. La combinazione mi affatica più del previsto, ma gioco tutto sulla gioia di queste ore speciali, e sembra una buona puntata. Anche il sole arriva a darmi manforte, non più nascosto dietro la bambagia che riempiva il cielo stamattina. Infila i suoi raggi tra i rami fitti e lascia sverniciate brillanti qua e là. I giovani eucalipti svettano come al solito tutti dritti e smilzi, alcuni con le bucce di corteccia che penzolano a mezz’aria, altri tutti nudi, pallidi e liscissimi. Non pensavo oggi di passare attraverso una natura così selvatica.
Tiziano ci aveva anticipato che le ultime due tappe non sarebbero state il massimo, ma fin qui non capisco come mai la pensi così.

Una parziale risposta la trovo in cima alla salita, quando si comincia a intravedere l’aeroporto di Santiago. Si finisce a camminare sì e no a 150 m dalla pista, e il sentiero che la costeggia sbuca addirittura a due passi da un’autovía molto trafficata. È vero, non è il massimo, ma poi basta incontrare un gran monolite scolpito con una conchiglia e il nome della città e tutto torna magico in un istante.
Di aerei non se ne vedono. L’aeroporto credo sia chiuso, così come la città, anche se a noi è concesso miracolosamente d’entrarci. D’altronde siamo un manipolo di qualche decina di persone sparse più o meno negli ultimi 150 km: una piccola carovana di scellerati che si sono messi a camminare per l’Europa nel bel mezzo di una pandemia. Fin dall’inizio, ovunque abbiamo alloggiato – o quasi – i nostri dati sono stati comunicati alle autorità, che quindi hanno potuto monitorare passo passo il nostro procedere. Forse per pietà o forse per reale cultura dell’accoglienza, hanno evidentemente valutato che farci arrivare qui non comportasse poi grossi rischi.
Io posso solo dire grazie. I grattacapi vissuti in qualche albergue, in fondo, credo siano stati riconducibili anche alla frustrazione di chi li gestiva di essere condannati a lavorare in perdita per causa del nostro numero estremamente esiguo – a parte qualche rara eccezione.

Lasciatomi la pista alle spalle, raggiungo la piccola località di San Paio, con edifici in pietra particolarmente curati, compresa la chiesa omonima. All’improvviso, però, esce da un cancello una signora in tenuta da fitness, pronta per la sua passeggiata in compagnia del microscopico cagnolino. Auricolare all’orecchio, è tutta impegnata in una telefonata con un’amica: una di quelle chiacchierate chiassose senza un tema preciso, in cui si parla tanto per parlare. I problemi sono due, però. Il primo è che va nella mia stessa direzione, e in un attimo mi sento condannato a sopportare il suo vociare chissà per quanto. Il secondo è che ha un passo molto veloce, e non c’è speranza che io riesca a superarla e a seminarla. Mannaggia! Sembra assurdo, ma è la prima volta che mi capita in questo viaggio. Ma proprio oggi, dico io!
Mentre già sto progettando piani assurdi e malefici per sabotare la chiamata, il destino o il suo sesto senso la salvano. Da un momento all’altro, infatti, imbocca una traversa e abbandona la via pellegrina, permettendo che tutto si impregni nuovamente di calma e pace. L’ho scampata bella!

Meno di mezz’ora e arrivo a Lavacolla, dove la traiettoria del Cammino si torce in maniera un po’ forzata, snodandosi attorno ad un isolato del paese per far passare i viandanti davanti a bar e albergues. Ovviamente decido con buona pace di seguire comunque la care vecchie frecce gialle, ma concluso il tornante vedo sbucare trenta metri davanti a me Tiziano e Amedeo, che invece lo avevano tagliato, probabilmente grazie all’esperienza del biondo capitano.
Loro non si accorgono di me, e per un istante resto immobile in balìa di sentimenti contrastanti: da una parte ho voglia di chiamarli e ridere del fatto di averli scoperti mentre “rubavano” sul percorso, dall’altra mi punge il rammarico per il sorpasso “clandestino”. Mi ferirebbe se lo avessero fatto di proposito per superarmi senza che me ne accorgessi, e non riesco a darlo per scontato. Decido però di rispondere con leggerezza a questo gesto equivoco, pienamente consapevole che lo è stato anche il mio partire solitario di quest’oggi – e non solo oggi. Eccomi allora ancora in moto per raggiungerli e riunirmi a loro con allegria, qualsiasi sia stata la verità.

Non mi risulta semplice come credevo, ma dopo qualche minuto, spingendo molto, riesco nel mio intento e continuiamo insieme senza nessuna tensione. Saliamo in mezzo a boschi, lungo strade asfaltate, attraversando anche Villamaior, con le sue belle case immerse nel verde straripante di questa terra.
Usciti dall’ennesima grande area boscata, ad attenderci in cima alla salita c’è il complesso della Televisión de Galicia, seguito poco dopo da quello di un’altra emittente locale. Nella piccola zona residenziale di San Marcos, poi, troviamo aperto un negozio di alimentari che offre anche servizio bar – rigorosamente da asporto a causa di questo periodo funesto. Ne approfittiamo: loro per un caffè, io – più vizioso – con un goccio di liquore, memore di quello squisito offertomi lungo la via l’altro giorno. La signora, però, me ne serve quasi il doppio della dose normale. Per goliardia lo tracanno senza timore, ma mi ci vuole poi qualche minuto per riprendermi dal lieve stordimento e torpore che mi scatena dalla testa ai piedi.

