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cammino di santiago - roberto pesenti

11/09 Prunières – Gap

(Casa d’accoglienza delle Suore della Provvidenza)
32km

La mattina mi alzo presto e faccio colazione da solo, ma ho comunque il piacere di poter salutare Claire prima di partire. Lei sceglie di chiedere una benedizione per me davanti a una statua di un santo di nome Pedro di Alcantara. La figura di legno antico campeggia in un angolo del salotto, splendida e particolarmente.
È un momento toccante. Non fa parte di me una fede simile per le figure dei santi, ma mi sento comunque onorato per quel gesto e lo accolgo con tutta la partecipazione che posso.
Mi accompagna poi fino alla strada principale, poco sopra, che mi ricollega alla via Domitia. Mi saluta con sincero affetto e mi garantisce che lì sarò sempre il benvenuto. È davvero un bellissimo gesto, a coronamento di un’accoglienza memorabile.

Tutta la vallata sotto di me è sommersa da una spessa nebbia, non c’è minimamente modo di vedere il lago. Sopra la mia testa, invece, un fantastico cielo azzurro e qualche nuvola rosata dal sole, che ancora sta nascosto da qualche parte.
Man mano che proseguo lungo la strada asfaltata, vedo la cappa di nebbia salire della valle e sfilacciarsi lentamente, come fosse zucchero filato.

Scendo in continuazione per almeno un’ora, fino a raggiungere il fondovalle e la cittadina di Chorges. Jean-Paul ieri sera ci aveva tenuto a consigliarmi un bar di italiani proprio da queste parti, all’uscita del paese. Mi ha detto che ci avrei trovato dei croissant molto buoni, e magari avrebbero avuto tempo per parlare un po’ con me. Spulciando mappe e tracce GPS, mi rendo conto che è un po’ fuori dal percorso, ma non mi va di sprecare il buon consiglio, così mi regalo una deviazione golosa. In effetti, i dolci sono una leccornìa, ma non è presente nessuno dei proprietari. Mi sarebbe piaciuto scambiare quattro chiacchiere, scoprire la storia di quei miei connazionali e chiedere loro qualche consiglio, ma è andata così.

Dopo lo spuntino, torno subito sulla mia rotta, lasciando la Durance e la sua valle. Mi sembra di capire che il motivo sia l’inclusione della città di Gap nell’itinerario studiato per la Via Domitia. Visionando lo sviluppo complessivo del tragitto, capisco che tornerò altre volte nelle vicinanze del fiume, ma non sempre per seguirne il corso. Scopro anche che mi aspettano altre tappe montane molto impegnative. Ça va sans dire…

Decido di evitare una pur breve salita verso il borgo di Montgardin. È una delle pochissime libertà che mi sono concesso nei confronti della traccia ufficiale, finora; forse l’unica. Credo di star vivendo un passaggio interiore importante: sentendomi più rilassato e libero su questo cammino, ma è qualcosa che ogni giorno sembra riplasmarsi. Staremo a vedere.

La nuova vallata che mi trovo a percorrere mi regala una decina di chilometri piuttosto rilassati, tra campi e pascoli forse un po’ anonimi, ma incredibilmente pacificanti. Vedere piccole mandrie di vacche che riposano pigramente al sole mi diverte, sembra che niente le possa turbare. Se ne stanno semplicemente lì, spendendosi in gesti minimi, utili giusto a scacciare qualche mosca. Hanno prati enormi tutti per loro, ma stanno radunate spesso in piccoli spazi.
Anche quelle che sono sparse a brucare mi lasciano incantato, strappandomi ogni tanto qualche risata; sarà forse per le loro espressioni. La loro indifferenza mi diverte.

Dopo questa parentesi bucolica, arrivo alla base di un colle dove parte il sentiero diretto al Santuario di Notre Dame du Laus, un luogo di apparizione mariana che scopro essere molto noto. Fa capo all’apparizione della Madonna a una pastorella, nel XVII sec. La cosa che mi incuriosisce è che la storia non narra di una sola apparizione, né di una serie limitata, ma di un rapporto continuato lungo l’arco di decenni. Ieri sera Claire mi aveva accennato qualcosa a cena, ma stavo ormai esaurendo le energie e anche la mia attenzione faceva acqua da tutte le parti.

Imbocco la salita, che subito affonda nel bosco. Man mano che mi avvicino, incontro luoghi particolari legati alla vicenda. È curioso e affascinante notare come l’uomo imprima segni, ponga targhe ed edifichi lapidi, o addirittura monumenti, chiese, o intere città, lá dove qualcosa è accaduto, o si crede sia accaduto. Un semplice sentiero diventa memoriale di qualcosa che quella popolazione non vuole dimenticare.
Riflettendo su questi grandi sforzi che l’uomo spende per fermare un po’ il tempo, però, mi rendo anche conto che nel frattempo le pietre restano pietre e la natura prosegue i suoi cicli senza curarsi troppo di tanta enfasi.
Nonostante ciò, se c’è qualcosa che davvero mi ha scosso nel profondo in questo mio piccolo grande viaggio è proprio la natura. Mi chiedo se ci ricordiamo abbastanza che ogni singola foglia è già testimonianza viva dell’unicità sacra in cui siamo immersi e di cui facciamo parte.
Non rinnego il valore della bellezza creata artificialmente, ma penso ancora alle mucche di prima. Forse anche a noi, a volte, basterebbe fermarci un po’, o almeno rallentare, ascoltare più che costruire, imparare meglio a riconoscere la ricchezza in cui già siamo calati, esercitare gratitudine, anche da non credenti.
So di non dire niente di nuovo, però sono contento che questi sentimenti nascano dall’esperienza diretta e non da aridi intellettualismi.

Lungo il percorso, e fino in cima, noto anche che tutto è attrezzato per l’accoglienza di grandi afflussi di gente. Ora però non ci sono che una ventina di persone, chi a zonzo, chi seduto a pranzo. C’è quindi un certo senso di desolazione, ma non mi infastidisce.
Per ragioni di precauzione sanitaria, l’ingresso in chiesa è vietato, così non mi resta che bere un caffè al bar, prendere fiato e proseguire sul mio percorso. Ovviamente, il punto che dovrò raggiungere e superare è quello più alto di fronte a me. C’era da scommetterci.

Ci arrivo con fatica, premiato parzialmente dalla vista sul santuario e sulla valle da cui sono partito. Imbocco poi una dolce discesa tra strade e sentieri, attraversando un paio piccoli borghi, non antichi, ma sempre graziosi. Un’ultima collina mi divide dalla città di Gap, dove spero di trovare un alloggio a prezzo “pellegrino”.

In cima, mi imbatto in qualcosa del tutto inaspettato: una sorta di lapide, alta due metri e mezzo almeno e dedicata proprio ai viandanti diretti a Santiago. C’è affissa una targa in terracotta con scritto al centro “ULTREIA”, antica espressione di incoraggiamento che può essere tradotta come “Andiamo oltre!”. È la prima volta che incontro questa parola, se non sui libri. C’è anche una nicchia che contiene la rappresentazione in ceramica colorata di un pellegrino. Questa specie di monumento mi mette di buon umore, e mi rinvigorisce quanto basta per proseguire, perché la verità è che sono veramente cotto.
Guarda un po’, comunque: poco fa elogiavo la natura a discapito dei manufatti umani e ora mi gongolo tutto per averne incontrato uno che sembra aspettasse proprio me. Finisco col riderne, facendo tesoro dell’ennesima lezione.

Dopo un paio di chilometri di discesa arrivo nel centro di Gap. Per la prima volta, però, ho attraversato delle periferie davvero poco belle rispetto a quanto finora la Francia ha saputo regalarmi. Ovviamente non mi scandalizzo; in Italia sono certo che zone simili passerebbero inosservate alla maggior parte delle persone. D’altronde, poi, faccio presente a me stesso che sto spostandomi per lo più lungo colline, montagne e paesini, evitando tante aree esteticamente brutte, spesso presenti proprio ai margini delle città. Probabilmente anche per questo sto mietendo tanta bellezza.

Gap mi appare vivace, la gente non manca, ma sono certo che senza il virus la città brulicherebbe di molte più persone.
La cattedrale è chiusa, aggiungendosi alla lunga serie di luoghi di culto, piccoli e grandi, che non potrò visitare e che avrebbero impreziosito molto il mio viaggio, anche interiore.
L’edificio è oggettivamente bello, anche se si percepisce sia abbastanza recente. Con una rapida ricerca, scopro di averci visto giusto: è stato costruito a cavallo del 1900. Scorgendo al suo lato gli uffici della segreteria parrocchiale, entro per chiedere se ci sia qualche possibilità di essere ospitato questa notte. All’ingresso della città ho visto un centro diocesano molto grande e ben curato, chissà che lá non ci sia un angolino che mi aspetta.
In realtà, la segretaria mi indirizza verso un altro luogo, la casa delle suore della Provvidenza, la cui sede si trova molto vicina. Accolgo il consiglio con serena fiducia e mi congedo.

Là trovo una grande insegna rossa rettangolare con scritto semplicemente “Providence”. Direi proprio che a un pellegrino non serva altro! Al piano terra c’è una scuola per l’infanzia. Un paio di mamme stanno aspettando i propri figli e una giovane maestra, vedendomi un po’ spaesato, mi indica gentilmente di salire al piano superiore. Così faccio. Suono quindi a una porta chiusa e vengo accolto da una signora visibilmente anziana, ma dallo sguardo luminosissimo. Con mia gran sorpresa scopro che è italiana: si chiama Raffaela, è originaria di Eboli e ha la bellezza di 95 anni! Non l’avrei mai detto. Mi tratta fin da subito in maniera amorevole, dandomi un letto in una piccola camerata e mostrandomi la cucina.

Le ultime ore della giornata le dedico a darmi una sistemata, a fare un po’ di spese, a visitare ancora un po’ il centro cittadino e a consumare la mia cena.

È stata una gran tappa anche oggi. Le energie erano poche ma sono bastate, quindi, più che mai, ultreia!

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Francia, Hautes-Alpes, PACA
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10/09 Baratier – Prunières

(casa di Claire e Jean-Paul)
32km

Sveglia! Oggi mi aspetta una tappa tosta, ma so già che ci sarà un bel premio alla fine: attraverso la signora Georgette, la responsabile di zona per l’associazione amica del Cammino giacobeo, ho avuto la fortuna di trovare una coppia disponibile ad ospitarmi. Sarà la prima volta che mi succede qui in Francia, e non vedo l’ora!
Secondo la guida, la meta di oggi sarebbe dovuta essere Savines-le-Lac, ma l’ospitalità che mi è stata offerta mi impone di andare ben oltre, e precisamente nel paesino di Prunières. Questo significherà macinare anche oggi parecchi chilometri e affrontare dislivelli molto impegnativi, ma resto entusiasta.
Lungo il percorso sembra ci siano anche alcuni luoghi speciali che sono proprio curioso di visitare – sempre se sarà possibile. Avanti, quindi!

Prima meta: il bar in piazza a Baratier. La manager del campeggio ieri mi ha avvisato che la caffetteria avrebbe aperto presto, quindi ho deciso che oggi inizierò regalandomi una colazione come si deve. La barista è giovane e carina, sia nei modi che nell’aspetto. Purtroppo sta ancora sistemando tutto e i croissants non sono ancora arrivati. Ergo, posso solo prendere un caffè, ma perlomeno accompagnato da un bel sorriso.
Riempio meglio la pancia nel paesino successivo, Crots, molto grazioso. Lì, in un bar-panetteria, ho il piacere di incontrare una seconda commessa giovane, gentile e carina. A questo punto sì che posso dire la giornata sia iniziata al meglio!

Uscito dal paese, sono già per sentieri. Mi aspetta una prima salita non esagerata, ma lunga qualche chilometro. Nel primo tratto, voltandomi, posso anche godere di uno splendido panorama sul lago di Serre-Ponçon, quello che già avevo potuto ammirare ieri.

In cima, a più di 1100 m di altitudine, i miei passi sono premiati dall’incontro con una splendida abbazia, quella di Boscodon, che prende il nome dal torrente che scava la vallata sottostante.
Il sentiero mi fa gustare la bellezza della costruzione fin da lontano. Avvicinatomi, noto subito un particolare molto affascinante che impreziosisce il giardino attorno all’edificio: dal ramo di uno grande albero pende un altalena il cui sedile è un masso di pietra; tutt’intorno, dei pezzi di tronco posti a cerchio fungono da sedute.
È un’immagine inusuale, che però regala un senso di vissuto recente, di una spiritualità non impolverata ma attiva, quasi poetica. Noto anche un piccolo pannello informativo in cui viene descritto proprio quel cerchio, con l’aggiunta di spunti di meditazione e preghiera.
Alzando poi lo sguardo, vedo altri angoli di giardino originali e attraenti, ognuno corredato da una colonnina come quella da cui ho appena letto.
Facendomi guidare da questi doni per la vista e per lo spirito, aggiro tutta l’abbazia, godendo della sua armonia e del suo fascino.

Una quindicina di metri davanti a me c’è un gruppo di turisti. Stanno ascoltando la loro guida. È una signora magra e un po’ buffa, perché ogni cosa che indossa – dal cappello alle scarpe, dalla giacca ai calzini, fino al trolley che si trascina e il microfono – è tutta colorata dello stesso identico rosa shocking.
Saluto la comitiva, con la voce e scuotendo la mano sopra la testa. Quando sono felice è il mio modo di condividere quella gioia, un gesto semplice e istintivo. Purtroppo non risponde nessuno. Pazienza.

Dopo aver completato il giro del complesso, entro finalmente nella chiesa. Il gruppo è già all’interno e mi impedisce di vivere come vorrei quel luogo spoglio, magnetico e ben curato, ma poco male. Lo visito comunque in libertà, godendo di tanti dettagli davvero raffinati e senza fronzoli, come piace a me. In particolar modo, sono le statue presenti ad attrarmi. Scolpite nel legno, giusto un po’ grezze, veicolano perfettamente la spiritualità di quel luogo. Esco affascinato e soddisfatto, concludendo poi il tour del giardino – costellato da altri angoli interessanti e originali – e tornando infine sul sentiero.

