(Camping Pegomas)
30 km
È strano sistemare una casa perché la si deve lasciare. Ieri ho fatto lo stesso, sì, ma solo oggi ho la certezza di abbandonarla. L’ultima volta, probabilmente, mi è successo quando sono partito: chiudere la porta dietro di sé, girare la chiave e infilarla in una cassetta delle lettere. Piccoli gesti, eppure stracolmi di cose.
Sono azioni di un rito scritto nel DNA dell’essere umano: il passare oltre, il lasciarsi indietro. Non è un’esperienza solo personale, in modi diversi appartiene a ognuno, e percepirlo proprio mentre lo sto vivendo mi emoziona molto.
Dentro me sento anche l’assalto dei sentimenti e dei pensieri legati al futuro e al passato: vorrebbero impossessarsi della leggerezza di questi istanti, reclamano uno spazio, ma con fermezza riesco a neutralizzarli. In questo momento è giusto che tutto appartenga solo al presente.
Mi sono alzato molto presto. C’è ancora buio e l’aria è pungente. Le strade sono già solcate dal viavai di automezzi. Torno alla scultura del melone e, lasciandomi alle spalle Cavaillon, attraverso la Durance e le dico addio. Insieme al caro fiume saluto anche la Vaucluse e muovo i primi passi nel dipartimento delle Bouches-du-Rhône, la bassa valle del Rodano. Sarà l’ultimo sul mio percorso nella Regione Sud (o PACA, acronimo di Provenza, Alpi e Costa Azzurra), dopodichè passerò in Occitania.
Perdo tempo nel cercare un sentiero che non trovo, e alla fine ripiego su una strada secondaria che gli dovrebbe essere parallela. Come sempre mi gusto il cielo notturno schiarire lentamente, dando forma al mondo attorno a me.
Quando il sole fa capolino, dall’orizzonte o da dietro una nuvola, vedo apparire la mia ombra per terra. Muovendomi più o meno sempre verso Occidente, quando c’è bel tempo vivo ogni volta la stessa scena.
Per tutte le albe che ho visto ho dovuto voltarmi, dar le spalle alla grande meta. Ovviamente ne è valsa sempre la pena, qualcosa di simile a un bacio di un genitore prima di andare a scuola.
Anzi, a dirla tutta non è più solo questo. Col tempo, il rapporto col sole è diventato più solido e più intimo: i nostri incontri quotidiani, le ore passate assieme, le carezze alle spalle, il suo spiarmi tra i rami, il regalarmi calore ed energia, oppure tutte le volte che ho seguito i suoi raggi come fossero suggerimenti… Tutto questo e molto altro l’hanno reso ai miei occhi molto più che una stella, e qualcosa di diverso da un genitore: per me ormai si è fatto più simile a un amante.
Chi me lo sente dire, come è naturale che sia, fa sempre una faccia un po’ stranita, mostra un leggero imbarazzo. Ogni volta io mi diverto ribadendo la cosa, con un sorriso in volto che non lascia dubbio sulla mia convinzione.
Mi capisce un po’ meglio chi ha vissuto esperienze simili, anche se resta inevitabilmente qualcosa di personale, che ha il suo posto nel cassetto dei sentimenti provati, uno di quelli che possono essere aperti quasi solo da sé stessi. Lo sto riempiendo come non mai, quel cassetto.
Ora però è tempo di abbassare il volume delle frequenze interiori e ricominciare a lasciar parlare i passi, l’asfalto, i cipressi, i canali a bordo strada e i primi vigneti.
La via è stretta e tranquilla, piacevole da percorrere; il clima, poi, è perfetto.
Quando il cielo ormai si è fatto azzurro e luminoso, comincio a intravedere il campanile della chiesa di Orgon in lontananza, su una bassa collina. Si chiama Notre-Dame-de-Beauregard, leggo nella guida. “Dallo sguardo bello”, se traduco bene: un nome splendido.
Seppur con un po’ di rammarico, rinuncio a salire fin lassù per visitarla. Purtroppo, ammetto che sto cominciando a stancarmi dei troppi portoni chiusi. Sarà per la prossima, forse. La prossima, sì, perché ho già in me questo desiderio, quello di tornare qui, in Francia. Rituffarmi in questa terra meravigliosa, ma a una condizione: in quell’occasione non vorrei affrontarla come terra di passaggio, ma come la meta stessa. Con tutta la ricchezza che sto incontrando da quando ci sono entrato, un viaggio tutto tra i suoi confini me lo immagino come un vero banchetto. Chissà, speriamo.
Attraverso Orgon senza pause e imbocco poi una via che rapidamente mi cala nel cuore del Parco Naturale delle Alpilles, la piccola catena montuosa che impreziosisce questa pianura già splendida.
Appena possibile, il GR mi fa abbandonare l’asfalto e mi conduce lungo una via sterrata; ai miei lati, vasti uliveti e vigne a perdita d’occhio. Tutto le piante sono disposte con il massimo ordine e il colpo d’occhio è di un’armonia spiazzante.
Attraverso anche alcuni boschi e tutto mi fa capire quanto mi stia avvicinando al Mediterraneo. È una natura splendida, e oltretutto la mano dell’uomo qui sembra aver trovato l’equilibrio perfetto con il territorio. Macino chilometri con una gioia incredibile e, come sempre in momenti simili, ringrazio il cielo ad ogni passo per aver trovato il coraggio di partire.
Tornato sulla strada asfaltata, scorgo un colle su cui spicca una chiesetta molto affascinante. Ai suoi piedi, c’è il paesino di Eygalières. Quando ci arrivo, ne resto incantato. Come altri luoghi, non sembra avere attrattive specifiche, ma è nella cura complessiva che si realizza il suo fascino, in quel buon gusto diffuso di cui continuo a stupirmi.
Alcuni indizi mi fanno capire sia un luogo di ricezione turistica, ma allo stesso tempo sembra possa offrire una grande vivibilità. Percorro la traversa principale, quella che mi condurrà in cima al colle. Le case sono tutte piuttosto basse, spesso con pietre a vista. Tra le ultime, si incunea una breve scalinata che si immerge tra gli alberi che coronano l’altura. Quando arrivo in cima, riconosco la cappelletta che mi ha attirato qui, ma mi rendo anche conto che tutt’attorno ci sono altre costruzioni affascinanti, disposte armoniosamente per tutto il poggio. C’è una chiesa adibita a museo di storia locale, alcuni ruderi diventati favolose terrazze panoramiche e, in cima, una torretta con un orologio. Sopra quest’ultima, un elegante gabbia in ferro battuto sostiene una campana. È un dettaglio particolarmente elegante che ho già notato su diverse torri e campanili per tutta la Provenza.
Dal punto più alto posso vedere perfettamente la piana lungo cui ho camminato – perlomeno da Orgon fino a qui. Prosegue a perdita d’occhio e fra poco mi ci tufferò di nuovo. Di fronte a me, invece, le Alpilles: non sono certo maestose, ma la loro dimensione mi dà l’impressione di essere perfetta per questo paesaggio, dove ogni singolo particolare sembra al posto giusto e con le caratteristiche migliori. Un’armonia che sono certo non dimenticherò.
Ridiscendo con il solito sorriso imbambolato. Mi diverte accorgermene e non mi preoccupo più di cosa potrebbe pensarne chi mi incontra. Anzi, sono convinto capirebbe subito cosa me l’ha procurato, e forse sorriderebbe a sua volta tra sé e sé.
Il percorso che pensavo si sarebbe perso nella landa pianeggiante, mi porta invece ai piedi delle Alpilles. A quanto pare, da lì partono chilometri di sentieri che si snodano fino a Saint-Rémy-de-Provence. Immergendomici, attraverso scenari che sembrano l’uno completamente diverso dall’altro, ma sembra si mantenga sempre e comunque una tale perfezione estetica che pare quasi impossibile.
Guardandoli meglio, poi, inizio ad accorgermi che gli elementi del paesaggio sono sempre quelli incontrati nelle ore precedenti. Si ripetono, cambiando semplicemente nelle proporzioni e combinandosi in assetti diversi, e anche questo non fa altro che aumentare la mia meraviglia.
Qui più che mai, tra vigne e uliveti di rara bellezza, prendo atto di come l’agricoltura, oltre al suo scopo produttivo, possa essere anche uno straordinario strumento di valorizzazione territoriale. Non è certo una scoperta, ma farne esperienza diretta è sempre toccante.
Il cammino mi sta letteralmente immergendo in dimensioni che non avevo mai conosciuto prima. Queste settimane rigorosamente a passo d’uomo mi stanno regalando tempi di contemplazione eccezionali, permettendo a mente e spirito di cogliere e godersi un’incalcolabile quantitá di dettagli e suggestioni.
Nonostante possa sembrare paradossale, però, convivo anche con la sensazione martellante di non avere mai il tempo per conoscere nulla come vorrei. Si tratti di una nuova persona oppure un qualsiasi particolare che rende unico un territorio, io lo posso giusto assaporare, prenderne un boccone di rapina, ma mai conoscerlo a fondo.
Probabilmente sono una persona che per qualche motivo non è mai sazia, ma resto convinto ci sia dell’altro. È come se tutto ciò non appartenga solo a me, ma si radichi anche nella condizione stessa del pellegrino, il cui procedere è lento, sì, ma sempre anche incessante. Sulla strada verso la meta, la distensione pare non potersi separare dal suo opposto, la frenesia. Si sfiora tutto, forse si lascia anche un segno qua e là – e si resta marchiati a propria volta – ma ogni incontro sfocia sempre raidamente in un addio.
In tutto questo, mi sto scoprendo più che mai poroso, nel senso che tutto ciò che riesco a strappare dal mio incedere quotidiano sembra sempre trovare poi una nicchia nella mia memoria. Non potrò quindi arrivare a conoscere tutto come vorrei, ma quello che mi è dato cogliere pare riesca a trattenerlo.
Durante il riposo serale o nelle pause diurne mi capita spesso di trovarmi già a lustrare quei ricordi, a soppesarli, a spiarne meravigliato le rifrazioni e le sfumature.
Certo, un’eseprienza di cammino si assocerebbe maggiormente allla pratica del lasciar andare fiducioso, ma il trattenere sembra faccia parte di me in maniera irrinunciabile.
Stando così le cose, è facile immaginare che già da tempo mi senta stracolmo, e per un po’ sono stato anche preoccupato: a volte ho avuto paura di appesantirmi a tal punto da arrivare a sentirmi sazio, e magari essere tentato dal lasciare a metà il viaggio.
Per fortuna, tutti questi sono stati gli scalini che mi hanno portato a una visione nitidissima, e forse anche un po’ arrogante perché già proiettata oltre Santiago: ho deciso che al mio ritorno scriverò tutto.
È un’altra sfida splendida, che fa capolino mentre ancora sto vivendo questo grande sogno. Ci penso da giorni, e tutto mi è sempre più chiaro. La cosa davvero speciale, però, è che non è solo una risposta alle necessità di sfogarmi, di alleggerirmi. La portatata di questa scommessa va ben oltre, è certo. Anche se non sono che uno dei tantissimi che intraprendono avventure simili ogni anno e in ogni parte del pianeta, scrivere di questo pellegrinaggio produrrà valore anche per qualcuno che non sono io. Sarei un ipocrita se non confessassi che la sento un po’ anche come una piccola chiamata: quella, cioè, di essere pellegrino oggi, e domani…testimone.
Proprio questa parola mi rimbomba nella testa sempre più spesso, e tutto quanto insieme ora mi regala una lieve quiete che sembra essermisi depositata sul fondo del cuore, e che spero più di ogni altra cosa che ci resti.
Ovviamente le fotografie che posto ogni sera su Whatsapp sono già un assaggio di questa proiezione, e già producono da settimane frutti che mai mi sarei aspettato, ma sicuro che il racconto che immagino sarà qualcosa che andrà ben oltre.
Tornando infine nella sana concretezza del presente, vivo ore di cammino deliziose, sempre ai piedi della bassa catena montuosa. Una volta fatto il primo passo nel territorio di Saint-Rémy, mi imbatto in un’altra grande sorpresa: senza quasi accorgermene, mi scopro appena fuori le mura di cinta del Monastero Saint-Paul de Mausole. È un luogo molto antico, ma è noto soprattutto per aver ospitato per circa un anno Vincent Van Gogh, poco prima della sua morte. La celebrità del posto nasce soprattutto dal fatto che proprio durante questa residenza sono nate alcune delle opere più celebri dell’artista olandese. Il monastero in quel tempo svolgeva la funzione di ospedale psichiatrico, ma anche ai giorni nostri pare sia rimasto una struttura specializzata nel medesimo ambito.
Dirimpetto all’entrata c’è un bel viale ai cui lati stanno degli uliveti molto suggestivi, eredi di quelli che lo stesso Van Gogh ritrasse.
L’emozione di essere lì è sottile e acuta. Me la gusto con rilassatezza, lasciandole tempo e fermandomi anche a pranzare su una panchina lì di fronte.
Quando riparto, nemmeno troppo stanco, scorgo al di là della strada due monumenti romani particolarmente imponenti. Ho letto ieri che poco lontano da qui c’è uno splendido sito archeologico, ma non ho abbastanza tempo per visitarlo. Mi dedico quindi ben volentieri a contemplare da vicino quello che la via mi regala. Avvicinatomi, scopro un grande arco di trionfo e un mausoleo, entrambi molto ben conservati e datati circa duemila anni fa! Sono di una bellezza indescrivibile. Non ho più parole oggi, davvero.
Dopo averci girato intorno per una decina di minuti, proseguo verso il centro della cittadina. Incastonati nel marciapiede, distanti una decina di metri l’uno dall’altro, ci sono dei medaglioni di ottone con inciso il nome Vincent, replica della famosa firma. Accompagnano e dirigono la visita dei turisti, in abbinamento a delle tavole incorniciate con rappresentazioni di quadri di Van Gogh ben commentati.
Raggiungo in pochi minuti l’ufficio turistico, dove ottengo il timbro per la mia credenziale, dopodiché resto mezz’ora a spasso per il centro storico.
Le vie interne di Saint-Rémy sono deliziose. Ci sono negozi, bar e ristoranti molto attraenti, e non mancano ovviamente le gallerie d’arte. Di solito, la concentrazione commerciale non è una cosa che apprezzo, ma qui sembra sposarsi bene con tutto il resto.
Definitivamente sazio per tutto quanto visto oggi, faccio un po’ di spesa e raggiungo il campeggio.
Le sorprese, però, pare proprio non vogliano finire. La prima è che questo è il primo campeggio che incontro che ha inclusa la piscina, e il pomeriggio assolato mi permette di godermela per un’ora abbondante.
La seconda è che lì faccio conoscenza con Nina e suo figlio, il piccolo e vivacissimo Lionel. Sono svizzeri e sono in vacanza con un furgone spettacolare: un Volkswagen Ocean nuovo e luccicante. Mi racconta che è stata per tanti anni una viaggiatrice zaino-in-spalla, ma questo veicolo è sempre stato il suo sogno e da poco è riuscita a permetterselo. Parliamo usando lo spagnolo, la lingua di suo marito. Si entusiasma venendo a sapere cosa sto facendo e passiamo qualche minuto molto piacevole chiacchierando, finché Lionel – gelosissimo delle attenzioni della mamma – non la richiama al suo dovere.
Una volta tornato in tenda, controllo le previsioni per domani: sono disastrose. Sembra pioverà a dirotto per tutta la mattina, a partire dalle sei. Decido quindi di fissare la sveglia molto presto, per riuscire almeno a smontare la tenda all’asciutto, rassegnandomi ovviamente a prendere poi tutta la pioggia che verrà.
Escludo immediatamente di seguire il percorso originale che mi porterebbe a salire e scendere l’ultimo ramo delle Alpilles, fino a Fontvieille. Affrontare al buio e sotto un nubifragio un sentiero di una decina di chilometri senza altro che natura è un’esperienza che decido di risparmiarmi.
Individuo un tracciato alternativo, tutto su asfalto. Sarà sicuramente meno bello, ma è senza dubbio l’unica soluzione.