La passeggiata di oggi – perché così giustamente la stiamo vivendo – ci conduce subito dopo nei pressi di un gran parco posto in cima ad una collina, meglio nota a tutti i pellegrini come il famoso Monte do Gozo. Le indicazioni invitano a costeggiarlo solamente, ma riesco a convincere i ragazzi a farci un giro per scoprire com’è la vista dal punto più alto.
Per qualche strana ragione, però, ci fermiamo dopo pochi passi, come intimiditi, limitandoci a ispezionare il primo scorcio della città che si intravede in lontananza. Eccola finalemente, Santiago de Compostela!! È là, davanti a noi, per davvero! Chiaramente l’emozione è già smisurata, ma come è ovvio tutti e tre bramiamo una cosa in particolare: scovare gli inconfondibili campanili della cattedrale.

Mentre scannerizziamo senza successo lo skyline in lontananza, un vecchio signore che sta lì a potare una siepe nota la nostra titubanza. Semplice abitante del posto o forse emissario del premuroso San Giacomo, abbassa le cesoie e ci sprona a proseguire, perché ci mancano solo pochi metri per poter godere del primo sguardo in assoluto sulla meta tanto agognata. Sembra paradossale avessimo bisogno di lui per macinare quei dieci passi in più!
Seguito il consiglio, rivolgiamo un nuovo sguardo sulla grande città e ci basta una frazione di secondo per riconoscere i tre pinnacoli del maestoso santuario, ancora piccolo davanti ai nostri occhi, ma ormai più vicino che mai. A quella vista, restiamo imbambolati come vittime di un dolce incantesimo. Letteralmente a bocca aperta per qualche secondo, esplodiamo poi in urla di gioia. Mancano ancora diversi chilometri, ma…eccola lí! Che privilegio poterla già vedere, potersi gustare la vista di una meta tanto importante già prima di arrivarci.

Mentre la contempliamo estasiati, ci ricordiamo poi che non siamo ancora saliti in cima al colle. Lassù due grandi pellegrini in bronzo indicando proprio la chiesa dell’apostolo, esattamente come noi pochi secondi fa. Sono sculture imponenti, per me le più belle viste fin qui. Mi stupisce moltissimo il fatto che i tanto amati mojones non conducano qui i pellegrini.
Scopro che i due bronzi sono dell’artista José Maria Acuña, cioè lo stesso che ha creato quelli dell’Alto de San Roque e della piazza davanti al Parador di León, tutti incredibilmente iconici per il Camino Francés. Mi piace particolarmente il fatto che in questo caso siano due figure, e non una sola. Secondo me questo riesce a dar forma anche alla condivisione che si sperimenta lungo questa via, esattamente come è successo anche a noi. Non è più una questione solo personale, ma plurale.
E poi mi incantano anche quelle braccia protese verso la cattedrale: creano un ponte invisibile. Gli occhi lo riescono a vedere: lo si sente, sembra quasi di poterlo toccare. È qualcosa dalla forza espressiva inaudita.

Mentre sia io che Tiziano fatichiamo a staccarci da quello spettacolo, Amedeo tenta un’improbabile scalata sulle spalle di una delle due statue. Fallisce miseramente, ma ci regala come sempre un’iniezione di buon umore in più.
È ormai tempo però di darsi una mossa. Lasciamo il Monte do Gozo passando accanto alla brutta infilata di casermoni dell’ostello giacobeo e al grande Auditorio, per poi arrivare al ponte che ci fa superare l’autovía. Da qui la città prende il sopravvento e ci comincia a stringere nel suo abbraccio di cemento, ma l’incontro con la pur semplice siepe su cui è affisso il nome della città è sufficiente a farci esplodere di nuovo d’entusaismo ed emozione. Pur al bordo di una poco poetica rotonda, quella scritta diventa l’ennesima esclamazione dell’impresa ormai quasi conclusa. Scattarsi una fotografia lì davanti è un rito semplice, ma capace di regalare una nuova sferzata di gioia.
Togliermi la mascherina in un luogo abitato di questi tempi quasi mi imbarazza, ma il desiderio di imprimere per sempre queste nostre facce sorridenti ha la meglio. Il tempo di qualche scatto e ci riarmiamo per proseguire lungo lo stradone.

Incontriamo i primi bar e ristoranti, molti chiusi, altri aperti solo per l’asporto. L’atmosfera non è entusiasmante da questo punto di vista, ma siamo qui, sotto il sole, e a un passo da un sogno che si realizza. Tutto il resto rimane rumore di sottofondo.
Dopo qualche centinaio di metri, ci rendiamo conto che stiamo camminando in religioso silenzio. Sta nascendo in noi uno stato d’animo più sottile dell’eccitazione, traccia della sacralità di questi istanti: siamo sulla soglia di qualcosa che sta per compiersi, grazie a noi stessi ma anche grazie a mille circostanze che ci hanno permesso di essere qui. Sento nel cuore tutto quanto ricevuto, tutte le fatiche superate, i pensieri sfrecciati per la testa, le ore insonni, le risate, la sterminata bellezza che mi ha riempito l’anima, l’eco dei nomi di chi ho portato con me e di quelli conosciuti lungo la via.
Mi giro verso i ragazzi, e ancora una volta esprimo loro il desiderio di correre incontro a quella piazza da solo. Annuiscono sorridendomi. Sono certo che anche loro si divideranno, perché ci aspetta un momento incredibilmente personale che siamo tenuti a onorare. A dopo, amici miei!