Come ieri, mi aspetta una lenta discesa verso il lago; nello specifico verso Savines-le-Lac, una località vocata al turismo. Secondo la guida, sarebbe dovuta essere meta di tappa, ma io oggi devo proseguire.
Arrivo sulle rive del lago dopo circa un’ora passata tra i monti. Da lì parte un lunghissimo ponte che porta all’altra sponda.
Controllo la mappa e guardo la montagna di fronte. Per raggiungere la famiglia che mi ospiterà, dovrò salire quel versante per un dislivello di circa 400 m, e da lì camminare ancora due o tre chilometri in piano.

Prima di cimentarmi con l’impresa, mi rilasso per almeno mezz’ora a Savines-le-Lac, che mi fa davvero una buona impressione. Il suo fascino si lega soprattutto all’incredibile scenario naturale in cui è incastonata, ma anche a livello urbanistico si difende bene.
In una piazza fiorita, ai piedi di una chiesa moderna, qualche artista ha installato alcune sculture in qualche modo “interattive”, nel senso che non sono solo da contemplare. Sono fatte di materiali poverissimi e di certo non eterni, come paglia e legno di recupero. Una “interagisce” con la fontana e l’altra, una sorta di simpatico manichino intento a leggere un libro, è posto a sedere sulla panchina. Mi ci siedo di fianco e spio il finto libro che tiene tra le mani, trovando una scritta inaspettata:

“Se sei troppo stanco per parlare, allora siediti al mio fianco, perché io parlo fluentemente anche il silenzio”.

Ancora sorridente per il buffo incontro, scendo per attraversare il ponte.
I marciapiedi sono troppo stretti e i mezzi sfrecciano a pochi centimetri dai pedoni, ma il disagio è ripagato dalla vista sul lago: stando proprio lì in mezzo risulta particolarmente suggestiva.

Una volta sull’altra sponda, comincia una salita asfaltata molto impegnativa. Come sempre, man mano ci si alza, i paesaggi tutt’intorno si fanno più stimolanti perché il panorama si amplia, ma il peso dello zaino e la fatica nelle gambe rovinano un po’ quel piacere.
Incontro anche pascoli bellissimi, con tante pecore che si contendendono la poca ombra. Continuo la salita lasciando per un po’ l’asfalto, ma la pendenza non si attenua: un bel 9% per più di 5 km complessivi; non certo una passeggiata, soprattutto a fine tappa.

In cima a questo spezzone così faticoso c’è il piccolo borgo di Saint-Apollinaire. Ingenuamente, ho dato per scontato fosse una chicca imperdibile per meritare tutta questa fatica, ma resto stupito e deluso dal fatto che l’itinerario cambi direzione proprio un attimo prima di raggiungerlo.
Mi domando, allora, quale altro motivo ci sia per avermi fatto salire fino a lì, sospettando sia davvero “solamente” per poter ammirare il pur splendido panorama. Esausto, confesso di aver maledetto per qualche istante questa Via tanto bella quanto massacrante, e continuo ad avere forti dubbi che gli antichi pellegrini seguissero una rotta tanto bislacca.

In ogni caso, da qui in poi posso godermi il tratto in piano, che si ammorbidisce anche in una piccola discesa verso Prunières. È lì che sono d’accordo di trovarmi con Claire, la signora che mi ospiterà.
Poco prima del mio arrivo, mi avvisa di essere occupata in qualche commissione, e mi chiede di aspettarla presso una piccola chiesa, che mi invita di cuore a visitare. Io opto invece per la panchina di fianco e mi regalo un sacrosanto sonnellino.
Claire arriva circa un’ora dopo, trovandomi meno sconvolto e più rasserenato di quando sono arrivato. Prima di partire, insiste per mostrarmi l’interno della chiesa, con orgoglio e grande devozione.

È una donna di circa settant’anni, ma dà l’impressione di avere una gran forza. Di certo è una che si dà da fare, penso tra me. Me lo fa pensare il fatto che indossi abiti evidentemente usati per qualche lavoro di fatica, e poi la sua guida spigliata di un minivan che assomiglia un po’ a quello di tanti artigiani delle mie parti.
È anche una bella donna: alta, solare, con lunghi capelli grigi legati sulla nuca. Si intrattiene qualche minuto con l’abitante di una casa di fronte. È una scena di splendido vicinato, anche se non capisco quasi nulla.

Arrivati alla casa, poco distante, resto subito affascinato: è uno chalet grande e bellissimo, con una vista stratosferica sul lago sottostante e tanta natura tutt’attorno. Claire mi racconta che hanno finito il giorno prima di disporre la nuova pavimentazione della terrazza. Un lavoro non da scherzare, visto che fa il giro di mezza casa.
Una volta entrati, resto esterrefatto. Il piano d’ingresso è un ampio open space invaso di luce naturale, ricco di mobili e suppellettili incredibilmente ricercati. La particolarità, però, è il disordine, ma non inteso negativamente. La casa, pur colma di cose preziose – evocazioni di innumerevoli viaggi e una gran cultura – sembra allo stesso tempo un cantiere, o un laboratorio. Questo mix inusuale, questa bellezza originalissima ma per niente impomatata, mi incanta e mi riempie di ammirazione.
Saliti al piano superiore, lungo una scala di legno decorata curiosamente con prese e corde per arrampicata, mi mostra dove dormirò. Qui tutto è ancora più impregnato di vivacità familiare, con giochi di ogni tipo, un tavolo da biliardo e tanti piccoli dettagli creativi che mi fanno sentire particolarmente a mio agio.

Ringraziata la gentilissima signora, mi do una sistemata, per poi scendere ad aiutarla. Mi ha infatti avvisato che ne avrebbe bisogno, perché il giorno prima il freezer si è spento e va preparata tutta la carne che c’era conservata. Passiamo forse più di un’ora a staccare – con ogni coltello possibile – polpa di cinghiale dalle ossa di quei grossi tagli. La metterà poi a bagno per un giorno con del vino rosso e tante verdure.
Nel frattempo, tentiamo di dialogare, ma davvero col francese sono a livelli angoscianti, sia per me che per chi tenta di capirmi. Risultato: tanti lunghi silenzi, spezzati solo da qualche tentativo in cui, pur impegnandomi, finisco con l’ingolfarmi in balbuzie imbarazzanti.
A un certo punto, arriva un vicino a chiedere una cosa in prestito e Claire mi invita a presentarmi perché lui parla un po’ inglese, e io le avevo fatto presente che con quella lingua e lo spagnolo me la so cavare. Ne approfitto al volo e mi godo qualche minuto di conversazione: una vera boccata d’ossigeno, per poi tornare a concludere il lavoro in cucina.

Il marito, Jean-Paul, è in casa, ma ho avuto giusto il tempo di salutarlo e poco più. La ragione è che deve riposare molto a causa di un recente problema cardiaco piuttosto grave. Per cena, però, ci riuniamo tutti a tavola. Lui stesso partecipa alla preparazione del pasto, regalandoci una omelette squisita. Aprono dell’ottimo vino, cucinano spaghetti al sugo, dei gamberi freschissimi e mettono in tavola formaggi superlativi. Sono senza parole.

Mi mettono a mio agio in una maniera incredibile, soprattutto perché scopro che con lui posso tranquillamente parlare inglese. Ogni volta chiedo di tradurre alla moglie, scusandomi ancora una volta per la mia incapacità di sostenere un dialogo nella loro lingua. A un certo momento, però – sorpresa delle sorprese – lui mi invita a parlare direttamente con Claire che, in quanto interprete, conosce la lingua d’oltremanica meglio di lui. Io rimango allibito e con gli occhi spalancati la guardo con un’espressione interrogativa molto eloquente. Lei, sottilmente irrigidita, mi risponde che io non avevo chiesto se lei lo parlasse o meno. Vista la valanga di generosità che stanno mettendo in gioco su ogni altro fronte, non posso che riderci sopra e continuare a godermi la cena chiacchierando amabilmente con entrambi.

Due storie molto affascinanti, le loro. Un dettaglio che non mi sarei aspettato è che sia lui che lei sono nati in Marocco, anche se nella casa avevo percepito una radice non prettamente francese. Li elogio tantissimo per il loro buon gusto. Loro mi ringraziano gentili e mi rispondono che, se di buon gusto si tratta, l’hanno di certo ereditato dai rispettivi genitori. Mi parlano della loro numerosa famiglia e Claire mi accenna anche alla sua grande devozione.

La serata si conclude con una simpatica sorpresa: quando presento loro la mia credenziale, Jean-Paul ha un’illuminazione e va a cercare qualcosa nell’armadio di una stanza vicina. Torna con il timbro più originale mai visto: c’è rappresentata la sua faccia – e già questo è insolito – ma addirittura è agghindata con una corona e degli occhialoni da sole! Ridendo, mi racconta che l’ha comprato in Giappone, durante un viaggio in famiglia. Coi nipoti si è divertito a provare una cabina che, come quelle che semplicemente fanno fototessere, offriva anche quel curioso servizio.
Sulla credenziale il marchio sta bene; le regala una soffiata d’ironia che non mi dispiace, però poi Claire insiste per fare delle aggiunte. Usa un timbro abbastanza anonimo con il nome della famiglia, ma con incluso il vecchio indirizzo. Non contenta, quindi, prende una biro e cancella quest’ultimo per sostituirlo con l’indirizzo nuovo; infine, correda il tutto anche di piccole montagne disegnate al momento, a fare da illustrazione al nome del dipartimento dove ci troviamo, les Haute-Alpes. Ne esce ovviamente un gran pasticcio, ma va benissimo così. Resterà un ricordo prezioso, indubbiamente unico.

Da gran signori, non accettano nessuna offerta di denaro, lasciandomi disarmato e pieno di sincera gratitudine per un’ospitalità andata ben oltre l’essenziale.
Ci auguriamo buonanotte, tutti e tre felici delle belle ore passate assieme.

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09/09 Reotiér – Baratier

(Camping Les 2 Bois)
24km

Stanotte niente cinghiali, così come niente padroni con cani a venirmi a sfollare. Solo freddo, mille rumori e attimi di terrore degni del peggior incubo
Potrei scrivere il contrario, raccontare che a un certo punto ho capito che le mie paure erano infondate e che mi sono rilassato, ma non è andata così. Mi sono addormentato per sfinimento, tanto per la stanchezza dovuta alla tappa, quanto per la paura che mi ha fatto tremare per buona parte della notte.

Se è davvero per “sbocciare” che ho intrapreso questo viaggio, per far fiorire il meglio di me, questo significa anche confrontarmi con i miei limiti, le mie debolezze, le mie miserie, sperando poi di superarne qualcuna.

Diciamo che, in questo caso specifico, aver comunque affrontato l’esperienza che più mi spaventava è stato un primo passo, e già so quali potrebbero essere quelli successivi, ma credo che li affronterò al termine del viaggio.
Il motivo è che le mie energie non sono infinite, e notti tese come questa potrebbero rischiare di indebolirmi su più fronti. Non sono qui per imparare a diventare un campeggiatore esperto, ma perché ho una meta da raggiungere.
Prendo quindi la decisione di usare la tenda solo in contesti “protetti”, come campeggi o luoghi privati per cui sono prima riuscito ad ottenere l’autorizzazione.
Non è segno di audacia, ma ognuno fa i conti con quello che è, in funzione delle sue priorità.

Sembra ancora notte quando decido di far colazione, risistemare tutto e partire. Il cielo è splendidamente stellato e la montagna di fronte a me sembra scolpita dalla luce della luna. In pochi secondi, la calma e la primitiva bellezza di questo momento riescono a restituirmi la pace persa nelle ore prima.

Torcia in fronte, scendo lungo la buia strada asfaltata fino a raggiungere Saint-Clément-sur-Durance. Sembra un bel bel paese, ma lo attraverso quando ancora le uniche luci sono quelle dei lampioni. Solo a valle, mentre cammino per un breve tratto lungo la statale, l’aurora comincia a rubare posto alla notte.

La prima salita della giornata mi porta a circa 1200 metri d’altitudine, attraverso uno stretto sentiero ghiaioso spesso totalmente esposto. La vista è ampissima e mi regala un grande senso di libertà. Mi sento a mio agio, al mio posto. La bellezza di questa valle mi incanta e mi ispira reverenza e gratitudine: quello che mi circonda non mi appartiene, ma mi fa sentire accolto.

Torno a scendere, stavolta fino a Cheteauroux-les-Alpes, altra gradevole cittadina. È molto difficile per me riuscire a descrivere a parole la bellezza degli edifici che sto incontrando. Pur chiaramente diversi tra loro, in alta montagna come a valle, nei comuni più grandi come nei piccoli agglomerati sparsi, riconosco un gusto armonioso nelle forme, nei materiali e nei colori che è talmente diffuso da lasciarmi stordito.
Il degrado sembra essere solo una rara eccezione, anche nella sua forma più comune. Il mio sospetto è che passare per lo più da sentieri ben studiati mi eviti aree dismesse o meno curate, o semplicemente banali, ma non so dirlo per certo. Quello che so è che mi piace moltissimo quello che vedo, e un po’ mi rode pure, confesso. Pura invidia per gli eterni cugini.

Una nuova salita abbassa l’interruttore dei pensieri contemplativi e riaccende i motori; altri 300 m di dislivello tra campi e fattorie, ancora una volta senza vegetazione che mi ostacoli la vista. Il cielo ora è invaso da nuvole, ma non me ne faccio un cruccio.
La sorpresa è che, a un certo punto, pur lentamente, tra di esse inizia ad aprirsi un varco, attraversato subito da una vera lama di luce. Destinataria di quel fendente è una sola casa in tutta la valle e la suggestione mi ammutolisce.
Ma l’emozione vera arriva quando, dopo un chilometro o poco più, divento io “l’illuminato”, letteralmente! Mi godo il gran bacio del sole e sorrido da solo con gusto, come spesso mi sta capitando fin dall’inizio del cammino, al di là di ogni inconveniente.
L’intimità con la natura, i suoi elementi, i suoi fenomeni, con il mondo vegetale e quello animale sta aumentando in continuazione. È uno dei risvolti migliori di questa esperienza. Così come il fatto che mai, davvero in nessun caso, provo una sensazione di solitudine mentre cammino nella natura, e questa è una scoperta che per me è davvero inestimabile.