Non mi piace l’idea di arrivare ad Arles sotto una pioggia torrenziale e spero soprattutto non mi affatichi eccessivamente. La cosa più saggia, comunque, sembra prendere quello che verrà con serena rassegnazione e goderselo quanto più possibile. Sono a un passo da un altro grande traguardo e sono eccitatissimo; speriamo di dormire stanotte.
Cavaillon
0 km
Mi alzo un po’ più tardi del solito, adottando la strategia di mia nonna ultranovantenne: una volta fissato l’orario in cui si è deciso di alzarsi, si deve rimanere a letto a tutti i costi fino a quel momento, anche se ti sei svegliato due ore prima. Per lei l’ora ideale sono le 8:30; in suo onore farei lo stesso, ma ho dovuto tenere conto della possibilità che non mi sarà accordato di restare, quindi anticipo di una mezz’ora.
Quando apro le tende scopro che c’è il sole, il che mi lascia un po’ di amaro in bocca per non essere partito. Guardo subito le previsioni: sembra che la pioggia abbia solo ritardato il suo passaggio. La cosa mi consola, ma in compenso ora dicono che il peggio arriverà domani. La legge di Murphy trova immancabilmente conferma, maledizione! Vedremo stasera se qualcosa sarà cambiato oppure no, ma innanzitutto devo presentarmi alla reception. Fatta la colazione, decido per prima cosa di preparare comunque lo zaino, così da imbracciarlo al volo e partire se non mi fosse permesso di rimanere. Sto anche considerando la possibilità che per il secondo pernottamento possano chiedermi il prezzo pieno della mobilhome, e non più quello super-scontato. Sarebbe un bel guaio, perché anche in quel caso dovrei rinunciare. Incrociamo le dita.
Mentre aspetto fuori dall’ufficio, inizia improvvisamente a piovere, e ormai non so più se rallegrarmene oppure no. La stessa gentile signora di ieri si presenta con dieci minuti di ritardo, ma mi sorride appena mi vede: ha già intuito perché sono lì. Mi anticipa subito che non c’è problema, e che anche la tariffa sarà la stessa. Tiro un gran sospiro di sollievo e la seguo per le pratiche.
Sbrigato tutto, torno alla casa-mobile e svuoto ancora una volta lo zaino, riallestendo l’alloggio per il mio secondo giorno.
Il fatto di non mettermi a camminare subito dopo colazione, mi lascia un po’ disorientato. Ho ripetuto quei gesti per 34 volte, una dopo l’altra, ognuna in un posto diverso, e ora sento il mio corpo in attesa, come un cane che aspetta la passeggiatina quotidiana. Mi spiace, amico mio, oggi siamo fermi; lo faccio anche per te, fidati. La sua risposta è una lieve tensione latente, che lascio si sciolga da sé mentre comincio a visionare guide, tracce GPS, e siti vari.
Dopo un paio d’ore l’esito è il seguente: per i pernottamenti dei prossimi due giorni non dovrei avere problemi. A Saint-Rémy, infatti, c’è un campeggio non troppo costoso praticamente in centro, sempre se le previsioni miglioreranno. Alla peggio sono convinto che in una cittadina tanto turistica non sarà difficile trovare un tetto sotto al quale dormire. Riguardo alla tanto agognata Arles, dopodomani, do per scontato che le opportunità saranno ancora di più. In ogni caso, mi è stato consigliato di rivolgermi serenamente alla segreteria della cattedrale di Saint-Trophime, meta ultima della Via Domitia. Lá mi indicheranno sicuramente qualche accoglienza ad hoc.
Per i giorni immediatamente successivi, invece, mi rendo conto di non avere le tracce Gps, quelle tra Arles e Montpellier. Non me ne preoccupo troppo, però, perché sono certo che troverò tutte le informazioni una volta in loco.
Ho invece molti più dubbi riguardo alla direzione da seguire dopo. Sara era scesa sulla costa, per poi raggiungere il Canal du Midi e seguire il suo corso fino a Béziers. Purtroppo, però, scopro che i prezzi in quelle zone sono molto più alti di quanto io possa permettermi, essendo tutte località molto turistiche. Nel pomeriggio vaglierò ogni soluzione e poi deciderò.
Approfittando di uno sprazzo di sole, vado a fare scorta al supermercato più vicino. Devo rifornirmi sia per i pasti di oggi che per la colazione di domani. Anzi, già che ci sono potrebbe essere utile comprare pane e affettati anche per il pranzo che farò lungo la via.
Oltre al cibo, devo pure comprare alcune cose indispensabili per la mia casa temporanea: carta igienica, detersivo per i piatti e relativa spugna. Almeno per la cucina, mi sarei anche potuto arrangiare, lo so, mangiando qualcosa di confezionato come al solito; ma visto che mancano solo quelle sciocchezze, preferisco spendere qualche euro in più e prepararmi un bel piatto caldo.
Camminare nelle corsie del grande negozio senza il peso dello zaino è stranissimo, non ci sono più abituato. Sono piccolezze, certo, ma risuonano dentro me come veri e propri cortocircuiti.
Di nuovo in campeggio, decido di approfittare del sole passeggero e stendermi a leggere sulla sdraio in giardino.
All’inizio ho qualche problema perchè il corpo scalpita, non sembra sopportare quel mio starmene lì spaparanzato. Poi, però, si arrende alle circostanze e finalmente riesco a rilassarmi un po’.
Il bel momento non dura molto, purtroppo. Nonostante la tanta luce, un fronte di nuvole cariche e scure comincia ad avanzare proprio dalla direzione verso cui avrei camminato oggi. In meno di un’ora arriva anche sulla mia testa e con le prime gocce mi convince a ripararmi in casa. Mentre guardo scatenarsi il temporale dalla veranda provo una velata malinconia. Conoscendomi, era prevedibile. Oggi va così.
Dopo pranzo, torno a studiare il percorso da dove ero rimasto.
Non è così semplice come si potrebbe immaginare, per lo meno se si ha un budget molto basso. Finisco col limitarmi a raccogliere più informazioni possibili.
Tengo conto di ogni opportunità d’alloggio: associazioni varie, campeggi, gîtes, Couchsurfing, AirBnB, Booking, non escludo nulla.
Di certo, rispetto ai primi 500 km italiani, è venuto molto meno un approccio basato sul puro affidamento alla sorte, a Dio o al cammino stesso.
Le complessità maggiori le conoscevo fin da quando ho deciso di partire: una è la mia pochissima padronanza della lingua, e l’altra l’impreparazione quasi totale sul sistema d’accoglienza turistica francese, inclusa quella pellegrina. Per questo ho iniziato fin da subito a organizzare ogni tappa con tutto l’anticipo possibile, dedicando molte ore delle mie giornate a questo impegno: durante certe pause, nel tardo pomeriggio o la sera, e spesso anche mentre cammino.
Quanto tempo passato su quello schermo da nemmeno 6 pollici, premendo migliaia di volte il suo vetro senza tasti per “muovermi” tra mappe, siti vari, traduttori automatici, caselle di posta elettronica e Whatsapp! Mentirei se dicessi il contrario, ma quel grandissimo dispendio di energie mi ha anche permesso di capire benissimo quanto sia grande la differenza tra l’esperienza del camminare e quella del navigare. È scontato? Oggigiorno non direi.
Ad ogni modo, le ho provate tutte per ridurre al minimo l’utilizzo dello smartphone, ma continua ad essere troppo. Ormai confesso di averlo un po’ accettato, soprattutto perché non ho trovato soluzioni migliori. So che la vera fede, il vero affidamento alla cosiddetta provvidenza passa per altre vie – quelle della rinuncia al controllo – ma non ancora saputo fare il grande salto.
Per rafforzarmi, ricordo anche a me stesso che questo non è un anno qualsiasi, e che nonostante ciò sto cavandomela comunque alla grande.
Già, succede proprio così, non lo nascondo: parlo da solo, dialogo con me stesso, lascio che la mia parte più debole dica la sua e che quella più tenace risponda, e poi medio un po’ tra le due. Può sembrare folle a qualcuno, ma la verità è che mi sta servendo parecchio.
Faccio lo stesso anche con il corpo e con le sue parti: le ginocchia, i piedi, le caviglie, le spalle,…
Quando ho dolori o fastidi in un punto particolare parte, cerco di immaginare cosa voglia comunicarmi: forse mi sta chiedendo di rallentare, di regalarmi una comodità in più, oppure mi provoca, ricordandomi che i desideri che mi hanno spinto a partire non si stanno realizzando.
Quello che provo a fare, a quel punto, è evitare innanzitutto di censurare quella voce, tentando invece di abbracciarla con affetto. Le spiego che non rinuncerò alla mia meta, ma farò il possibile per restare in ascolto e rispondere con azioni concrete, per quanto mi sarà possibile. Così facendo sto riuscendo spesso a calmare quell’istanza interiore, e in certi casi ho addirittura l’impressione che la parte del corpo dolorante arrivi a ristabilirsi del tutto.
Lo vivo come un gioco, non lo nascondo, ma sto iniziando a credere ogni giorno di più che sia una buona pratica. Sono messe in scena, ne sono convinto, ma penso comunque che abbiano contribuito realmente a sciogliere molte mie rigidità.
Tornando al tema del telefono e al desiderio irrealizzato di limitarne l’uso, la conclusione è la seguente: anche volendo essere il pellegrino perfetto, semplicemente non lo sono, e non devo torturarmi per questo. La cosa davvero importante è dare il mio meglio e arrivare fin dove posso, magari azzardando traguardi giusto un po’ più in là di quello che penso di poter raggiungere.
Un sogno audace non credo si realizzi calpestando le parti più deboli di sé in nome della propria volontà di forza. Posso farcela, ma un passo alla volta.
Partire da da quello che sono veramente e lavorare costantemente sul mio equilibrio interiore credo siano le migliori premesse per poter essere concreto ed efficace.
In ottica di fede, poi, un’altro ottimo presupposto è che non siamo mai soli nelle sfide che affrontiamo, e che siamo amati e sostenuti proprio a partire dalla nostra inevitabile imperfezione. Mi piacerebbe esserne sempre convinto, ma anche in questo caso ammetto la mia incostanza.
Questa è un po’ la pasta di certe mie riflessioni, appuntate poco su queste pagine, ma fondamentali fin qui per permettere a questo cammino solitario di prendere forma, anche attraverso difficoltà e debolezze.
Per la cronaca, il gran acquazzone se n’è andato e tornato varie volte, e sembra stia per scatenarsi di nuovo anche ora, mentre sto per addormentarmi. Tenendo conto che a Saint-Rémy sarei stato in tenda, direi che mi è andata bene.
Posso quindi brindare alla mia giornata con un bicchiere mezzo pieno e l’animo disteso.
Buonanotte, pellegrino.
(Mobilhome @ Camping la Durance)
36,5 km
Notte turbolenta e complicata: ha piovuto per ore e ha fatto pure un gran freddo. Degli insetti che non so nemmeno immaginare sfrecciavano in continuazione facendo rumore come fossero droni. Per di più la tenda non era tirata abbastanza e faceva un baccano terribile, sbattuta in continuazione dal vento. Come mio solito, piuttosto che uscire a sistemarla – e magari approfittarne per mettermi qualcosa in più addosso – sono rimasto nel sacco a pelo a lasciarmi tormentare.
Stremato, mi alzo poco prima che suoni la sveglia e torno nella stanza dove ieri ho cenato, stavolta per far colazione. Se fossi statopiù sfacciato, vista la nottata, avrei potuto portare lì materassino e sacco a pelo per dormire almeno qualche ora decentemente, ma gli accordi non erano quelli e ho preferito rispettarli. D’altronde non è un albergo, è casa loro, e comunque ormai è andata così. Faccio la mia colazione e torno fuori a smontare, con la solita soddisfazione di vedere sparire tutto nello zaino come nella borsa di Mary Poppins.
Me ne vado salutando la casa con la mano. Sono abbastanza convinto di aver svegliato Valdo e famiglia con tutto il rumore fatto, e mi piace pensare che mi stiano osservando dietro ai vetri scuri.
C’è ancora buio. L’arrivo della luce ritarda ogni giorno di più, a una velocità che prima di questa esperienza percepivo molto meno.
Riesco comunque a intravedere gli sterminati vigneti che stanno a fianco di questo quartiere residenziale. Sembra che dormano ancora tutti, perché non si nota nemmeno una luce accesa. Anche le vigne buie sembrano sbadigliare assonnate. Riesco a immaginare quanta uva squisita sia lì appesa a perdita d’occhio, nonostante i grappoli siano nascosti nell’ombra. Resto immobile qualche minuto a godermi il cielo che si colora di luce ogni secondo di più, appoggiato sull’orizzonte che è tutta un’onda nera di colline.
Durante la prima mezz’ora, per non rischiare di perdermi e riuscire a collegarmi quanto prima alla Via Domitia, devo buttare spesso l’occhio sullo smartphone.
Dopo una decina di minuti le vigne finiscono e il navigatore comincia a guidarmi tra periferie industriali e strade trafficate: è il prezzo prevedibile per chi lascia la rotta ufficiale. Appena tornato tra i campi, infatti, tornano presto ad apparire i segnavia del GR. Non passa molto, poi, e già mi ritrovo catapultato in un area boschiva, tra l’altro diversa da ogni altra io abbia mai visto. La terra è rossa, senza ostacoli; gli alberi sono bassissimi e lo spazio ai lati del sentiero è pieno di cespugli di ogni dimensione. Questo cocktail così apparentemente semplice mi scatena un entusiasmo tutto infantile: vivo la suggestione fantasiosa di trovarmi in una specie di giardino incantato, tanto che comincio letteralmente a correre come un bambino, senz’altro motivo che divertirmi.
Purtroppo mi scordo di scattare anche qualche fotografia, e me ne pento, perché ben presto lo strano bosco finisce e io mi ritrovo fuori quasi d’improvviso tra prati verdi. Davanti a me nient’altro che l’incrocio di un paio di strette strade asfaltate. Nel frattempo il cielo si è anche riempito di nuvole, e ora è diventato una massa bianca e piatta. Mi rendo conto di non aver visto l’alba, peccato.
La tappa di oggi, oltre ad essere tra le più lunghe percorse fin qui, sarà di certo la più piatta affrontata in Francia. La mappa dice anche che dovrò affrontare alcuni rettilinei interminabili. Sono curioso di scoprire come la vivrò e quanta fatica farò, perché ho il sospetto che la monotonia potrebbe farmi scaricare le batterie molto più alla svelta.
Continuando lungo una pista ciclabile a due corsie, arrivo a un grande ponte romano. Ha lo stesso fascino asciutto di quello visto a Mane qualche giorno fa, ma sembra molto più grande. Si chiama Pont Julien e passa sopra al fiume Calavon. Una volta attraversato, mi immetto su un’altra ciclabile asfaltata, talmente lunga e dritta da bucare l’orizzonte.
Corre a fianco di campi enormi, quasi esclusivamente vigneti. Per fortuna ho modo di lasciare spesso l’asfalto e scendere lungo i bordi terrosi dei campi, così da far riposare un po’ le piante dei piedi, massaggiate da quella leggera irregolarità.
Dopo qualche chilometro, scorgo alla mia sinistra una collina che pare stesa come un grandissimo arco, ai cui capi due piccoli borghi arroccati sembrano fronteggiarsi: i loro nomi sono Bonnieux e Lacoste. Chissà se storicamente le due piccole popolazioni fossero avversarie o alleate. Mi distraggo un po’ fantasticando su entrambe le possibilità, anche perché non c’è altro intorno che spezzi la monotonia di questo tratto, se non un incrocio stradale di quando in quando.
A un certo punto, iniziano a farsi più frequenti le ville di campagna, e da una di queste esca abbaiando una coppia di cani riccioluti di media taglia; sembrerebbero essere padre e figlio. Non sono per niente minacciosi e, rendendosene forse conto, si fanno d’un tratto molto docili e addirittura cominciano a trotterellarmi a fianco.