Allungo i passi e sfreccio nelle prime vie interne di Santiago. È novembre e non ho altro che una maglietta, incredibile! Se non per i pantaloni lunghi, sono vestito esattamente come quando sono partito a metà agosto. Non l’avrei mei creduto possibile.
Vivo l’assurda esperienza di non trovare le freccie gialle, proprio qui! Mi vergogno a dirlo, ma mi fermo a chiedere ben tre volte. Tutto sommato, anche questo parla di me, di come mi sono tuffato in questa avventura: senza troppa testa, ma con riserve di entusiasmo e ostinazione interminabili.
La gente tutt’attorno cammina per i fatti suoi, nessuno mi regala un saluto, un cenno, un sorriso. Sono invisibile come lo sarei in tante altre città, ma anche questo non mi importa e non mi disturba. Accolgo tutto, niente può rovinare questi momenti.
D’un tratto i palazzi iniziano a farsi più eleganti, più bassi; ora non si vedono che intonaci chiari oppure in pietra, infissi bianchi, finestre a bovindo e balconi in ferro battuto: sono alle porte del centro storico.

Da qui in poi, per terra, comincio a vedere frecce gialle in continuazione. La cosa stranissima, però, è che sembra puntino in direzioni opposte. Capisco solo dopo qualche minuto che non c’entrano col Cammino, ma servono per indicare un senso di marcia diverso per ogni marciapiede: un’altro escamotage per favorire la distanza sociale. Ecco perché quelli che stavo incrociando mi guardavano tutti un po’ male, stavo andando al contrario! Ci rido su e mi sistemo sul binario giusto.

La strada si fa lastricata, ad ogni passo tutto diventa sempre più bello. Stranamente, non sono in trepidazione. Cammino sereno, a passo deciso; mi sento leggero, e al posto giusto.
Ad un tratto la via si restringe e subito dopo si riapre nella luce della preziosa Praza da Inmaculada. Sono proprio di fianco della cattedrale; anzi, si può dire sia già ai suoi piedi! Mi dispiaccio un po’ vedendo la porta nord nascosta da anonimi ponteggi bianchi, così come anche il passaggio sotto il quale si passa per accedere alla Praza do Obradoiro – il luogo magico dove questo pellegrinaggio culminerà. Ad ogni modo, va bene comunque anche così: il viaggio ha avuto migliaia di dettagli stonati (almeno apparentemente), ma nessuno ha saputo compromettere il valore inestimabile dell’insieme.
Avanti, Robi! Sono gli ultimi passi!

Rallento con decisione – ora sì. Alla soglia dalla meta più importante che io abbia mai raggiunto, calo i giri metro dopo metro. Ogni passo è un fiore che sboccia nel cuore, ogni petalo è un ricordo. Ho dentro me tutti i colori di questi tre mesi da nomade: è la mia offerta alla vita, è tutto quello che ho saputo fare, che ho saputo essere, tutto quanto ricevuto.
Sotto l’arco e la sua ombra, qualche istante di sospensione – l’universo intero sembra trattenere il fiato insieme a me per una frazione di secondo. Il piede alzato poi va oltre e si riuffa nella luce: resto abbagliato. Mi serve un lunghissimo secondo per riuscire a riaprire gli occhi. Gradualmente vedo apparire quel grande pavimento di pietra, vuoto e bellissimo: sono come un attore che, uscito dalle quinte, sta facendo il suo ingresso sul palco.
I passi non si interrompono, il corpo prende l’anima per mano e l’accompagna lí dove tutto l’aspetta. I palazzi attorno sono splendidi: una corte di nobili che attende con benevolenza il mio incontro con la regina. Lei è proprio lì, di fronte a loro, ma io ancora non la vedo. Il sole ha voluto esserci a tutti i costi: emozionato fino alla commozione, fiero di me, sta esplodendo ogni suo raggio per dirmi quanto mi ha amato. La sua luce è musica a festa.
Per un attimo ancora tengo lo sguardo basso. Il mio posto è il centro della piazza, è da lì che voglio alzare gli occhi. Pochi metri, ma sento la sua presenza sempre più imponente, eppure dolce. Eccomi! Sono arrivato alla meta: sono di fronte al Santuario di Santiago de Compostela!

Potrei descrivere un tumulto di emozioni, fiumi di lacrime a bagnare risate incontenibili e urla di gioia, ma direi una bugia. La verità di questo istante è invece sobria, composta. Non sono io che mi trattengo, ma i fuochi d’artificio non esplodono, né fuori né dentro di me. Questo però non significa che quello spazio venga occupato da malinconia o delusione, semplicemente tutto rimane quel che è.
Il volto, alzatosi, ha ora di fronte una bella chiesa con qualche ponteggio e una manciata di passanti indifferenti. Qui l’unica differenza rispetto a un minuto fa è la presenza di un uomo al centro della grande piazza, immobile, in piedi col suo zaino.

