(da Vincenzo e famiglia)
31 km
La nottata è passata inaspettatamente molto male. La comodità del letto, purtroppo, non è servita a nulla contro la digestione infinita della falsa cena gourmet. Pensavo ormai di avere uno stomaco di ferro, ma evidentemente mi sbagliavo.
Michel mi dá il buongiorno con un abbondante colazione. Fatico un po’ ad affrontarla, ma apprezzo si sia alzato prestissimo per prepararmela. Ieri, infatti, lo avevo avvisato che sarei voluto partire prima del mio solito per evitare – almeno un po’ – la pioggia prevista per quest’oggi.
Una volta lasciata Rieux, la strada asfaltata affonda nell’oscurità, ma io mi limito ad accendere nient’altro che la spia rossa della torcia frontale, e solo al passaggio di qualche rara automobile. Risale tutto alla mattina del diluvio di Saint-Rémy, quando ho scoperto che camminare con il buio mi piace.
Ad un tratto, mi capita una cosa che mi prende alla sprovvista: voltandomi verso un campo immerso nell’ombra, vedo apparire proprio nel mezzo due puntini rosso fuoco che mi spaventano. Non mi serve molto per capire che sono gli occhi di qualche animale che stanno riflettendo la luce della mia spia. Dev’essere semplicemente un gatto, ma l’effetto mi risulta davvero inquietante.
L’episodio mi fa pensare anche che in oltre mille chilometri non mi è successo una sola volta di fare incontri realmente pericolosi con qualche animale; da questo punto di vista sono stato molto fortunato.
Come ieri, mi trovo a salire un sentiero che mi porta in cima a una collina piena di vigneti, ma niente a che vedere con il panorama da cartolina di ieri. Il cielo si sta schiarendo, ma è completamente coperto; oggi il sole credo lo vedrò proprio poco.
Quando il buio se ne va definitivamente, i colori che rimangono a farmi compagnia sono a dir poco tristi, su tutti l’incombente grigiore delle nuvole.
Lo spettacolo si fa addirittura lugubre quando mi imbatto in alcuni grandi mucchi di viti estirpate, alle quali è stato dato fuoco senza riuscire a incenerirle: ammassi neri che sembrano quasi di ossa, e tutt’attorno campi spogli e aridi, forse una delle scene più tetre viste fin qui.
La mattinata non sembra delle migliori, tanto che dopo nemmeno un chilometro vivo anche un’infelice disavventura. Pur seguendo le indicazioni, mi ritrovo ad attraversare una proprietà privata, una cosa che non mi è mai capitata. Ha tutto l’aspetto di un’azienda vitivinicola, e tra la villa e il deposito mi imbatto nel proprietario che parlotta con un’altra persona, forse un operaio. Mi guardano sospettosi, ma il mio aspetto dice bene in cosa sono impegnato: è evidente che sono un pellegrino, al massimo un semplice escursionista, di certo non un malintenzionato. Con questo pensiero porgo i miei saluti sorridendo, come mio solito, ma non vengo contraccambiato. Mi viene detto in modo scortese che il sentiero passa da un’altra parte, ma non faccio in tempo a spiegare che ho seguito i cartelli, che dalla casa spunta un alano nero. Non ha il guinzaglio e, anche se già me ne sto andando, si mette a correre verso di me abbaiando. Il proprietario non muove un dito, si limita a richiamarlo molto placidamente: “Paco…Paco…”. Credo che non dimenticherò mai il modo odioso con cui pronuncia quel nome, sapendo benissimo che con quel tono spento e beffardo il cane non rientrerà mai. Continuo ad allontanarmi, ma sono terrorizzato da quella bestia che mi salta intorno senza smettere di abbaiare. Quando l’animale arriva anche a colpire le mie racchette, mi congelo letteralmente. Dopo un attimo, però, prevale l’incazzatura nei confronti di entrambi, cane e padrone. Dico a me stesso che se deve succedere qualcosa, che succeda, ma lì a fare la figura della marionetta non ci rimango un secondo di più. Riparto, sopportando per un altro centinaio di metri l’insopportabile spettacolo dei due. Grazie al cielo tutto finisce senza danni, anche se ci metto un po’ a smaltire la tensione della paura e della rabbia.
Meno male che poche ore prima mi rallegravo di non aver ancora avuto incontri spiacevoli con nessun animale! La prossima volta sarà meglio mordersi la lingua.
Mi rilasso del tutto solo dopo qulche chilometro, anche se nel grigiore persistente della mattinata. Salgo e scendo altre piccole colline, dove non incontro solo vigneti, ma anche boscaglia e grandi radure. Prendo pioggia varie volte, ma mai davvero eccessiva, cosicché il risultato non è nemmeno così male. Ne restano foto molto sorridenti, scattate dopo grandi cantate solitarie sotto l’acqua in mezzo a spiazzi collinari, qua e là con qualche mandria perplessa a farmi da pubblico.
In alcuni tratti, mi sembra di stare nella campagna irlandese, o almeno è così che me la immagino, visto che non ci sono mai stato. Chissà non possa essere una meta futura!
Seguendo le tracce più disparate nel mezzo del niente, mi godo anche un peregrinare più libero e scanzonato. È una condizione privilegiata e se, probabilmente, non riuscirò a ricordarmi da dove diavolo sia passato oggi, di certo conserverò il ricordo di questa leggerezza e questa gioia genuina.
Camminare da solo nella natura sembra mi calzi davvero bene. Certo, stempero la solitudine di certi momenti scambiando messaggi con gli amici in Italia. Il resto, però, è sana esplorazione, semplice cammino su questa lunga lunga rotta.
Passo da un abitato piuttosto isolato, dove non incontro nessuno se non altri cani molesti senza guinzaglio, fuori da case lasciate col cancello aperto. Li supero con lo stesso sentimento di incazzatura di prima, sperando veramente di non incontrarne più.
Continuo sulla mia strada, riuscendo a tornare presto allegro grazie soprattutto al sole, che nel frattempo è tornato inaspettatamente padrone del cielo. Per spezzare il tempo, riesco ad imparare a memoria Ninnananna, una vecchia canzone dei Modena City Ramblers. Mi ritrovo a cantarla a squarciagola lungo l’ultimo tratto collinare della giornata. Quando arrivo alla magnifica ultima strofa – “E prego…qualche Dio dei viaggiatori…” – mi commuovo come un bambino. In effetti, ci sono una manciata di canzoni che in un preciso punto – sempre quello – riescono a farmi questo magnifico e dannato effetto tutte le volte.
Quando succede – quando i muscoli tra naso e occhi improvvisamente si contraggono ad anticipare un pianto, un singhiozzo – quello che faccio di solito è ostinarmi a continuare, cantando ancora più forte e fracassando quel pianto con una risata liberatoria.
Così faccio anche stavolta ma, appena riaperti gli occhi, mi ritorvo di fronte a una coppia che sta facendo un romantico picnic dietro una pianta. Probabilmente stanno sorbendosi il mio sbraitare almeno da un paio di minuti, ma non mi imbarazzo.
Ammutolito in un primo istante, spezzo poi istintivamente il silenzio con una frase in perfetto francese: “Meglio cantare, che piangere, no?”. Lei resta sorpresa, ma lui ride e annuisce sorridente. Ci auguriamo buona giornata, e dopo pochi metri riprendo a cantare allegramente.
Sceso dalla collina, raggiungo per l’ennesima volta il Canal du Midi, a fianco del quale dovrei camminare fino alla famosa Carcassonne, la meta di quest’oggi. Purtroppo, però, ho la sfortuna di trovare un cantiere che mi impedisce il passaggio -forse ancora per l’abbattimento dei platani, come a Béziers. Studio le alternative, ma sembra non abbia altra scelta che allungare la strada, oltretutto passando da una trafficatissima strada dipartimentale. Gambe in spalla, quindi, e tanta pazienza.