All’inizio la cosa mi strappa un sorriso e anche un certo piacere. Oggi più che mai un po’ di compagnia è davvero ben accetta.
Girano in continuazione intorno a me, come satelliti, sfiorandomi qualche volta ma senza mai interagire, se non con qualche rapido sguardo. Si dedicano a sondare con cura i bordi della strada che man mano percorriamo, a volte anticipandomi un poco, altre restandomi alle spalle fino a una decina di metri.
I minuti passano, e un paio di persone si fermano complimentandosi per i miei due amici. Io spiego a modo mio la verità, scambio due risate e poi proseguo. Man mano che ci allontaniamo, però, ho sempre più paura che finiscano per disorientarsi.
Dopo ben 7 km di rettilinei, di cui un paio passati coi miei due compagni pelosi, il percorso piega tutto verso le colline vicine.
Decido di fare qualche tentativo perché finalmente i due tornino sui propri passi. Uso goffamente il francese per dare loro l’ordine di rientrare, ma sembra inutile. Provo quindi a trovare qualcuno del posto a cui chiedere consiglio, ma non si vede anima viva, e attorno a me ora pare esserci solo una casa rurale.
Ha il cancello aperto, e all’interno c’è parcheggiato un furgone spalancato e pieno di attrezzi. Immaginando ci sia qualcuno nei paraggi, cerco di richiamare l’attenzione, ma ancora una volta senza esito. Scelgo di arrischiarmi all’interno della proprietà, ma me ne esco alla svelta prima di innescare situazioni ancora più assurde.
Purtroppo non mi resta che alzare la voce contro i cani, che finalmente si allontanano, molto tristi e confusi. Probabilmente la gita gli stava piacendo. Tra l’altro non riprendono nemmeno la via di casa, ma entrano proprio nel cortile da dove sono appena uscito, cominciando a gironzolare come se nulla fosse. Io approfitto per andarmene, ma resto un po’ preoccupato.
Poco dopo, ai piedi della collina scopro un altro caseggiato nascosto tra le piante. Le insegne fuori dicono sia un laboratorio di scultura. Scelgo di fare un ultimo tentativo a favore dei due animali e suono il campanello, restando sulla soglia del cancello aperto. D’un tratto spuntano tre piccoli cani che arrivano a fare il loro dovere con il forestiero di turno. Restano a un palmo dai miei piedi, ma abbaiandomi contro fino alla morte. Scelgo comunque di starmene immobile ad aspettare il proprietario, che grazie al cielo esce dopo qualche interminabile secondo. Gli spiego tutto e alla fine mi sorride, dicendosi fiducioso che i due amici riescano facilmente a tornare a casa. Con cortesia, accetta anche di riempirmi la borraccia. Mostra solo una certa perplessità sentendo che oggi voglio arrivare a Cavaillon. In effetti manca ancora parecchio e quello che per me ormai è diventato quotidiano, per altri resta una piccola follia.
Dopo la rocambolesca avventura, proseguo per un paio d’ore tra sentieri collinari e poi ancora piste ciclabili, raggiungendo infine il paese di Coustellet. La prima cosa che incontro è un supermercato, e non potevo chiedere di meglio visto che è ora di pranzo e io sono stracotto.
Mentre mangio in maniera indecente sul retro del negozio, tento di zittire la voce dentro me che sta borbottando quanta poca voglia avrebbe di ripartire.
Mi rialzo, incitandomi in qualche modo e rimettendomi con fatica lo zaino in spalla: sembra sempre più pesante dopo le pause, soprattutto in giornate calde come questa. Pazienza, passerà.Attraversando la cittadina per una strada secondaria, incontro almeno tre cantine di grandi dimensioni. Niente di eccezionale, ma almeno variano un po’ lo scenario di oggi. Sbuco poi presso un incrocio dove il viavai di auto e persone mi fa sentire per un attimo meno pellegrino, ma è questione di un paio di minuti, perché poche centinaia di metri dopo la rotta mi riporta ancora in mezzo ai campi.
Mi aspetta un altro interminabile rettilineo asfaltato, per fortuna almeno all’ombra di alti cipressi. Stavolta costeggio molte coltivazioni diverse, e per lo più cintate. Entro quasi in trance tanta è la monotonia, e mi riprendo solo ore dopo, presso un ponte sul Calavon. Tra l’altro, nel frattempo, il nome del fiume pare sia curiosamente mutato in Coulon, per motivi che non conosco. Strano.
Ad ogni modo, una volta attraversato sono già all’interno dei confini di Cavaillon.
Arrivare in una città a piedi nasconde sempre un tranello: si gioisce al cartello che ne segna l’inizio, ma ci si dimentica facilmente che spesso ci vogliono ancora vari chilometri per raggiungerne il centro. Per non parlare del fatto, poi, che se ne aggiungono immancabilmente altri ancora per arrivare al campeggio di turno, esattamente come nel mio caso oggi.
Ci vuole un po’, quindi, prima che io riesca a giungere davanti all’arco monumentale che fa da porta d’ingresso al centro storico, ma un passo alla volta supero anche quel traguardo. Senza dedicarmi a grandi visite, mi dirigo direttamente alla cattedrale locale per farmi timbrare la credenziale.
La città si sviluppa ai piedi di una collina rocciosa intitolata a San Giacomo. Lì sembra siano stati fondati i primi antichissimi insediamenti, ampliatisi poi nel corso di intere epoche storiche, ciascuna delle quali ha lasciato una propria traccia.
Vengo a sapere queste cose da padre Gianmarco, un religioso italiano che incontro appena entrato nella chiesa – che tra l’altro trovo invasa da ponteggi, dentro e fuori.
Mi spiega che la stanno ristrutturando per celebrare la canonizzazione di un santo che nacque in città e che fondò la congregazione di cui lui fa parte.
Chiacchieriamo molto piacevolmente per una buona mezz’ora. Mi parla del suo ministero e del rapporto del popolo francese con la religione cristiana, almeno secondo la sua esperienza. Mi regala anche lo spezzatino che è avanzato loro a pranzo. Sono almeno tre porzioni: fingo siano troppe, ma alla fine “cedo” alla sua insistenza.
Passeggiamo poi fino a una piazza dove si erge un altro grande arco, di origine romana e ben più antico del precedente: risale addirittura a duemila anni fa.
Lì ci salutiamo e io mi incammino finalmente verso il campeggio, rinunciando a prolungare la visita al resto della città. L’unica cosa che mi dispiace è non essere salito in cima alla collina che sembra fare da paravento a Cavaillon. Anticamente, il santo patrono visse lassù il suo eremitaggio e la cosa è testimoniata da una cappelletta che un po’ mi intrigava, perchè intitolata a San Giacomo. La verità, però, è che ero attirato soprattutto dalla vista panoramica di cui avrei goduto; probabilmente un retaggio masochistico della prima settimana su e giù per i monti delle Alte alpi. Ad ogni buon conto, sono troppo stanco e ci rinuncio abbastanza facilmente.
Durante gli ultimi due stramaledetti chilometri, in corrispondenza di un grande incrocio di strade, mi imbatto nella scultura più buffa che abbia mai visto e, confesso, rimango anche un po’ perplesso: rappresenta un melone gigante di pietra.
Conosco la fama di Cavaillon e di questi suoi frutti unici al mondo, ma tra me e me penso ci sarebbero stati modi migliori per celebrarlo. A quanto pare, quindi, anche in Francia si può insidiare lo spettro del kitsch, anche se tutto sommato in questo caso il risultato fa anche simpatia.
Il campeggio – pochi minuti più avanti – prende il nome della Durance, che gli scorre di fronte. Domani la saluterò definitivamente nel buio della partenza. Chissà se camminerò ancora seguendo per così lungo tempo uno stesso fiume. Magari proprio il Rodano, dove la Durance stessa affluisce poco lontano da qui, vicino ad Avignone.
Perso in questi pensieri, sbrigo in maniera distratta le pratiche di accettazione, ma d’un tratto la recptionist mi fa un’offerta pazzesca e totalmente inaspettata: al prezzo di una semplice piazzola, mi viene proposta una mobilhome da ben cinque posti, tutta per me, cucina inclusa! Praticamente una casa vera e propria, con la sua bella veranda e pure il giardino con la siepe. Ma chi l’ha mai avuta una casa così! Ovviamente accetto, grato e incredulo.
Una volta dentro, poi, la esploro in ogni angolo, mi faccio una doccia come si deve e infine mi godo un meritato riposo, scegliendo ovviamente il letto matrimoniale tra i quattro che ho a disposizione.
In realtà, più che riposare mi metto davanti allo smartphone cercando di capire cosa mi aspetterà domani. Realizzo così che la prossima meta è Saint-Rémy-de-Provence, ed è la penultima prima di Arles. Questo significa che fra due giorni avrò raggiunto un altro enorme traguardo: portare a termine anche la Via Domitia. Wow!
Vorrà dire anche che avrò percorso oltre 900 km a piedi, e…senza mai un solo giorno di riposo. Solo ora me ne rendo davvero conto.
Mi viene un’idea, ma do prima un’occhiata alle previsioni, scoprendo che domani pioverà a dirotto tutta la giornata. Non ho bisogno d’altro, è deciso: la pioggia la guarderò dalle finestre della mia casa-mobile. Domani sarà ufficialmente il mio primo giorno senza macinare chilometri!
Purtroppo però è tardi, e la reception è già chiusa. Spero che avvisarli domani mattina non sarà problemi. Alla peggio, tornerò in cammino. L’unico inghippo è che l’orario di apertura dell’ufficio è fissato alle 9. Se per caso dovessi sloggiare, vorrebbe dire partire tardissimo.
Beh, pazienza, sarà quel che sarà. D’altronde non ho poi molta scelta.
(Camping @ casa di Valdo, con AirBnB)
27 km
Le amiche cicliste si svegliano presto quanto me, così ho la felice opportunità di salutarle prima che affrontino il loro ultimo giorno di viaggio. Pur avendo passato poco tempo assieme, sono state una simpaticissima compagnia.
Vivo l’uscita da Céreste immerso in una luce magica, che mi fa intenerire un po’ mentre mi lascio alle spalle questo paesino forse non così speciale, ma di cui conserverò un ottimo ricordo.
Dopo una ventina di minuti, lascio la strada asfaltata e inizio a costeggiare alcuni campi di lavanda, sempre con il rammarico di non poterli veder fioriti e con la promessa a me stesso di tornarci almeno una volta nella vita.
Qualcosa però va storto, e finisco in un viottolo a fondo chiuso, dove perlomeno posso godermi una gran bella vista sulla vallata successiva, quella che dovrò raggiungere. La svolta nei campi era sul programma, ma l’ho anticipata di una decina di metri. Ad ogni modo, in pochi minuti torno sulla direzione giusta.
A valle attraverso altri campi di lavanda, stavolta grandissimi, con quei cespugli bassi e paffuti tutti in perfetto ordine. Fa eccezione una bassa collinetta piena di zucche, grosse e arancioni, quante non ne ho mai viste prima.
Non mancano nemmeno i vigneti, compagnia che sta diventando sempre più frequente. Anzi, nel giro di poco tempo mi ritrovo circondato da vigne a perdita d’occhio! Mi torna in mente che Bernard, il marito di Domi a Forcalquier, mi aveva avvisato che sarei rimasto stupefatto, e a quanto pare ci ha azzeccato perfettamente.
Ovunque, viti cariche di grappoli maturi e invitanti: una tentazione alla quale cedo inizialmente con misura, perdendola però in pochissimo tempo.
Assaggio uve diverse, ma senza sapere nulla sulle varietà del posto, così scelgo di mandare un messaggio vocale a un’amica sommelier a Bergamo. La sua risposta entusiasta mi aiuta a rendermi meglio conto di dove mi trovo. Con entusiasmo, mi risponde che sono nel bel mezzo del Luberon. Qua e là avevo già letto questo nome durante gli ultimi giorni, ma sto facendo un po’ fatica a distinguere tra i confini amministrativi e quelli che delimitano le zone vitivinicole, come in questo caso.
D’altronde, prima di partire non ho studiato nessun territorio che avrei attraversato, perchè ho fatto le cose particolarmente di fretta. Un po’ me ne dispiaccio, ma tutto sommato quello che volevo era vivere un vero e proprio tuffo, e direi che da questo punto di vista sta andando alla grande così.
Rimanendo in tema di approfondimenti geografici, concludo la mia traversata nel dipartimento delle Alpi dell’Alta Provenza ed entro in quello del Vaucluse.
Mi affretto quindi a scrivere un messaggio whatsapp al nuovo referente di zona della solita rete di supporto ai pellegrini verso Santiago, sperando di trovare alloggi disponibili per i prossimi giorni. La risposta non arriverà mai, se non ancora dal buon Marc, il referente del dipartimento precedente, che tanto mi aveva aiutato. Mi avvisa che la persona che cerco ha ricevuto il messaggio, ma sta percorrendo la via del Piemonte Pirenaico, proprio quella che seguirò nella seconda parte di Francia. A quanto pare, questo fa sì che non sia disponibile per aiutarmi e dovrò accontentarmi di una lista di strutture ricettive tradizionali, che tra l’altro già avevo.
Decido comunque di scrivere di nuovo al responsabile di zona per comunicargli con entusiasmo che anch’io percorrerò quel lungo tratto e, se vorrà condividere qualche informazione utile, ne sarei molto felice.
Purtroppo non mi risponderà neanche stavolta, nemmeno con un augurio di buon cammino, aggiungendosi così al bacino di piccole dissonanze che sta macchiando un po’ qua e là questa avventura in terra francese. Tento di prenderla con filosofia, ripetendomi che la maleducazione non è una questione di nazionalità.
Il confine del dipartimento corrisponde in parte anche con un tratto del fiume Cavalon, che attraversa tutta questa grande vallata, e che incrocerò diverse volte fino alla città, quasi omonima, di Cavaillon, al termine di questo prestigioso territorio.
Lungo il tragitto mi imbatto in un poverissimo cartello di legno che mi colpisce per la gran conchiglia bianca avvitata sopra. È un segno inequivocabile, infatti sotto sta scritto “Santiago” bello in grande. Più in basso c’è anche l’indicazione “mini accueil pelerins – café donativo”, e infine una freccia che indica la fattoria di fianco. Quelle poche parole sono sufficienti a evocare una terra lontana, oltre i Pirenei, ma evidentemente qualche traccia è già qui ad aspettare pazzi come me. Mi scappano un sospiro e un sorriso. Quanta strada ancora da fare, e quanta già percorsa. Sono felice, libero e fiero di me.
Provo a bussare, ma trovo la porta chiusa. Non fa nulla: il solo cartello mi ha già regalato gioia e vigore, ma visto che a cuor contento il ciel l’aiuta, ecco arrivare in auto proprio ora la padrona di casa! Caffè per oggi non ce n’è, mi spiega, ma mi regala comunque un bel grappolo d’uva. La accetto, ma poco dopo il mio stomaco alza bandiera bianca: per oggi davvero non ne posso mangiare un acino in più!
Il tempo è sereno e la fatica si fa sentire. Un bivio mi obbliga a scegliere tra una comoda strada rettilinea e una salita verso l’ennesimo borgo, Saignon. Cedo al nuovo amore nato per il Luberon e salgo a dare un’occhiata.
Probabilmente indebolito anche dal caldo, arrivo in cima totalmente scoppiato, ma rimango letteralmente a bocca aperta per la bellezza del luogo. Dopo ore di campagna, mi trovo ora in una piazzetta splendida con un’elegante fontana centrale. Tutt’intorno, poi, edifici in pietra impreziositi da sipari di edera e deliziose persiane color pastello.
Quest’ultimo dettaglio lo sto notando fin da quando sono entrato in Francia: gli abbinamenti tra i colori delle facciate e quelli degli infissi sono spesso molto originali e mai pacchiani. In bergamasca, al contrario, si sta addirittura imponendo sempre più il gusto per il bianco abbinato al nero: un’accoppiata stridente con qualsiasi tavolozza la natura regali. Da anni mi chiedo perché si autorizzi questo scempio.