Ma allora il grande sogno? Sì, perché c’era un grande sogno: era quello di sbocciare nella forma più pura della mia essenza, quasi fosse una rinascita miracolosa. Ingenuo? Esagerato? Certamente, ma è stata comunque la scintilla che ha innescato tutto quanto, un nucleo di energia incontestabile, tutt’altro che immaginaria.
Nessuna muta evidente, quindi, eppure sono comunque calmissimo, profondamente in pace. Mi domando perché, e nello stesso istante ho come l’impressione che una mano nel mio cuore sveli una risposta. Il sogno non è svanito e non è stato frainteso, anzi, è proprio questo il suo apice, la verità, il messaggio per il pellegrino che ostinatamente sono voluto diventare:

“Roberto, ora più che mai tutto sembra stretto nell’abbraccio dell’apparenza materiale, ma non turbarti. La vera meta, infatti, non era una piazza, e ciò che ti aspettava non è mai stato tutto solo qui. Era custodito invece nella concretissima realtà di ogni passo fatto, in ogni scrigno che si è aperto nel tuo petto di fronte al mondo così come l’hai incontrato, e in fondo l’avevi capito molto presto.
Ciò che hai visto e hai sentito innumerevoli volte durante questo pellegrinaggio non è mai stato un semplice concerto di suggestioni fantasiose, ma l’anima viva, colorata e pulsante che sta dentro alla realtà. Quello che il cammino ti ha regalato sono un’infinità di occasioni in più di incontrarla, a volte di farci l’amore.
Questo è il dono che ti (a)spettava: non una trasformazione, ma un terreno più fertile dove far crescere il nuovo te stesso”.

Nessuna voce ha pronunciato queste frasi, sono solo il mio tentativo di dar forma a quello che ho sentito generarsi dentro lo spazio di tutto quanto il mio corpo. E in questo limbo di quiete che sembra estraneo al tempo, ho anche un’altra impressione, quella di avere tutto ciò di cui ho bisogno, di esser parte di un’unica materia, un amore sovrabbondante che anima l’esistere di ogni cosa e ne plasma la sostanza. Tenendo la mano alle mie fragilità, alle mie paure, percepisco il vibrare di una pienezza libera da ostacoli, e non mi rimane altro che iniziare a rifondarmi su questa consapevolezza, abbracciarla con tutta la responsabilità di cui sono capace.

Colmo di tenerezza e fiducia, arriva un altro tempo fondamentale, quello di ringraziare, e il modo in cui mi viene spontaneo farlo è inginocchiarmi, ancora una volta. È così che resto a guardare la cattedrale, che già ora altro non è che un simbolo, un’immagine che resterà impressa in me a ricordo della verità appena accolta.
Sto bene. Sento il peso dello zaino sulle spalle, le cinghie in tensione sui fianchi e sul petto, le ginocchia premute sul selciato. Mi ascolto respirare con grande calma, poi ripeto un rito che è stato protagonista silenzioso di ogni giorno di cammino: slaccio le fibbie, sento il peso liberare le anche e scaricarsi tutto sulle spalle, poi mi inclino quanto basta perché gli spallacci scivolino, e infine con forza afferro lo zaino prima che cada. Lo appoggio davanti a me, non ho più pesi.
Ora posso dire di essere davvero arrivato.

Passano soltanto pochi secondi e vedo con la coda dell’occhio entrare in piazza Amedeo. Il mio momento si è concluso. Piano, mi alzo e riprendo lo zaino, lasciando spazio all’amico, emozionato anche per lui.
Mi ritiro verso i portici del grande palazzo che fronteggia la cattedrale, il Pazo de Raxoi. Seduti sotto gli archi, alcuni pellegrini solitari: qualcuno scrive una pagina di diario, altri semplicemente fissano la cattedrale con uno sguardo beato. Credo di averne anch’io uno simile in volto.
Non ho versato nemmeno una lacrima, è una cosa molto strana: decine di volte sul percorso ho pianto per molto meno. Ad ogni modo, va bene comunque anche così.

Quando già pregusto lunghi minuti di pace assoluta, una vociona profonda e inconfondibile stravolge l’atmosfera dell’intera piazza: “My friend from Bergamo! Well done, peregrino! It’s been amazing!”. No, non può essere, non ora!
Mi volto di scatto: è proprio lui, Armando! Inconfondibile anche nel look – occhiali e mascherina neri, e in testa il cappello coperto dal cappuccio della felpa –  mi viene incontro sorridente e sovraeccitato. Non ho nemmeno tempo per pensare e già mi è addosso con un grosso abbraccio non richiesto. Mi mantengo cortese e accomodante, ma dentro me spero si volatilizzi all’istante. Staccatosi, insiste a mostrarmi il suo telefono, ma come posso averne voglia ora, in un momento così importante?!
Alla fine però cedo, sconsolato, e provo a sintonizzarmi sullo schermo e su quel che sta cercando di dirmi. Ma… quello sono io!
Armando ride e salta, anche lui è incredulo. Indica il balcone del parador, l’hotel super lussuoso che si affaccia sulla piazza. Sta cercando di spiegarmi che era proprio lì mentre io sono arrivato e mi ha messo il cellulare tra le mani perché potessi vedere il video che è riuscito a girare. Incredibile! Ma può la vita essere più folle e inaspettata di così? Ovviamente guardo e riguardo il video senza riuscire a crederci. Mi ingoio tutte le maledizioni che avevo in gola e stavolta sono io ad abbracciarlo, senza ancora poterci credere.