Dopo tre quarti d’ora piuttosto duri, riesco finalmente a ritrovare il canale e a scendere sulle sue alzaie. Durante il tragitto, incontro ancora un paio di chiuse. Queste opere di ingegneria del passato conservano un fascino davvero insolito. Non a caso, oltre a permettere ancor’oggi il controllo del livello delle acque, risultano – a ragione – dei veri punti di interesse turistico.
A parte quelle, il panorama rimane sempre lo stesso per almeno un paio di chilometri, ritmato dalla costante presenza dei platani al bordo del canale. Arriva un momento, però, in cui il paesaggio finalmente si apre un po’, regalandomi la prima vista sulla cittadella fortificata. Sono le due del pomeriggio, e ormai sono quasi arrivato. Un quarto d’ora dopo, infatti, sto già muovendo i primi passi nel quartiere antico della città bassa, chiamato Bastide-Saint Louis. Meriterebbe di essere visitato, ma non posso non dare priorità alla Cité – così è chiamata la parte alta di Carcassonne, la più famosa, quella vista in lontananza poco prima. Affamato, mi regalo una spinta di calorie con una gran porzione di patatine fritte e parto alla conquista del vecchio villaggio medievale.
Una volta salito, l’impatto mi lascia però un po’ perplesso. Questa volta mi sono preparato prima sulla storia di questa fortezza. Non so se mi abbia influenzato così tanto sapere che è stata quasi totalmente ricostruita nell’Ottocento, ma è come se questo sia davvero troppo visibile. Intendo dire che quelle architetture perfettamente complete, pulite, senza ombra di ruderi di alcuni tipo, non riesco minimamente a percepirle come fossero davvero antiche. Forse ho familiarizzato “troppo” con gli edifici storici della mia Bergamo, o con tanti altri visti in tutta Italia risalenti in tutto e per tutto a epoche remote, ma sta di fatto che supero i bastioni con questa pungente titubanza.
L’abbuffata di negozi, bar e ristoranti che farcisce questo luogo mi dà infine il colpo di grazia, togliendomi ogni magia e dimostrandomi – a quanto pare – che non è vero che io mi stupisca con tutto. È come se non riuscissi a percepire l’anima di questo posto, ma è probabile sia comunque qualcosa del tutto soggettivo. Addirittura nemmeno la grande chiesa, pur straordinaria, riesce a farmi cambiare idea.
Paradossalmente, uscito dalle mura, una cosa che riesce a colpirmi sono le tracce di un intervento tutt’altro che antico: l’involontario lascito di una dibattuta installazione d’arte contemporanea. L’artista che venne ingaggiato decise di applicare quindici enormi cerchi concentrici di sottilissimo alluminio ad un intero lato della fortezza. Con il loro giallo sgargiante, offrivano una visione che lasciava allibiti, ma solo se ci si poneva in un unico punto preciso. Esisteva infatti una sola posizione da cui si potevano vedere tutti i cerchi perfettamente, come fossero il bersaglio di un tiro segno. Da ogni altra visuale, invece, sembravano imbrattature oggettivamente inappropriate.
Il vero problema, però, sì svelò quando l’installazione fu rimossa – su forte insistenza della popolazione locale. La grande speranza dei cittadini di tornare a vedere come una volta la Cité si infranse nella scoperta che le superfici scoperte erano restate di colore più chiaro del resto della muratura, come il segno del costume quando ci si abbronza.
Scopro, però, che a me il risultato non dispiace affatto, perché mi dà l’impressione riesca a smitizzare sia la Cité che il discusso progetto che ha prodotto queste stesse tracce.
Concludo il mio tour proprio con questa insolita esperienza turistica, e scendo sotto le mura ad aspettare che venga a prendermi Vincenzo. Nella migliore tradizione italiana, sono riuscito a mettermi in contatto con lui tramite una filiera di amici-di-amici, partendo da un mio ex collega che anni prima aveva conosciuto una ragazza francese, la quale lavora con la figlia di Vincenzo. Indubbiamente un gran giro, insomma, ma fatto soprattutto di sincera disponibilità da parte di tutti loro.
Al suo arrivo mi trovo davanti una persona splendidamente alla mano, raggiante e capace di mettermi a mio agio all’istante. Mentre mi accompagna a casa sua, facciamo conoscenza e mi racconta la bellissima storia di come ha conosciuto sua moglie, originaria di qui, e della scelta di emigrare per amore, giovanissimo.
Arrivati, faccio conoscenza della donna che si è meritata un gesto così romantico. Si chiama Cristina e, per la mia gioia, compete col marito per cordialità e simpatia. Inaspettatamente, anche lei parla italiano, e pare che valga lo stesso anche per i figli. Non potevo essere più fortunato.
La moglie, purtroppo, è reduce da un’operazione al piede e deve stare in poltrona, così per l’aperitivo e la cena pensa a tutto Vincenzo, che con il basilico dell’orto prepara un ottimo risotto al pesto, seguito da diverse altre leccornie. Nel frattempo arrivano anche Laura e Max, due dei tre figli. Resto impressionato dall’energia positiva che ciascuno dei quattro sprigiona e dalla simpatia con cui si relazionano con me.
Una birra prima di cena e dell’ottimo vino durante il pasto fanno scorrere le ore ancora più piacevolmente. Ognuno racconta di sé con un’apertura che mi ostino a considerare eccezionale. Abitualmente, nella routine della nostra società è raro che si offra confidenza in modo così genuino e cordiale – soprattutto agli sconosciuti -eppure in questo viaggio mi sta succedendo frequentemente il contrario, ovunque venga accolto, sia in Francia che in Italia.
La serata si protrae più tardi del mio solito, ma anche gli altri sembrano piuttosto stanchi. Per me, ovviamente, ne è valsa la pena; la speranza è che anche per loro sia stato almeno divertente, di certo inusuale. D’altronde non credo sia cosa di tutti i giorni aprire le porte di casa a uno sconosciuto arrivato fin lì dall’Italia con le sue sole gambe. Chissà che in futuro non capiti lo stesso anche a me con qualche pellegrino venuto da chissà dove. Sempre che tornerò ad avere un posto fisso dove vivere…
Bonne nuit, Carcassonne!
(Le Vieille Forge)
35 km
Parto presto come al solito e senza poter salutare i due amici, che ancora dormono beatamente. In cucina trovo del salmone lasciato aperto questa notte, insieme a pane e burro. Qualcuno si è fatto uno spuntino particolarmente raffinato, a quanto pare.
Una volta uscito di casa, mi godo l’attraversamento del piccolo centro mentre ancora è buio e le uniche luci sono quelle “giallo polenta” dei vecchi lampioni.
Lasciandomi Bize alle spalle, mi trovo per l’ennesima volta tra enormi vigneti. Purtroppo, tentando un’improvvisata scorciatoia, mi incastro in sentieri senza uscita, sprecando quasi mezz’ora di cammino.
Ripresa la direzione corretta, incontro per la prima volta un cartello ufficiale della via che ho in programma di seguire nelle prossime settimane, quella del Piemonte Pirenaico, codificato tra i grandi cammini francesi come GR78. In realtà, sul sito che ho consultato risulterebbe partire da Carcassone, ma ero già al corrente che si sta cercando di prolungarlo verso est.