Tornando a Saignon, incrocio lo sguardo di una coppia di mezza età seduta fuori dal bar con il loro aperitivo. Mi guardano sorpresi e sorridenti, e capisco al volo perché: ho ancora la bocca aperta per la bellezza della piazza, gli occhi spalancati, il fiatone e un grande zaino con una conchiglia attaccata. Sono un uomo felice, e la felicità è contagiosa. Così sfodero il mio miglior francese per dire anche a loro quanto sono sorpreso e contento.
I due sorridono ancora di più e brindano alla mia.
L’unica nota stonata è che sulla fontana trovo ancora una volta l’indicazione di acqua non potabile, così entro al bar e chiedo il favore di riempirmi la borraccia. Sorprendentemente, scopro che hanno sentito quello che ho detto ai due clienti e così, oltre all’acqua mi regalano anche un croissant fresco di giornata. Sono gioie non da poco, e grandi lezioni. Spero mi rimangano impresse.
Senza sentir più la fatica, comincio a esplorare le vie attorno. In quel fazzoletto di mondo tutto sembra essere quasi perfetto. Arrivo alla piazza della chiesa – chiusa, purtroppo – dopodiché mi lascio guidare da cartelli che indicano diversi siti significativi all’interno del borgo. Mi chiedo come sia possibile che un paese così piccolo contenga tanti luoghi d’interesse.
Mi viene in mente quello che ho sentito nei peggiori discorsi da bar della mia vita: il fatto che i francesi facciano sembrare ogni rudere un’attrazione imperdibile. Il punto, però, è che qui non ci sono solo pietre anonime con una didascalia a fianco. Non funziona così, la realtà è tutt’altra: qui io sto trovando pezzi splendidi di storia perfettamente incastonati nel territorio in cui si trovano, curati in modo superbo e valorizzati a pieno, inseriti in una rete inappuntabile di attrattive turistiche di ogni genere, naturali, sportive, culturali e gastronomiche.
Forse mi sbaglierò, trascinato come sono dall’entusiasmo, ma a me pare che questi nostri “cugini” ci sappiano davvero fare.
Punta di diamante di questo pregiato paesino è uno dei luoghi più sorprendenti che abbia mai visto. Si tratta di uno sperone di roccia dalla forma davvero insolita: a spanne è alto una decina di metri, lungo più del doppio e largo cinque. La roccia è composta da tanti strati orizzontali che lo fanno sembrare un enorme millefoglie.
Una volta avvicinatomi, ne noto la sinuosità, e scopro la presenza di una scalinata che gli sale a fianco, scavata nella stessa pietra in chissà quale epoca. La salgo, emozionatissimo anche dal fatto che non c’è nessuna vera balaustra, ma solo un muretto molto basso che non proteggerebbe nemmeno un bambino.
Arrivato in cima, scopro che la parte superiore è quasi piana, spoglia, se non per qualche arbusto e un alberello. Anche qui resto sorpreso non ci sia quasi nessuna protezione sul perimetro, né antica né moderna, nemmeno l’ombra di una messa in sicurezza. Però mi rendo conto che quella nudità contribuisce a rendere unico quel luogo, amplificando la sua natura primitiva, fuori dal tempo.
Da lì posso godere di una vista panoramica su buona parte della vallata percorsa oggi e di quella che ancora mi aspetta.
Mi godo il momento per qualche minuto, poi scendo, lasciando il borgo e tornando a calcare la Via Domitia, fino a raggiungere Apt, che sta proprio in mezzo al Luberon. Pur con un centro storico affascinante, stavolta non resto incantato. Secondo la guida, solitamente questa è una meta di tappa, ma ho trovato una soluzione più conveniente in un paesino poco distante, utilizzando AirBnB.
Là, però, difficilmente avrò la possibilità di farmi timbrare la credenziale, così scelgo di farlo qui. Stranamente, l’ufficio del turismo è totalmente fuori dal centro, ma per fortuna rimane almeno lungo il mio itinerario.
Con mia gran sorpresa e piacere, ritrovo dietro al banco la signora Delphine, la stessa gentilissima operatrice di Céreste, che a quanto pare lavora da entrambe le parti e che entra direttamente nella brevissima lista di persone che fin qui ho rivisto nell’arco di giorni diversi.
Lasciata Apt, abbandono ancora anche la via segnalata perché è l’unico modo che ho per raggiungere Gargas, il paese dove abita Valdo, il mio ospite.
Il posto non è proprio dietro l’angolo, ma al mio arrivo vengo accolto con un gran sorriso, disponibilità e simpatia. La particolarità di questa mia prenotazione è che non avrò una stanza, ma semplicemente la possibilità di piantare la tenda in giardino. La doccia, tra l’altro, sta anch’essa fuori: è una di quelle solari per campeggiatori. Non è il massimo e ringrazio il cielo che non piova, ma perlomeno è l’ennesima esperienza originale che avrò da raccontare.
La piastra dove cucinare, invece, si trova in una specie di lavanderia trasformata in locale multifunzionale dedicato agli ospiti, con accesso indipendente.
Per cena scaldo un piatto pronto un po’ azzardato, con fagioli e carne d’oca. Ho scelto la marca più costosa e, in effetti, riesce a farmi illudere per qualche istante di star mangiando qualcosa di fresco.
Valdo mi viene a salutare, avvisandomi che lui e la sua famiglia stanno per uscire a cena. Con tutta probabilità e mio dispiacere non li vedrò più, perché io andrò a letto presto come al solito e domani partirò quando loro ancora dormiranno. Così non ci resta che salutarci e augurarci il meglio.
Mentre studio le tappe a venire, noto che appeso ad una parete c’è incorniciato un bellissimo proverbio:
Lo spazio di una vita è lo stesso,
che tu lo passi cantando o piangendo.
Resto qualche minuto a riflettere su questa piccola grande perla. Ne ho scoperte davvero tante fin qui, potrei fare un libretto solo con quelle.
Mi rendo conto di essere sereno e stanchissimo: la condizione migliore per andare a dormire; così spengo tutto, chiudo la lavanderia e vado in tenda, sperando tanto di riuscire a riposare decentemente.
(Gîte communal)
32,5 km
Sveglia mattiniera come al solito. Domi mi prepara un’ottima colazione e sceglie di accompagnarmi in auto lá dove la Via Domitia esce da Forcalquier. Una volta che lei è ripartita verso casa, resto solo di fronte a un campo coperto da una nebbia sottile, mentre ancora il buio la fa da padrone.
Il primo paese che attraverso è Mane. Sembra come al solito che sia abbandonato, ma la calda luce dei lampioni a lanterna lo rende magico. Uscito dall’abitato, in mezzo ai campi, mi posso godere un’alba magnifica. A farmi compagnia la curiosa presenza di due mongolfiere, lì a mezz’aria. Che spettacolo dev’essere da lassù!
Dal lato opposto, poco lontano, un bell’edificio simile a un piccolo castello si colora di rosa. Passandoci vicino, poi, scopro che è un “museo dei giardini”. Proprio così! Si chiama Salagon e nei suoi cortili vengono coltivati giardini ispirati a questo territorio. Alcuni nascono da studi su epoche differenti, altri sono più incentrati sulle erbe aromatiche. Ovviamente è chiuso, e queste sono informazioni che leggo su qualche cartello informativo e sul web.
Proseguendo poi per qualche centinaio di metri, fantastico su come possa essere vivere da queste parti. È un gioco che mi diverte e insaporisce il mio cammino molto spesso.
Superato un affascinante ponte romano dalle geometrie essenziali, incontro una grande quercia. Ieri Domi mi aveva avvisato che lungo il percorso ne avrei trovata una di cui lei è innamorata e dove ama portare i bambini che segue. Come silvo-terapeuta, infatti, lei offre aiuto e sostegno stimolando una benefica relazione con gli alberi – nello stesso modo in cui si fa anche con l’arte, i cavalli o la musica.
Dopo qualche fotografia, proseguo per la mia strada, anche se con uno strano presentimento: una vocina di dentro mi fa venire il sospetto che non fosse quella la pianta. È un’intuizione simile a quella avuta ieri mattina prima di accendere la luce, quando ero ancora a letto e già pareva sentissi la presenza del grosso ragno accanto a me. Ultimamente sto sto vivendo episodi che sfiorano quasi la premonizione. È una cosa stranissima.
Cammino in mezzo a paesaggi campestri stupendi, fino a che incontro un’altra quercia, stavolta davvero gigantesca. Ci avevo azzeccato: è sicuramente questa, e non l’altra, quella di cui Domi mi ha parlato. Ha un’ampiezza praticamente doppia rispetto alla precedente e si trova in una radura perfettamente curata.
Viene quasi naturale immaginare un piccolo gruppo di bambini col naso all’insù e la bocca aperta. Con la fantasia riesco a vedere anche Domi: sorridente, guida ciascuno nell’incontro col grande albero, ma soprattutto con una parte di sé stessi. Resto incantato per lunghi minuti, tra quello che vedono i miei occhi e quello che mi passa per la testa. L’amico sole sembra voler partecipare, attirare l’attenzione, e mi stuzzica giocando a nascondino tra i lunghissimi rami.
Rifletto sul fatto che nella vita molte cose o persone del tutto anonime finiscono inaspettatamente col regalare qualcosa di unico e inestimabile, ma una cosa fa sempre la differenza: fermarsi a incontrarle. E così faccio, dedicando tempo a questo luogo senza nome, a questo albero che non troverò mai su nessuna guida, a questo sole che fino a un mese fa mi sembrava la cosa più banale del mondo.
Ora però avanti tutta verso il secondo borgo che mi aspetta oggi, uno tra i tanti che costellano questo territorio tanto famoso.
Ci arrivo un’ora dopo: si chiama Saint-Michel-l’Observatoire. Sta in cima ad una bassa collina, e nel punto più alto c’è una chiesa con un campanile a punta.
Mi godo la grazia composta e ariosa di questo luogo, mentre spezzo la mattinata con un caffè. Proseguendo poi di nuovo tra colline e campi, mi rendo conto che ginocchio e caviglia non mi stanno dando più nessun fastidio. Mi sento fortunatissimo per questo, e avere con me la ginocchiera mi dá enorme sicurezza. Non mi sono mai sentito così sicuro del mio corpo. In questo momento ne sono certo: riuscirò ad arrivare fino in fondo!
Mi imbatto in una citazione scritta a pennarello su un foglio e affissa in qualche modo ad un albero qualsiasi:
Sarai amato il giorno in cui potrai mostrare la tua debolezza
senza che l’altro se ne accorga per affermare la propria forza.
È bellissimo che una persona abbia scelto di metter lì quel messaggio, regalarlo a chiunque passi. Da lì parte un sentiero che sale verso il piccolo borgo di Lincel, e che poi torna a scendere immediatamente dopo. Mi domando se valga la pena, perché pare un’escursione un po’ fine a sé stessa, ma alla fine decido di fidarmi.
Imboccandolo, noto subito un’infilata di rovi pieni zeppi di more mature. Ne sto incontrando da giorni, ma mai così abbondanti. Non resisto e decido di testare i miei limiti: ne mangio letteralmente a manciate! Mi dico: “Se non starai male questa volta, Robi, puoi davvero fare i complimenti al tuo stomaco”.
Con la pancia ben piena ricomincio a salire, ma degli arbusti incredibilmente coriacei invadono il sentiero e rendono impossibile l’uso dei miei bastoncini da trekking. Stupidamente insisto, finendo però con l’inciampare in uno dei due, incastratosi tra i lunghi e tenaci aghi verdi. La scocciatura raddoppia quando mi accorgo che col mio peso ne ho anche curvato leggermente l’ultimo braccio, e ora vibra stranamente ogni volta che colpisco terra.
Si fa fatica a comprendere quanto tenga a questi accessori: innanzitutto perché sono leggerissimi, ma anche perché li comprai per due lire in un negozio dell’usato in cui non avevano idea della loro qualità. Mi sono stati fedeli per centinaia di chilometri e non sopporto di averli rovinati in un modo così banale. In ogni caso, me ne faccio inevitabilmente una ragione e proseguo, tra fastidiose vibrazioni e la mia arrabbiatura. Sbollirò camminando.
Dopo il guaio con i bastoncini, speravo più di ogni altra cosa che questa salita orribilmente faticosa mi avrebbe ripagato con qualche bellezza particolare, ma purtroppo Lincel delude le aspettative. Forse la chiesa dedicata a Maria Maddalena contiene qualcosa di preziosissimo, ma ancora una volta la trovo chiusa e non posso scoprirlo.
Dopo aver superato un’altra collina e alcuni campi sotto il sole cocente, scorgo da lontano Reillanne, un borgo che ricorda un po’ Saint-Michel-l’Observatoire per la sua posizione e il suo profilo. Ci arrivo con il bisogno impellente di fare almeno uno spuntino. Nella grande piazza l’ultima bancarella di frutta e verdura sta per andarsene. Chiedo se sia possibile fare ancora un acquisto. Mi dicono di no ma, molto generosamente, mi regalano un’arancia. L’istante successivo, un signore alla fontana mi dà anche una dritta su dove trovare dei bei grappoloni di uva bianca qualche via più in basso.
Ringrazio, stupendomi di quella splendida e generosa espansività. Con l’acquolina in bocca, mi metto subito alla ricerca delle vigne. Le trovo con non poche difficoltà, ma aveva proprio ragione: gli acini sono grandissimi e succosi, una manna dal cielo in una giornata assolata come questa.
Dopo l’abbuffata non sono meno stanco ma, forse per tutti gli zuccheri ingurgitati, mi metto in testa di salire fino in cima al paese, dove c’è una chiesina con un gran sagrato. La trovo chiusa come al solito, ma almeno posso godere di un panorama a 360°. Chissà che incanto tutto quest’area durante il periodo di fioritura della lavanda o al tramonto, o magari anche con la neve. Dev’essere sicuramente uno spettacolo impagabile!
Lascio anche Reillane e proseguo, perchè le gambe reggono e perchè ho trovato disponibilità presso l’ostello comunale del borgo successivo: Céreste.
Prima di raggiungere la meta, distante ancora una decina di chilometri, mi imbatto in alcuni ruderi di antiche costruzioni, affiancati ad una chiesa rimasta apparentemente intatta. Tutto sembra stranamente in stato di abbandono, ed è insolito, perché fin qui in Francia ho visto dedicata moltissima cura anche a siti ben più comuni.
Un’insegna invita i visitatori a contribuire con donazioni per il restauro, mentre una tavola informativa dice che si chiama Prieuré-de-Carluc, e che si tratta di un luogo di culto particolarmente antico. Sembra abbia cambiato volto varie volte durante i secoli, e che la Rivoluzione gli abbia dato il colpo di grazia, perché dopo allora non ha più ripreso la sua funzione.
Anche se in rovina, il luogo resta molto affascinante, e capace comunque di arricchire sia il territorio che il mio cammino. Anzi, forse ritrovare qualcosa di meno perfetto del solito mi ci voleva.
Arrivato a Céreste, mi reco all’ufficio del turismo per farmi timbrare la credenziale ed essere accompagnato alla gîte communal.
Così come tante altre persone incontrate oggi, anche questa impiegata è davvero molto gentile. Non siamo poi troppo lontani dal Mar Mediterraneo; chissà che non sia il suo influsso ad addolcire gli animi della gente di qui.
L’ostello è essenziale ma spazioso, ed è anche completo di cucina, cosa non frequente in questo mio viaggio. Dopo essermi sistemato, arrivano anche due cicliste francesi che stanno concludendo il proprio piccolo viaggio nel sud del Paese: Sandra e Severine. Non sono passate dall’ufficio, e le avviso che ormai è chiuso. Senza troppi problemi, loro portano comunque dentro bici e bagagli perché nel frattempo ha iniziato a piovere. Passo loro il numero di telefono che mi è stato consegnato per le emergenze e, con quello, riescono ad ottenere l’autorizzazione a rimanere per la notte. Si sistemano nella mia stessa camerata, dove tiro una corda tra alcuni letti, così che tutti possiamo stendere le nostre cose ad asciugare. Sembrano apprezzare molto le mie premure, e anche a me fa un gran piacere essere d’aiuto: parlando poco e male, è un modo efficace per mettersi in relazione, che per me è sempre una cosa fondamentale.