Non volendo rischiare di perdermi un cimelio simile, lo convinco a spedirmelo subito via e-mail, e mentre dedico tempo a questo, mi perdo l’arrivo di entrambi i miei amici. Amedeo già sta dirigendosi in direzione dei portici proprio come me pochi istanti fa. Anche il sorriso credo sia proprio lo stesso. Tiziano, invece, si è fermato proprio in questo istante e si sta sdraiando a terra. Rimango per un secondo imbambolato a guardarlo, felicissimo per lui, ma Armando mi risveglia per la seconda volta con la sua agitazione e insiste perché accetti di riprenderlo mentre va da lui. Io tento di dissuaderlo, ma è un fiume in piena e in pochi secondi è già lá, sdraiato al suo fianco. Cerco di curare la ripresa meglio che posso, ma allo stesso tempo mi odio per non aver semplicemente rifiutato. Lascio passare solo qualche secondo e lo richiamo, per farlo venir via da lì il prima possibile. Riafferra entusiasta il suo telefono, sembra non star più nella pelle per la gioia di quella ripresa, scoprendo però che ho dimenticato di schiacciare il pulsante e non si è memorizzato un bel niente. Gli chiedo scusa, ma dentro me penso che ben gli sta e mi defilo, mentre lui già cerca qualcun’altro per replicare la sua performance.

Nel frattempo, sento una voglia incredibile di togliermi calze e scarponi e sentire sotto i piedi nudi la pelle di quella piazza, baciarla non solo con le labbra, ma anche con quei due affari laggiù che sono stati i protagonisti di questa traversata epica.
Felice come una Pasqua, mentre i piedi si raffreddano piacevolmente sulle lastre di pietra consumate dai secoli, mi guardo attorno in cerca di Amedeo e, trovatolo, ci stringiamo in un fortissimo abbraccio: “Ce l’abbiamo fatta, cazzo! Ce l’abbiamo fatta!”. Nemmeno lui riesce a rendersi conto, ha la luce negli occhi.
Mentre gli spiego l’assurda coincidenza riguardo al video del mio arrivo, ecco sopraggiungere anche Tiziano, con qualche traccia di nervosismo più che comprensibile per la stupida invadenza di Armando, che ancora sta registrando i commenti all’accaduto da dare in pasto ai suoi followers.
Ci abbracciamo tutti e tre, felici come non mai, e straripando in esclamazioni di gioia immensa. Non possiamo crederci! Siamo riusciti a portare a termine quest’impresa nonostante questi mesi assurdi e complicatissimi.

Iniziamo poi anche noi a regalarci qualche momento per delle irrinunciabili foto ricordo. La più bella della serie, quella che meglio riesce a catturare i nostri sentimenti e il legame che ci ha portato fin qui, ci vede in piedi, abbracciati davanti alla cattedrale, mentre ci perdiamo nella bellezza della sua facciata: un souvenir senza prezzo!

Poco dopo, una nuova sorpresa, ancor più stramba dell’arrivo di Armando. Ci si avvicina, infatti, una troupe di origini orientali, forse giapponesi: un intervistatore, una ragazza con un taccuino e un fotografo. Sono quasi più sorridenti di noi e ci convincono a rispondere ad alcune domande e a posare per qualche foto. Non danno l’impressione di essere dei grandi professionisti, ma danno un tocco di follia in più a questo momento.

Rimaniamo in Praza do Obradoiro meno di un’ora. La tappa successiva non può essere che l’Oficina del Peregrino, posta in una via poco sotto. Fuori ci sono un paio di stuart che ci danno indicazioni per l’accettazione, ma in realtà di altri pellegrini non c’è traccia. Io entro per primo, e mi dicono che sono il sesto arrivato a Santiago oggi. Una volta registrati, ci viene infine consegnata la famosa Compostela, l’elegante attestato che certifica i nostri pellegrinaggi. Come già fu con il Cammino Materano, stringere il foglio in sé non mi scatena chissà quale entusiasmo, ma di certo non manca l’orgoglio per essere riuscito ad ottenerlo.

I ragazzi hanno l’autobus fra un paio d’ore, ma dobbiamo ancora brindare e pranzare. All’Oficina ci hanno avvisato che l’interno della cattedrale è pieno di impalcature ed è stato ricavato uno spazio ridotto per la celebrazione. Ovviamente non sono tempi, questi, perché venga acceso il Botafumeiro e il sovvertimento degli spazi comunque non lo permetterebbe. L’accesso è possibile solo dalla porta sud, quindi non c’è modo di ammirare nemmeno il Portico della Gloria. Ci dicono resti accessibile la cripta con l’urna d’argento che contiene le spoglie del Santo e che ci sarà una messa alle 19:30.
Valutiamo alla svelta, decidendo di rinunciare a visitarla insieme. Porterò io dopo i loro saluti al buon Giacomo.

Non ci resta quindi che trovare un posto dove pranzare. L’orario è quello giusto, ma la maggior parte dei ristoranti è comunque chiusa. Con il lockdown è permesso solo l’asporto, ma evidentemente molti preferiscono non aprire nemmeno.
Girare a zonzo per le via del centro non mi dispiace, ma i tempi stringono e lo stomaco brontola. Alla fine, troviamo un ristorante perfetto proprio dietro la cattedrale. Ci offrono addirittura una giro di birre mentre aspettiamo, per brindare al nostro sogno realizzatosi.
Con tre interi menù del pellegrino in una sola borsa, andiamo a sederci appena fuori e in pieno sole, sulla lunga seduta in pietra di Praza da Quintana.