Abbinati a quel cartello ci sono anche dei segnali blu e gialli con la conchiglia di Santiago, che però indirizzano altrove. Per ora non mi fido a seguirli, ma li incontro nuovamente qua e là, rendendomi conto che propongono un percorso simile, di cui però non riesco a trovare informazioni sul web.
Purtroppo, perdo presto anche le indicazioni del GR e a quel punto non posso far altro che utilizzare nuovamente la mia app, disegnando una strada tutta mia come nei giorni scorsi.
Così facendo mi ritrovo su una collina, circondato da alcuni tra i più bei vigneti visti fin qui. Mi rendo perfettamente conto che questa sensazione l’ho già vissuta tante volte, eppure posso giurare che nasce sempre dalla vista di un luogo migliore dei precedenti. Questo dá una volta di più l’idea del modo straordinario in cui sta prendendo forma la mia esperienza qui in Francia.
Un’altra cosa vissuta un’infinità di volte è il sorgere del sole, eppure anch’essa ogni volta è un’esperienza unica. Come esprimerlo senza ripetermi? Forse è impossibile, ma non posso rinunciare. D’altronde ho passato anni senza assistere a questo evento quotidiano, dandolo per scontato, pensando inconsciamente che fosse solo un affare per turisti e fidanzatini. Quanto sono stato scemo!
Ogni volta vedere quel disco accecante infuocare tutto quello che un attimo prima era in penombra, che mezz’ora prima era buio, nero, che non esisteva, mi fa provare sensazioni fortissime.
La cosa più stravolgente è con quanta potenza riesca ad innescare in me un senso profondo di gratitudine, per mille motivi diversi. Non c’è mai stato altro nella mia vita capace di pormi così frequentemente nella stessa condizione.
Mi regalo tempo in questo luogo, tra queste vigne, le lascio a passo lento. Sono affascinato dalla bellezza dei ceppi più vecchi – grandi, fibrosi e contorti – e le tante differenze con le piante più giovani mi spingono a riflessioni sul tempo che passa, sulla generosità della terra, sull’ingegnosità dell’uomo che la coltiva, sulla bellezza mistica della natura. Più avanti trovo anche degli uliveti, e non cambia la meraviglia.
Sazio di bellezza e di tanta buonissima uva, nonostante il ritardo sulla tabella di marcia, scendo dalla collina con tutta calma. Raggiungo Pouzols-Minervois, piccola ma pittoresca, anch’essa inclusa nel circuito delle Circulades occitane. Prima di superarla, tento di visitare il santuario dedicato a San Saturnino. L’esterno è molto bello, ma ancora una volta trovo chiuso. Niente di nuovo.
Ignorando dei segnali giacobei, torno sul mio tracciato personale. Scelgo anche di allungarlo un altro po’ per evitare la salita su una collina, trovandomi però a doverne comunque salire un’altra, più bassa.
È divertente inventarsi un cammino in terre mai viste prima, ma non sempre le ciambelle escono col buco.
La vegetazione che incontro sulla piccola altura è totalmente inaspettata, perché molto diversa da quella dei chilometri precedenti. È esattamente la stessa sensazione che ho vissuto ieri, dopo Argeliers, ma le piante sono cambiate ancora.
Nel mezzo di un bosco mi imbatto anche in una allevamento di bellissimi maiali dal pelo scuro e – come ormai d’abitudine – mi diverto anche a riderci e scherzarci, fingendo che possano capirmi. Per un attimo penso che qualcuno possa star assistendo a tutti questi miei dialoghi assurdi con piante e animali, e magari si ricorderà di me come il pellegrino che giocava ad essere San Francesco. Una fama niente male, anche se i maiali sembrano di tutt’altra idea.
Sceso al di là della collina, raggiungo ancora una volta le sponde del Canal du Midi, che seguo fino al bel porto di Homps – colorato e particolarmente turistico. È già mezzogiorno passato e sono solo poco oltre la metà della tappa di oggi.
Scelgo di fermarmi in paese a pranzare, ma rinunciando alla tentazione di entrare in uno dei bei ristoranti affacciati sul canale. Diligentemente, ripiego ancora una volta su uno dei soliti minimarket. Seduto sulle colorate scale del ponte, mangio come sempre in maniera un po’ pasticciata e frugale; me ne rendo conto più che mai davanti all’imbarazzo dei tanti turisti di passaggio. È mai possibile io sia sempre l’unico pellegrino? Chissà come sarà in Spagna.
Sotto il sole cocente, mi rimetto lo zaino in spalla e mi do una mossa. Superato il ponte, percorro un viale molto elegante costeggiato da ordinate file di ulivi, a due passi da un quartiere residenziale apparentemente d’alto bordo.
Arrivo ad un grande lago artificiale, detto di Jouarres. Riguardandolo da quassù, capisco che il quartiere di prima è un vero e proprio residence. Mi domando come mai questo posto possa essere tanto attraente. Personalmente, questo lago mi dá soprattutto un senso di desolazione. Forse in alta stagione e in un’annata normale può darsi diventi una specie di oasi, chissà.
Mi allontano attraversando un piccolo bosco di pini marittimi, finendo poi ancora tra vigneti a perdita d’occhio, e raggiungendo infine la cittadina di Azille. A corto d’acqua e senza riuscire a trovare una fontana, riesco a farmi riempire la borraccia da alcuni abitanti molto gentili. Fa davvero caldissimo oggi e sono proprio cotto, ma mancano ancora sette lunghi chilometri.
Mi concedo un piccolo tour del borgo, trovando anche la chiesa aperta, sorpresa sempre gradita. È molto bella, e certi particolari mi ricordano quella di Capestang, seppur più piccola.
Soddisfatto della visita, faccio un bel respiro e, ormai alle tre del pomeriggio, mi rimetto in moto per concludere la tappa.
Il sentiero che collega Azille a Rieux-Minervoix non mi regala molta ombra, ma si rivela delizioso. Si sviluppa ai bordi di una valle ancora stracolma di vigneti, che da lontano sembra un gigantesco giardino.
A un certo punto, incontro un’indicazione nuova: dice “Camin Roumieu”. Ne avevo già sentito parlare dall’amico Fabio, che ne sa molto più di me, ma ancora adesso non capisco dove inizi e dove finisca. Sará una di quelle cose che scoprirò in futuro, quando avrò tempo per studiare tutto quanto non ho approfondito prima.
Ultimo strappo e arrivo finalmente a destinazione. Sono cotto e l’unico tour che riesco a fare è percorrere due o tre piccole vie del borgo prima di arrivare all’alloggio. È una sorta di bed & breakfast, ed è l’unica opzione possibile alla portata del mio budget. Col proprietario mi sono accordato anche per la cena perché non avevo altra scelta, vista l’assenza di negozi, e per fortuna mi ha fatto un buon prezzo.
La porta è chiusa, ma lui spunta da dietro l’angolo con curioso tempismo. È molto gentile e sorridente. Il posto è davvero curatissimo e originale; mi spiega che lo ha studiato in ogni dettaglio e che oggi io sono l’unico ospite. C’è addirittura un insolito angolo relax con una grande vasca idromassaggio.
L’arredamento della mia stanza, però, assomiglia un po’ a quello della casa dei miei nonni e le mensole della libreria sono piene di foto del figlio. Questi dettagli non mi piacciano molto, ma c’è un comodo letto di una piazza e mezza, e in fondo il resto importa poco.
Dopo essermi sistemato, scopro un avviso appeso al muro della stanza. Pare ci sia anche la possibilità di un servizio di massaggi di vario tipo: un altro dettaglio inusuale di questa accoglienza.