Arrivato all’apice altimetrico del percorso di oggi, circa 1300 m, comincio la discesa che mi porterà ad Embrun, 400 m più in basso, posta al principio del lago di Serre-Ponçon.
Studiando il percorso, noto che lambisce lo specchio d’acqua solo per un istante, per poi inerpicarsi di nuovo tra i monti. In realtà, però, è solo per farmi raggiungere un luogo particolare (punto di passaggio della tappa di domani), dopodichè si ritufferà fino a valle e mi farà attraversare il lago in corrispondenza di un lungo ponte, per poi risalire – e non di poco – per la stesso versante da cui sto arrivando ora.
Ormai non ho dubbi sulle meraviglie che incontrerò lungo la Via Domitia, ma devo metterci tanto autocontrollo per non ridisegnare a modo mio la rotta. La decisione che ho preso, infatti, è quella di accettare questo GR per quel che è, ma è tutto da vedere se c’è la farò a resistere.

Embrun si rivela una cittadina con un centro molto bello e vivo. Capito, tra l’altro, in giorno di mercato, con le piazze ben gremite. Tutti portano la mascherina e non si percepisce un rischio particolare. Non mi dispiace affatto trovarmi in mezzo ad altre persone, ogni tanto. Giro un po’ a zonzo, giusto una decina di minuti, perché so che non mi fermerò qui oggi. Non sono ancora sicuro della mia destinazione, ma ho adocchiato sul web un paio di campeggi a pochi chilometri.
Prima di avviarmici, passo dalla cattedrale, purtroppo chiusa, poi faccio un po’ di spesa e mi fermo su una panchina all’uscita del paese per pranzare.
Me la prendo comoda, mi pare un giusto premio dopo 20 e più chilometri già percorsi, ma soprattutto con dislivelli degni di un trekking in piena regola. La dura notte passata sembra un lontano ricordo, e il fisico a quanto pare non ne ha patito come pensavo.
Riparto quindi a stomaco pieno e piedi leggeri, per così dire. Ho scelto di arrivare fino a Baratier, presso un campeggio economico, poco fuori dalla mia rotta.

Una volta sul posto, mi accodo ad un altro cliente fuori dalla reception, mentre aspettiamo l’orario di apertura. Passa mezz’ora, ma nessuno si presenta. Scambiamo due parole, facendo una minima conoscenza. Si dimostra molto gentile nei miei confronti, e la cosa – sorprendentemente – quasi mi commuove. Mamma mia, come sono diventato emotivo! Poco dopo scegliere di prendere iniziativa e chiama il numero indicato per le emergenze. Pare che la proprietaria sia bloccata per delle commissioni fuori paese, ma ci autorizza a prender posto. Scegliamo due piazzole vicine. Confermandosi persona squisita, mi offre addirittura di attaccarmi alla sua presa elettrica, poi parte con la moglie a fare un giro in mountain bike nel circondario. Io monto la tenda e, nel frattempo, mi gusto per un lunghissimo minuto le acrobazie di uno scoiattolo che salta tra un albero all’altro, come mai avevo visto in vita mia se non in qualche film della Disney.

Mentre poi lavo i miei panni, sopraggiunge la proprietaria, tornata dai propri impegni. Ha una solarità splendida, cosa non poi così frequente in questi giorni per me. Si scusa per il ritardo e insieme andiamo in reception per saldare. Conferma la mia prima impressione, dimostrandosi particolarmente paziente mentre farfuglio qualcosa che dovrebbe somigliare alla sua lingua. Alla fine, sinceramente entusiasta del mio progetto di viaggio, sceglie addirittura di offrirmi la nottata, cosicché pago solo il gettone per l’asciugatrice. La ringrazio infinitamente, sbalordito e commosso.

Tornato alla piazzola, dedico qualche ora al riposo e a studiare la tappa di domani. Il fatto è che non mi sono preparato per niente sull’attraversamento della Francia. Non ho nemmeno provato a leggere la guida, niente. La scoperta di quanto duro fosse questo tratto l’ho fatta arrivandoci. Anzi, a dirla tutta ora riaffiora nella mia mente il ricordo di una telefonata con Danilo…

Danilo è uno dei miei “angeli custodi”, proprio come Sara e Fabio.
Scoprii chi fosse cercando sul web proprio nei giorni della mia grande decisione. Partendo da casa sua, in Veneto, era già sulla via di Santiago de Compostela, con due mesi in anticipo rispetto a me.
Attraverso il suo sito (thepilgrimfox.com) riuscii a metteremi in contatto con lui. Ricordo ancora quella prima lunga telefonata in cui gli esposi tanti dubbi e lui mi rispose con pazienza ed entusiasmo, già calato nel vivo del suo grande sogno. Da allora ci sentiamo regolarmente e condividiamo la gioia dei nostri passi, sostenendoci a vicenda.
Se la meta è la stessa per entrambi, però, la via per raggiungerla è molto diversa. Dani ha scelto di percorrere la Via Postumia, che unisce Aquileia a Genova, e da lì continuare lungo la costa, per poi collegarsi alla Via Tolosana. Se non ricordo male, però, è poi sceso sulla rotta del Piemonte Pirenaico, arrivando a Saint-Jean-Pied-de-Port e affrontando da lì il Camino Francés. In questo momento dovrebbe trovarsi a un passo da Burgos. Con le sue gioie e le sue fatiche mi ha aiutato ad affrontare questa avventura col passo giusto, e fin da allora continua a farlo.

Mi è venuto in mente oggi perché, quando io ero appena partito e già dovevo vedermela con i dolori al ginocchio, lui mi raccontò di una certa Alessandra, coraggiosa pellegrina partita da Milano, addirittura senza cellulare. Lei gli spiegò di essere passata proprio dalla Via Domitia, e di quanto incredibilmente dura fosse stata. Evidentemente avrei dovuto ricordarmi meglio quelle parole. Anzi, in realtà va bene anche così com’è andata e sta andando, perché in ogni caso sto facendo tutto quello che posso.

Arrivata l’ora di cena, consumo in tenda il menù di oggi: pane, sardine in scatola e formaggio di capra. Frugale, ma gustoso.
Sto facendo di tutto per contenere le spese senza rinunciare ai nutrienti di cui ho bisogno. Quando entro nei supermercati, mi intrattengo molto più di quanto non faccia normalmente in Italia. Ho bisogno di tempo per scegliere bene cosa acquistare. All’ingresso, a volte, mi viene chiesto di lasciare lo zaino, ma in qualche modo riesco sempre a convincerli di lasciarmelo portare. Ho il terrore che non se ne prendano cura, e che qualcuno ne approfitti. Gli altri clienti mi guardano spesso straniti, anche se per la maggior parte di loro sono come invisibile, ma credo sia semplicemente la norma della nostra società. Alle casse, quando l’ho potuto tenere indosso, mi viene chiesto di aprire lo zaino. La reputo una cosa legittima, anche se la fatica di toglierlo e tenerlo sollevato per mostrarne il contenuto me la risparmierei volentieri. Di quando in quando, azzardo sorrisi che sostituiscono le battute che non riesco a tradurre, ma purtroppo non producono quasi mai empatia.

Non mancano persone dolci e generose come la proprietaria del campeggio o il mio vicino di piazzola, ma la lunga catena di micro-difficoltà quotidiane mantiene ben nutrito il mio disagio.
Sto capendo profondamente quanta fame io abbia di relazionarmi in maniera sciolta e distesa con altre persone. Allo stesso tempo, ogni giorno mi è sempre più chiaro quanto conti riuscire a parlarsi, poter dialogare: una delle innumerevoli cose che siamo usati a dar per scontata. Talvolta, le mie piccole disavventure mi portano per qualche istante ad immedesimarmi con persone mute, oppure emigranti che non conoscono altra lingua che la propria. So bene di essere in condizioni enormemente più privilegiate, lo tengo bene a mente, ma lascio comunque vivere in me queste suggestioni un po’ dolorose perché le sento preziose.

Imbacuccato nel sacco a pelo, tra gli scricchiolii del materassino e il cuscino che scivola sempre via, arriva anche oggi l’ora di dormire.
Buonanotte, mondo! Grazie di ospitarmi.

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08/09 L’Argentière-la-Bessée – Reotiér

(campeggio selvaggio)
38km


Ottimo sonno e ottima colazione: ciliegine sulla torta del “Mulino Farfalla”.
Il tempo è ancora bellissimo. Oggi farò di certo una deviazione che allungherà il percorso: voglio onorare la promessa fatta alla signora incontrata a Foresto e portare una preghiera al lago della Roche-de-Rame, dove perse la vita il figlio. Gambe in spalla, quindi!

Come previsto, proseguono i saliscendi di questo GR, che mi mettono a dura prova ma, al contempo, mi gratificano con panorami stupefacenti.
Dopo pochi chilometri di sentiero a mezza costa, devo già scendere a valle e attraversare la Durance per poter raggiungere il lago artificiale. Mi perdo un po’, ma alla fine riesco nel mio obiettivo. È un luogo non particolarmente affascinante: c’è un chiosco ancora chiuso, l’acqua è perfettamente liscia, senza increspature, e si sentono le auto passare a un centinaio di metri scarsi. Eppure, il motivo che mi ha spinto qui rende il luogo pieno di valore. Dedico qualche minuto a consegnare a questo silenzio le preghiere di una madre lontana, poi torno sui miei passi.

Attraverso di nuovo il grande fiume e torno a salire, parecchio oltretutto.
Per un paio d’ore cammino senza poter vedere il sole, però posso godermi tutte le cime rocciose delle montagne già colpite dai suoi raggi. Fin dalla Val di Susa, questo dettaglio sta diventando ricorrente e non mi dispiace affato, perché regala tocchi di vera poesia.
Un po’ di luce mi bacia solo a metà mattina, nei pressi di un magnifico belvedere. In lontananza scorgo una grande conca, crocevia di valli diverse, incoronata da montagne imponenti e piene di fascino. Più di tutto, mi colpisce una lingua di terra che si protende verso il centro, un altopiano insolito che osservo con curiosità, chiedendomi se sarà da lì che dovrò passare oggi. Nonostante abbia mappe e navigatori, non riesco a capirlo.

Riprendo il cammino, continuando lungo strade asfaltate che ora si snodano, senza troppi dislivelli, tra agglomerati di magnifiche ville montane. Covo però una grande frustrazione: mi rendo conto di non riuscire ad accettare del tutto il fatto che questa Via Domitia, promossa come cammino per Santiago, si snodi come un budello su e giù per queste montagne piuttosto che orientarsi semplicemente verso la meta finale. Certo, so che è solo questione di una decina di giorni e che poi il percorso si ammorbidirà e assumerà un orientamento più lineare, con dislivelli trascurabili. So anche che questi grossi sforzi fisici e mentali stanno costantemente venendo ripagati con paesaggi straordinari, ma a volte lo stress accumulato supera queste gioie e il morale incespica.
Mi aiuta a sopportare questa diatriba interiore la “zia” Sara, che sento con gran frequenza, così come Fabio. Entrambi mi supportano e mi spronano a non mollare la presa, nutrendomi della bellezza di questi territori e della generosità mai scontata del clima. Sono davvero messaggi preziosi.

Attraverso la suggestiva comunità di Champcella, rimanendo felicemente colpito da un dettaglio: qua e là sono affissi dei veri e propri quadri su pannello con rappresentazioni di abitanti locali tratte da fotografie del secolo scorso. La particolarità sopraffina è che il bianco e nero delle immagini originali è sostituito da colori squillanti e non realistici, quasi fluorescenti, che spogliano quegli echi del passato da ogni nostalgia, rendendoli invece vivaci e ben integrati col presente.

Superato il paesino, si comincia a scendere. Mi azzardo in un breve tratto che sarebbe vietato a causa di alcuni smottamenti, ma che si rivela incantevole e selvaggio. Poco dopo raggiungo di nuovo il fondo valle, per poi salire una volta ancora, ma… sul versante opposto: un chiaro esempio di ciò che mi rende frustrante questo itinerario.

Arrivo a Saint-Crépin. È ora di pranzo e il sole picchia forte, affaticandomi ancor di più. Vedo gente mangiare fuori da un bistrot, ma so che devo fare economia e passo oltre, cercando inutilmente un negozio di alimentari che sia aperto. Stringo i denti e proseguo.
Raggiungo e oltrepasso anche la desolata Eygliers, fino ad arrivare ad affacciarmi sull’altopiano che avevo visto nelle prime ore della mattina. In fondo dovrebbe esserci la mia meta di oggi: Mont-Dauphin.
Cerco di scorgere la cittadina, ma non ci riesco. Quello che vedo, oltre i campi, è solo un gran muraglione. Attorno lo scenario è unico: le montagne sono splendide, così come le varie valli e vallette che da lì partono a raggiera.
A lasciarmi a bocca aperta, però, è soprattutto la presenza di un secondo altipiano, proprio di fianco al primo: si chiama Plateau-de-Simoust. È più o meno della stessa altezza di quello su cui mi trovo, e ha delle pareti eccezionalmente verticali, a strapiombo sulla vallata che lo divide da dove sono ora. Sul fondo di questa specie di canyon passa un piccolo fiume di nome Guil. Mentre camminavo sui monti non l’avevo mai notato; i due altipiani mi sembravano uno solo. Un dettaglio, in particolare, mi incanta: da quel bordo roccioso, un piccolo corso d’acqua si tuffa a valle creando una cascata sottile ma molto alta, davvero suggestiva.

Tornando a volgermi là dove sono diretto, raggiungo la muraglia difensiva, cogliendone la forma complessa, ad angoli acuti, e con fossati tutt’attorno. Arrivato davanti a dei cartelli informativi, trovo conferma di quello che ho già intuito: Mont-Dauphin non è un semplice villaggio, ma un importante forte militare, che ora è soprattutto un polo turistico molto noto.
La cosa ha obiettivamente il suo fascino, ma comincio a immaginare che sarà impossibile trovare negozietti a basso costo dove comprare da mangiare per i pasti di oggi. Dentro me una voce grida: “Perché questo percorso mi ha voluto portare qui? Io non sono un turista, sono un pellegrino! E non sono qui per visitare una vallata, ma per attraversarla, perché la mia meta è Santiago, lontana quasi 2000 km. Se facessi giri turistici in ogni territorio sulla mia rotta, il cammino diventerebbe infinito!”.
Ecco a che livelli sono già arrivato. Purtroppo la mia resistenza fisica e mentale sta toccando un suo primo limite, impedendomi di vivere questa avventura con la distensione che vorrei. Una parte di me, però, resta fermamente convinta che questa sfida sia alla mia portata. Mi sprona a focalizzarmi su quanto sarò fiero e orgoglioso ogni volta che supererò momenti come questo, fino alla gioia più grande, quando raggiungerò Praza do Obradoiro.