Il pranzo è squisito ed il secondo giro di birra rimarrà nella nostra memoria come uno dei più soddisfacenti di sempre. Sembrerebbe così naturale, ora, andare insieme in albergue, farci una bella doccia e tornare a uscire per continuare a goderci la città, aspettando magari altri pellegrini e brindando tutti fino allo sfinimento.

La realtà però è un’altra: l’orologio suona la fine del nostro tempo insieme e – a questo punto sì – ecco arrivare anche le lacrime. Tutto quello che non si è scatenato prima, sgorga adesso, insieme a parole di sconfinato affetto per questi due splendidi pazzi che mi hanno regalato il privilegio di poter vivere con loro tutto questo, sopportando le tante differenze e portando fiumi di inesauribile allegria.
Prima, in ginocchio, non avevo vissuto quest’eruzione di ricordi, ma sembrano aprirsi ora tutti quanti. È l’averli condivisi che li ha resi così inestimabili e memorabili, adesso capisco. La mescola delle nostre tre personalità ha dato ancora più profondità all’esperienza, facendola diventare un piccolo grande capolavoro. Non avevo mai vissuto niente di simile, nemmeno da questo punta di vista.

Anche Tiziano sembra sull’orlo di perdere qualche lacrima, ma riesce a trattenersi. Mi confessa che per un attimo è stato tentato di rimandare il trasferimento a Muxía, ma questa volta va così.
Ci auguriamo il meglio per i giorni a venire, confidando comunque di riuscire a ritrovarci di nuovo, non più tardi di una settimana, proprio in riva all’oceano.
Arrivederci, quindi, amici miei! È stato meraviglioso.

Li guardo mentre salgono le scale della piazza e spariscono girando l’angolo. Eccomi qui, a Santiago de Compostela, raggiunta dopo 86 giorni di cammino e 2400 km percorsi partendo dalla porta di casa. Siamo io, la cattedrale e il sole.
Bastano pochi secondi e di nuovo le dighe emotive crollano: scoppio in un pianto straripante. Le lacrime di prima erano solo un assaggio di tutte quelle che mi stanno scendendo ora. Non è tristezza, ma gioia grande. Rido e piango contemporaneamente, e non smetterò mai di dire che questa resta la condizione più bella che conosca. Pieno all’inverosimile, ora il cuore può spalancarsi liberamente, e non c’è scandalo se sentimenti apparentemente opposti si ritrovano a danzare follemente dentro e fuori di me.

Un uomo è seduto a leggere pochi metri più in là, siamo appoggiati alla stessa grande parete. Per un istante si volta a guardare che mi stia succedendo. Poco dopo anch’io lo spio: sembra star sorridendo benevolmente sotto alla mascherina. Anche una banalità simile mi rende contento.
Riaccompagno il respiro a diminuire e stabilizzarsi, mentre le guance e gli occhi lentamente si asciugano. Si sta bene in questo coriandolo di presente. Tornato in piedi, mi sento leggerissimo.

È arrivato il momento di andare in albergue! Sta qualche via sotto la cattedrale. Il proprietario, Xavier, mi accoglie molto gentilmente. Il posto è fantastico: l’hanno colorato partendo da un’idea che potrebbe sembrare infantile, ma il risultato è azzeccatissimo: soffitto azzurro come il cielo, pavimento verde come l’erba e lampade a forma di nuvola. Mai avrei pensato mi potesse piacere un abbinamento simile, e invece ecco anche stavolta una bella sorpresa. Facendo un facile calcolo, in meno di tre mesi ho dormito in ottantacinque posti diversi, pazzesco!
La mia condizione di pellegrino solitario termina quasi subito, visto che proprio qui dormono anche Alessandro e Luis, i due italiani conosciuti ieri arrivando a O Pedrouzo. La sorpresa è graditissima, non potevo trovare compagnia migliore. Insieme a loro, ho anche il piacere di conoscere altri tre spagnoli, tra i quali Pura, una donna minuta e vulcanica, dalla personalità creativa e dall’ironia inesauribile.

Il tempo di darmi una sistemata, e sono ancora per strada. Il centro storico e quel poco che ho visto in città me la fanno sembrare molto vivibile e domani sarà un piacere visitarla meglio, ma ora sento il bisogno di tornare alla cattedrale. Il magnetismo di quel luogo è stravolgente. Durante il viaggio ho potuto ammirare una quantità inverosimile di luoghi mozzafiato, ma alla gran parte di questi ho potuto dedicare giusto il tempo dei passi necessari a superarli o attraversarli. Per quanto a volte meraviglioso, tutto era sacrificabile: doveva esserlo, oppure oggi probabilmente non sarei qui.

In pochi minuti eccomi quindi ancora una volta in mezzo alla piazza, davanti a un edificio dove da secoli uomini e donne vengono a deporre le proprie incompletezze, a cercare un tassello mancante, qualsiasi esso sia. È davvero questa, quindi, la meta finale?
Nemmeno finisco di pensare la domanda: no, Santiago de Compostela non è il termine di nulla. Questa non è altro che una soglia, e che le tappe successive siano fatte di altri passi zaino-in-spalla o riconducano alla routine da cui si è evasi, non importa: quelli saranno comunque giorni nuovi del nostro cammino, tappe vere e proprie, intrise della memoria di tutto quanto sentito e successo.