Un attimo dopo succede una cosa del tutto inaspettata: Michel, il proprietario, viene appositamente a bussare proprio per propormi un trattamento. Gli chiarisco che non ho denaro da spendere in quel modo, ma mi sottolinea che me lo sta proponendo gratuitamente, perchè sono il solo ospite e a lui fa piacere. Contento lui…
Fatta una doccia, quindi, raggiungo la stanza che mi ha indicato. È piccola, ma anche curata in ogni dettaglio per creare un ambiente rilassante: lettino, candele, incensi, luci soffuse, e così via.
Il massaggio va alla grande e senza sorprese. Sarò curioso domani di scoprire se le gambe ne hanno giovato oppure no.
All’ora di cena scendo a tavola. Michel serve le portate in maniera raffinata, ma ormai sono esperto di cibo in scatola e quello che ho nel piatto lo è. Ora capisco perché mi ha fatto pagare così poco la cena. Ovviamente, non sto a badarci troppo; in fondo avrei mangiato cose simili comunque.
Lui pasteggia con me, e nasce anche una conversazione molto divertente. Non parla inglese ma si rende disponibile ad utilizzare Google Translate, sfruttando il dettatore vocale dello smartphone. Con molte altre persone incontrate qui in Francia sarebbe stata una soluzione perfetta, ma la maggior parte di quelli con cui ho tentato di usarlo nemmeno l’ha voluto prendere in considerazione.
Dopo un piccolo dolce e un digestivo, ci auguriamo la buonanotte e io mi tuffo nel mio letto incredibilmente comodo, pienamente convinto che riuscirò a riposare alla grande.
(Couchsurfing a casa di Vincent)
33 km
Le mie nottate in tenda si assomigliano un po’ tutte, quindi le vivo ormai con rassegnazione, anche se questa volta ho aggiunto una variante: ho usato mascherina per gli occhi e tappi per le orecchie. Nel bosco, isolarsi fino a questo punto sarebbe forse rischioso, ma in campeggio mi è sembrata una buona idea. Ho avuto comunque i soliti problemi di freddo e scomodità, ma almeno i rumori e le luci non mi hanno dato fastidio.
Parto con il buio prima delle sette, anche se dopo mezz’ora il cielo vira già verso i primi toni dell’alba. Succede proprio mentre sto costeggiando un’area agricola particolarissima: si chiama Stagno di Montady, dal nome del paese che sta appena fuori dal suo perimetro. È chiamato stagno non perché ci sia dell’acqua, ma poichè fu tale fino al Medioevo, dopodiché fu prosciugato in maniera inusuale. L’acqua venne fatta defluire verso il centro attraverso canali radiali, e infine condotta altrove.
Ha una forma circolare di quasi 2 km di diametro, e a renderlo pittoresco è la divisione degli appezzamenti al suo interno, che lo rendono del tutto simile ad una ruota di bicicletta. Ho scoperto solo ieri della sua esistenza, mentre programmavo il percorso di oggi.
Viste le dimensioni, lo spettacolo è apprezzabile solo dall’alto. La collina di fianco sarebbe ideale, anche per la presenza di un sito archeologico. Mi sarebbe piaciuto salirci, ma ho una tappa molto lunga da percorrere e decido di rinunciare.
Proseguo un paio di chilometri tra i soliti vigneti a perdita d’occhio, dopodichè mi prendo qualche rischio camminando per almeno un quarto d’ora lungo un tratto di dipartimentale davvero pericoloso – stavolta la app mi ha fatto una brutta sorpresa.
Per fortuna riesco presto a mettermi in sicurezza oltre il guardrail, ma per qualche istante l’ho rischiata grossa.
Sano e salvo, arrivo ancora sulle sponde del Canal du Midi. Le barche che incrocio sono spesso portate da coppie di anziani. Mi salutano cortesemente, mentre io mi diverto a immaginare da dove arrivino. Potenzialmente, potrebbero venire anche dall’Atlantico. Collegandosi al fiume Garonna, infatti, il canale costituisce una via navigabile che collega il mar Mediterraneo all’oceano. Non ho mai pensato ad una crociera fluviale: un’altra buona idea per il futuro!
Non passa molto prima che possa scorgere all’orizzonte la Collégiale di Saint Étienne, la grande chiesa del paese di Capestang.
Mi fa molta impressione vedere quell’edificio svettare di almeno venti metri sopra qualsiasi altro, anche se poi, una volta arrivato in paese e raggiunta la bella piazza centrale, non la percepisco più così sproporzionata.
Una volta dentro, poi, l’unica cosa che provo è meraviglia. È una delle più belle chiese viste fin qui. Ho amato moltissimo quelle romaniche di Boscodon e Ganagobie, nelle quali i muri spogli emanavano un fascino indescrivibile, ma qui mi imbatto in qualcosa di nuovo. Tra le nervature di pietra dell’abside, si slanciano vetrate alte e coloratissime che mi lasciano senza fiato.
Rifletto su tutte le chiese che ho trovato chiuse. Probabilmente non tutto sarebbero state all’altezza di questa, ma certamente mi sono perso qualcosa di bello, non ho dubbi. C’est lá vie!
Una volta uscito, compro qualcosa per il pranzo e ritorno al sentiero che segue il canale.
Nonostante i paesaggi affascinanti, percorro ben 11 km di curve tortuose, che allungano a dismisura il mio procedere. Proprio durante quelle ore, però, vivo un’altra emozione fortissima scorgendo per la prima volta all’orizzonte i Pirenei. Non riesco a trattenere qualche lacrima, come fu anche con le Alpi. È incredibile quanto sia forte l’impatto con quelle vette maestose. Vederle tutte in fila laggiù me le fa sembrare una gran giuria di severi saggi, che mi osservano come fossi una formica qualsiasi – forse solo un po’ più sbruffona delle altre, con questa strana idea di raggiungere Santiago con le mie gambe. L’immagine è un po’ infantile, ma è veramente quella che mi si imprime in testa spontaneamente. Mi regala anche una dose di prezioso buonumore per continuare il cammino, fattosi oggi particolarmente duro anche per il caldo umido.
D’improvviso, all’ombra di platani giganteschi, intravedo in lontananza un’insolita figura: un uomo curiosamente immobile, in piedi, con un cappello di feltro a tesa larga in una mano e l’altra infilata dentro, come se stesse trattenendo qualcosa. Arrivatogli vicino, scopro in effetti che è proprio quello che sta facendo: pare abbia trovato un uccellino ferito e lo stia trattenendo nel cappello, senza aver ancora deciso che farne.
Si chiama Charles, è un ragazzo inglese di circa trent’anni. La capigliatura, la barba e i vestiti lo fanno simpaticamente assomigliare ad un escursionista dell’inizio del novecento. Parla perfettamente quattro lingue, tra cui anche l’italiano, cosicché mi regala l’emozione unica di dialogare per almeno un quarto d’ora nella mia lingua; era davvero molto tempo che non mi succedeva. È una persona squisita e un pellegrino vero e proprio: è partito da Bilbao e vorrebbe arrivare a Roma, anche se ha molte titubanze legate al Covid e alle complessità di un viaggio del genere.
È arrivato fin lì seguendo la via che io inizierò a percorrere da domani: il GR 78, detta Via del Piemonte Pirenaico. Mi spiega che mi aspettano tappe molto belle, soprattutto quando sarò a ridosso dei Pirenei.
Mentre ci scambiamo ancora un po’ di informazioni, arriva anche Morgan, un giovanissimo francese in mountain bike, straordinariamente attrezzato. Sta facendo un tour completo della nazione. Lo pubblicizza sui social, con l’intento di promuovere e supportare una campagna in ambito sanitario.
È una sensazione bellissima quella di esser parte di un nucleo di energie così positive: tre persone piene di vitalità, sogni e un pizzico di follia, partite da luoghi diversi e lontani, e incorciatisi qui nel medesimo istante. Wow!