Affidandomi a questa voce interiore, allontano le frustrazioni e cerco di ricalibrarmi. Mi concentro sul presente, su dove sono ora: è un luogo unico e speciale che ho faticato a raggiungere; mi merito di godere del suo fascino il più serenamente possibile.
Faccio un bel respiro, mi guardo attorno stando fermo, ascolto il vento. Mi lascio calmare dalla maestosità delle montagne intorno a me. Anche la monumentalità silenziosa della cittadella sembra aiutarmi ad armonizzare il mio stato d’animo, e ne faccio tesoro. Sono pronto a ripartire.

Supero i fossati senz’acqua – curati come giardini – e attraverso il portale d’ingresso, inoltrandomi nella fortezza.
Al suo interno è ordinata secondo poche vie perpendicolari. Cammino lungo quella che ho di fronte, la principale, evitando museo, bookshop, negozi turistici e i primi ristorantini. Arrivo là dove ieri ho fatto prenotare a Bernard, ed entro.
È un bistrot molto raffinato, e al contempo semplice. Mi viene incontro una giovane cuoca che fortunatamente parla inglese, permettendomi di risparmiare un po’ di energie. Scopro che le mie intuizioni erano giuste: non c’è nessun negozio di alimentari qui, e per il pranzo dovrò accontentarmi di un croque-monsieur (da ben 10 euro!) perché la cucina è già chiusa. Per la cena, invece, l’unica opzione è il ristorante di fianco, e nemmeno la colazione è inclusa. Desolato, salgo nella piccola camerata.

Tutto è bellissimo e accogliente, ma…oggi proprio non ce la faccio. Non riesco a trattenermi e riparto col dire a me stesso che non sono un turista e nessuno mi sta obbligando a seguire questo percorso, né ad alloggiare dove non vorrei. Sono libero, ma questa libertà va onorata.

Pur stanchissimo e senza ancora sapere dove dormirò, decido quindi di proseguire. Riprendo lo zaino e scendo dalla ragazza. La avviso che rinuncio alla stanza, spiegando il motivo e scusandomi.
Scelgo comunque di pranzare qui, perché ho troppa fame: un toast farcito da dieci euro, mannaggia, ma almeno è delizioso. Finito il pasto, saluto e concludo la mia traversata della piazzaforte, dopodichè scendo qualche tornante scosceso per raggiungere il fondo valle – ancora una volta.

Cerco sul web il supermercato più vicino e lo raggiungo, costretto ad allungare di qualche chilometro la tappa. Sono molto affaticato, ma ho trovato una riserva di forza interiore che sta facendo la differenza. Faccio scorta per la cena e la colazione di domani, finalmente a prezzi alla mia portata. C’è un campeggio poco distante, ma ma sono sull’onda di un grande slancio ed è l’occasione giusta per cimentarmi finalmente nella mia prima esperienza di campeggio libero. Decido quindi di proseguire oltre, finchè non troverò il posto più adatto.

Esco dal nodo di strade statali e mi reimmetto sul GR, che torna a salire per l’ennesima volta, entrando nel comune di Reotier.
L’incontro con un luogo particolarmente affascinante mi regala un’utile distrazione prima che il sentiero si faccia ripido: è una grande fontana “pietrificata”, una formazione naturale che davvero non saprei descriverla meglio.
Le gambe sono alla frutta; ormai sto avanzando spinto quasi solamente da entusiasmo e ostinazione. Raggiungo una strada asfaltata che finalemente corre in piano a mezza costa. Voltandomi, torno a vedere la conca coi due altopiani. Il nuovo punto di vista mi fa gustare quello scenario naturale con ancora più meraviglia, ma evito di soffermare lo sguardo sulla fortezza.

Poco dopo, trovo una zona agricola semi-abbandonata che sembra adatta ad accamparmi. Mi ci inoltro, sperando di trovare qualcuno a cui chiedere il permesso, per poter poi passare con più tranquillità la mia notte lì. Trovo un’unica persona che sta curandosi di qualche capra. Mi presento e faccio la mia richiesta, ma non si fida per niente, nonostante siamo in un’area completamente spoglia e priva di abitazioni.
Gli confesso il mio dispiacere e torno su miei passi, ma sono esausto da quasi 40 km di cammino, e prendo la decisione di intrufolarmi comunque nel mezzo di quei terreni, divisi solo da alcuni muri a secco. In pochi minuti trovo un angolo riparato, che sembra perfetto per me. L’unico inconveniente è che sta in uno dei pochi appezzamenti coltivati, ed è occupato da una giovane vigna. Nella mia testa già mi immagino il proprietario che arriva in tarda serata a sfollarmi, ma davvero non ho più energie per andare oltre, e mi accampo.

Scelgo una posizione ben nascosta, tra un gran cespuglio e un albero. C’è addirittura un tavolo di legno con una panca, anche se sedermici mi renderebbe troppo visibile. Boschi intorno non ce ne sono, infatti, e da qualche casolare – pur lontano – potrebbero facilmente accorgersi della mia presenza. In ogni caso, scelgo di essere il più prudente possibile, limitandomi a rimanere vicino alla tenda.

Le ore che mancano all’addormentarsi sono tante. Le passo tra tensione e noia, ma allo stesso tempo godendomi la vista fiabesca di un tramonto tra quelle cime. Consumo la mia cena povera ma nutriente, e aspetto ancora un po’ perché faccia buio, poi mi tuffo nel sonno sperando che tutto vada bene.

Purtroppo, la mia dormita dura poco. Totalmente disabituato a situazioni simili, le paure si rivelano troppe e ogni rumore mi fa immaginare scenari spiacevoli. Sento latrati, qualcosa di simile a voci in lontananza, a un certo punto della notte anche dei grugniti, senza capire quanto siano veri e quanto invece siano frutto della mia suggestione.
Poco più tardi mi sveglio ancora di soprassalto, accorgendomi di una presenza nella tenda. È solo un roditore di qualche tipo, che al buio non riconosco. Saltella attorno e sopra il sacco a pelo, ma è chiaro che è più spaventato di me e lo faccio uscire alla svelta. Mi domando se riuscirò a prendere sonno di nuovo.

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07/09 Les Alberts – L’Argentière-la-Bessée

(Gîte Le Moulin Papillon)
31km


Nottata difficile a Les Alberts, principalmente a causa del mix micidiale tra bassa temperatura e alta umidità. Il sacco a pelo e la tenda, purtroppo, si sono confermati inadatti a queste condizioni; almeno ora so quando posso usarli e quando no.
Ad ogni modo, eccomi sveglio: scombussolato, ma con tanta voglia di godermi la prima intera giornata in Francia. Faccio colazione in tenda, mi vesto, sistemo lo zaino e smonto tutto. Negli anni a venire, spero di riuscire a fare esperienze migliori, soprattutto con materiale tecnico più adatto. Si parte!

Fuori dal campeggio, la valle è già leggermente illuminata da un cielo che comincia a schiarirsi. Le cime delle montagne, invece, sono già infuocate dal sole nascente. Mi avvio verso la cittadina di La Vachette, poco distante, e dopo quella mi incanalo subito nei segnalatissimi sentieri francesi.

Nel bosco, scorgo la tenda di un motociclista accampato che sta ancora dormendo. Il tema del cosiddetto “campeggio selvaggio” mi è martellato nella testa per settimane, e ovviamente è ancora scottante. Non l’ho ancora sperimentato e mi spaventa un po’. Come sempre, senza esperienza i timori si fanno più pungenti: paura di una multa, degli animali selvatici o di non riuscire a chiedere aiuto in caso di qualche problema. Ma non solo, mi preoccupa anche l’eventualità di essere richiamato da qualche proprietario, magari anche in modo aggressivo, senza nemmeno saper parlare la lingua. Percepisco che non è la fine del mondo e sono certo che proverò, ma mi sentirei più sicuro se l’avessi già sperimentato in uscite brevi. Vedremo nelle tappe a venire cosa succederà.

Dopo circa un’ora il sentiero mi conduce fuori dal bosco, presso un luogo bellissimo: il Pont d’Asfeld. Ad una sola arcata, posto ai piedi dell’imponente arroccamento di Briançon, svetta vertiginosamente sulla gola dove scorre la Durance. Fu edificato nella prima metà del ‘700. Asfeld era il nome del marchese che ne condusse la ricostruzione in muratura, ma l’idea iniziale e la prima edificazione furono dell’ingegnere militare Vauban. Non ho mai sentito prima questi nomi, ma scopro che quest’ultimo è famosissimo, a tal punto che una decina di fortificazioni ideate da lui risultano oggi patrimonio dell’UNESCO, compreso questo stesso ponte. A parte queste informazioni scovate su Wikipedia, quello che posso dire è che la sobrietà di quest’opera – calata in un paesaggio magnifico – mi ha colpito incredibilmente.

Da lì salgo lungo le mura della cittadella e poi scendo tra le sue vie, costeggiando edifici vivacemente colorati e fili di bandierine francesi appese per chissà quale festeggiamento. Mi ricorda, seppur ridotto all’osso, il quadro Le rue Montorgueil di Monet.
Con l’acquolina in bocca, mi tuffo in un bar per la mia prima colazione francese. Scelgo caffellatte con una golosa spirale all’uvetta. Indicandola, ne chiedo il nome: “Pain aux raisins”, mi viene risposto. Bastano quelle due battute per renderci conto, io e la barista, di essere entrambi italiani. Ne sorrido e mi gusto la mia petit-dejeuner.
Poco dopo entra una nuova cliente e, guarda un po’, è di Brescia! La situazione è molto simpatica. Chiacchieriamo qualche minuto e tento anche di spiccicare qualche parola in francese con un’altra coppia di clienti, ma sbatto il naso con la triste realtà: sono quasi totalmente incapace di parlare questa lingua. La cosa non mi terrorizza, ma il mio intuito dice che sarà molto dura. In ogni caso, la colazione è andata come meglio non poteva. La simpatica bresciana decide addirittura di offrirmela. Riparto con grandissima gioia.

Scendo nella parte moderna di Briançon e, sul finire della cittadina, un uomo che stava parcheggiando l’auto, ne scende e mi viene incontro, chiedendomi se io sia diretto a Santiago.
Dal suo atteggiamento, non può che essere una persona che ha qualcosa a che fare con la Via Domitia. Scopro immediatamente di averci visto giusto: è Bernard, uno dei referenti dell’associazione locale legata a questo cammino. Si occupano della cura del tracciato, della sua promozione e – non ultimo – organizzano reti di sostegno ai pellegrini. Addirittura alcuni nuclei familiari affiliati si rendono disponibili per l’accoglienza.

A tal proposito ho bisogno di aprire una parentesi riguardo a tutto questo.
Ero e sono cosciente che la situazione sanitaria comprometterà forse totalmente questo specifico genere di ospitalità, ma ho comunque contattato via mail i referenti di zona per chiedere almeno supporto e consigli. Ho usato la posta elettronica perché non sono in grado di sostenere una telefonata. Conosco l’inglese e lo spagnolo in maniera assolutamente sufficiente per cavarmela, ma in piccole occasioni ho già iniziato a sperimentare che le lingue straniere sono ben poco usate qui. La receptionist del campeggio di ieri ho già il sospetto sia stata una felice eccezione.
Scrivo le mail usando il traduttore, ma poi devo correggere sempre qua e là. Questo mi occupa tempo prezioso e purtroppo mi tiene col fiato alla gola perché – come si sa – la posta elettronica non è certo il miglior mezzo per avere comunicazioni rapide.
Va detto che tutto si fa complicato per un ultimo motivo fondamentale: la necessità di non spendere troppo. Senza limiti di spesa, buona parte di questi problemi non sarebbero così pungenti, ma allo stesso tempo il viaggio si snaturerebbe profondamente. Ciò che è ora – difficoltà comprese – è il corpo reale del mio sogno, e sto capendo sempre di più che va vissuto, onorato e goduto proprio così com’è.

Chiusa la parentesi, torniamo a Bernard: è un mezzo miracolo esserci incontrati in questo modo. Sono felice, ma al contempo vorrei anche domandargli perché non ha risposto alla mail che ho inviato anche a lui. Ovviamente evito di farlo e cerco di concentrarmi sull’inattesa opportunità di averlo di fronte. Mi chiede se ho trovato posto per questa notte. Gli spiego che sì, ma sono subito incappato in una spesa molto fuori dal mio budget, non avendo trovato niente di più economico. Campeggi ce ne sono tanti, va riconosciuto, ma dopo la dura nottata di ieri e con le temperature ancora troppo basse per la mia attrezzatura, sentivo di aver bisogno di quattro mura.
Approfitto di lui chiedendogli se possa chiamare al mio posto per la notte di domani, a Mont-Dauphine. Anche in questo caso, ho trovato un’unica soluzione possibile, ancora una volta fuori dal mio budget, però voglio mantenere la calma e affrontare questo battesimo francese con gradualità.
Per trovare da dormire sto usando molte fonti diverse: da qualche lista trovata sui siti delle associazioni a Booking, da Couchsurfing ad Airbnb, anche se la principale resta la guida della via Domitia, scannerizzata prima di partire per non portare troppo peso. Purtroppo è in francese, quindi in larga parte quasi illeggibile per me, ma non ho difficoltà con l’elenco delle strutture ricettive.
Bernard accetta volentieri di aiutarmi, ma durante la chiamata omette di chiedere conferma del prezzo che ho letto in guida e di domandare se sia possibile cenare, in che modo, a che prezzo e se ci siano negozi di alimentari vicini. Gli ho chiesto di porre quelle domande sia prima che durante la telefonata, guardandolo negli occhi pieno di fiducia, ma lui ha concluso la chiamata come se io non avessi parlato, lasciandomi molto perplesso. Scelgo di accettare l’evento così come ha preso forma, quindi ringrazio comunque e lo saluto. Riprendo il cammino con impressa davanti a me l’immagine del suo volto impassibile. È stato davvero strano.