Carico di questa convinzione, aggiro l’edificio e raggiungo l’ingresso temporaneo. Non poter accedere direttamente dalla piazza, da quel portico intriso di storia, indebolisce un po’ questo momento tanto atteso, ma senza comprometterne l’intensità.
Decisamente più incisivo, in questo senso, è l’impatto con l’interno della chiesa,  parzialmente trasformato in cantiere proprio come mi avevano anticipato. La sottile pellicola opaca che vela i ponteggi, nasconde completamente tutto lo spazio dell’abside, mentre le tre navate restano visibili e percorribili quasi interamente. La particolarità meno prevedibile è che lo spazio della messa è invertito rispetto al normale orientamento. Alle spalle dell’entrata principale, infatti, è stato creato un vero e proprio palcoscenico di legno nudo. Per fortuna, il suo aspetto radicalmente minimale e neutro fa sì che non stoni troppo in questo ambiente tanto alterato. Nello stesso stile sono anche le sedie di legno per l’assemblea – non più di cinquanta, tutte ben distanti. In alto, le finestre bifore e quella circolare del rosone sembrerebbero tutte prive di vetri, permettendo così all’ultima luce del pomeriggio di entrare senza alcun filtro.

Sono volontariamente in anticipo per la messa, così da poter visitare il possibile e dedicare tutto il tempo che sarà necessario alla preghiera personale. Ovviamente, scendo per prima cosa nella cripta. Mi sorprende scoprire sia un luogo particolarmente piccolo e spoglio, un semplice corridoio semibuio, a metà del quale una vetro protegge l’urna con i resti di San Giacomo. Il pregiatissimo contenitore, però, è inaspettatamente distante all’interno del suo antro. L’impressione è di stare in un vero e proprio caveau, il che limita enormemente quasi ogni mia suggestione, sia emotiva che spirituale. A dirla tutta, devo ammettere che più o meno è la mia reazione abituale di fronte alle reliquie in generale. È un’insensibilità, però, che non rovina il senso e il valore del mio cammino, di questo sono sicuro.
Cerco comunque un posto dove metabolizzare un po’ queste cose, e lo trovo nella cappella del Pilar. Ci rimango parecchio, rievocando ogni mio affetto anche qui, come tantissime volte ho fatto durante il viaggio.

Mi trasferisco infine nella navata centrale per la messa. Seduti, trovo tanti protagonisti della giornata di ieri: i ragazzi svizzeri e quelli francesi, oltre che Ale e Luis. Pochi minuti e il sacerdote comincia la cerimonia, dando per prima cosa il benvenuto ai pur pochi pellegrini arrivati oggi. Così come mi era stato anticipato da qualcuno, lo fa citando i nostri luoghi di provenienza, rifacendosi sicuramente ai dati registrati all’Oficina. Sentire pronunciare anche il nome della mia città mi regala una punta di emozione che non mi aspettavo di provare.

La messa scorre in maniera armoniosa, e sono felice di avervi partecipato. All’uscita, poi, scopro che tutti quelli che avevo attorno già si conoscono, e a loro vedo aggiungersene una manciata d’altri. Alcuni mi salutano con piacere, ma nel complesso vivo un momento di leggero imbarazzo ai bordi del gruppo. Sento che stanno cercando di organizzare una cena comune, anche se non si potrebbe per via delle misure preventive legate alla pandemia. Siamo tutti divisi tra due albergues abbastanza vicini, e sembra si tenterà di radunarci abusivamente per una pizzata. Nemmeno un’ora dopo, però, mentre sto comprando del vino da condividere, sento parlare due dei partecipanti tra le corsie del piccolo negozio di fianco all’alloggio e scopro che il tutto è già saltato.
Per fortuna, prende forma comunque una serata splendida. La compagnia degli amici italiani e spagnoli si dimostra eccellente. Ale e Luis mi comunicano che partiranno già domani per Finisterre, ma in autobus, perché hanno tutto un programma per scendere in Portogallo e poi deviare di nuovo all’interno della Spagna, dalla ragazza di uno dei due. Molti altri valutano la possibilità di proseguire verso Porto, o ancora più giù, forti di una situazione pandemica ancora contenuta in quelle regioni e a regole non troppo compromettenti.
Per quanto mi riguarda, mi regalerò di certo almeno un altro giorno qui, poi l’unica cosa che resterà da decidere sarà se andare a incontrare l’oceano prima a Finisterre o a Muxía. Da lì in poi, davvero non so cosa mi aspetterà.

Vado a letto sazio e felice, ma una volta sotto le coperte sento arrivare un pizzico di malinconia. È qualcosa di mio, la conosco bene: è un parassita che tenta di inquinare qualunque gioia io provi, e pare che sia sopravvissuto anche a tutta la meraviglia e alla soddisfazione della mia piccola grande impresa.
Si nutre di molte cose, ma il cibo che preferisce è la paura. Ovviamente non parlo della fifa, ma di quel timore esistenziale che a qualcuno avvelena l’anima quando è di fronte a una scelta importante – spesso proprio quella decisiva per buttarsi in ciò che si è sempre desiderato fare. In quei momenti la malinconia arriva con la sua vocina subdola e tenta in tutti i modi di svilirmi di fronte ai rischi “che non saprei superare” o alle conseguenze “che non sarei in grado di affrontare”.

Verrebbe da pensare che non possa essere oggi il caso: d’altronde non sono davanti a una scelta, ma all’apice di un successo. Io però so cos’è capitato. Il fatto è che tutta quest’avventura non è nata da una sfrenata passione per il camminare, né da una fascinazione particolare per il mondo dei pellegrinaggi, e tanto meno da una rocciosa fede cristiana. La verità è che questo progetto è nato soprattutto come esperienza propedeutica, come opportunità di mettermi alla prova e sviluppare autostima, capacità, coraggio e slancio a sufficienza per affrontare scelte ben più audaci e radicali, ispirate ai miei sogni più grandi, quelli nati da ragazzo e mai inseguiti a sufficienza.