Passiamo qualche minuto insieme per le foto di rito e lo scambio dei contatti, poi ognuno riprende la sua strada, tutti e tre ancora ben lontani dalle nostre mete di oggi.
Alla cittadina successiva, Argeliers, arrivo ben due ore dopo, lasciando il dipartimento dell’Hérault per entrare in quello dell’Aude.
Qui, trovo curiosa l’abbinata di un porto fluviale con alle spalle una collina. Mi domando perché mi stupisca di così poco. Probabilmente il motivo è che mi ricorda il mio paese d’origine: anche da me esiste un colle simile, infatti, e poco lontano scorre un fiume, ma non è certo navigabile.
Lassù, comunque, finisco col salirci, perché la meta è proprio dalla parte opposta. Sono molto stanco, ma per fortuna i sentieri non sono male. Rimango molto stupito di incontrare una vegetazione completamente diversa da quella incontrata per tutto il resto della tappa. Com’è possibile? Eppure sono a malapena duecento metri più in alto. In ogni caso, la vista da quassù mi ha già ripagato dello sforzo fatto, e ora non resta che godersi la discesa a Bize-Minervois.
Poco prima del centro storico del paese, incontro un lungo ponte, ma sotto scorre solo un piccolo torrente. Quello che resta del grande letto non è arido, ma è occupato da un grande prato. Pur essendo ancora una volta una cosa quasi banale, non mi è mai capitato di vedere un grande ponte sopra un prato. Ma è possibile che tutto riesca in qualche misura a stupirmi?!
Mi fa piacere, non dico il contrario, ma sto iniziando ad avere una strana sensazione: è come se tutta questa meraviglia abbia un proprio corpo, e il suo peso non sia poi così diverso da quello dello zaino. Ogni sensazioni mi rimane cucita addosso, e dentro è come se si stesse componendo un arazzo sterminato. Non sono nemmeno a metà strada, eppure in certi momenti mi sento come sazio, o sovraccarico. Non saprei dirlo diversamente.
Una sola esperienza nella mia vita è minimamente paragonabile a questa, quando passai tre mesi a Lima, in Perú, partecipando a diversi progetti caritativi, alternati a qualche giorno da turista.
Anche quella volta, lo ricordo bene, ogni dettaglio era come una puntina colorata che mi si infilava addosso. Mi liberai scrivendo, e anche stavolta sento di non poter fare altrimenti. Se non ci riuscirò, sento che resterò come schiacciato, ingolfato.
Meglio che me ne ricordi, certe immagini non fanno capolino per caso.
Superato il ponte, per prima cosa mi presento in Comune per farmi apporre il secondo timbro sulla credenziale presa ad Arles, quella che mi accompagnerà fino a Santiago. L’impiegata allo sportello me la ritira gentilmente, restituendomela poco dopo. Ringrazio, ma quando la apro scopro che l’ha timbrata a cavallo di tre caselle. Mi trattengo dal lamentarmi, ormai sarebbe inutile, ma dentro me sono imbufalito. Ma com’è possibile? È una cosa tanto elementare!
Ormai non c’è niente da fare, se non portare pazienza e ripetersi che è una piccola cosa, anche se per me era importante.
Mi rilasso un po’ facendo la spesa in un minimarket, poi attraverso il paese per arrivare alla casa dove dormirò. Il proprietario si chiama Vincent, l’ho contattato tramite Couchsurfing. Inizialmente ero riuscito a strappare un accordo con il prete del villaggio, con il quale mi aveva messo in contatto Sara. Dopo non molto, però, ho ricevuto la notifica che la mia richiesta su Couchsurfing era stata accettata, e ho deciso subito di disdire dal sacerdote – è stata una cosa istintiva. Mi è sembrato se la sia presa, ma non me ne faccio un gran cruccio. L’ho fatto perché il profilo di Vincent è davvero interessante e, solitamente, chi è iscritto a questa comunità ha un grande piacere nel condividere le proprie esperienze. Non di meno, se tutto andrà a buon fine come mi auguro, le recensioni reciproche faranno sì che altre persone potranno essere maggiormente predisposte ad ospitarmi in futuro.
Vincent mi ha anche avvisato che non sarebbe stato in casa al mio arrivo e che avrebbe lasciato la porta aperta. Che fiducia splendida! Gli ho chiesto se potessi anche fare una lavatrice, e mi ha risposto invitandomi a fare come fossi a casa mia. Fare esperienza di una tale ospitalità è ancora strano per me, ma bellissimo allo stesso tempo.
L’abitazione è accogliente, ma a dir la verità credo che forse non tutti la percepirebbero così. Infatti è piuttosto disordinata, con mucchi di panni sparsi per il salotto; la lavanderia, poi, ne è stracolma. Anche la grande cucina è tutta sottosopra.
Nonostante ciò, si percepisce un clima estremamente familiare. La lieve preoccupazione dovuta al caos inaspettato si mescola così a una fiducia spontanea in quello che mi aspetterà. Lascio che le due percezioni convivano, e nel frattempo svuoto la lavatrice per fare partire la mia.
Gli ultimi panni che inserisco sono quelli che indosso, e per coprirmi uso il mio asciugamano. Vincent arriva esattamente mentre sto cercando un angolo libero per stendere il carico che ho appena tolto.
Per un attimo mi imbarazza moltissimo essere visto da lui per la prima volta mentre sto mezzo nudo e con le mutande della sua ragazza in mano. Non è il massimo, in effetti, ma trovo una conferma quasi certa di quello che avevo intuito: il suo sorriso genuino e la luce che ha negli occhi hanno la stessa frequenza di quel calore che ho sentito prima. Non è minimamente turbato da come mi ha trovato – anzi, si scusa per essersi dimenticato di stendere prima.
Emana una benevolenza fuori dal comune. Tutto di lui sembra riuscire a rasserenarmi e farmi sentire ben accolto.
Faccio una doccia e poi lo raggiungo per un aperitivo. Prepara lo stesso cocktail bevuto con Fabian a Montpellier: il mauresque.
Arriva a quel punto la giovane fidanzata, anche lei splendente, e si unisce a noi. Entrambi mi fanno il grandissimo piacere di parlare inglese, cosicché anch’io possa partecipare al dialogo in maniera sufficientemente fluente.
Mentre Vincent va a preparare la cena, inizia un viavai di loro amici: fuori uno, dentro l’altro. Dai saluti scambiati fino al modo in cui dedicano tempo a ciascuno, noto un flusso di affetto assolutamente non comune. La casa sembra un’oasi di amorevolezza dove ciascuno viene a prendere e lasciare un sorso.
La cena si rivela abbondante e piacevole. Per mezz’ora, poi, ho modo di parlare privatamente con Vincent. La sua storia è affascinante: ex ricercatore scientifico, ha cambiato vita più volte. Mi spiega che un’esperienza fondamentale è stata imparare a camminare su corde sospese, anche a grandi altezze, seppur in sicurezza: inaspettatamente, è stato qualcosa capace di cambiarlo a fondo, donandogli molta più sicurezza. Oggi, invece, si dedica all’agricoltura: sembra abbia del terreno qui vicino a casa.
Mi regala molte perle di saggezza mistico-filosofiche. Confida visceralmente nella potenza che si può sprigionare abbattendo l’ego, abbracciando la propria parte più fragile e cominciando a dedicarci con estrema fiducia al donare amore, piuttosto che attendere di riceverne. Ancor più delle sue parole, tutto ciò che comunica di non verbale rende particolarmente intensa la sua testimonianza.