Il percorso mi fa salire parecchio, regalandomi scenari mozzafiato. La valle è profondissima e i monti che la delimitano sono straordinariamente belli. Certo, è molto dura e il peso dello zaino non smette di sembrarmi eccessivo, anche dopo tre settimane. Oltretutto, studiando il percorso, ho capito che il tracciato sarà molto impegnativo almeno per un’altra decina di giorni, con un andamento totalmente diverso dalle centinaia di chilometri già percorsi in Italia. Perlomeno la ginocchiera sta continuando a fare il suo lavoro egregiamente; devo ringraziare il cielo.

Faccio una pausa nel giardino di fronte alla splendida chiesa di Saint-Laurent, nel paesino di Les Vigneaux. Pur completamente diversa, mi proietta indietro di quasi dieci giorni: il ricordo va alla splendida chiesetta della Colombara, dove avevo riposato nel vercellese, prima di Lamporo. Due luoghi tanto diversi, ma ugualmente armoniosi.

Lungo un sentiero, poi, mi imbatto nella prima vera conchiglia gialla su fondo blu: un piccolo cartello quadrato affiancato alle classiche strisce bianco-rosse della segnaletica francese, quelle che seguo in continuazione. È un’emozione unica: mi fa sentire sulla mia strada più che mai, pellegrino vero! Esplodo in una risata liberatoria e la bacio.

Dopo non molto, raggiungo e attraverso L’Argentière-la-Bessée, apprezzando ancora e sempre più il tripudio di giardini e orti invasi di magnifici fiori, imbastiti in composizioni imparagonabili a tutte quelle che avevo mai visto sin qui in vita mia. A volte sono solo aree circoscritte, in altri casi occupano tutto lo spazio attorno a una casa e, ovviamente, ogni terrazzo. Una gioia per gli occhi e per l’anima.

Alla fine del paese, c’è il gîte dove dormirò. Con questo nome si indicano qui in Francia alloggi di vario genere, ma non ho ancora ben capito quali siano le caratteristiche per usare correttamente questa definizione. Qui mi hanno indicato una tariffa base che includeva il solo pernottamento in una mini-camerata da quattro. Pur con qualche ritrosia iniziale, ho scelto poi di aggiungere cena e colazione, perchè sembra non ci siano negozi abbastanza vicini.
Si chiama Moulin Papillon. È una costruzione rustica ma colorata in maniera molto graziosa: le facciate sono bianche e gli infissi e la scala esterna lilla. Tutt’attorno c’è un grande giardino e, più distaccato, un bell’orto.
La proprietaria, Bénédicte, è già al lavoro per la cena. Una donna dal fisico nervoso e dal gran sorriso. Mi chiede se sono disponibile a condividere il tavolo con altri due camminatori francesi. Do il mio assenso con piacere, anche se la sua domanda includeva anche specificazioni che non ho assolutamente capito. Proprio riguardo alla lingua, ha chiarito fin dal principio che non parla inglese. Mi chiedo come sia possibile in un posto di ricezione turistica così bello e frequentato, ma pazienza.
Mi mostra dove dormirò: una stanza con due letti a castello che sarà solo per me. Faccio una doccia e lavo i vestiti; purtroppo, poco dopo averli stesi in giardino, comincia a piovere e sono costretto a riportarli in camera.
È un inconveniente comune, un’oggettiva scomodità; nonostante ciò, mi diverte occuparmene, insieme a tanti altri grattacapi simili che connotano le mie giornate.

In giardino, sotto un tendone, gli altri ospiti stanno al riparo e sembrano divertirsi mentre bevono un aperitivo. Mi piacerebbe unirmi, ma non non posso permettermi di comprare altro e i problemi di comunicazione mi frenano incredibilmente, così mi siedo solitario su una panchina a ridosso della casa.
Quando tutti entrano per la cena, una coppia mi saluta molto cortesemente. È una bella sorpresa scoprire che sono proprio le due persone con cui sono stato messo al tavolo. Si chiamano Philippe e Sandra. Non sono fidanzati, ma hanno fatto amicizia durante esperienze passate di cammino, e ora stanno percorrendo un tratto della via Domitia in direzione opposta alla mia.
La sorpresa più grande, però, è che… lei parla italiano! È una gioia davvero inaspettata, un dono splendido. Oltretutto sono anche simpaticissimi e la serata scorre magnificamente. I piatti di Bénédicte, poi, sono semplici ma superbi – un aggettivo che qui sento usare spesso. Ho speso parecchio, è vero, ma molto meno di quello di cui ho goduto, e me ne vado a letto davvero gratificato.

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06/09 Oulx – Les Alberts (Finalmente Francia!)

(Camping du Bois des Alberts)
26 km

Passo la notte discretamente e la mattina riesco a sistemare le mie cose alla svelta. Vado a bussare al piccolo bungalow di Jacqueline. Stava dormendo, ma in pochi minuti si sistema e mi accoglie. Nella casina ci sono un cane di grossa taglia e tra gatti. C’è disordine ma allo stesso tempo un grandissimo calore; non in termini di gradi, ma di accoglienza.
Mi offre un tè e mi regala un momento di condivisione davvero magico.
Come molte altre volte, si crea immediatamente una confidenza molto intima. Non posso dire per certo cosa la produca così spesso durante questo viaggio, ma forse l’ho già scritto altrove: dev’essere proprio il fatto che io sia pellegrino, un essere di passaggio la cui esperienza è anche profondamente interiore. In questi panni, si può essere riconosciuti più facilmente come interlocutori d’eccezione, portando le persone ad abbassare con insolita naturalezza il ponte levatoio del proprio cuore.

Jacqueline mi racconta un po’ della sua storia: due figli, di cui uno, quello grande, non lo vede da 17 anni, e purtroppo non sa nemmeno dove si trovi. Poi una persona cara tartassata dai TSO, e lei che vorrebbe andare a vivere in una yurta lontana dalla gente, perché dice di aver già visto e vissuto troppo. Mi parla di piante medicamentose, mi mostra i gioielli che fabbrica e mi dice che fin da piccina ha un rapporto strano coi libri. Emana luce, calore. I miei occhi la vedono come una dolce sciamana.
Saputo dei problemi che ho avuto al ginocchio e quali riflessioni mi avevano prodotto, mi dà un consiglio totalmente inaspettato: se si ripresentasse il dolore, lì o altrove, mi invita a danzare per alleviarlo. Per spiegarmi il motivo e convincermi, imita i movimenti del gatto, del cane o degli uccelli con incredibile somiglianza e persuasione. Dice che tutti gli animali danzano, ed è così che ammortizzano gli urti e superano i dolori. Conserverò di lei e di questo momento un ricordo straordinario, ne sono certo. Ci salutiamo con grande tenerezza e parto a camminare, eccitato fin da subito per il tanto atteso – e temuto – ingresso in Francia.

Camminerò in quel Paese per circa 1200 km. Se tutto continuerà regolarmente, più o meno alla velocità che ho tenuto fin qui, dovrei metterci circa sette settimane. La Francia è terra di attraversamento per me: non è quella da cui parto e nemmeno ospita la mia meta ultima, eppure sarà la nazione dove camminerò per più tempo, e di gran lunga.

In questi ultimi giorni ho iniziato ad imparare qualche termine, qualche frase che potrebbe essermi utile, ma la verità è che non conosco minimamente la lingua. La nomea dei nostri “cugini d’oltralpe” è crudele in questo senso, soprattutto con noi italiani. Perlomeno questa è la convinzione popolare, ma spero con tutto me stesso di vivere esperienze che mi aiutino a contraddirla.
Di certo sarà molto più difficile stabilire rapidamente un dialogo, anche presso chiese o altri luoghi religiosi, dove così spesso ho potuto trovare rifugio durante le settimane passate. Per strada, poi, sarà quasi impossibile, ma chissà. Mai dire mai!

Sara – di Milano – mi sta aiutando a comprendere come funzioni la rete di accoglienza pellegrina che prende forma lungo la Via Domitia. Mi spiega che non esistono strutture ad hoc, e che tutto si fonda su un network di accoglienze familiari. Questo viene coordinato dalle associazioni territoriali affiliate al Cammino di Santiago, perché è a tutti gli effetti una via storica per Compostela.
Ho già con me indirizzi e-mail e numeri di telefono, ma mi domando come mai potrò sostenere una telefonata senza sapere la lingua. I pellegrini francesi che ho incontrato a Pavia e quello incrociato prima di Torino mi hanno assicurato che l’inglese sarà di certo sufficiente. Sarebbe davvero il massimo; incrociamo le dita!


Fuori fa proprio freddo. Praticamente l’unica cosa che mi sono tolto è il sacco a pelo, o poco più, e per ora va benissimo così. Con tutta probabilità, però, mi “sbuccerò” strato dopo strato nel giro di pochissimo tempo.
Esco dal paese passando di fronte alla casa del parroco. In lontananza, in cima alla valle, svetta il monte Chaberton, con un dettaglio curioso che decifro solo in seguito: sulla vetta ci sono una serie di torrette tutte uguali, che fanno sembrare ci sia stato messo un grosso pezzo di Lego sopra. Chiaramente è una fortificazione militare e, cercando sul web, scopro pure che è la più alta d’Europa. Dev’essere un’emozione incredibile salirci. Chissà che in futuro…

Raggiungo la frazione di San Marco, dopo la quale godo subito di una prima immersione nel bosco. Purtroppo, in seguito, i segnali mi fanno scendere sulla grande statale per un paio di chilometri. Torno a salire in corrispondenza di Solomiac, frazione di Cesana Torinese, superata la quale posso tornare tra boschi straordinari. Bello, bello, bello! C’è poco da fare.
Presso la frazione successiva, Mollieres, sono ospitato per una pausa da Mario e Marisa, amici del pellegrino Luciano, che ci ha tenuto a metterci in contatto. Sono una coppia appassionata di cammino e di cammini, e si dimostrano da subito particolarmente affettuosi nei miei confronti: due persone, due nonni, capaci di sorridere ed emozionarsi.
Scopro anche che sono ardenti sostenitori del movimento che reputa gravemente ingiusto il passaggio dei treni ad alta velocità nella valle. Chiedo loro di parlarmene: mi colpisce la loro assoluta lucidità e competenza, e resto particolarmente scosso quando mi descrivono alcuni atti di repressione molto gravi operati contro appartenenti al movimento. A un certo punto, però, sono costretto a interromperli perché mi sono accorto di essermi fermato troppo, ma sono comunque felice di averlo fatto.

Li saluto affettuosamente e proseguo spedito. Arrivo a Cesana Torinese, apprezzando sempre di più le architetture che incontro, nonché l’abbondanza di fiori che decorano giardini e le balaustre del ponte, come e più di Bussoleno. Compro infine qualcosa da mangiare e riparto, attraversando fino in fondo la bella via centrale del paese.
Da lì, dopo alcuni tornanti sulla strada statale, arrivo al piazzale che dá accesso all’area delle gole di San Gervasio, una sorta di canyon profondo in alcuni tratti fino a 100 m, sul cui fondo scorre la Piccola Dora.

È un tratto di un paio di chilometri incredibilmente affascinante. Lo si percorre attraverso una comoda passerella in legno e qualche scalinata, tra cui una finale particolarmente ripida. Una curiosa particolarità delle gole è la presenza del ponte tibetano più lungo del mondo (460 m!), il quale si snoda lungo tutto il canyon a trenta metri da terra. Sulla mia testa vedo file di temerari d’ogni età affrontare quel percorso tanto scenografico. Dev’essere un’emozione straordinaria.

Concluso l’attraversamento, salgo fino ad uno splendido spiazzo verde dal quale posso contemplare le gole dall’alto e gongolarmi per la strada fatta. Non solo quest’ultima, in realtà, ma tutti i 500 e più chilometri percorsi fin qui. Sono davvero a un utlimo passo dalla Francia, in mezzo a luoghi superlativi, in una giornata mozzafiato e in piena forza. Non posso chiedere di meglio.
Sosto lì per un po’, facendo asciugare la maglietta e mangiando qualcosa, mentre attorno a me un sacco di bambini giocano felicissimi e le rispettive famiglie si godono i loro pic-nic. Sento di avere un gran sorriso in volto che non vuole proprio andar via.

Finita la pausa, raggiungo in pochi minuti Claviere, dove mi faccio timbrare la credenziale. È la prima volta, fin qui, che anticipo questa mossa, senza aspettare di riaggiungerela la meta di tappa. Il fatto è che non so se là ne avranno uno da apporre, ma allo stesso tempo è come siglare il termine del tratto italiano del mio cammino.

Cinquecento metri dopo, infatti, sono ufficialmente in Francia. Ci sono arrivato da casa, non ci posso credere! Ovviamente, selfie di rito al cartello e gioia assoluta.
“Gran traguardo, Robi! Grande!”, mi dico ovviamente da solo.
Emozioni e fatica, che bellissima accoppiata!
Nonostante il momento abbia per me un valore quasi epico, scelgo di ripartire subito perché mi aspettano ancora 7 km per arrivare al campeggio, ed è già tardi.

Mezz’ora dopo, all’inizio del comune di Montgenèvre, trovo una grande targa che mi gonfia il cuore quasi più di prima: è quella che introduce alla Via Domitia, il cammino che da qui conduce fino ad Arles: 435 km, quasi quanti quelli che ho già percorso. Secondo la nomenclatura francese, si chiama GR 653D. È una via relativamente giovane. Il suo nome nasce da quello della famosa via Tolosana verso Compostela, al quale però è stata aggiunta la D di Domitia. Un modo per dare continuità tra l’uno e l’altro cammino giacobeo. In realtà, però, io rinuncerò al passaggio da Tolosa; opterò invece per la via del Piemonte Pirenaico (GR 78), ricalcando l’esperienza della “zia” Sara.
Con lei continuo a sentirmi regolarmente. È sempre gentilissima e piena di energie positive che le piace condividere con inusuale generosità. Purtroppo non le mancano motivi di preoccupazione in questo periodo, ma si ostina a far prevalere le proprie migliori risorse e a rimanere disponibile per “i pazzi” come me, così dice sempre. Ho scelto di seguire il suo itinerario anche perché il passaggio da Lourdes è qualcosa che mi attrae molto, e la via Tolosana passa molto più a nord. Comunque, vedremo.
La targa dice che mancano 2010 km a Santiago. Che roba! Speriamo proprio di farcela.