Per la cena, io ho già comprato tutto l’occorrente per cucinare, mentre loro preferiscono uscire e mangiare in un bistrot. Durante la serata, però, mentre le ultime luci del giorno lasciano spazio al buio, anch’io mi regalo una passeggiata in paese, scoprendolo inaspettatamente suggestivo. Mi rendo anche conto che è la prima volta che riesco a visitare in questo orario il luogo in cui sono arrivato.
Ritornato all’alloggio, faccio conoscenza anche un altro ospite: un illustratore parigino. È occupato per una settimana con un gruppo di bambini del paese, con i quali sta conducendo un laboratorio. Mentre ci scambio quattro chiacchiere interessanti, sopraggiungono poi altre due persone, e infine rientrano anche le amiche cicliste. Non sono più abituato a stare con così tanta gente, ma c’è un bel clima. Mi godo la compagnia per una decina di minuti e poi, come al solito, vado a dormire presto. La tappa è stata lunga, ma i piacevoli incontri e la bellezza della Provenza hanno già rinvigorito anima e corpo.
(da Dominique e Bernard)
25 km
Mi sveglio nella mia cella, intontito e con un insolito presentimento, come se la giornata mi stesse aspettando con qualcosa di estraneo. In realtà non c’è niente di nuovo: da quando sono in cammino, ogni notte sembra sempre portar con sé qualche strana inquietudine. La spinta e il gusto di mettersi in marcia ogni mattina mi permettono di scrollarmi di dosso quasi tutto con una certa facilità.
Questa volta, però, quando accendo la luce sobbalzo dallo spavento: sulla parete di fianco al letto, a un palmo dalla mia faccia, c’è un ragno gigantesco! Per fortuna è lì immobile, così ho meno problemi ad alzarmi, prendere un foglio e farcelo salire per “accompagnarlo” gentilmente fuori dalla porta. Non è stato certo il modo migliore per iniziare la giornata, ma perlomeno la strizza mi ha svegliato per bene, mettiamola così.
Mentre ancora c’è buio e piuttosto freddo, mi dirigo verso il refettorio a fare colazione. Sono da solo e fuori orario, ma ho ricevuto il permesso ieri.
Prima di partire, quando ormai l’aurora ha preso il posto della notte, mi regalo qualche minuto di contemplazione sulla valle che comincia ad animarsi. La Durance scorre silenziosa tra i tantissimi appezzamenti rettangolari. Sembra un nastro scuro in mezzo a tanti fazzoletti. Il cammino mi farà lasciare ancora – per qualche tappa – questo fiume ormai amico. Guardando la cartina, scopro che lo rivedrò un’ultima volta presso Cavaillon, fra qualche giorno, e poi non più.
Di per sé la cosa non mi tocca, se non simbolicamente. Questo fiume mi ha accompagnato per moltissimi chilometri qui in Francia – o sono io che l’ho seguito? Lasciarmelo alle spalle dopo così tanto tempo mi aiuta a capire meglio la portata del mio procedere. Se poi penso che oggi si concluderà il mio primo mese di viaggio, beh, l’emozione si fa sentire e la consapevolezza fa un limpido passo avanti.
Gambe in spalla, ora! Scendo dall’altopiano dell’abbazia tagliando un buon numero di tornanti fino a valle. Salgo poi la collina opposta, quella che avevo visto ieri sera dal bosco, e proprio seguendo la strada tutta curve che tanto mi aveva affascinato.
La camminata lungo il pendio è incredibile, con un’alba tra le più belle mai vissute, infuocata!
Successivamente incontro boschi incantevoli, tra muschi verdissimi, cortecce grigie e muretti a secco.
In una decina di chilometri ho già attraversato due ambienti naturali totalmente diversi ed entrambi stupendi. Ma non è finita, perché questo tratto da sogno mi sta accompagnando a Lurs, un borgo fondato addirittura da Carlo Magno per i vescovi di Sisteron.
Poco prima di arrivarci, camminando su un largo crinale, incontro la piccola cappella di Notre-Dame-de-vie. Tra i tanti appellativi dedicati a Maria, questo mi suona nuovo e particolarmente seducente; potrebbe forse essere diversamente per un pellegrino? Anche la costruzione stessa, pur semplice e minuta, ha il suo fascino: sembra un piccolo tempio. È posta in alto e regala una splendida vista delle due valli sottostanti, oltre che della stessa Lurs, ormai vicinissima.
Anche il tratto tra la chiesetta e il borgo si distingue per la sua originalità. Viene chiamato “la passeggiata dei vescovi”. Da un lato si trova una suggestiva parata di quindici edicole medievali, poste ciascuna su una colonna; dall’altro c’è un muretto a secco che fa da balaustra sulla grande vallata sottostante, con la presenza di alcuni terrazzi veri e propri di forma semicircolare. A parole è un po’ macchinoso da spiegare, ma trovarsi lì regala un senso di bellezza, storia e armonia incredibili, pur nell’umile semplicità di ogni elemento.
L’arrivo a Lurs corona queste prime due ore di cammino, che da sole meriterebbero una visita fin qui.
Le costruzioni sono evidentemente restaurate, ma con grande sobrietà e raffinatezza. Non mancano piante e fiori, sempre capaci di impreziosire ogni luogo. C’è una chiesa romanica che mi piacerebbe visitare, ma ancora una volta trovo una porta chiusa ad aspettarmi. Se la Francia fin qui mi ha già regalato assaggi straordinari della sua bellezza, è anche vero che quest’annata mi ha precluso la visita a tantissimi luoghi speciali. Pazienza.
Lungo la breve via centrale mi imbatto anche in un piccolo anfiteatro di pietra all’aperto, coronato da cipressi. Arricchisce straordinariamente il borgo, ma scopro sul web che la sua costruzione non è per nulla antica, infatti risale solo a qualche decennio fa. Anche in questo caso, non posso che togliermi il cappello davanti alla magnifica abilità di valorizzazione di questi territori.
Concludo questo breve ma memorabile passaggio sostando un po’ in piazza. A impreziosirla, una torre dell’orologio del tutto simile a quella di Sisteron e una grande terrazza in pietra che regala l’ennesima vista mozzafiato.
Con la gioia nel cuore per quanto già visto oggi, comincio la discesa, ritrovandomi ben presto ad attraversare campi arsi dal sole, con pochissimo riparo. Nonostante ciò, camminare su e giù per queste colline rimane un’esperienza piacevolissima.
Dopo circa un’ora, incontro una coppia di turisti francesi in vacanza. Parlano inglese e ne approfitto per scambiare due chiacchiere. Essendo molto gioviali, scelgo di accompagnarli a Pierrerue, un paesello arroccato fuori dal mio tragitto, ma che sembra l’unico luogo nelle vicinanze dove potrei trovare un negozio o un bar. Lungo la salita me li lascio alle spalle, scusandomene più cordialmente possibile. Purtroppo sono molto lenti e la cosa mi affatica enormemente.
Una volta in cima, mi perdo un po’ tra le viuzze ma non trovo nessun negozio aperto. Come spesso capita, purtroppo, il piccolo abitato sembra deserto. Riesco però a cogliere in fallo una signora uscita per sbattere la scopa e le spiego che sono solo un pellegrino in cerca di un caffè, e magari anche di un frutto. Mi indica la strada per un bistrot dietro l’angolo, anche se per un attimo mi ero illuso me li offrisse lei. Ingenuo me! Sfortuna poi vuole che sia il giorno di riposo del bistrot, così alla fine mi tocca tornare mestamente sui miei passi senza bottino. All’uscita del paese, però, mi imbatto fortuitamente in una pianta di fichi con qualche frutto superstite, e ringrazio il cielo per aver avuto pietà di questo viandante affamato.
Tornato a costeggiare i campi aridi, faccio conoscenza delle chiocciole che infestano questo territorio. Sono piccole, bianche e sono veramente ovunque! Si arrampicano fino in cima a ogni singolo stelo d’erba, ai pali dei cartelli, e chi più ne ha più ne metta. Non sono riuscito a trovare informazioni a riguardo, ma suppongo siano un problema grave per queste terre, nonostante alla vista siano piuttosto graziose.
A pochi chilometri dall’arrivo, prendo una decisione importante che stavo maturando da qualche giorno. Grazie al cielo la caviglia sembra ormai a posto, e voglio provare a concludere la tappa senza la fascia elastica che stavo usando per sostenerla.
La scelta veramente importante, però, è un’altra: tentare di tornare a camminare senza più la ginocchiera. La porto ormai da tre settimane e ho macinato circa 500 km da Mortara a qui. Nonostante i duri dislivelli delle Alte Alpi, non ho più avuto nessun tipo di problema, se non quello di dover rammendare più volte le cuciture, consumate dallo sfregamento con i supporti in alluminio.
I muscoli si sono fatti, e ho la sensazione che ora siano sufficientemente forti da sopperire da sé al mio problema.
A quanto pare ci avevo visto giusto: libero da ogni supporto ortopedico, riesco a raggiungere con agio inaspettato la mia meta di oggi: Forcalquier. Ginocchio e caviglia sembra proprio siano pronti a tornare autonomi. Sono felicissimo!
Quella pelle che era coperta da settimane durante le ore di cammino ora la sento accarezzata dall’aria. Probabilmente è qualcosa che nessun poeta ha descritto prima, eppure per me è una delizia senza paragoni. L’unica accortezza che ho scelto di adottare è stata quella di tagliare un po’ il percorso originale, rinunciando a salire una collina che stava proprio alla fine della tappa.
A destinazione dovrò telefonare a Dominique e Bernard, con i quali mi ha messo in contatto il mitico Marc Bottero. Mi daranno ospitalità per la notte. In dieci giorni di Francia, è la terza coppia che mi offre questa opportunità. Se penso a come era cominciata e al persistere della pandemia, non posso che essere grato ed entusiasta.
Avendo risparmiato un po’ di strada, sono in anticipo quanto basta per mangiare qualcosa e visitare come posso la cittadina.
Per il pranzo, faccio la mia solita tappa al supermercato e poco dopo trovo un bellissimo giardino dove sedermi con calma e riempirmi lo stomaco. Pur essendo di libero accesso, è proprietà privata di un ex convento che oggi ha tutt’altro uso. Ad oggi, infatti, è sede di un interessante istituto di formazione e ricerca nell’ambito delle piante aromatiche. Mi sembra una cosa curiosa, ma immagino che non ci sia posto migliore della Provenza per una realtà simile.
Dopo il pranzo, mi carico lo zaino in spalla e raggiungo la piazza principale. Mi regalo un caffè in un bar, scambiando due parole piacevoli con il barista e un cliente, curiosamente entrambi abili nel parlare un po’ di spagnolo. Riuscire a comunicare senza grande fatica è una gioia che non assaporavo da un po’.
Visito poi la chiesa, mi faccio timbrare la credenziale all’ufficio turistico e vado a zonzo per le vie del centro, ricche di molte attività legate alla creatività artistica, oltre che di bar e ristoranti. Tento anche di salire sulla collinetta chiamata la Cittadelle. In cima c’è un’elegante cappella, e la vista a 360° su tutta la zona dev’essere bellissima. Purtroppo la salita è troppo ripida e inizio ad aver paura di sovraccaricare il ginocchio, quindi a metà strada scelgo di tornare indietro. Il viaggio mi sta insegnando a conoscermi di più e a dare sempre particolare priorità ai messaggi che il corpo mi comunica.
Decido che è arrivata l’ora di chiamare Dominique, che mi indica come raggiungere un grande crocifisso che sarà il nostro punto d’incontro. Proprio lì faccio conoscenza con una gentile signora, anche lei in attesa di qualcuno. Sono talmente gioioso che metto in gioco con inedita esuberanza il mio misero francese, scoprendo che sta cominciando a perfezionarsi. Diciamo che sta quasi arrivando a sembrare decente, anche se giusto per la comunicazione più spiccia.
Dopo pochi minuti arrivano entrambe le persone che stavamo attendendo e si inscena un divertente concerto di saluti.
La mia ospite si conferma una persona gentilissima, così come mi era parso al telefono. La casa, come le altre che ho avuto la fortuna di visitare fin qui, è molto accogliente e arredata con gusto particolarmente originale. Mi racconta che era un ex casello ferroviario. La creativa di casa è lei: produce tanti piccoli manufatti e prodotti per la bellezza, l’igiene e la cura erboristica. Mi racconta di essere silvo-terapeuta e che ha anche scritto un libro sulla sua esperienza lungo il cammino di Santiago.
Dopo una decina di minuti mi accompagna alla stanza e mi lascia sistemare. Tornato dalla doccia, mi indica poi un posto davvero insolito dove appisolarmi un po’: una tettoia in fondo al cortile, sotto alla quale hanno sistemato un letto singolo in ferro battuto bianco. Se non è classe questa!
Addirittura c’è anche una vasca con delle carpe e altri dettagli che rendono quell’angolo un vero e proprio salotto all’aperto.
Prima di cena arriva il marito Bernard, e poi ci raggiunge a sorpresa anche il buon Marc. Sono molto felice di poterlo incontrare dal vivo, e trovo conferma di quanto sia amabile e divertente.
Davanti a un buon aperitivo in giardino, nasce una chiacchierata multilingue. Infatti, ci troviamo a combinarne in maniera bislacca addirittura quattro, perché Marc mastica un po’ di italiano e ama usarlo, Domi lo stesso ma con lo spagnolo, e Bernard se la cava invece con l’inglese. Tra di loro ovviamente parlano francese, e io mi barcameno come posso. Vado in tilt di quando in quando, ma divertendomi comunque molto.
A cena rimango con i soli padroni di casa che mi deliziano con lasagne, buon vino e dei crumble alle more fresche straordinari.
Al termine, Dominique mi fa anche un’altra sorpresa, regalandomi una specie di amuleto: un medaglione di legno che ha preparato apposta per me mentre dormivo in cortile. Basandosi sulla mia data di nascita – che dice mi leghi alla figura del druido e alla pianta del sorbo – ci ha disegnato sopra un simbolo che li evoca. Mi invita ad annusare il profumo di quel legno ogni volta che sentirò il bisogno di liberarmi da eventuali preoccupazioni e mi garantisce che così “riuscirò a ricentrarmi sempre sul mio camminare”.
Dopo questa gentilezza inaspettata e originale, ci auguriamo la buonanotte e ci ritiriamo nelle nostre stanze. Non potevo festeggiare meglio il mio primo mese di cammino!
(Foresteria dell’abbazia)
25,5 km
Sylvie e suo marito sono così cortesi da svegliarsi presto quanto me per fare insieme colazione – ottima, tra l’altro. Scelgono di rifiutare ogni mia offerta per la splendida ospitalità e, non contenti, mi regalano anche della pomata per i piedi fatta da loro. Si sono ispirati alla ricetta di un famoso balsamo per pellegrini prodotto dai monaci di Ganagobie, proprio quelli presso cui dormirò stanotte. Li ringrazio ancora infinitamente, ci salutiamo con allegria e riparto per la mia strada.
Il primo paesino che incontro è Aubignosc, e dopo quello mi inerpico tra i sentieri delle colline provenzali. La natura è molto diversa da quella incontrata fino a ieri qui in Francia. I colori del paesaggio formano una tavolozza tutta nuova, fortunatamente baciata da uno splendido sole. Alcune aree sono aride e ghiaiose, con la sola presenza di arbusti sparsi e qualche piccola conifera.
Mi diverto un mondo in questo tratto, e ho anche la fortuna di imbattermi in un camoscio. Non ho mai avuto molte esperienze col regno animale, quindi per me è un’altra emozione inedita e ben gradita.
Rimanendo tra i saliscendi collinari, passo tra le rovine di un vecchio villaggio e subito dopo, in cima a un poggio, ho la gioia di trovare anche quelle dell’antica chiesa di Sant’Antonio.
