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L’antipasto pugliese



Era l’autunno del 2018. No, non partii per un cammino allora. In estate ero rimasto sommerso dal crollo di un progetto che probabilmente non era adatto a me, o a quello che ero in quel momento della mia vita. Ottobre fu un mese di palpabile depressione, ma ebbi modo di scoprirmi dentro un’inattesa riserva di speranza.

Piano piano mi rialzai, e tra i pilastri che cominciai a piantare c’era anche il desiderio di sperimentare il viaggio come strumento di esplorazione esteriore e allo stesso tempo di crescita. Fin da ragazzo sognavo una grande partenza, ma scelsi spesso il “piano B”, o in altre occasioni tornai sui miei passi senza essere andato davvero oltre.

Mi regalò grande consapevolezza un corso online con una nota travel blogger italiana. Gli esercizi iniziali spingevano a scrivere molto di sè. Si era guidati alla scoperta delle connessioni tra la dimensione interiore e l’avventura del partire. Quelli successivi, invece, aiutavano a concretizzare il progetto. Accettai il consiglio di un approccio graduale.
Iniziai proprio con la semplicità del camminare: gite davvero minuscole, ma furono sufficienti a nutrire la mia naturale attitudine alla meraviglia e all’immersione nell’altrove. Da tempo sapevo che erano gemme preziose incastonate in me: capivo che era la strada giusta.

La luce in fondo al tunnel dei mesi precedente andava via via aumentando. Godetti di una splendida esperienza a Copenaghen con una ragazza speciale, poi arrivò la mia prima vera vacanza in solitaria zaino in spalla, alla veneranda età di 35 anni. Fu qualcosa di minimo per quest’epoca di globetrotter: passai meno di una settimana tra i grandi centri urbani dei Paesi Baschi spagnoli. Fu bellissimo. Assaggiai un gran senso di libertà e la sicurezza in me stesso, sorprendentemente, sembrò davvero irrobustirsi.

La cosa più curiosa, però, fu un sentimento spontaneo che mi salì dalla pancia prima ancora di tornare: non era quello il genere di viaggio di cui avevo bisogno. Avevo imparato ormai benissimo a destreggiarmi tra le mille offerte turistiche e culturali d’ogni genere che sovrabbondano nelle città più blasonate, ma qualcosa non mi faceva stare del tutto bene. Provavo disagio, in certi casi malinconia, qualcosa che già conoscevo benissimo.
Ero chiamato ad altro. Non volevo più essere solo “consumatore” di qualche bazar urbano, per quanto ricco e seducente. Era arrivato il momento di sperimentare una nuova forma di viaggio. Quello che desideravo, senza giri di parole, era già il Cammino.

Santiago era un’evocazione a quei tempi, qualcosa di misterioso e simbolicamente mastodontico al tempo stesso. Sentivo che non era ancora il momento, ma era ora di darsi da fare e mettere le fondamenta per quella partenza.

Un passo allo volta: mai motto fu più azzeccato. Le ferie a disposizione erano poche, ma volevo sfruttarle al meglio. Sarebbero state a fine novembre. Cosa potevo fare in sette giorni in autunno inoltrato? Di certo un cammino breve, e preferibilmente al sud, dove il clima sarebbe stato più mite. Bastò una rapida ricerca per capire che la Via Peuceta sarebbe stata la soluzione perfetta per cimentarmi in questo primo tuffo nel mondo del viaggio a piedi. Da Bari a Matera: meno di duecento chilometri, sette tappe. Perfetto!

Inaspettatamente, alcune circostanze compromisero il progetto autunnale, ma non mollai il colpo. Il prossimo turno di ferie era a fine febbraio. Niente era perduto. Anzi, avrei avuto il tempo di perfezionare alcuni aspetti organizzativi, e soprattutto di prepararmi ancora meglio.
Sui colli della mia Bergamo percorsi duecento chilometri con in spalla uno zaino pieno di bottiglie d’acqua. Ebbi modo di innamorarmi di quei luoghi che per una vita avevo avuto a disposizione, ma che non mi ero mai dedicato ad esplorare a fondo. Diventarono profondamente miei, e così ottenni già molto più di quanto potevo sperare: oltre alla preparazione fisica, alla conoscenza ogni giorno più profonda del mio corpo, stavo già viaggiando.

A pochissimi giorni dalla partenza, un solo dettaglio cominciava a fare capolino, un eco totalmente inatteso: quel virus, che dall’altra parte del mondo aveva già fatto scattare un allarme dirompente, era arrivato dritto dritto anche da noi, proprio a qualche decina di chilometri da casa.