Purtropo le poche ore passate dal mio arrivo a Compostela sembrano essere state sufficienti a farmi perdere la connessione col presente. Questo dovrebbe essere il momento più rilassato della mia vita, un istante tutto da gustare, una soddisfazione da coccolare mentre mi addormento, e invece mi ritrovo già a far bilanci e a preoccuparmi di ciò che mi aspetta da domani. Mi sto facendo stordire dal futuro -dalle sue seduzioni ma anche dalle sue minacce – e proprio questo ha lasciato penetrare la paura che tanto fa gola alla mia vecchia malinconia.

Fortunatamente, però, il traguardo di oggi non è di quelli che si fanno mettere in secondo piano tanto facilmente. A differenza di tantissime occasioni vissute in passato, in questo momento ho riserve di vigore e gioia come mai mi era successo prima, ed è con queste armi che vado al contrattacco.
Respirando profondamente e rievocando tutta la gratitudine che ho allenato in questi mesi, riesco un po’ alla volta a far arretrare “la bestia”, ma è con un asso in particolare che vinco la partita – almeno per stasera. Parlo di una delle lezioni più grandi di questo pellegrinaggio, un messaggio nato dopo nemmeno una settimana e resistito a tutto, rafforzandosi giorno dopo giorno e mettendo radici profonde dentro me. Potrebbe risuonare più o meno così:

Il contrario della paura, Roberto,
non è il coraggio, ma l’amore.

Sembrerebbe un concetto incredibilmente mieloso alla fine di un così lungo percorso, ma in qualche modo dentro me ha ricomposto frammenti ai quali da anni tentavo di restituire robustezza. Come un seme, ha cominciato ad affondare le sue radici dentro la mia incompiutezza e mi ha reso più forte.
Probabilmente quelle poche parole non chiariscono realmente la verità delle cose, ma nel mio caso sono state una miscela alchemica perfetta. So di non aver dovuto fronteggiare paure colossali e che, più che coraggioso, sono riuscito ad essere appena un po’ temerario, ma l’amore! Di quello mi è fiorita l’anima fino a esplodere.
Quante volte mi sono sentito come un muro che si sgretola sotto la pressione di sentimenti strabordanti! Quante volte la natura ha saputo scatenarmi una meraviglia tale da non sentire più un briciolo di fatica né di timore! Quante volte ho avuto la certezza che le preghiere quotidiane per i miei affetti fossero tutt’altro che parole buttate al vento, ma forze reali, motrici!
Da sempre, poi, percepisco tracce di queste danze interiori – tra paura, amore e coraggio – in chiunque io abbia di fronte. A volte è un barlume, altre uno spettacolo pirotecnico che colora ogni cosa lo circondi, e anche questo ha saputo commuovermi e infondermi incredibile entusiasmo.

L’abbraccio della vita è stato così palpabile da farmi sentire benedetto nella mia fragilità, rassicurandomi ogni volta nei miei slanci un po’ azzardati.
Oltretutto la memoria di tutto questo si è fatta ormai talmente monumentale che nessuna perplessità fuori da me potrà più scalfirla. Le minacce più infime resteranno quelle interiori, ma adesso sento di poterle fronteggiare con nuova consapevolezza.

Ad ogni modo, eccomi qui, sotto le lenzuola a stringere al petto quella specie di mantra come a volerlo rimettere nel cuore – quasi fosse una molla uscita da qualche ingranaggio.
Ad un tratto, poi, tutto sembra acquietarsi. Mi addormento con la suggestione che forse sia successo: dopo un numero incalcolabile di passi sognanti, forse qualcosina in me è davvero cambiato. Giusto un pochino – d’altronde resterò sempre uno zuccone bergamasco, non ci piove. Però credo sia avvenuto a fondo, stavolta: chissà che questa lunga passeggiata abbia sortito il suo effetto…

Eccoci dunque alle ultime righe, quelle quasi sacre, in fondo alla sterminata serie di pagine che avete accettato di leggere; e direi che non potrebbe esserci momento migliore per spogliare i panni del narratore in presa diretta.

Batto queste parole l’otto marzo del 2022, a sedici mesi da quella serata. Non tutto quello che è accaduto nel mezzo si è impregnato della grande lezione appresa. Qualcosa varrebbe la pena raccontarvelo – a partire da quel tramonto a Muxìa che è stata la vera conclusione della mia avventura – ma la verità è che sono stanco di scrivere ora, incredibilmente stanco. Ho davvero dato tutto quello che potevo per raccontare questo viaggio, qualsiasi e unico allo stesso tempo. Ho scelto di farvi entrare fino in fondo a quei giorni nomadi, nei quali perfino il cigolìo di un albero riusciva a diventare importante, a farsi testimone della meraviglia dell’esistente. Ora però sento che è bene che io lasci quei ricordi scivolarmi un po’ alle spalle: è cosa sana, proprio come fu quell’imprudenza.

Grazie ancora, però.
Lasciate che vi stringa in un abbraccio caldo e sincero.
Siano buoni i vostri cammini, e possiate esser sempre capaci di goderne.

Roberto

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Galicia, Spagna