Sylvie me ne aveva parlato ieri. Viene citata già dal XIII° secolo e la sua particolarità oggi è di essere completamente scoperchiata. Grazie agli interventi recenti del gruppo locale che cura il GR, però, le pietre crollate sono state utilizzate per formare delle sedute all’interno della costruzione, qualcosa di molto simile a delle vere e proprie panche. Nell’abside è stata affissa una decorazione insolita: un pannello sagomato come un arco a sesto acuto, ricoperto di piastrelle e tessere di mosaico. Al centro si stagliano la parole “humilité” e la conchiglia gialla, simbolo del Cammino di Santiago. Sopra l’ingresso, invece, è stata appesa una colorata campana scacciapensieri che risuona piacevolmente in questo luogo magico immerso nella natura.
Dopo qualche minuto di contemplazione, tento di riprendere la via. Mi perdo inspiegabilmente attorno alla chiesa e riesco a raggiungere il sentiero solo calandomi in modo rocambolesco tra gli arbusti. Rischio molto con la mia caviglia ancora indolenzita, ma alla fine sembra reggere bene anche a questo imprevisto.
Scendo fino al paese di Chateauneuf-Val-Saint-Donat e poi di nuovo risalgo lungo nuovi sentieri, imbattendomi d’un tratto nel Cairn-de-Montfort: un tumulo di pietre armoniosamente sovrapposte a secco fino a formare qualcosa di simile a una grande pigna. Mi ha raccontato Sylvie che ci hanno messo sei mesi a comporlo, che è stata un’esperienza dura e bellissima per il gruppo e che il più laborioso era il socio più anziano, addirittura novantenne!
Si trova in una località detta Chante-Puvine, presso Montreal. L’hanno fatto per caratterizzare visivamente quel luogo, soggetto di vari studi sulle antiche vie di passaggio in questo territorio.
Un dettaglio originale è dato dalla presenza di un contenitore cilindrico incastonato all’interno del tumulo e chiuso con un tappo a vite. Dentro contiene documenti di vario tipo inerenti a questo croecvia e al manufatto stesso. Gli scritti sono plastificati, arrotolati e infilati in altri tubi, più piccoli e colorati. Ad ogni colore corrisponde un approfondimento specifico, il cui titolo si può leggere sulla parte interna del tappo: una soluzione incredibilmente pratica e creativa per divulgare quelle informazioni!
Dopo una breve pausa, riprendo la marcia affrontando una nuova discesa, stavolta fino a Peyruis. Il paese ha alcune attività commerciali e ristorative, ma ora tutto è chiuso per la pausa pranzo e non si vede anima viva. Con me ho veramente poca roba, ma per fortuna trovo una vecchia signora sulla soglia della propria casa. Le chiedo se abbia del pane, e lei sceglie di dividere con me l’unica mezza baguette che ha in casa: il gesto caritatevole per antonomasia. Esserne destinatario in questo modo è molto toccante.
Prima di affrontare le salite non così banali che mi porteranno al monastero di Ganagobie, mi fermo a mangiare nei pressi di una fontana, all’uscita del paese. Ormai è una rarità: nel dipartimento delle Alte Alpi ogni abitato aveva la propria, con annesso lavatoio, ma ormai non ne trovo quasi più. Oltretutto, sempre più spesso ci sono affissi cartelli che avvisano che l’acqua non è potabile. Un gran peccato.
Sotto il sole più duro, quello del primo pomeriggio, inizio l’ultimo quarto della tappa di oggi. Attraverso il Canal de Manosque, che scorre lungo queste terre e alcune di quelle che percorrerò domani. Affronto una nuova salita e l’ennesima discesa, cammino su un acquedotto sospeso e poi risalgo di nuovo. Raggiungo così il paese vero e proprio di Ganagobie, che sta a un’altitudine minore del monastero. Lì scovo una fontanella quasi per caso, e grazie al cielo regala acqua potabile. Faccio un bel sorso, riempio la borraccia e affronto l’ultimo strappo verso l’abbazia medievale, abitata negli ultimi trent’anni da monaci benedettini.
In quel tratto bellissimo, vivo un altro incontro speciale: un capriolo, stavolta. Con un solo balzo, attraversa improvvisamente il sentiero a una decina di metri davanti a me, spuntando dalla boscaglia e scomparendo in quella sul lato opposto. Poesia pura!
Raggiunto l’altopiano dove sorge il complesso religioso, riequilibrio il respiro camminando con calma tra le radure che ancora mi separano dalla meta. Sono “arredate” da alcune composizioni fatte con pietre raccolte nei dintorni. Si direbbero installazioni artistiche spontanee, un po’ naif, probabilmente fatte da visitatori, tra le quali c’è addirittura una divertente tartaruga gigante.
Dal parcheggio vicino fanno capolino dei turisti, e insieme affluiamo lentamente verso l’abbazia. È suggestivo constatatre che il luogo induce talmente al silenzio che, uno dopo l’altro, tutti si ammutoliscono spontaneamente.
Un ultimo bellissimo vialetto, delimitato da bassi muri a secco, cespugli di lavanda e alberi che sembrano danzanti, conduce finalmente all’incantevole chiesa di Notre-Dame. La facciata è dorata dal sole e il portale si distingue per la fattura elaborata e sopraffina. Tutt’attorno nessun altro ornamento, se non una vetrata rotonda perfettamente proporzionata al resto: essenzialità e grazia allo stato puro. Percorro quei metri lentamente, gustandomi quel luogo e la fine della indimenticabile camminata di oggi.
Prima di presentarmi e chiedere per la notte, visito l’interno della chiesa, scoprendolo molto affine all’esterno. Come quella di Boscodon, infatti, è per lo più spoglia, ma quel poco di decorativo e scultoreo che vi trova posto è raffinatissimo.
Alcuni elementi sono davvero unici. Innanzitutto le vetrate: poche, non molto grandi, ma colorate vivacemente e soprattutto inaspettatamente moderne. Sono come pitture astratte create con gesti veloci. Resto incantato!
Il secondo capolavoro è un mosaico enorme e molto antico sul pavimento del transetto e dell’abside, colmo di originali raffigurazioni tra decorazione e mitologia. I colori sono solo rosso, nero e bianco. Sembra un gigantesco tappeto, e mi lascia sbalordito.
Quando esco, mi sento arricchito e rigenerato. È frequente che concluda le mie tappe in luoghi molto belli, ma oggi posso dirmi veramente fortunato.
Busso alla porta del monastero. Ad accogliermi, fra Robert, col suo naso a patata rosso nel mezzo di un volto particolarmente simpatico. Con pochissime parole e tanta cortesia, mi accompagna in refettorio, dove mi offre anguria e yogurt. Pazientemente, aspetta che finisca di mangiare, continuando nel frattempo a sorridere in totale silenzio.
Assicuratosi poi che non abbia bisogno d’altro, mi spiega sinteticamente il necessario e mi conduce alla stanza dove dormirò. È molto isolata, posta di fianco alla rimessa dei mezzi agricoli. Sembra di recente fattura: è essenziale e ordinata. La cosa strana è che non ha finestre; la luce naturale passa solo attraverso il vetro della porta.
Dopo una doccia, partecipo ai vespri cantati, in chiesa, ai quali sono invitati anche i visitatori. Non è la prima volta che vivo un’esperienza simile, ma qui la ricorderò per l’atmosfera unica a cui tutto pare concorrere, a partire dall’ingresso silenzioso e ordinato dei religiosi. Purtroppo, nonostante ci siano i libri per la liturgia delle ore, non so proprio dove siano le pagine giuste. Non parliamo poi della comprensione dei meravigliosi canti gregoriani in francese! E così non faccio altro che stare ad ascoltare e ad ammirare il rito.
Un dettaglio che mi rimarrà sempre impresso è la testa inclinatissima di un monaco, tanto che il mento tocca abbondantemente lo sterno. È entrato in quel modo, e tale è rimasto per tutto il tempo, compresa l’uscita conclusiva. Probabilmente l’anzianità ha portato con sé quel problema. Se fosse davvero così, è curioso come la natura lo abbia bloccato proprio in quella postura penitenziale tanto estrema.
Finiti i vespri, mi reco in refettorio. Fuori ci sono altri laici che aspettano. Saluto, ma loro solamente sorridono e fanno cenno con la testa. Entro e do vivacemente la buonasera anche alla persona che sta apparecchiando, chiedendo se ha bisogno di una mano. Lui mi risponde pacatamente che non c’è bisogno. In quell’istante, sulla parete alla sue spalle, vedo il cartello che indica la regola del silenzio. Imbarazzato, trattengo una risata e mi scuso.
Piano e senza fiatare, si radunano una decina di persone, tra cui una sola donna. Insieme e in piedi aspettiamo l’ora esatta per la cena. Nel frattempo un monaco entra da una porta secondaria e lascia le pietanze e qualche yogurt come dessert, ovviamente senza pronunciare parola. Si sente poi suonare una campanella. A quel punto la persona che ha apparecchiato recita una preghiera, finita la quale possiamo finalmente sederci e mangiare.
Mentre ci serviamo con goffa discrezione, in radiodiffusione parte una cosa per me totalmente nuova: una lettura “cantata” delle notizie del giorno, un po’ come fossero vere e proprie liturgie. Non mi pesa; mi piace fare esperienze nuove e vivere lo stupore che mi provocano. L’unico problema, piuttosto, è che sono l’unico pellegrino – in cammino, intendo – e la mia fame sembra il doppio di quella degli altri. Per imbarazzo non me la sento di distinguermi, e mi allineo alle porzioni scelte dal resto dei commensali, anche se mi piange il cuore a vedere messe da parte le pentole ancora mezze piene.
Arrivata l’ora, un altro suono segna il termine della cena. Tutti si alzano e qualcuno si fa carico spontaneamente di lavare i piatti o di asciugarli. Non essendoci spazio per nessun altro al lavello, li ringrazio ed esco a godermi il clima splendido: il sole è ormai calante, c’è una temperatura perfetta e tira una brezza leggera.
Mi allontano dal monastero, prendendo la direzione della mia stanza, ma non mi ci fermo. Vado oltre, per dare un’occhiata ai dintorni e pregare un po’ a modo mio. La luce è misteriosa, soffusa. Ormai il sole è calato e il cielo comincia a farsi lilla. Arrivo ad un parcheggio, scoprendo che è anche una straordinaria terrazza sull’enorme valle sottostante. Mi godo per un po’ il panorama, ritrovando ancora una volta la Durance che, lontanissima laggiù, scorre lenta e silenziosa. Oltre la valle c’è un secondo altopiano, meno elevato di quello dove sto. L’ampiezza dello scenario riesce ad ipnotizzarmi per minuti interi.
Voltandomi, noto poi un angolo di bosco particolarmente attraente: gli alberi sono molto distanziati, e a terra c’è solo un soffice strato uniforme di foglie secche e nient’altro.
Non resisto alla tentazione e mi ci addentro. Quando ormai il parcheggio è sparito alle mie spalle, mi ritrovo d’un tratto ai piedi di un grande albero. Emotivamente mi cattura all’istante, e rimango ammutolito. È più alto degli altri e ha molto più spazio attorno a sé. La sensazione nitida, seppur insolita, è di percepirlo come…un padre.
Ormai non ho più nessun trattenimento nel mettermi in connessioni con piante, animali o qualsiasi altra manifestazione della natura, e così faccio anche stavolta, avvicinandomi, accarezzandone lentamente il tronco, le punte dei rami, le foglie che ancora lo vestono. Vivo un momento indimenticabile, che concludo sdraiandomi a terra e guardando il cielo, immerso in un silenzio rarissimo, completamente in pace.
Prima di tornare, decido di approfittare degli ultimi minuti di luce e proseguire oltre la grande pianta, fino a raggiungere il limite del bosco e dell’altopiano. Da quel lato, una valle minore mi separa da una collina completamente ricoperta di vegetazione. Il pendio è tagliato orizzontalmente da una strada che si snoda sinuosa, che calamita più di ogni altra cosa la mia attenzione, ma non riesco a capirne il motivo.
Me ne torno in camera mentre comincia a farsi buio. Ho vissuto un altro giorno splendido, probabilmente uno dei più magici.
(da Sylvie)
24 km
La sveglia oggi è qualcosa di memorabile. Tutto il popolo del campeggio è in fermento perché oggi è il grande giorno: ha inizio la raccolta delle mele. Una volta pronti, vedo tutti salire sui propri mezzi e partire quasi contemporaneamente per i meleti. Sono uno sciame operoso e colorato, tanti cuori pieni d’amore per la libertà.
Io parto insieme a loro. Ovviamente sono l’unico a piedi, e molti mi salutano con il clacson o dai finestrini.
La caviglia non sembra malissimo. Oggi, comunque, scelgo per prudenza di rinunciare al sentiero e di camminare lungo la strada a valle, quella tanto ostinatamente evitata da questo GR. Manco quindi l’appuntamento con un sito collinare dal nome particolarmente tetro: il Passaggio dell’Uomo Morto.
In realtà, salterò un’intera tappa, perché la strada mi porterà dritta a Sisteron.
Secondo il tracciato originale sarei dovuto salire circa a 1000 m d’altitudine, presso una località chiamata Saint-Geniez, ipotetica meta di tappa, per poi scendere a Sisteron domani. Non me ne rammarico troppo; non volendo rischiare di peggiorare la mia situazione, ho fatto la scelta più prudente. Spero tutto fili liscio.
Studiando la mappa, trovo il modo di percorrere i primi due chilometri lungo una mulattiera nella campagna di fianco alla dipartimentale, in un’atmosfera calmissima, tra meleti, terreni incolti e tanto silenzio.
La prima luce arriva sempre riflessa, prima dal cielo e poi dalle cime nude, e per qualche ora la valle rimane immersa in un’ombra azzurra.
La mattina presto sembra fatta per essere vissuta nella contemplazione. Tutte le forze opprimenti con cui spesso ci confrontiamo sembrano restare in sospeso: sono ore di vero nutrimento.
Con questo spirito, e sostenuto dalla gioia e dalla libertà del camminare, riesco ad accettare senza troppo dispiacere il finire della prima parentesi campestre e l’arrivo alla strada principale.
Non ci sono corsie pedonali e lo spazio che ho a disposizione in certi punti è minimo, imponendomi grandissima attenzione. Il traffico non è molto, ma mi devo sempre fermare per lasciare spazio ai mezzi più grandi. C’è però una grande cortesia: tutti i veicoli, superandomi, si spostano abbondantemente verso il centro della strada. Da questo punto di vista, in Italia ho ricevuto raramente lo stesso trattamento.
Anche Simone – il mitico pellegrino incontrato a Lignana – confermava questa mia stessa impressione. La cosa più divertente era una sua ferma convinzione: la categoria che meno si sposta per evitare il pellegrino a lato della carreggiata sono le donne di mezza età, come se vogliano insegnargli che lì non ci deve stare. Personalmente, confesso di non averlo notato, quindi lascio che questa resti una simpatica leggenda pellegrina.
La strada si snoda a fianco del Torrent du Grand Vallon che poi affluisce nel Le Sasse, un po’ più grande. In entrambi i casi, per me oggi tutto si limita ad un gran letto ghiaioso con pochissima acqua, mentre sulla mia destra si impennano le pareti rocciose dei monti che non ho salito.
Raggiungo il minuscolo paese di Nibles, leggermente scostato dallo stradone. Riempio la borraccia e faccio una pausa per far riposare la caviglia. Di fronte a me posso vedere l’altipiano su cui sarei dovuto teoricamente arrivare oggi, ma non me ne faccio un cruccio; sono contento di sperimentare che effetto possa fare percorrere questa valle da quaggiù. Avanti tutta, quindi!
Tornato sulla larga carreggiata, lo scenario cambia: la strada si allontana dal torrente, si restringe e comincia a salire lungo il pendio della montagna, regalandomi qualche bel panorama. Ai lati, si fanno più frequenti campi e case sparse.