Partii il 24 febbraio, farcito di sentimenti contrapposti. Fu un’esperienza splendida, una gioia infinita i cui limiti furono solo quelli del legittimo timore che la mia presenza produceva a chiunque. Ero pure fuoristagione per quel genere di impresa, e non potevo confondermi in nessun gruppo di viandanti. Ovunque passassi, tutti potevano intuire cosa stessi facendo, ma soprattutto capire che ero un forestiero. Mi sembrava di vivere in un’altra epoca. Non subii mai discriminazione, nessuno mi attaccò in nessun modo, ma inevitabilmente ognuno provava poca o tanta titubanza, soprattutto quando capiva da dove provenissi – io che vivevo e lavoravo proprio in quei paesi della Valle Seriana in cui il virus, giorno dopo giorno, aveva iniziato a scatenare tutta la sua ferocia e paure mai provate prima.

Con dovuta prudenza, evitai una miriade di occasioni di contatto. In molti casi celai la mia provenienza o mentii, per lo più a chi incontravo solo per pochi istanti. Chi mi ospitava, invece, era tenuto a raccogliere i miei dati e segnalarli all’azienda sanitaria locale: ero tracciato, ed era giusto così. Rappresentava la soglia minima precauzionale per quel momento, ma era percepibile che non sarebbe servita a nulla da sola.
Rischiai anche di non concludere il mio cammino perché la Basilicata aveva dichiarato che chiunque – proveniente da Nord Italia – avesse varcato i confini regionali avrebbe poi dovuto essere sottoposto a quarantena, cosa che non mi sarei potuto permettere.

Sapevo di essere un privilegiato, ma non solo: dentro covavo il terrore di essere un vero e proprio untore. La consapevolezza di quello che stava succedendo era ancora blanda rispetto a quello che poi successe davvero, ma tutto era già in nuce.
Fu una scommessa imprudente e apertamente condannabile, ma per fortuna tutto andò straordinariamente. Non ero infetto e nessuno pagò il mio azzardo. La mia prima esperienza di cammino mi regalò tutto quello che sognavo, e molto di più. Quelle ore sotto un sole splendidamente caldo, in mezzo a lande sconfinate di uliveti o tra campi di grano immensi, furono tra le più dolci della mia vita. Era pura armonia.
Arrivato a fine tappa, riducevo ai minimi termini la mia vicinanza con le altre persone, ma ebbi modo comunque di misurare un calore umano e un’ospitalità disarmanti.

Gioii infinte volte, ma assaggiai anche l’amarezza di diversi episodi controversi, che non sto qui a descrivere. Dentro me, però, tutto trovava il proprio posto, mi appariva perfetto. Forse non subito, ma bastava qualche chilometro per metabolizzare qualche delusione e capire che era anch’essa un tassello fondamentale di quell’esperienza che non mi evitava nulla, ed era esattamente quello che cercavo. Non più solo le comodità e i vezzi delle mie vacanze precedenti, quello era già un piccolo assaggio di un viaggiare come avevo bisogno io, fatto anche di fatica e difficoltà, a braccetto però con libertà e meraviglia.

Il Cammino Materano fu tutto questo e molto di più. Ogni cosa si dimostrò un assaggio di qualcosa che avrei vissuto in maniera ancora più ampia nei mesi successivi.
Non mi era ancora mai passata per la testa l’idea di partire da casa per raggiungere la Galizia, ma già prima di arrivare a Matera avevo deciso: se si fosse riusciti a contenere questa minacciosa epidemia, avrei lasciato tutto e sarei volato a Saint-Jean-Pied-de-Port, e da lì avrei finalmente dato il via al mio cammino verso Santiago.

Le cose andarono diversamente. Rientrato a Bergamo, il mondo era già cambiato: la mia terra era invasa di paura e morte, e il sogno di partire finì seduta stante nel cassetto, senza dispiacere né rimpianto. Lavoravo in casa di riposo e c’era ben altro da fare.
Solo oltre i Pirenei sette mesi dopo, parlando con gente da tutta Europa, scoprii che nessuno aveva davvero capito – o creduto – cosa avevamo vissuto in quelle prime settimane. Ne ho dato testimonianza a più persone possibili e sono stato ascoltato con stupore e sconcerto.

Inaspettatamente, già scrivendo questo primo articolo mi trovo a pensare che forse non fu poi così sana la mia imprudenza, fin da quel febbraio pugliese. Sappiate perdonarmi se ve ne sentirete offesi. Possa consolare qualcuno il fatto che il sogno che ho seguito, allora così come sulla via dell’apostolo, non fu un capriccio qualunque. Ha rinnovato parti della mia anima che sembravano già frantumate, e oggi sono un uomo migliore.
Spero che questi scritti riescano a restituire almeno una parte della benedizione di quei passi.

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