Attraverso tutto il piccolo comune e, seguendo la segnaletica bianca e rossa come quella dei nostri sentieri CAI, imbocco una bellissima via tra i boschi. La vegetazione è diversa quanto basta per percepire nitidamente che qualcosa è cambiato. Può sembrare assurdo che, una volta passato un semplice confine politico, ci sia uno stacco netto tra le tipologie di piante, eppure è quello che vedo. Forse, più semplicemente, è così già da Claviere, che sta nettamente più in alto di Oulx, ma non me ne sono reso conto se non fino a qui.

A metà sentiero devio, tradendo fin da subito il GR. Ne esco per dirigermi al Camping du Bois des Alberts, dove dormirò stanotte. Anche la spianata sottostante già riesce ad incantarmi. Il piccolo centro abitato vicino al campeggio, a sua volta, mi dà l’impressione di essere particolarmente pittoresco, armonioso. Sarà la suggestione, ma ho il presentimento che potrebbe essere un’esperienza più frequente di quanto possa immaginare qui in Francia.
Perdo un po’ l’orientamento e finisco col passare da un sentierello dietro al grandissimo campeggio, costeggiando un corso d’acqua di piccole dimensioni. Intuisco solo dopo un po’ che quello non è altro che La Durance, il fiume che scava la valle e che più avanti vedrò crescere e snodarsi per un bel po’ di giorni.

Il campeggio è grande e singolare, stracolmo di alberi snelli e altissimi. La receptionist (Cecile, mi pare) è particolarmente gentile e, con mia grande sorpresa, spiccica anche qualche parola di italiano. Mi prende in simpatia e mi regala addirittura un gettone lavatrice, che però non uso, e non faccio nemmeno la doccia, ahimè, perché è troppo tardi e fa davvero un freddo cane; i panni non asciugherebbero mai e io rischierei un gran raffreddore. Della poca gente che sembra esserci, sono l’unico in tenda, e non credo sia un caso.
Mangio focaccia, tonno e biscotti alle 18.30, e due ore dopo già tento di addormentarmi, ovviamente con addosso tutti – ma proprio tutti – i vestiti che ho portato con me. So da giorni che questa notte sarà una delle più fredde del mio cammino. Speriamo vada tutto bene!

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Francia, Hautes-Alpes, PACA
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cammino di santiago - roberto pesenti

05/09 Chiomonte – Oulx (TO)

(campeggio Pra Vey)
23 km

Niente da fare: dormire su tavoli affiancati è una stupidaggine. Sarà per il senso di precarietà o chissà che altro, ma ancora una volta passo una notte veramente brutta, svegliandomi in continuazione. Fortunatamente la giornata inizia comunque bene, grazie all’arrivo di Filippo che, premurosissimo, mi porta caffellatte e savoiardi. Questa persona è un vero angelo.

Partenza alle sette in punto. Tutto entusiasta, scendo per la valle seguendo la via tracciata ma, arrivato alla Dora, trovo una gran cancellata chiusa. Siamo in corrispondenza dei cantieri per la TAV e questo è il motivo dell’interruzione.
In realtà ero stato avvisato che sarebbe potuto succedere, e prima di scendere ho superato delle barriere con dei cartelli affissi, ma senza leggerli. Mea culpa, ho tentato. Davanti a me, oltre il cancello, due carabinieri a fare picchetto. Faccio il finto tonto, implorando pietà e mostrando zaino e conchiglia, ma comprensibilmente vengo rimbalzato.
Tornato sui miei passi, opto per l’unica alternativa: la statale. Non certo una bella esperienza, ma per fortuna passano poche auto e c’è sufficiente spazio per camminarvi a lato.

La freddezza del tappeto d’asfalto e dei guardrail, ancora in ombra insieme a metà della valle, è temperata dalla bellezza inaudita di quelle montagne già baciate dal sole. Il cielo è limpido, le cime spoglie sono rosa come pompelmi. Fin da Chiomonte godo di questa tavolozza e mi è difficile trattenere un sorriso di meraviglia e gratitudine.
La quotidianità di questi sentimenti è una delle caratteristiche maggiori dell’esperienza, tanto quanto il mio continuo scorrere tra luoghi e persone.
Tra l’altro, proprio le rivoluzioni a cui mi sottopongo ogni giorno sembrano rafforzare quegli stessi sentimenti eccezionalmente positivi: pace, meraviglia, gratitudine, consapevolezza. Sono scoperte favolose.

In corrispondenza di un secondo ponte a valle, riesco a ricollegarmi alla Francigena e dopo mezz’ora sono di fronte al Forte di Exilles, un complesso fortificato tra i più importanti del Piemonte. Svetta al centro della valle, facendo intuire quanto efficace possa essere stato nelle epoche passate. Militarmente risulta in disuso dal ’43, ma da molti anni è diventato sede di un museo. La salita rettilinea che porta all’ingresso è piuttosto ripida, ma percorrerla è emozionante, e arrivati in fondo tutto sembra ancora più monumentale. Purtroppo le porte sono chiuse ma, voltandomi, la visione della valle è splendida, così mi godo almeno quella.

Scendo poi verso Exilles, dove avevo prenotato un alloggio già dopo Torino, ma che ieri ho disdetto. È un piccolo borgo e l’attraverso solamente lungo la breve e stretta via principale, ma tanti dettagli me lo fanno piacere particolarmente. Tra questi, il fatto che attività di base come la panetteria, il macellaio o la sartoria, condividano un unico stile per le loro insegne, qualcosa di vagamente retró. In realtà, qualcosa mi fa pensare che in alcuni casi stiano ad indicare l’attività che lì c’era storicamente, e non una esistente, ma il mio passaggio è troppo veloce per verificarlo.
Ci sono anche cartelli informativi, fotografie e mappe che aiutano meglio a calarsi in quella che era Exilles nel passato, e tutto questo nelle poche decine di metri su cui sviluppa l’abitato! Anche l’uscita è molto bella: il paesaggio si apre e si incontrano suggestivi lavatoi, una chiesetta, case ben curate, muretti a secco e tantissima vegetazione.

Si prosegue su asfalto, scendendo di nuovo a valle e attraversando un altro ponte, oltre il quale comincia una salita non da poco. È quella che mi porta in una delle aree forestali più incantevoli che abbia visto: il Parco Naturale del Gran Bosco di Salbertrand. Il nome è altisonante, ma è un’area che rivela presto la sua straordinarietà, ben all’altezza del titolo che porta. C’è un’atmosfera magica e solenne; qua e lá, tra i grandi alberi, posso scorgere le montagne dall’altro lato della valle, illuminate da una luce che ancora qui manca.

Nei pressi del forte di Sapè, che si intravede appena perché immerso tra la vegetazione, qualcuno sta bruciando qualcosa e il fumo rende ancora più visibili i raggi del sole che penetrano tra i rami. Poco più in là, il bosco si apre e sulla mia destra un largo prato verde scivola verso un piccolo agglomerato di case in pietra, bellissime. In mezzo al prato, un covone sostiene un’asta su cui sventola una bandiera rossa. Nel mezzo c’è stampato un simbolo giallo ed elegante che non so riconoscere. Mi fermo per un paio di minuti a fare qualche foto, e scorgo una coppia spuntare da una casa per occuparsi di qualche faccenda. I nostri sguardi si incrociano, ci salutiamo, mi chiedono dove stia andando e restano felicemente stupiti dalla mia risposta. Gli domando della bandiera, e mi spiegano essere quella dell’Occitania, un nome che però non collego a nulla. Con incredibile gentilezza, mi invitano a proseguire il nostro dialogo davanti a una tazza di caffè. Ne approfitto entusiasta.
Si chiamano Laura e Gigi, quella è la loro seconda casa e la stanno ristrutturando piano piano. Gigi mi affascina parlando dell’Occitania, accennando alla sua storia, alla sua lingua, alla cultura che vi si associa. Mi entusiasma pensare anche che il mio tragitto andrà proprio ad attraversare le terre che storicamente si associano a quel nome. Conversiamo molto piacevolmente, mentre Laura porta in tavola pani e mieli diversi e deliziosi. Il sole arriva a baciarci e tutto sembra perfetto, tanto che rimango addirittura quaranta minuti, seguendo Gigi mentre mi mostra gli ingegnosi macchinari che lui stesso ha costruito per lavorare alla ristrutturazione della casa.

Quando torno sui miei passi ho la pancia e il cuore pieni. Il Parco, però, non è ancora finito, e mi aspetta anche una cosa molto speciale. Proseguendo lungo il fantastico sentiero detto “dei Franchi”, infatti, avvio una diretta streaming con Genova. Per che cosa? Per il matrimonio di mio cugino! Un’esperienza più unica che rara: camminare in scenari favolosi verso Santiago mentre si segue un matrimonio lontano a cui si tiene moltissimo. Passo ore splendide nelle quali, oltre allo spettacolo della cerimonia, tutto attorno a me è una fioritura di dettagli impagabili, per lo sguardo, per il corpo e per l’anima. Consapevole di star vivendo una gioia rara che sembra affiorare senza sosta sul mio viso, mi diverto a tentare di immortalarla con qualche foto. Faccio bene, perché quando riguardo quegli scatti vedo la parte migliore di me. Sia un promemoria per il futuro!

Mi fermo per far pausa su una panchina al sole, messa lì per godere dello spettacolo del magnifico Lago Orfù, a fondo valle, dove qualche bagnante sta anche azzardando un bagno.
Infine, riparto e scendo, raggiungendo Gad, una bella frazione di Oulx, il comune dove termina la mia tappa di oggi e che raggiungo poco dopo.

Prima dal centro, incontro il campeggio Pra Vey, dove dormirò.
Trovata la piazzola, sistemo la tenda e faccio conoscenza con due bambini che mi gironzolano attorno incuriositi e poi con il padre di uno di questi, con cui resto a fare due parole. È sempre bello e mai scontato poter socializzare in un luogo dove si è appena arrivati.
Dopo una doccia, vado al supermercato di fronte a fare un po’ di spesa, dopodiché approfitto di uno dei tanti negozi sportivi per chiedere aiuto. La linguetta frontale delle scarpe, infatti, si è staccata ancora, il che significa che la colla di Filippo non è adatta. La cosa mi preoccupa molto, ma riesco a restare ottimista. Fortunatamente, trovo un negoziante molto gentile che mi propone di usare una sua colla “speciale”, a suo dire, che funziona alla grande e che alla fine ricevo pure in regalo. Io lo ringrazio vistosamente, anche se più tardi scopro che, aldilà della innegabile cortesia della persona, la colla non era altro che un piccolo campione di comune Attack. In fondo è un ottima notizia. Se funzionerà a dovere saprò che basta quella colla tanto comune per poter risolvere i miei problemi.

Oulx è un bel paese, molto vivo. Un crocevia per tante persone e turisti, ricco di servizi e ben tenuto. Anche qui i fiori non mancano. Ormai, insieme ai lavatoi, sono diventati una piacevolissima costante lungo questo tratto.
In centro paese, domando per la chiesa e, lungo la strada, mi imbatto nel sacerdote che sta uscendo da un negozio. Gli chiedo se c’è qualcuno alla parrocchia che possa timbrarmi la credenziale. Mi risponde di sì, ma in maniera un po’ strana; io comunque mi incammino fiducioso. Arrivato in cima alla salita, lo vedo uscire da una macchina fuori dalla porta. È tornato apposta per me perché probabilmente la verità è che in casa parrocchiale non c’è nessun’altro. Beh, a conti fatti è stato molto gentile.

La sera ceno al caldo presso il bar del campeggio, e fuori, poi, ho il piacere di conoscere diverse persone tutte insieme. Innanzitutto Caterina e Cynthia, una coppia di simpaticissime amiche, poi Loris, un trentanovenne di Torino, ex scout, che mi dice che a diciott’anni ha raggiunto Santiago in 35 giorni da Torino, camminando sessanta chilometri al giorno assieme ad un’amica. Rimango davvero stravolto da questi numeri. Il racconto sembra abbondantemente improbabile, ma non riesco a respingerlo e quei numeri si annidano in me fin da subito, come un’inutile e fastidiosissima pietra di paragone.


In ogni caso, ai tre si aggiunge una quarta persona, Jacqueline, una donna apparentemente sui cinquant’anni, ma non posso dirlo con certezza perché i segni sul suo volto, pur luminoso e sorridente, raccontano fin dal primo istante di anni vissuti con qualche difficoltà fuori dal comune. Una mezzora con lei e le altre due donne mi regala l’opportunità di conoscersi un po’ meglio. Jacqueline ha un’aura intensa e magnetica, e allo stesso tempo profondamente buona. Si coglie il lavoro che lei ha dedicato a comporre la sua pace interiore nonostante gli inciampi della vita. Mi esprime il desiderio che io passi a prendere un caffè nel suo bungalow domani mattina, prima di partire. Accetto volentieri.

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Italia, Piemonte
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04/09 Sant’Antonino di Susa – Chiomonte (TO)

(sala del complesso parrocchiale)
29km


Vincenzo mi aveva espressamente chiesto di non fare troppo chiasso quando mi sarei svegliato, e di non accendere la luce. Io faccio il possibile, ma riesco comunque a disturbare il suo sonno leggero. Borbotta qualcosa, ma con l’aria di chi in fondo sa che era inevitabile. Ci salutiamo senza esagerate moine, ma mi lascia con una raccomandazione quasi materna, del tutto inaspettata: “…e stai attento!”. È forse il massimo segno d’affetto che può sfuggire dalle maglie del suo sconforto, e per me è un dono grande, sia per averlo ricevuto che per aver contribuito affinché nascesse in lui. Spero tanto che la vita possa fargli qualche regalo importante.