Il sole si alza sempre più e comincia già a cuocere un po’. L’asfalto non è quasi mai un buon amico, ma le caratteristiche complessive del tragitto sembrano più che accettabili e la tappa è comunque più gradevole del previsto.
Dopo qualche ora di cammino non particolarmente memorabile, raggiungo le prime aree residenziali della periferia di Sisteron, un’area che credo si chiami Plan-de-la-Baume.
La maggioranza delle case sono color beige, a differenza del gran concerto di colori visto in tante località attraversate nei giorni scorsi. Non c’è più traccia dello stile tipicamente montano di certi paesi. Anche i giardini sono allestiti e curati diversamente; d’altronde il clima è diverso, e già si sente.
Spostarmi con lentezza mi piace anche per questo: posso accorgermi chiaramente di star entrando in un territorio completamente nuovo. A volte il segnale più nitido è la natura che cambia – non solo nei giardini, ovviamente. In altri casi, ciò che si trasforma maggiormente sono le abitazioni e il modo in cui un territorio viene abitato. Capita anche che siano i semplici confini amministrativi la soglia di passaggio a scenari inediti, come successe quando entrai in Francia.
Non credo sia una caso che io stia facendo certe riflessioni poco prima di raggiungere Sisteron, soprannominata “la porta della Provenza” – un appellativo non solo simbolico. Infatti, all’ingresso della città si elevano due imponenti speroni rocciosi tra i quali passa la Durance. È una meraviglia: come Scilla e Cariddi, sembrano davvero minacciare chi voglia proseguire.
Su quello di destra si erge la cittadella fortificata, mentre a sinistra si innalza la Rocher-de-la-Baume, una cresta rocciosa mozzafiato.
Salendo verso il centro storico della città, prima di perdermi tra le vie piene di negozi e locali – ahimè perlopiù chiusi – mi volto a contemplare quello zoccolo enorme, fatto da strati spessi metri, scivolati uno sull’altro fino al cielo. Tra di essi, profonde scanalature che creano disegni ipnotici e pare rendano la parete perfetta per essere scalata.
Una volta sazio di quello spettacolo, gli volto le spalle e affondo nella città. Le vie sono piuttosto pittoresche, ma ci sono pochi visitatori. La chiesa e la cittadella sono chiuse, così mi dirigo all’ufficio turistico per farmi timbrare la credenziale. Sta di fronte a un crocevia attorniato da alcune fortificazioni e qualche piazzetta. Ovunque c’è una grande abbondanza di fiori, ma la cosa più originale sono gli addobbi per il recente passaggio del Tour de France. Questo piccolo centro è sicuramente uno dei più belli che ho visto finora.
Faccio rifornimento di cibo e mi fermo a pranzare in una piazza particolarmente graziosa: è occupata da un obelisco che fa anche da fontana, e sta a fianco di un’elegante torretta su cui campeggia il quadrante di un orologio.
Proprio lì incontro Sylvie, la persona con cui Marc mi ha messo in contatto per poter essere ospitato stanotte. Si presenta con due amiche, di certo non giovanissime, ma insieme emanano un’energia positiva strabordante. Mi spiegano che ora hanno in programma una breve gita, e mi invitano ad accompagnarle. Ringrazio, ma rifiuto per via della caviglia. Ci accordiamo per ritrovarci ancora qui al loro ritorno.
Prima di partire Sylvie ci tiene a chiarirmi che lei non abita a Sisteron, ma a Peipin, qualche chilometro più avanti. Scoprirlo mi dispiace, perché significa perdere l’opportunità di camminare quel tratto, ma il problema al piede oggi non mi avrebbe comunque permesso di andare oltre.
Quando ripartono, scelgo di andare a visitare la zona del lungo fiume e percorrere un pezzetto della sua bella promenade. Torvata un’aiuola ombreggiata e ben inclinata, mi sdraio e mi godo un pisolino a testa in giù – per dar beneficio alle gambe – regalando qualche sorriso ai passanti.
Le tre amiche tornano alla piazza prima del previsto e la loro telefonata mi sveglia di soprassalto. In quattro e quattr’otto raduno tutto e risalgo più rapidamente possibile, zoppicando vistosamente.
Le ritrovo ancora molto allegre, così chiedo che tipo di gita abbiano fatto in così poco tempo. Pare si siano immerse in alcune strane vasche sul monte di fronte, qualcosa per riallineare le energie interiori, se ho capito bene. Beh, davvero un trio originale!
In auto, Sylvie mi spiega che la Via Domitia passa sui colli che ora stiamo costeggiando. Praticamente, ho bruciato due tappe in un giorno solo. La mia caviglia, però, tira un sospiro di sollievo; le ho risparmiato un saliscendi che avrebbe mantenuto troppo viva l’infiammazione, anche se ho il presentimento che avrei attraversato scenari splendidi. Metto in conto, promettendo a me stesso e al cammino che salderò il debito in futuro.
Prima di arrivare a destinazione, lasciamo a casa le amiche. Il viaggio insieme, pur breve, è stato delizioso. Resto allibito dall’età della più anziana, per il semplice fatto che è incredibilmente in forma. Mi spiegano poi che è insegnante di yoga e che è stata lei a proporre la gita di prima. Evidentemente deve sapere il fatto suo.
Arrivati a casa di Sylvie, resto meravigliato: è totalmente diversa da quella di Claire a Prunières, ma ha comunque mille particolarità che la rendono a sua volta calda, originalissima e piena di carattere.
Anche in questo caso confesso le mie impressioni alla padrona di casa e al cordialissimo marito. Mi raccontano che l’hanno costruita loro stessi in un paio d’anni, con l’aiuto di alcuni amici e… di un libro: un testo scolastico del ‘79 per muratori. Da non credere!
Come da Claire e Jean-Paul, l’abitazione è ricolma d’arte: dal grande e bel mosaico che hanno realizzato per decorare la vasca da bagno, fino ai tanti quadri dipinti da lui, che è pittore – oltre che imbianchino e insegnante di sostegno.
Faccio la prima lavatrice da parecchio tempo, mi do una sistemata, riposo un po’ e poi ci riuniamo per un aperitivo.
Io spendo il mio pessimo francese, graziato frequentemente dalla gentilissima Sylvie, che sceglie di mettersi in gioco col suo inglese raffazzonato pur di mettermi a mio agio. Faticherà così per tutta la serata, regalandomi la più grande dimostrazione di cortesia ricevuta in terra francese.
Come se non bastasse, cucina anche una cena abbondante e molto gustosa: pasta con salsiccia come primo e poi una torta salata memorabile, con pomodori spellati e mostarda dolce. Concludiamo come meglio non si poteva, grazie a un bicchiere di genepì, che da settimane sembra essere il liquore del mio pellegrinaggio.
Scopro che è attivissima nella rete di associazioni amiche del Cammino e mi racconta alcuni dettagli e aneddoti rispetto alla progettazione della Via Domitia, al suo miglioramento costante, alle dinamiche e alle logiche associative. Per me sono informazioni preziose, che mi chiariscono alcuni aspetti a cui non avevo pensato. Scelgo di sottoporle con rispetto alcuni dei punti su cui rimango un po’ critico. Il tema centrale, ovviamente, è la durezza del percorso fatto fin qui, sviluppato su e giù da montagne e colline per uno scopo che spesso mi è parso tutto turistico, e che ha allungato vistosamente il mio tragitto verso la Spagna.
Con un leggero stupore, mi spiega che nessuno si sarebbe preso la responsabilità di far passare i pellegrini sulla strada a fondo valle, non essendo minimamente predisposta al passaggio pedonale. Avendolo sperimentato oggi, le do ragione, ma le espongo meglio le mie titubanze. Finisco col trovarvi una certa conferma: non sembra esserci stato un vero lavoro di immedesimazione nel pellegrino proveniente dall’Italia e diretto a Santiago, ma ha prevalso un approccio spontaneo di valorizzazione massima del patrimonio locale. Mi pare di cogliere che non sia stata esattamente una scelta consapevole, ma probabilmente il frutto di una naturale attitudine radicata in questo popolo. In effetti, la cura per la propria terra e la capacità di darle magnificamente risalto è qualcosa che ho potuto toccare con mano, fin qui, sia nel privato che nel pubblico.
Tutti visibilmente stanchi, finiamo con l’augurarci la buonanotte, felicissimi delle ore appena vissute. Davvero due persone dall’anima splendida ed eccezionalmente accoglienti!
(Camping municipale Le Mousserein)
25km
Inaspettatamente, la notte in tenda a Tallard è stata tra le peggiori, con tanti incubi e i soliti disagi con materassino, freddo e rumori vari. La mattina, mi alzo molto presto, esasperato, ma comunque determinato a lasciarmi tutto alle spalle e tuffarmi nella super tappa di oggi, che comincerà quasi subito con una salita particolarmente tosta.
Supero il ponte e mi lascio alle spalle la Durance, che non incontravo da quattro giorni. Mentre il cielo comincia ad aprirsi nei suoi migliori colori, vedo da lontano il castello. Per un attimo l’atmosfera sembra realmente incantata, fuori dal tempo. Anzi, non fuori, ma indietro nel tempo. Spesso mi è già capitato – come d’improvviso – di immaginarmi in un’epoca passata, e ognuna di quelle volte riallinearmi temporalmente non è stato per niente immediato.
Perso in pensieri di questo genere, e non certo al massimo delle mie forze, arrivo ai piedi della salita che mi aspetta. Tra Tallard e la cima c’è un dislivello di 700 m e più. Una volta lassù, dovrò poi scendere dalla parte opposta, e le cifre saranno più o meno le stesse. Di fronte a percorsi come questo, carico come un mulo, essere consapevole esattamente dei dislivelli, delle pendenze e della lunghezza di ogni tratto mi sta permettendo di gestire sempre meglio le mie energie.
La prima parte si rivela distruttiva e lunghissima, con un terreno incredibilmente friabile. Fortunatamente poi prosegue su altri meno difficili, snodandosi tra tratti di bosco anche molto belli e passaggi presso abitati anonimi. Incontro auto di cacciatori parcheggiate qua e là e godo di un paio di viste mozzafiato sulla valle.
A un certo punto, seguendo il percorso così com’è, capisco che finirei col raggiungere Venterol – un borgo certamente molto bello – ma significherebbe anche allungare la tratta di cinque chilometri solo per quel motivo: una vera e propria escursione di stampo prettamente turistico. Senza troppo rammarico, scelgo di rinunciare alla visita e risparmiare energie; oggi ne avrò molto bisogno e non voglio rischiare.
Scambio qualche messaggio con Sara, che finalmente riesco a far “confessare”: anche lei ha tagliato qua e là per le mie stesse ragioni, anche se finora era stata molto evasiva al riguardo. D’altronde, le sue tracce GPS non mentono, e avendo studiato meglio anche quelle delle settimane a venire, avevo già notato alcune piccole discrepanze rispetto allo sviluppo ufficiale della Via Domitia. Restandole infinitamente grato, è come se ora godessi di una consolazione aggiuntiva, e sento un po’ più legittimate la mia fatica fisica e psicologica.
Raggiunto il crinale, un’altra sorpresa si aggiunge a colorire la giornata: le indicazioni del GR sono in contraddizione con la traccia GPS che sto seguendo, e mi indicano di scendere decisamente in anticipo. Non c’è nessun vantaggio dal punto di visto chilometrico, ma d’istinto scelgo di affidarmi alla segnaletica.
Dopo aver superato un primo tratto piuttosto malmesso, incontro Cristiane, pellegrina francese fortunatamente anche anglofona. Mi spiega che il suo itinerario va “soltanto” da Montpellier a Briançon. È minuta e molto magra. Il viso, pur molto solare, mi fa pensare non abbia meno di sessant’anni. Nella piccola pausa che ci concediamo, io a scendere e lei a salire, mi accenna ai suoi tanti cammini. È davvero ammirevole. Come sempre è entusiasmante incrociare altri pellegrini, e avere l’opportunità di trovarne una così esperta e solare è un piacere doppio.
Mi avvisa che l’ultimo tratto di discesa è particolarmente brutto, con molti alberi caduti. La ringrazio e la saluto di cuore. Nonostante la notizia, parlare con lei mi ha rinvigorito eccezionalmente.
La discesa si rivela davvero orribile, e in effetti gli alberi in mezzo al sentiero scosceso sono tanti, rendendolo davvero scomodo e a tratti pericoloso. Mi imbatto anche in piante rampicanti molto tenaci che arrivano fin sopra la mia testa, soprattutto nelle ultime decine di metri. Ne esco con gran fatica. Poche centinaia di metri, ma di gran lunga le peggiori fin qui in terra francese.
Immediatamente dopo sbuco sulla la strada dipartimentale che corre a fondo valle. Si sviluppa in piano per chilometri e chilometri, snodandosi come un serpente tra infiniti meleti e pareti da scalata stupende e vertiginose.
Confesso che non avevo mai visto prima d’ora un campo di mele, e qui mi ci trovo letteralmente immerso. Filari e filari, ordinatissimi, carichi di un’enorme quantità di frutti e tutti protetti da reti simili a garze, che li fanno sembrare imbozzolati da qualche ragno gigante.
A capo di ciascuno filare c’è sempre una pila di grosse casse molto simili. La dimensione, di certo, è studiata per contenere il maggior numero di mele senza che si rovinino. Sui bordi sono stampati i nomi delle aziende proprietarie. Sono incredibilmente ingolosito da quei frutti giganteschi, ma purtroppo sono fuori portata.
Dopo non più di un paio di chilometri, mentre mi sporgo per strappare almeno una mora matura al bordo della strada, appoggio un piede sul ciglio rotto dell’asfalto e la caviglia si distorce, innescando una sensazione acuta che conosco fin troppo bene, perché nella vita ne ho fatto esperienza un’infinità di volte. Mi accascio e poi mi metto subito seduto, mentre impreco dandomi del cretino. Mi spoglio subito lo scarpone, poi il calzino. La caviglia è solo leggermente gonfia, esattamente come mi aspettavo. Le conosco molto bene. So che sarà una slogatura gestibile. In una frazione di secondo spoglio lo zaino, lo apro ed estraggo cavigliera e ghiaccio spray. Ora posso dire di aver utilizzato proprio tutto quello che avevo portato, dando un minimo senso a quella montagna di chili. Respiro profondamente, mi riposo quanto basta a riprendere la calma e lentamente riparto. La meta non è dietro l’angolo, mancano ancora diversi chilometri, ma perlomeno in piano.
Può sembrare assurdo slogarsi lungo una strada asfaltata quando si sono percorsi centinaia di chilometri sui terreni più irregolari, ma tutto sta nella soglia di attenzione. L’asfalto ha una superficie per lo più regolare, e la mente spesso si concede il lusso di distrarsi, soprattutto quando si è in cammino in terre straniere, mai viste e piene di attrattiva. Sui sentieri, invece, la concentrazione è totale: ecco il motivo.
Mi trovo spesso a chiedermi se tutti dedichino così tanto impegno nel focalizzare dove mettere i piedi quando camminano in montagna. Subito dopo, di solito, penso a chi fa skyrunning, restando immancabilmente ammutolito. È incredibile la capacità del cervello umano di scannerizzare in tempo reale ogni tipo di terreno e permettere ai piedi di poggiarsi per migliaia di volte nei punti più sicuri e stabili.
Quello che però mi meraviglia di più è pensare a tutte le altre migliaia di volte in cui quegli stessi piedi finiscono nei punti sbagliati, ma le caviglie riescono ad attivarsi all’istante, irrigidendosi quanto basta a sostenere il piede, per poi lasciare che si slanci di nuovo.
No, non credo siano pensieri di tutti, forse nemmeno di tutti gli atleti, ma è così che vivo io il camminare e il correre da venticinque anni, a partire dalla prima slogatura sulle scale delle scuole medie. Ma in fondo ci si abitua a tutto, no?
Con presupposti simili è divertente pensare che quest’anno ho già camminato più di mille chilometri e solo oggi, per la prima volta, la mia caviglia si è solo un po’ storta. Sono molto fortunato. Il mio corpo non è poi così male come tutti quegli ortopedici e fisiatri volevano farmi credere ancora minorenne.