Andiamo tutti a letto presto, e me ne stupisco: non mi aspettavo che anche loro seguissero orari simili ai miei. Io dormo nella stanza della figlia di Vincent, che abita con la madre. Anche qui c’è un accumulo incredibile di cose, ma ora non ne sono più turbato. Mi addormento con il sorriso e…con il loro gatto appollaiato in fondo al letto, a scaldarmi piacevolmente i piedi.
(Camping Le Peupliers)
33 km
Oggi ho previsto più di 30 km, studiati per il terzo giorno consecutivo utilizzando Komoot. Questo fa sì che debba guardare spesso al telefono, ahimè, ma fra non più di un paio di giorni tornerò su sentieri segnalati, e quindi non dovrei più avere bisogno del navigatore.
Vista la lunghezza della tappa, parto molto presto, prima delle sette.
Ovviamente è ancora buio, ma finché cammino per il paese le luci dei lampioni riscaldano l’atmosfera. Una volta fuori, invece, l’oscurità è assoluta, almeno per il primo quarto d’ora.
Imbocco un sentiero che taglia una grandissima pianura quasi brulla; solo qualche albero sparso e rari vigneti in lontananza. I lotti sono delimitati solamente da fili sottili, cosicché quasi nulla ostacola la vista. Forse per il fatto io abbia attorno così pochi elementi, il cielo mi appare straordinariamente più grande del solito.
Lentamente, alle mie spalle l’aurora comincia ad infuocarsi, squarciando velocemente le ombre della notte sulla pianura. Le sfumature fiammeggianti che salgono dall’orizzonte lasciano in controluce i pochi alberi spogli, e sembra di essere nella savana.
Lo scenario scarno e primitivo aiuta a rendere questo momento profondamente sacro; ho il cuore in gola.
Quando parlo del bacio mattutino col sole, di quanto lo brami, la gente fa smorfie derisorie, ma so quel che dico: per me ormai è più concreto e importante di tante altre cose. Da tempo è diventata un’esperienza portante del mio viaggio e, quando manca, ogni cosa sembra porti una lieve traccia di quell’assenza.
Ma eccolo, finalmente!
La luce quasi fluorescente sulla mia pelle mi fa sembrare brace viva. Il respiro aumenta di frequenza e i battiti si fanno per un attimo esplosivi. L’estasi vira verso una gioia commossa, trasformandosi infine in pace profonda. Sto vivendo qualcosa di impagabile. È una delle albe più belle che abbia mai vissuto.
Alcuni minuti dopo, torno a dar le spalle a quel miracolo e ricomincio a camminare, gonfio di un’energia indescrivibile.
Non passa molto e ho il piacere di incontrare un vecchio contadino ruspante, fermo nel suo orto per godersi il momento. Rivolto verso il sole, ha il volto colorato da quella luce primordiale. Con un’espressione eloquente e un piccolo movimento della testa, commento l’alba alle mie spalle. Lui annuisce col sorriso in volto. Per qualche secondo torno anch’io in contemplazione, ma d’improvviso sembra risvegliarsi e mi chiama dentro al suo orto con inattesa esuberanza.
Sorpreso, lo raggiungo con gran piacere. Inizia a mostrarmi dei fantastici pomodori, insistendo con gran simpatia perché ne prenda il più possibile. Mi limito a una manciata; sarà già difficile riuscire a evitare che si schiaccino questi. Ci lasciamo tra i suoi auguri e i miei ringraziamenti.
Continuo per quasi un’ora tra altri campi immensi dominati da vigneti, arrivando infine a ridosso dell’aeroporto di Béziers. Lì, per un paio di chilometri, mi ritrovo in una fittissima rete di sentieri in mezzo a una macchia di bassi arbusti. Ho come un déjà vu: è la terza volta che attraverso un luogo simile. La prima fu appena dopo Gargas, dove non scattai nemmeno una fotografia tanto ero incantato; l’altra, invece, è stata un paio di giorni fa, prima di arrivare a Loupian. Tratti piuttosto brevi, eppure divertentissimi da percorrere; forse perché mi sembrano dei circuiti, più che dei sentieri, e il semplice passarci prende automaticamente il sapore del gioco.
Oltre quell’area, di nuovo vigne, e che vigne! Viti splendide, grappoli succosi e invitanti. Non manco di assaggiarne qualcuno, stavolta senza esagerare, e decido di coinvolgere ancora la mia amica sommelier di Bergamo, mandandole la mia posizione e chiedendole qualche curiosità su queste terre. Mi conferma che sto attraversando una zona di uve particolarmente famose, sciorinando nomi e consigli con l’entusiasmo di chi ama davvero quello di cui sta parlando. Sarebbe straordinario se per ogni mia curiosità avessi una persona capace di rispondermi con la stessa passione e competenza. Quante volte avrei voluto avere in rubrica un amico botanico, oppure storico dell’arte o chissà che altro.
Raggiungo il paesino di Cers, dove finalmente trovo una chiesa aperta. Una vera rarità fin qui. Ci spendo solo un attimo, ma sento sempre di averne bisogno, almeno per dire grazie: per il ginocchio guarito, per star riuscendo in tutto, per l’infinita bellezza di questi luoghi, per le albe e il bel tempo, per l’energia che non viene mai a mancare, per le generosità ricevute, per i messaggi di sostegno, per i frutti della terra, per non sentirmi mai solo. Sicuramente non serve per forza una chiesa per farlo, ma trovarne finalmente una aperta mi mette in uno stato d’animo ideale per stare un po’ in raccoglimento.
Uscito, bevo un caffè in un bel bistrot e lascio questo paesino molto grazioso.
Attraversando un ponte, noto attraccate barche coloratissime e intuisco di essere arrivato al famoso Canal du Midi, iscritto tra i beni patrimonio dell’umanità.
È in Piemonte che scoprii di essere affascinato da questo genere di opere, in particolare dopo aver visto il Cavour. Ora, davanti a uno dei più famosi canali del mondo, la meraviglia e la sorpresa mi riempiono gli occhi.
Continuo il mio percorso camminando sul viale che lo costeggia. È un sentiero curatissimo, in alcuni tratti addirittura elegante, con lampioni a due lanterne che ricordano il secolo passato. Le barche attraccate non sono certo sempre belle o ben tenute, ma rendono tutto incredibilmente pittoresco.
Il tratto migliore è in corrispondenza della cittadina di Villeneuve-lès-Béziers. Scelgo quindi di deviare dal percorso e visitare anche questo piccolo centro. Ritrovo quel bouquet di belle caratteristiche che tanto spesso sto incontrando qui in Francia: la grazia delle forme e dei colori, l’ariosità degli spazi, l’abbondanza di fiori e altri originali tocchi creativi. L’impressione risultante è sempre quella di un’ottima vivibilità, di paesi a misura d’uomo.
Torno poi sull’alzaia del canale, dove veder passare lentamente traghetti, chiatte e altre imbarcazioni illumina ogni volta il mio sguardo bambino. È uno scenario tutto nuovo per me, l’ennesimo in cui mi imbatto da quando sono partito. È impossibile abituarsi a questo succedersi, ogni giorno è una sorpresa.
Ad un tratto, sono costretto a cambiare sponda a causa di alcuni cantieri. Stanno tagliando i grandi platani che storicamente compongono lo scenario del canale; la causa è una malattia prodotta da un fungo infestante. Alcuni cartelli indicano le enormi proporzioni di questo fenomeno e l’avanzamento delle operazioni di sostituzione. I grandi platani vengono poi bruciati, e ad un certo punto posso assistere anche a questo triste spettacolo.