Lascio Sant’Antonino seguendo ancora una volta una strada asfaltata alla base della montagna. Questa mi trattiene nella sua ombra, ma le cime dal lato opposto e molti alberi già sono pennellati di un rosa mozzafiato.
Finalmente, quando la carreggiata si sposta verso il centro della valle, anch’io posso godermi un gran bagno di luce, con il sole che ha appena superato le piante all’orizzonte. Tutt’intorno ho prati e pascoli letteralmente infuocati. L’ombra di ogni cosa è lunghissima e tutto è immobile.
Quello che vedono i miei occhi, però, è diverso da quello che sento. Infatti, percepisco quella staticità come una tensione dinamica: mi pare che ogni cosa, così come me, stia subendo un’attrazione ammaliante verso il sole. Forse, se vedessi anche qualcosa oltre la materia, scoprirei che davvero tutto è orientato verso quella sorgente di vita ogni volta che sorge. Mi piace pensare sia così.

Il paese successivo è Villar Focchiardo. Luciano mi ha consigliato di approfittare del ponte sulla Dora e proseguire il cammino sull’altra sponda, spiegandomi che lá c’è una serie pittoresca di paeselli. Continuando su questo lato, invece, dovrebbe esserci solo un po’ di bosco, niente di che. In realtà, la parola “bosco” mi convince a fare il contrario di quello che mi ha proposto. Sento proprio il bisogno di tornare tra gli alberi.
Ahimè, l’aspettativa si frantuma con la realtà: il tratto si rivela essere davvero anonimo. Pazienza, vorrà dire che al prossimo giro da queste parti esplorerò quello opposto.

Alle porte di San Giorio di Susa scorgo su un poggio il castello medievale. Mi piacerebbe salire a dare un’occhiata, così lascio la rotta segnalata, ma abbandono altrettanto alla svelta il piccolo capriccio, perché capisco che allungherebbe troppo il tragitto. Ripiego sulla parrocchia, che però trovo chiusa. Mentre ancora sono sul sagrato, noto che una signora mi osserva incuriosita dal suo terrazzo. Ne approfitto per chiedere un po’ d’acqua ma, prima che mi risponda, esce dalla porta il figlio e mi chiede con durezza che cosa voglia. Gli sorrido e ripeto la richiesta, presentando la mia borraccia. Constatato che non sono un forestiero minaccioso, il suo volto si ammorbidisce,  e alla fine me ne vado sia con l’acqua che con saluti cordiali da parte di entrambi.

Dopo il sottopasso autostradale, raggiungo Bussoleno. Qui si riuniscono definitivamente i due tratti paralleli della Via Francigena sui quali mi sono alternato tra ieri e oggi. Fra poco proseguiró sulla sponda sinistra della Dora, perlomeno fino a Susa. Proprio sul piccolo ponte, mi imbatto in un dettaglio che mi sorprende molto piacevolmente: sulle ringhiere sono state poste delle fioriere. Un tocco di buon gusto inedito per me, che mi pare capace di impreziosire non poco l’atmosfera. Chapeau!

Salgo fin dietro la ferrovia e continuo ancora su asfalto, purtroppo, ma se non altro il panorama è splendido. La valle da qui sembra ancora più ampia e verdeggiante; ci sono anche delle vigne e altri alberi da frutto. Fin dall’inizio del cammino, il mio vero street-food è proprio la frutta colta qua e là sul percorso: in particolare fichi, uva e mele.
È un gesto elementare, primitivo; non è solo sfamarsi, e nemmeno come pescare dalla fruttiera o dalla cesta di un supermercato. La cosa più divertente è ricordarsi che quelle golosità non sono state appese lì dove le strappo, ma ci sono nate. Da un’unghia del ramo è passato tutto ciò che poi è diventato succo, polpa, buccia, foglia. A quel peduncolo il frutto è rimasto attaccato per mesi pur essendosi fatto pesante, e rimanendo esposto a ogni condizione climatica. Eppure, a volte, per staccarlo serve pochissima forza. Non me ne intendo di botanica, ma sembra che tutto stia lì appeso proprio per essere colto, esclusivamente per quello, e riesco sempre meno a dare questa cosa per scontata. Nella nostra società, si può passare una vita intera senza staccare un frutto da un albero, e nel mio caso poco ci è mancato.

Forse queste sono solo suggestioni da pellegrino principiante, ma me le tengo strette perché mi lasciano col cuore aperto. Nella vita routinaria, i rischi che un cuore spalancato venga riempito alla svelta di immondizia – o venga vandalizzato – sono alti e frequenti, ma in cammino sembra molto diverso. Si accumula facilmente meraviglia, si vivono preziose e frequenti sorprese, si ricevono lezioni semplici ma mai banali, gesti d’affetto sbalorditivi. E anche quando qualcuno ti spegne un mozzicone proprio lì, brucia forte, sì, ma mai abbastanza per rovinare tutto. Anzi, come in tanti altri casi, capisci che anche le ferite sono necessarie perché la grande tavolozza di quest’esperienza mostri tutti i suoi colori.

Sceso dalle nuvole, mi accorgo che gli spuntini fatti mi hanno spalancato lo stomaco, oltre che il cuore, così mi fermo per una pausa a Foresto. Lì incontro una signora che, saputo dove mi sto dirigendo, mi raccomanda con grande pathos di farle un favore speciale: mi chiede di portare le sue preghiere in Francia, presso una località chiamata La-Roche-de-Rame, dove troverò un lago artificiale. Quasi con le lacrime agli occhi, mi mostra una vecchissima fototessera col volto di un giovane, appena ventenne. Era suo figlio e proprio lá morì annegato. Resto molto toccato da ogni dettaglio, e le prometto che lo farò.
La pagina su cui appunto offerte e intenzioni sta riempiendosi più di quanto avrei potuto immaginare.

Arrivo a Susa da dietro la stazione; lì c’è una lunga area di sosta per camper. Sapevo della sua esistenza perché amici di Beppe mi avevano consigliato di piantare lí la mia tenda. Trovo il luogo che mi hanno indicato, ma sono le due del pomeriggio, c’è un sole splendido e non ho dolori di nessun tipo, solo un po’ di sana stanchezza. Decido di proseguire.
Prima, però, mi regalo un altro meritato riposo e mangio qualcosa. Trovo subito da sedere ai margini di un parco, al bordo della strada principale. Mentre ricarico le batterie, sulla panchina di fianco viene a sedersi un’anziana signora, ma ancora incredibilmente ruspante. Si chiama Diomira e ha ben 96 anni! Mi racconta qualcosa della sua vita e, nonostante gli inevitabili lutti vissuti, trova anche qualche simpatico aneddoto per il quale ridiamo un po’ insieme. Una volta salutata, mai mi sarei aspettato di avere la fortuna che qualcun altro, altrettanto speciale, la sostituisse. E invece ecco arrivare un uomo, anche lui non certo giovane, vestito con una bizzarra tunica tutta colorata, lunga fino alle caviglie. Mi spiega di farsi chiamare Petrus, il suo nome d’arte. Fa il pittore da sempre, ha parecchi problemi di salute, ma ci scherza e ci fuma su. È un po’ originale anche nei discorsi, ma incredibilmente sorridente.
Arrivato l’ennesimo autobus, se ne va anche lui, e ormai è ora che anch’io mi dia una mossa.
Si riparte! Per quale paese? Mah! Sono in pieno affidamento.

Arrivo nel fulcro storico-artistico di Susa, e ammetto che è davvero bello. Il campanile della Cattedrale, Porta Savoia, l’arco di Augusto, l’acquedotto romano, i parchi: non conoscevo la sua storia millenaria.
La traccia mi porta infine davanti a un cancellino. Se non fosse che Luciano me lo aveva anticipato, difficilmente l’avrei aperto, e invece è proprio da lì che si passa. Lo supero, lo chiudo alle mie spalle e da lì scopro che parte un bella salita, stavolta in un bosco vero. Nonostante la fatica non da poco, l’affronto con euforia, sorretto anche dalla gioia inesausta per la mia miracolosa ginocchiera.

La parte più difficile, per fortuna, è solo all’inizio. Attraverso un’infilata di scenari naturali molto diversi. Mi godo tutto, sbaglio strada, la riprendo: sono contentissimo.
Dopo circa sei chilometri, arrivo nel paesino di Chiomonte, scendendo tra vigneti e muretti a secco; sono le quattro del pomeriggio. Mi dirigo alla chiesa, con il suo campanile svettante e appuntito: tenterò la solita strategia, chiedendo ospitalità al parroco. La porta è aperta e dentro ci sono due signore del paese a fare le pulizie. Una di queste, Giancarla, si fa carico con incredibile generosità di sopperire all’assenza del sacerdote. Mi accompagna nel suo ufficio e lo chiama per telefono, proponendo ella stessa una stanza al piano inferiore e ricevendo risposta positiva. È fatta anche stavolta! Cerchiamo insieme il timbro della parrocchia e, una volta segnata la credenziale, scendiamo nella mia nuova stanza. È una sala per attività varie, tipica di un oratorio. Ci sono tavoli, sedie, due bagni, panche, un telo per proiettore, materiale da disegno. Ha diverse grandi finestre che si affacciano su un piccolo giardinetto incassato tra le case dietro la chiesa. Mi avvisa della presenza di una coppia di villeggianti che abita al primo piano, Gabriella e Filippo. La casetta di fianco, invece, è abitata da un ragazzo.

Prima dei saluti, Giancarla mi consegna alcuni soldi da portare in offerta a Santiago per un parente malato. Li aggiungo all’elenco e anche a lei do la mia parola. Poco dopo faccio conoscenza del signor Filippo e della moglie, anche loro gentilissimi. Il marito, in particolare, è provvidenziale perché mi regala un tubetto di colla speciale per calzolai, che per evenienza porta con sé da parecchio tempo. Il motivo è che le mie fantastiche scarpe nuove mi hanno già fatto uno scherzetto: la piccola lingua di gomma che sta sulla punta si è già scollata. Con la cintura e un pezzo di cartone improvviso un gran laccio per tenerla premuta mentre la colla fa effetto.

Per la notte, viste le condizioni del pavimento, mi rassegno a replicare la soluzione pur fallimentare adottata a Lodi: unire dei tavoli e appoggiarci sopra il materasso. Perseverare è diabolico, dicono, ma ci provo comunque.

Prima di dormire, incontro anche Mot, il ragazzo della casa affacciata sul cortile, con il quale scambio solo due parole, ma sono sufficienti per cogliere sia una persona davvero per bene. Viene dall’Africa, e non ha avuto vita facile, ma ora qui ha trovato nuove radici ed è molto ben voluto. Sto conoscendo moltissima gente, e ascoltare dal vivo tutte le loro storie è sempre un’emozione e un arricchimento.

Non rimane altro che calare il sipario anche su questa grande giornata.
Francia, ci sono quasi!

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Italia, Piemonte
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03/09 Alpignano – Sant’Antonino di Susa (TO)

(Casa del Pellegrino – ospitalità parrocchiale)
27km


Mi sveglio di buon ora, mangiucchio qualcosa e raggiungo casa di Beppe, trovandolo fuori ad aspettarmi con altri due amici. Di certo fanno parte dell’associazione, perché portano tutti e tre la stessa maglietta.
Uno dei due è Luciano, il grande pellegrino di cui mi ha parlato il giorno prima, e l’altro si chiama Michele.

Mi confermano una cosa che aveva abbozzato ieri Beppe, cioè che potranno accompagnarmi solo fino a Sant’Ambrogio, dove inizia la salita per la Sacra. Sarà come un passaggio di testimone, visto che proprio lá dovrei trovare Sara ad aspettarmi.
Sembrano tutti ben felici di partire. Da parte mia, custodisco un senso di leggero disagio legato al fatto che non cammino con qualcuno da tempo, precisamente dalla partenza, quando Chiara e le altre mi fecero compagnia.
Oltretutto, in queste settimane per me la prima ora di marcia è diventata quasi sacra, emotivamente sempre molto intensa e gioiosa. Sono curioso di scoprire come andrà oggi.

Beppe è evidentemente un uomo che ama prendere iniziativa e dare forma benevolmente alle cose; ne trovo conferma anche stamattina, vedendo come da subito si pone di fianco a Michele, chiacchierando senza sosta solamente con lui. Mi pare lo faccia per permettere a me e Luciano di conoscerci e confrontarci fin da subito. È un gesto un po’ teatrale, ma simpatico.

Accetto il dono e rompo il ghiaccio col partner “assegnatomi”. Luciano si rivela fortunatamente un generoso narratore e mi parla appassionatamente di tutti i suoi cammini tanto audaci, che spero qui di appuntare fedelmente: è andato una prima volta a Santiago, poi successivamente ha fatto il cammino primitivo ed è tornato a piedi. E ancora, ha raggiunto l’Apostolo partendo da casa e tornato di nuovo “col due”, come ama dire. È una risposta molto simpatica che lui utilizza di fronte all’incredulità di chi gli chiede, appunto, come sia tornato dai suoi cammini: “Col due!”, come fosse un tram, mentre non sono altro che quelle due leve miracolose che natura ci ha dato per muoverci.
L’anno prossimo prevede di fare il cammino della Plata e, da Santiago, raggiungere poi addirittura Roma, ovviamente sempre a piedi. Che dire? Una vera vocazione tardiva, a quanto pare.
Parla sempre sorridendo, inanellando aneddoti divertenti e mostrando una memoria di ferro su tantissimi dettagli. Di quando in quando, gli pongo qualche domanda su cose che potrebbero essermi utili, e cerco di acciuffare ogni singolo dettaglio delle sue risposte, soprattutto riguardo al tratto francese, quello che temo di più.

Ascoltandolo, però, mi rendo anche conto che siamo due persone profondamente diverse, e non solo per l’età. La cosa di per sé sarebbe di certo fonte di arricchimento, ma purtroppo, invece, prendono forma nel dialogo dei piccoli attriti.
Ci spostiamo su temi differenti, ma la cosa non migliora. Al contrario, l’aria finisce col diventare un po’ elettrica, fino a che non trovo altra soluzione se non riprendermi un po’ il mio spazio.D’altronde non può bastare fare la stessa cosa per garantire una sicura sintonia, e il peregrinare, a quanto pare, non fa eccezione; ma va bene così.