Zoppicante, quindi, ma forte e determinato, continuo a percorrere la strada asfaltata fino a raggiungere La Motte-du-Caire. Mi sono lasciato alle spalle il dipartimento delle Alte Alpi e sono entrato ufficialmente in quello delle Alpi dell’Alta Provenza.
Come Tallard, anche questo paesino è attraversato dalla strada principale. È più piccolo e meno caratteristico, ma il clima non mi dispiace. È domenica e l’unica cosa aperta è un bar-pizzeria. C’è un po’ di gente seduta ai tavoli fuori. Mi prendo qualcosa e mi dirigo poi al campeggio, dieci minuti fuori dal paese. Per arrivarci, devo attraversare il letto di un torrente, che per fortuna è quasi secco. Scopro solo dopo che avrei potuto seguire una strada asfaltata, ma perlomeno così ho fatto molto più alla svelta.
Il campeggio sale dolcemente sopra i piedi della montagna. È davvero grande e ha una curiosissima particolarità: la presenza di alcuni alloggi dalle forme strambe, tondeggiandi, quasi come le case dei puffi ma senza i pois bianchi. Non c’è nemmeno la solita divisione in piazzole, il che mi piace un bel po’: lo rende un luogo meno artificiale.
C’è parecchia gente, anche se sembra poca per via delle dimensioni del posto. Noto subito che l’età media è giovane. Pare strano, ma non mi era ancora capitato dalla partenza, ormai quasi un mese fa. Oltretutto quasi tutti hanno dei look un po’ fuori dagli schemi: dreadlocks, lunghe barbe, piercing, cani, stile un po’ trasandato.
Se non vedo male, ognuno è lì con un mezzo proprio: per molti è un camper, per altri veri e propri furgoni, oppure semplicemente auto e tenda a fianco.
Ho la netta impressione ci sia una sorta di comunanza, che non sia un caso ci sia radunata gente così simile. Tutti sembrano godersi l’ozio del pomeriggio domenicale, e mi faccio l’idea che forse ieri notte ci sia stato un evento musicale nelle vicinanze.
In realtà, scambiando due parole con i miei vicini, scopro invece che sono tutti lì per lavorare alla raccolta delle mele. Cominceranno domani e continueranno per per due settimane. Mi spiegano che molti di loro viaggiano per l’Europa in base alle stagioni di raccolta di frutta e verdura.
Non avevo mai sentito parlare di questa opportunità, e non immaginavo nemmeno che molti ragazzi e ragazze lo facessero per lavorare e viaggiare al tempo stesso. Davvero interessante.
Mi rilasso un po’ anch’io, poi torno al bar in piazza per farmi una bella pizza. È la prima che mangio in Francia. Il mio orario di cena è da casa di riposo, in linea con le abitudini che ormai ho da settimane. La cucina non è ancora aperta; mi dicono quanto c’è da aspettare e decido di mettermi a leggere il mio Kindle su una panchina in piazza.
Prima dell’orario concordato, mi strappa dalla lettura la sensazione che qualcuno poco lontano stia urlando sempre più forte. Scopro che è il ristoratore che, impietosito, ha fatto preparare la mia pizza prima del solito. Non stava nemmeno urlando, in realtà, ma aveva dovuto alzare la voce per attirare la mia attenzione, ovviamente nella sua lingua, sulla quale il mio cervello non è ancora sintonizzato. C’è molta gente ai tavoli e mentre mi avvicino tutti mi guardano, per fortuna con semplici sorrisi e senza derisione. Mi gusto il piatto più lentamente possibile, perché è inaspettatamente buono.
Per risparmiare, non prendo niente da bere, accontentandomi dall’acqua del rubinetto del campeggio. Quando l’oste mi comunica il conto gli confesso che deve aver perso per strada un euro, ma decide di abbuonarmelo, insieme a una brioche confezionata che mi porge sorridendo. Credo la mia faccia sia diventata quella di un bambino la mattina di Natale. C’è davvero un bel clima in questa curiosa cittadina!
Mentre torno al campeggio, continuo a stare attento a come appoggio il piede. Tutto sommato, sono stato fortunato. Le slogature peggiori, d’altronde, sono soprattutto le prime, dopodichè si diventa più propensi a slogarsi, ma le conseguenze si fanno meno gravi ogni volta che succede. Il fatto che una spruzzata di ghiaccio spray e una buona cavigliera mi bastino, senza nemmeno riposare, dà l’idea di quante volte già mi sia capitato.
Arrivato alla tenda, mi godo il cielo farsi rosa mentre il sole si è ormai già nascosto dietro qualche montagna. Mentre sto leggendo, poi, uno dei due ragazzi con cui avevo parlato nel pomeriggio mi chiede se voglio cenare con loro. Gli spiego che ho già mangiato, ma che mi unirei volentieri per quattro chiacchiere, soprattutto perché sceglie di rivolgersi a me in inglese, avendo capito qualche ora prima le mie difficoltà con la sua lingua.
È un giovanissimo francese alla sua prima esperienza di raccolta, a differenza dell’amico più esperto. Mi racconta cose interessanti: dipinge, per esempio, e quest’anno avrebbe voluto andare in Nepal per fare tre mesi di silenzio in un monastero, ma l’epidemia di Covid non gliel’ha permesso. Ci ritenterà l’anno prossimo, dice.
Passo con lui una piacevole mezz’ora, poi li lascio cenare in pace, anche perché si è già fatto buio e le uniche luci nel campeggio sono quelle provenienti dai bagni.
Mentre mi ci dirigo per lavarmi i denti, noto che c’è una nuova arrivata e si trova in una situazione assurda: sta tentando di montare da sola una tenda enorme, delle dimensioni di una stanza, e con sé non ha nemmeno una torcia, mentre io riesco a vederla proprio perché porto in testa quella frontale. Mi avvicino per offrirle una mano. È italiana, si chiama Elena e, nonostante la situazione piuttosto folle e una nitida stanchezza, ha un sorriso esplosivo. Mi chiede solo di fare luce mentre lei monta in qualche maniera la maxi tenda. Dice che una volta viaggiava con una più piccola, ma visto che è in viaggio continuamente da due anni e si sposta in auto, preferisce di gran lunga il comfort che le dà questa. Anche lei si unirà domani alla raccolta delle mele. Mi spiega di essere arrivata tardi perché viene dal Belgio, dove ha raccolto altra frutta, e ci ha messo ben 14 ore per arrivare qui. Mi racconta di essere stata anche in Trentino quest’anno, dove per colpa dei pesticidi le si è rovinata la pelle del volto. Spera passerà, ma non ha fatto troppe polemiche perché era pagata in nero e già l’aspettava un altro raccolto altrove. Vive così per alcuni mesi l’anno, poi spende gli altri viaggiando liberamente. Concluso il montaggio, mi fa capire con gentilezza che ha ancora parecchio da fare prima di poter andare a dormire e che spera di potermi salutare domani mattina, così la saluto e raggiungo i bagni.
Mentre mi sto lavando i denti, penso a quanta energia positiva è concentrata qui in questo momento, e sono emozionato per la possibilità di aver potuto mettere in circolo anche un po’ della mia.
(Camping le Chêne)
18km
La mattina mi alzo presto, ma trovo comunque suor Raffaela già pronta in cucina. Si è svegliata prima solo per prepararmi la colazione. Si comporta davvero come fosse mia nonna. Prima di partire, lascio un’offerta e la saluto con sincera riconoscenza.
Per oggi ho programmato una tappa breve, per recuperare un po’ di energie. L’atmosfera cittadina è inaspettatamente calma e piacevole. Sui muri di un vicolo trovo subito una scritta memorabile:
La beauté des détails.
Un peu de couleurs et de risques
pour vivre son aventure.
Mi ci ritrovo in pieno! Non avrei saputo trovare parole migliori.
Mi godo l’alba nell’immediata periferia di Gap, e poco oltre posso già immergermi tra grandi campi, puntellati di frequente dalla presenza di mucche al pascolo. Sono animali, questi, che mi affascinano sempre più. Mi piacciono i loro corpi massicci, modellati da ossa sporgenti, muscoli che a volte sembrano scolpiti e le pance sempre gonfie. Mi piacciono i colori, le pose che prendono, il loro modo di girar la testa stando ferme. Mi piace le madri stiano spesso coi vitelli; mi aiuta a capire il loro ciclo di vita. Spessissimo stanno radunate in gruppo, ma ne trovo immancabilmente una isolata.
Quello che non amo, invece, è un certo sguardo che hanno in molte – quegli occhi stupidi e inespressivi. Quando mi ci imbatto mi impressiona. Sembra siano uscite da una lunga serie di elettroshock, o qualcosa del genere. Spero sia solo una mia suggestione, nata dall’inesperienza.
Cammino in paesaggi collinari, frequentemente lungo strade asfaltate ma con tantissimo verde intorno. Il cielo si sta mantenendo limpido, non potevo chiedere di meglio.
Incontro un albero molto alto, dalla corteccia rugosa e rossastra, e mi emoziona. Lo abbraccio, in maniera spontanea e naturale. È un gesto assolutamente genuino e benefico, un po’ come annusare un fiore o accarezzare un cavallo.
Mi nasce in testa l’idea bizzarra che vivrei le stesse sensazioni mescolando le cose. Potrei abbracciare un cavallo, accarezzare un fiore o annusare un albero, con la certezza che il risultato resterebbe ugualmente efficace.
Camminare soli per tante ore al giorno mi aiuta a percepire connessioni con ciò che mi circonda. Sono sempre più sensibile alla forza muta della natura. Tutto questo sta nutrendo un nucleo di benessere dentro me che non ho mai percepito così nitidamente.
Poco dopo l’albero, incontro una piccola cappella dedicata a San Giacomo. Sopra c’è affissa una targa della Via Domitia come quella che vidi a Montgenèvre. Certo, questo non è un luogo cruciale del mio cammino – e nemmeno della tappa di oggi – ma è sempre un piacere leggere il nome dell’apostolo. Pur mancando un’infinità di chilometri, è come se mi alleggerisse.
Un anziano con una bici a tre ruote si ferma proprio in quel momento. Mi sorride e mi fa capire che ha già intuito dove io sia diretto. Glielo confermo e lui mi augura un buon cammino. Poche parole e un sorriso: a volte davvero non serve nient’altro.
Dopo qualche chilometro ancora di strade asfaltate, proseguo la mia salita imboccando dei sentieri ben esposti. Scelgo di anticipare la discesa verso Tallard, la meta di oggi, per poter acquistare del cibo in un negozio che ho trovato sul web: sembra vendano frutta e verdura biologici del territorio, e io non chiedo di meglio.
La discesa è molto più impegnativa di quella a cui ho rinunciato, ma per fortuna il ginocchio continua a reggere bene, sostenuto dall’immancabile tutore.
Una volta arrivato a valle, faccio la spesa e mi godo una bella merenda vegetariana, ma stavolta mi faccio anche un regalo speciale: una bottiglia di birra fresca. Per me è una vera eccezione, perché fin dalla mia partenza ho bevuto pochissimo alcol, tentando almeno da quel punto di vista di non dare disturbo a muscoli e articolazioni. Questa volta, però, non ho potuto rinunciare perché la birra che ho trovato è artigianale e aromatizzata al Genepì, lo stesso liquore che mi aveva offerto Beppe ad Alpignano. Sentirla rinfrescarmi la gola è un piacere talmente grande che finisco col berla quasi fosse acqua. Come prevedibile, mi stordisce per qualche minuto, ma è una vera gioia!
Da lì a Tallard non resta che un solo chilometro. La strada che mi ci porta è una dipartimentale e taglia a metà la cittadina, che resta comunque molto bella. Il grande piazzale davanti al comune non è male, così come l’incrocio centrale, ricco di ristoranti e negozi, un bel po’ di piante e una fontana.
Non so come mai mi stupisca così frequentemente di quasi tutto, ma sto provando a lasciare a queste sensazioni tutto lo spazio che vogliono.
Finisco quasi sempre col sorriderne, sia di ciò che ho di fronte, sia di questa parte di me. Le voglio bene. Si innamora di cose che altri nemmeno vedono, cogliendo a volte dettagli infinitesimi.
Allo stesso tempo è anche molto vulnerabile in certi casi, poco capace di lasciar correre e ha una memoria di ferro. Ormai ho capito che non è solo una sfumatura della mia personalità, ma una gran bella fetta di me, ed è anche grazie ad un dialogo speciale con lei che sono riuscito a trovare il coraggio di partire.
Mi addentro nel centro storico vero e proprio, decisamente più bello del resto, con case colorate vivacemente e curatissimi marciapiedi – strani da vedere nelle strade strette di un paesino.
Visito una chiesa un po’ trasandata ma anch’essa affascinante; è dedicata a San Gregorio. All’interno ci sono affissi manoscritti recenti, scritti con una calligrafia straordinaria. Illustrano magnificamente il significato di alcuni elementi chiave della cristianità e della fede (Spirito, Chiesa, Uomo, etc.). Non mi era mai capitato di imbattermi in elementi simili in una chiesa. Si dice spesso che affreschi, quadri e sculture fossero il catechismo per i poveri in passato, quando ancora l’analfabetismo era dominante. Ora, però, la maggior parte della gente nei nostri paesi sa leggere e scrivere. Forse è per questo che qui si è scelta questa soluzione. In ogni caso, queste pagine scritte non hanno niente da invidiare ad un dipinto, perché sono bellissime anche da vedere.
Un raggio di luce mi acceca per un attimo: mi accorgo di essere finito sotto il fascio coloratissimo proveniente da una vetrata. Mi sembra quasi che il sole giochi con me. E che importa se non è così? A me piace pensarlo. Riesco anche a catturare quell’istante con una fotografia che è di certo tra le più belle fatte finora.
Terminata la visita, faccio scorta di cibo e mi dirigo al campeggio fuori dalla zona abitata. Lungo la strada, noto in lontananza la sagoma del castello di Tallard: è un po’ in rovina, ma mantiene il suo fascino. Non lo visiterò perché ho bisogno di godermi in totale rilassatezza questa tappa breve e un pomeriggio d’ozio, come non ne facevo da un pezzo.
Raggiungo il campeggio appena dopo la chiusura della reception. Chiamo al numero che trovo affisso e una gentile signora mi invita ad accamparmi nella piazzola che preferisco; tornerà un paio d’ore dopo, mi dice, e ci sistemeremo allora.
Nel frattempo, ricevo la prima risposta da Marc, il responsabile delle associazioni amiche del Cammino di Santiago per il dipartimento in cui entrerò domani. Finirà quindi la mia esperienza nelle Haute-Alpes e farò il mio esordio in Provenza, precisamente nelle Alpes-de-Haute-Provence.
Già per iscritto Marc manifesta molto più entusiasmo e intraprendenza della sua precedente “collega”. Mi fornisce subito varie utili opzioni per alloggiare qua e là, e addirittura mi invia anche la traduzione in italiano della lettera. È un piccolo gesto, ma eloquente e pieno di calore.
Una volta arrivata, anche la receptionist si conferma una persona molto cordiale, così come anche un giovane francese vicino di piazzola che nel frattempo ho già conosciuto. Il pomeriggio scorre via alla svelta, tra sano riposo, degli spuntini e qualche scambio di messaggi.
Ceno molto presto, dopodichè passo del tempo su una sedia fuori dalla reception, unico luogo del campeggio dove ancora batte l’ultimo sole. Davanti a me, presso il campo sportivo, una dozzina di famiglie si divertono festeggiando qualcosa; c’è anche un buffet all’aperto. È una bellissimo esempio di vita paesana, e mi pare anche sia la prima volta qui in Francia che vedo tanti giovani tutti assieme.
Vado a letto ad un orario di cui in passato mi sarei quasi vergognato, nottambulo com’ero, ma va benissimo così. La tappa di domani sarà molto dura; anche Sara mi ha avvertito, ma mi sento pronto.