La variazione di percorso mi obbliga a camminare di fianco a strade molto trafficate; riesco a tornare solo sporadicamente sui viali che costeggiano il canale. Passo dopo passo, raggiungo la prima periferia di Béziers. In prossimità del fiume Orb, svolto verso il centro storico, che esibisce fin da subito la sua bellezza – soprattutto a partire dalla piazza antistante la stazione dei treni.
Lì si affaccia l’ingresso solenne di un grande parco all’inglese, posto in forte pendenza, superato il quale si raggiunge la parte più antica e bella della città. Imbocco la grande scalinata iniziale e scopro grandi viali, alberi enormi ed esotici, fontane monumentali, splendide composizioni floreali, uno stagno con cigni e tanti busti di poeti. Quest’ultima è la caratteristica da cui il parco prende il suo nome: le Plateau du Poetes.
Arrivato in cima e superati i cancelli d’uscita, mi ritrovo di fronte ad una ruota panoramica, oltre la quale si spiega una larga promenade, che accompagna poi ad una piazza vuota e ventosa. Da lì, mi tuffo tra i saliscendi del centro storico, fino a raggiungere la cattedrale, splendidamente affacciata sulla pianura antistante.
Purtroppo, ancora una volta trovo le porte chiuse. Sono stato sfortunato, gli orari affissi dicono che si è appena conclusa l’apertura mattutina e io non ho tempo per attendere quella pomeridiana. Pazienza.
Posso comunque godermi una bellissima vista panoramica su tutto il territorio che attraverserò nei prossimi giorni, anche se non sono in grado di identificare punti di riferimento particolari.
Rimango solo pochi minuti, poi scendo proprio sotto la cattedrale e attraverso l’Orb passando dal Ponte Vecchio (XII sec.), della cui bellezza essenziale godo ancora meglio dalla sponda opposta. Lì mi ritrovo come di fronte a una gigantesca cartolina, nella quale tutto sembra inquadrato nel miglior modo possibile. Mozzafiato!
Mi fermo a mangiare uno dei miei soliti cibi in scatola in una piazzetta vicina, ma mi rimetto presto in marcia. In una decina di minuti raggiungo un altro luogo che scopro far parte del patrimonio UNESCO e di cui non avevo mai sentito parlare: le nove chiuse di Fonséranes.
È un’opera ingegneristica del XVII sec. che ancor oggi sembra produca grande stupore, permettendo al Canal du Midi di abbassarsi di circa venti metri su un arco di trecento. Lo fa, appunto, attraverso nove “cancelli”, strutturati in modo tale che anche le imbarcazioni possano gradualmente scendere all’altezza finale.
Tutto il sito è molto ben curato, anche perché pare accolga ogni anno più di trecentomila turisti. Non mi stupisce, una volta arrivato in cima, trovare anche un bel ristorante.
Soddisfatto per la felice scoperta di questo ennesimo gioiello d’oltralpe, mi lascio alle spalle Béziers e ricomincio a camminare lungo il canale. Il sentiero, dopo poche centinaia di metri, si fa stretto e in certi tratti davvero selvatico, diventando ancora più affascinante.
Lo percorro per sei lunghi chilometri, di cui la seconda metà immersi tra i campi – nella maggioranza dei casi ancora sterminati vigneti. In mezzo ad uno di questi, vedo un uomo a cavallo lanciato come se ci fosse un’emergenza. È una scena d’altri tempi per me, e d’un tratto mi sembra di essere tornato indietro di alcuni secoli.
Quando inizio di nuovo a vedere barche attraccate, capisco di essere giunto a destinazione: è il porto di Colombiers, finalmente. Ha una forma insolita che lo rende particolarmente interessante, così come le forme e i colori delle imbarcazioni che lo occupano. Il paese vi si affaccia con una piazza commerciale un po’ anonima, ma di fianco spicca un edificio dal sapore più antico, che scopro essere una vecchia cantina, alle cui spalle fa capolino un piccolo castello.
Mi riposo con gusto, aspettando l’apertura del minimarket, e dopo la spesa mi allontano dal centro per raggiungere il campeggio dove dormirò. Vengo accolto benevolmente dalla giovane coppia di proprietari. Lui parla un po’ italiano perché lo aveva studiato a scuola, e lo usa con simpatia. Con mia grande gioia, mi fanno addirittura uno sconto “pellegrino” senza che io chieda nulla. Stanchissimo ma soddisfatto della bellissima tappa, mi dedico poi agli impegni che restano, in attesa dell’ora di cena.
Ultima nota di giornata è che mi si rompe a metà la conchiglia appesa allo zaino. Era un regalo per la mia partenza da parte dei proprietari della casa che ho lasciato, Antonella e Renato.
Incredibile: pochi giorni fa, a Montpellier, resistevo alla tentazione di comprarne una nuova proprio per onorare questa, e ora eccola rotta. Un po’ mi dispiace, ma non cedo certo ad interpretarlo come un cattivo presagio. Solamente, chiedo “al cammino” di farmene avere lui un’altra, perché non mi va di comprarne una qualsiasi. Vorrei avesse ancora la bellezza di un dono. Chissà se sarò ascoltato…
(Le Mas Olivier)
25km
Ieri ho fissato una sveglia posticipata rispetto al solito, alle 7, sperando di recuperare un po’ di energie. Beata ingenuità! Ancora mi illudo. Non ho perso ogni speranza, ma con la mia attrezzatura ho capito che in autunno inoltrato sarà ben dura riuscire a vivere delle nottate rigeneranti all’aperto. Mi alzo quindi parecchio appesantito, ma non sto troppo a crucciarmi. So perfettamente che la farò anche stavolta.
La temperatura è bassa ma il cielo è terso, fortunatamente. Subito dopo essere partito, posso addirittura godere di una bellissima alba – questa sì, rigenerante.
Visto l’ottimo risultato di ieri, ancora una volta faccio disegnare il tragitto alla solita applicazione. La prima piacevole sorpresa è che mi indirizza subito lungo la stessa pista ciclabile su cui mi ero tanto divertito.
È domenica, sono le 8 e c’è già gente che corre, che porta fuori il cane o fa semplicemente una passeggiata. Mi trovo a fantasticare sulle vite delle persone che vedo, tentando come al solito di immedesimarmi e intuire almeno un po’ come possa essere vivere da queste parti. Mi diverto a immaginarmi al loro posto, ma in pochi secondi me li lascio alle spalle e torno nei miei panni, facendo ogni volta la scoperta più bella: non farei cambio con nessuno.
Non sempre è così nella vita, ma in cammino questa cosa si ripete costantemente. Prima o poi concluderò quest’esperienza nomade, ma farò di tutto per ricordarmi queste sensazioni; ho il presentimento mi saranno molto utili.
A Mèze oltrepasso il supermercato dove ho fatto la spesa, ma senza raggiungere poi la costa del grande Étang-de-Thau. Mi piacerebbe passarci, ma perderei troppo tempo. Oggi è bene che gestisca con cura le mie energie. Au revoir, Mèze.
Una volta fuori dalla cittadina, inizia il primo tratto in aperta campagna. Sarà il più lungo della giornata: ben 8 km. Mi ci vogliono un paio d’ore per completarlo, immerso tra giganteschi campi vitati, e direi una bugia se dicessi di non annoiarmi. D’altronde anche questo è cammino. A volte davvero si tratta solo di resistenza psico-fisica, inutile negarlo.
È il secondo giorno senza più il mio compagno di viaggio. L’esperienza con Fabian è stata speciale e preziosa, ma non mi ha di certo tolto il piacere di procedere per conto mio. Conosco la solitudine, so quanto e come può bruciare dentro, ma in cammino non mi succede.