Purtroppo, a questo piccolo imprevisto si aggiunge anche il fatto che soffro terribilmente il loro passo spedito. Sono più giovane, è vero, ma ho anche uno zaino che – ogni giorno di più – mi rendo conto essere davvero troppo pesante per me. Oltretutto, sarebbe mia abitudine anche rallentare di fronte a scenari particolarmente belli, perchè ho proprio il bisogno di goderli, di mettermici in relazione. Questa, però, non sembra essere un’esigenza condivisa dai miei compagni, e decido di onorare la loro presenza oggi allineandomi al loro passo.

I paesaggi sono splendidi. La giornata valorizza al massimo il fascino di questo primo tratto di valle, tanto aperto e soleggiato. Ancor prima delle otto, iniziamo già a vedere la Sacra di San Michele in lontananza.
Il sentiero si alterna a strade asfaltate; è semplice e piacevole da percorrere. Sull’altro lato della valle svettano le prime montagne. Mi viene fatto per la prima volta il nome del Rocciamelone, che non avevo mai sentito prima. Scopro che è una montagna particolarmente nota, e dal valore simbolico molto importante per tanti appassionati di montagna.

Passiamo anche nei pressi della Precettoria di Sant’Antonio di Ranverso, a Buttigliera Alta: un’abbazia molto originale, non grande, con un’architettura e delle decorazioni esterne del tutto nuove per me. Dentro dev’essere altrettanto bella, ma non è possibile visitarla. Attorno ci sono altre costruzioni affascinanti, simili nell’impianto decorativo ma apparentemente non religiose.


Arrivati a Sant’Ambrogio di Torino, alle basi del colle su cui svetta la Sacra, troviamo Sara, proprio come d’accordo. È raggiante e in splendida forma. Faccio le presentazioni e passiamo qualche minuto anche con Don Romeo, parroco del paese, entusiasta accoglitore di pellegrini. Abita proprio lì, di fianco alla chiesa dedicata a un certo San Giovanni Vincenzo, dalla splendida facciata in mattoni.
Dopo le foto di rito e i saluti, io e Sara imbocchiamo la salita verso l’abbazia, ma ci dobbiamo fermare subito, perché le viene in mente di aver dimenticato in macchina il pranzo preparato generosamente per entrambi. Meno male che si è ricordata! Una volta riuniti, riprendiamo il sentiero, che si rivela particolarmente ripido.
Fortunatamente, il bel tempo, i magnifici scenari e il piacere di essere lí insieme ci fanno comunque trovare il fiato per parlare lungo tutto il percorso, raccontandoci di noi, e soffrendo meno la fatica.


Arrivati all’abbazia, ci godiamo il panorama sia verso le Alpi che verso Torino, ma è l’imponenza ammaliante della Sacra stessa che lascia ammutoliti. Paghiamo ed entriamo in questo luogo monumentale e unico. La grande scalinata interna, detta “dei Morti”, proietta all’istante in epoche lontanissime. I primi insediamenti noti qui risalgono a quasi duemila anni fa, ma la gran parte dell’abbazia per come la si vede ora esiste comunque da un millennio. Ogni passo scatena l’immaginazione e la meraviglia.
Purtroppo, una volta entrato nella chiesa, resto stranito perchè il fascino magnetico appena sperimentato svanisce in un istante. Molti segnali poco in armonia con la bellezza del luogo sono disposti per far sì che le persone non entrino troppo a contatto tra loro, ma non è solo quello; anche l’allestimento decorativo mi pare disordinato e mi trasmette un senso di disarmonia: una questione molto soggettiva, certamente. Poco importa, comunque, perché ogni altro luogo fuori che quello mi lascia incantato.

Conclusa la visita, pranziamo beatamente al sole, per poi ripartire e scendere fino a Chiusa di San Michele. Da lì, Sara dovrà farsi ancora un bel pezzo di strada, a valle, per tornare all’auto. Il lavoro la aspetta, ma fortunatamente ha un po’ di flessibilità d’orario e possiamo goderci il tempo assieme.
Ci siamo aperti a fondo entrambi durante tutto il tragitto, e questo non ha fatto altro che rafforzare l’attrazione istintiva che mi era nata fin da quando l’ho vista. Nonostante ciò, per più di una ragione mi tengo a bada da qualsiasi gesto, seppur con enorme sforzo. Una volta scesi, rimaniamo un po’ insieme su una panchina. C’è un’incredibile tensione nell’aria e dividersi ora sembra quasi assurdo, ma soffoco tutto dentro e la saluto, ringraziandola per aver mantenuto la promessa e avermi accompagnato. Non lo dimenticherò facilmente, ma sono contento così. Non ho rimpianti.
Lei se ne va, mentre io rimango ancora un po’ ad ascoltare in silenzio i suoni di questo momento.

Riparto con calma. Manca ancora un’ora abbondante all’arrivo. Provo un senso di sollievo, quello di quando cammino nella natura senza altre persone. Non è un problema accontentarsi dell’asfalto; è una strada molto tranquilla che corre proprio ai piedi della montagna e tutto intorno è gradevole e pacificante.
I paesi di Sant’Ambrogio, Chiusa, Vaie mi trasmettono tutti un’impressione di familiarità. La vallata è larga, generosa; tra un abitato e l’altro c’è sempre respiro, e anche se molte case sono vecchie di decenni, tutto partecipa a creare un senso di sana vivibilità, di bellezza umile e a misura d’uomo.

Anche Sant’Antonino mi dà le stesse sensazioni. Grazie a Beppe, trovo qualcuno ad aspettarmi presso la casa parrocchiale. Ricevo saluti cordiali, molto apprezzati, dopodichè vengo accompagnato all’interno di un grande cortile su cui si affacciano, tra gli altri, i locali adibiti a Casa del Pellegrino.
Non sarò solo, c’è un’altra persona, ma non è un viandante. Si chiama Vincenzo e vive proprio lì, non so da quanto tempo. Non è molto espansivo, sembra un po’ giù di morale. Rispetto la sua necessità di essere lasciato in pace, e mi dedico alle solite cose. Vado poi a comprare qualcosa per la cena nel mini-market che si affaccia sulla piazza.
Consumiamo la cena insieme a tavola, anche se lui si cucina le sue cose. Pur limitandoci a poche parole, ci raccontiamo qualcosa su noi stessi. Per motivi che non conosco, da tempo non ha più un lavoro e sta facendo molta fatica per trovarne uno. Ha perso molto ottimismo per strada e l’amarezza è palpabile, unita anche ad una certa asprezza. Ciononostante, riusciamo a regalarci qualche scambio di battute abbastanza sereno, e credo sia già molto.

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Italia, Piemonte
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cammino di santiago - roberto pesenti

02/09 Torino – Alpignano (TO)

(Cascina Govean – Legambiente)
16km

Dopo colazione Federico insiste per accompagnarmi almeno alla Basilica di Santa Maria Ausiliatrice. Mi spiega che è stata voluta proprio da Giovanni Bosco, a ridosso del luogo dove cominciò la sua missione. Lui ci va ogni mattina, restando addirittura per due messe e facendo la comunione entrambe le volte. Lo fa perché ha abbracciato la tesi di un’amica, secondo la quale è valido vivere il sacramento anche per qualcuno che non può presentarsi. Non posso dire nulla a favore o contro questa convinzione, ma di certo è una grande conferma dell’altruismo di Federico.

Do solo un breve sguardo all’interno della chiesa, poi saluto l’amico e mi metto in marcia, anche oggi piuttosto tardi. Partire dalla basilica mi permette di ricollegarmi al percorso corretto evitando il grande Corso Francia. Percorro invece una dozzina di vie secondarie della periferia ovest: un’immersione interessante nel tessuto vivo della città.

Ieri l’amica Sara Zanni, di Milano, mi ha messo in contatto con Fabio, un pellegrino abitante a Trana, a pochi chilometri dall’imbocco della Val di Susa, non esattamente sulla mia rotta. In questo momento è bloccato per un brutto infortunio, ma ha esperienza da vendere, tanti contatti utili e una disponibilità splendida.
Quando mi ha chiesto cosa avevo in mente di fare oggi, gli ho spiegato che pensavo di limitarmi ad una tappa breve, per evitare il rischio vesciche con le scarpe nuove; il mio progetto era mettere la tenda vicino al Castello di Rivoli. Proprio grazie a lui, però, ho trovato poi un appoggio prezioso nel gruppo “Amici del Cammino” di Alpignano, in particolare in un certo Beppe. Fabio gli ha dato il mio numero e stamattina ho già ricevuto una sua chiamata, quando ancora ero a casa di Federico. Per raggiungerlo, devo per prima cosa arrivare all’aeroporto di Collegno.

La particolarità della Via Francigena nel primo tratto della Val di Susa è di dividersi in due tronconi paralleli, uno per ogni sponda della Dora Riparia, fiume che scorre per tutta la valle.
Io per oggi imboccherò quello che si affaccia sulla sponda orografica sinistra, poi deciderò in base a dove troverò da dormire. Fabio mi ha passato diversi nominativi, e ho anche già prenotando un letto a Exilles, nonostante la raggiungerò fra quattro o cinque giorni. Tutto può ancora succedere.
Non sono nemmeno certo che domani salirò sulla Sacra di San Michele. Ho un po’ paura di approfittare troppo del mio ginocchio, ma il luogo mi dicono essere spettacolare, e in più ho lo stimolo di poter rivedere Sara, la bibliotecaria incontrata ieri.

Arrivo al Campo Volo più o meno a metà mattina, dopodiché ricevo dal mio traghettatore il resto delle istruzioni; sembra quasi una missione segreta. Potrei usare il navigatore, ma è troppo bello così.
Gambe in spalla! Entro nel paese di Collegno, attraversando un grande parco a fianco di edifici legati in qualche modo alla sanità pubblica. Mi ricordano incredibilmente un grande presidio presso la mia città, e infatti scopro che anche in questo caso si tratta di un ex ospedale psichiatrico.
Costeggio un’altra chiesa dedicata a San Lorenzo, dopo quelle di Bergamo e di Ronsecco. Da lì, poi, si passa nel centro della cittadina, che mi fa davvero un’ottima impressione.

Arrivato in fondo, attraverso la Dora e continuo a seguire le tracce della Francigena, ma a un certo punto la lascio per restare a lato del fiume. I sentieri che lo costeggiano, infatti, sono a tratti bellissimi. Si alternano scenari con caratteristiche molto diverse e il fiume stesso sembra avere una propria personalità, un fascino che non so nemmeno spiegarmi.

Poco prima di raggiungere il punto d’incontro, fraintendo un segnale e mi imbuco in un sentiero senza sbocchi, sempre lungo la Dora. Perdo un po’ di tempo, ma ho anche il piacere di scoprire nuovi scorci fluviali particolarmente affascinanti.
Tornato sui miei passi, finalmente riesco a raggiungere il buon Beppe che, pazientemente, mi aspetta di fianco alla sua macchina. Percepisco subito la sua naturale attitudine al prendersi cura e iniziamo immediatamente a dialogare con gran gusto. Mi accompagna a casa sua: bellissima! Un luogo caldo e accogliente, come d’altronde lo sono sia lui che la moglie Angela, una delle migliori padrone di casa che abbia incontrato. A farci compagnia, anche Federica, la giovanissima nipote. Di lei mi lasciano ammutolito l’educazione e la maturità. Si intrattiene con noi come fosse un adulta, con modi piacevolissimi, sicuramente ereditati dai nonni.

Beviamo insieme un aperitivo e poi ci gustiamo un ottimo pranzo, finendo con un genepy fatto in casa. A quel punto Beppe mette alla tv un bel video con tutte le fotografie del suo Camino del Norte. È solo uno dei tanti che ha percorso, ma mi accenna anche a imprese ben più grandi vissute dall’amico Luciano, che dopo la pensione ha abbracciato la vita pellegrina in modo superlativo, partendo e tornando da Santiago a piedi in vari modi.
Mi promette che farà di tutto perché io possa incontrarlo il giorno dopo. Infatti, ha già deciso di accompagnarmi per la tratta di domani, e sta tentando di arruolare almeno un altro paio di amici dell’associazione.
Nel frattempo, mi ha già trovato da dormire sia per stanotte che per quella seguente – a Sant’Antonio di Susa, presso una casa della parrocchia. Questo significa che passeremo sull’altro versante della valle, cosicché salire alla Sacra diventa ormai una cosa irrinunciabile. Non perdo tempo, quindi, e avviso Sara, che mi conferma la sua presenza: mi aspetterà proprio alla partenza della salita, presso la parrocchia di Sant’Ambrogio di Torino.
Tutto sembra prendere forma in maniera splendida.

Conclusa la felicissima parentesi presso casa di Beppe, lui stesso mi accompagna alla cascina Govean, sede multifunzionale di Legambiente posta su una collina del paese. È lì che dormirò questa notte.
Il luogo è poco distante e, manco a dirlo, immerso nel verde. È bellissimo, e quando arrivo è anche stracolmo di bambini: sono tutti occupati in qualche attività con gli educatori, o semplicemente intenti a godersi il cortile e il parco, giocando a più non posso.
Mi accoglie con molta gentilezza il referente, di cui non ricordo più il nome, ma per il quale Beppe ha speso parole di grande stima. Attorno a lui, una ciurma di giovani collaboratori. C’è davvero tanta energia positiva.

La mia stanza sarebbe per quattro, ma sono il solo ospite quel giorno a dormire in cascina. Ci sono travi a vista e solidi letti a castello in legno. Mi piacerebbe vivere qualche momento con i bambini e con gli educatori, ma non trovo lo spiraglio giusto per presentarmi senza sembrare invadente. Nessun problema: non mi fa male un po’ di riposo, ma solo dopo una passeggiata esplorativa nel bel parco di fronte.

La sera rimane un gruppetto di giovani operatori a mangiare in cortile. Io ho già cenato da un pezzo, per poter andare a letto presto e tentare di partire ben riposato domani. Provo comunque a scendere, almeno per salutare, ma il cerchio sembra chiuso e, con goffa nonchalance ritorno in stanza, ma va bene anche così.

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