Soprattutto muovendo passi nella natura, anche quella modellata dall’agricoltura, la solitudine si neutralizza; lascia invece spazio alla gioia del rapporto con i grandi elementi e con lo stupore per gli infiniti dettagli.
Non mi sono ancora stancato, per esempio, degli interminabili vigneti francesi. Anzi, poter osservare i tanti modi diversi utilizzati per coltivare lo stesso frutto mi appassiona. Così come soffermarmi qua e là a guardare quanta differenza può esserci tra fusti di viti diverse per età, varietá, clima, zona.
Con grande curiosità, studio anche i giardini, gli orti, le piante spontanee a bordo strada. Apprezzo la compagnia dei canali e attraversare un fiume mi fa sempre un po’ emozionare: mi chiedo da dove arrivi e dove sia diretto, oppure se lo incontrerò ancora.
E poi gli animali. Ne sto vedendo di ogni genere, seppur prevalentemente d’allevamento. Anche gli insetti, gli uccelli e le lumache, però, accompagnano le mie ore di cammino.
Oltretutto, fin dalle prime settimane parlo con ogni cosa, mi viene spontaneo. Lo faccio tra me e me, oppure rivolgendomi a questo o quello, senza mai l’impressione sia una cosa strana o folle.
Parlo tantissimo col sole, e col vento quando arriva a spingermi – come fosse un bambino che vuol giocare. Consolo la pioggia quando si sente in colpa per avermi infradiciato; sembra intenerirsi quando le dico che mi piace anche così, oppure se la ringrazio per quello che fa.
Mi scopro spesso a imitare i versi che sento – siano cani o rapaci – oppure a cantare in direzione di un gregge o una mandria, come sulla strada per Montpellier.
Non sono mai solo.
Non lo sono nemmeno tra le ville dei quartieri residenziali, perché anche lì osservo curioso e imparo mille cose, ragionando sulla disposizione delle case, sulla loro forma, i loro colori, le loro recinzioni. Guardo i marciapiedi, l’asfalto, le aiuole, i campanelli, le cassette della posta, i cartelli stradali, le insegne, i cestini, i lampioni. Esamino i palazzi comunali, i parchi, le fontane, le pensiline, le rotonde. Studio come parcheggia la gente, le marche delle auto, i giochi dei bambini in cortile, gli animali domestici. Mi soffermo sugli impianti sportivi, i campi da bocce, i crocifissi, le locandine degli eventi. Dedico uno sguardo ai cassonetti, alle vetrine, ai monumenti.
Tutte queste cose mi permettono di essere presente, di non camminare totalmente immerso in me stesso. Ovunque imparo qualcosa: sugli usi dei luoghi che attraverso e sui miei gusti personali, semplicemente badando se una tal cosa mi piaccia oppure no, se magari vorrei fosse così anche dove vivo io.
Il mio passo è svelto, il tempo che dedico ai singoli dettagli è sempre poco, ma ormai la mia mente si predispone ad essere ricettiva e rapida. Immagazzina, si fa domande, ipotizza risposte, si diverte.
Ecco, si diverte! Io quando cammino in posti nuovi mi diverto.
E quando sono brutti soffro, ma è la vita: bisogna saper accettare anche a quelli.
La Francia, anche là dove è meno fastosa, mi sta continuando a piacere profondamente. A volte di più, a volte di meno, ma io vedo comunque un sacco di buon gusto, di sensatezza, di voglia di dare una forma ben fatta alle cose. Hanno stile, questi cugini francesi. Anzi, hanno stili, tanti e diversi.
E resta poi il fatto inoppugnabile che li coltivano, eccome! I territori che ho attraversato hanno sempre mostrato un’identità nitida, fatta di elementi ricorrenti declinati sapientemente in mille varianti, sia in ciò che componeva il paesaggio, sia in ciò che lo comunicava, come cartelli e tavole esplicative.
Tutto questo mi continua a dare l’idea di una creatività attiva. A volte percepisco anche un po’ di competizione, come se territori diversi gareggiassero in questo processo di raffinamento; non è una cosa che posso dimostrare, ma credo esista anche questo aspetto, un po’ come in un grande palio delle contrade.
Ogni ufficio turistico in cui sono entrato, anche nel paese più piccolo, aveva un’ottima impostazione interna, sempre ricca di materiale informativo d’impatto, capace di catturare l’occhio e mostrarsi al contempo funzionale affinché il turista possa avere una visione completa dell’offerta di quel luogo: dallo sport alla cultura, fino all’enogastronomia – ovviamente – e tutto il resto.
I siti che finora ho consultato per orientarmi, per trovare informazioni o alloggio, non sempre erano bellissimi, ma erano organizzati sempre in maniera ben strutturata e mai scontata. Alcuni, quelli dei singoli comuni, per esempio, mi è parso siano tutti curatissimi.
Delle case private dove ho dormito, ho già scritto: pur diverse, erano sempre piene di oggetti unici e tendenzialmente ben sposati tra loro, a formare una scenografia mai banale. Non può essere un caso che ogni volta mi sia stato detto che loro stessi, i proprietari, avevano ideato e costruito parti significative della casa o del mobilio.
Anche i prodotti locali vengono promossi costantemente, è risaputo, ma colpisce scoprire quanto spazio venga loro dedicato anche in alcuni super e ipermercati.
Insomma, a Cesare quel che è di Cesare! Non mancheranno certo grandi contraddizioni a quello che sto notando, ma credo comunque sia benefico per me coltivare uno sguardo attento al meglio che incontro.
Della tappa di oggi non ho molto da dire. Sono passato rapidamente da Pinet, Pomérols e Florensac, ho attraversato il fiume Hérault – che dà il nome a questo dipartimento – e poi, semplicemente, sono arrivato a Bessan, proprio mentre cominciava a piovere.
Sono qui perché era il posto più economico che ho trovato, come al solito, ma sono stato fortunato, e non è certo la prima volta.
L’alloggio è in pieno centro, all’interno di un edificio di vecchia data. Sembra di essere in una vera propria a casa, ma ha una caratteristica curiosa: avendo i soffitti alti ma pochi metri quadri calpestabili, i proprietari hanno allestito ciascuna stanza con due specie di cuccette, una sopra l’altra. Non sono solo dei letti a castello: ognuna è come una micro-stanza, e nemmeno troppo soffocante.
Essendo poi io da solo in tutto l’ostello (o meglio, gîte d’etape), la sensazione non può che essere di grande agio.
La cucina è una bomba: ci trovo ogni strumento possibile ed è piena di viveri. Ancora una volta, però, non posso approfittarne granché. Avrei potuto comprare qualcosa di fresco e cucinarmi un piatto come si deve, ma non stava scritto da nessuna parte ci fossero tutti questi attrezzi, i condimenti e tutto il resto. Al telefono, per abitudine, avevo chiesto solo del microonde, ricevendo una scarna risposta affermativa, niente più. Pazienza. Terrò a mente; chissà non apra anch’io un bed & breakfast, prima o poi.
Passo quindi un buon soggiorno, anche se non vedo nessuno, purtroppo. Proprio nessuno. Infatti la prenotazione e il pagamento li ho fatti online, con Booking, e le password per aprire la porta d’ingresso e quella della stanza le ho ricevute telefonicamente. Niente più.
Sono dispiaciuto anche perché non hanno un timbro per per la mia credenziale; vorrà dire che me lo dovrò creare da solo più avanti, quando avrò la giusta ispirazione. D’altronde non è la prima volta che mi succede: mi manca anche quello della tappa conclusasi a Reotier, facendo campeggio illegale in una vigna.
Il timbro di oggi, tra l’altro, sarebbe stato l’ultimo della mia prima credenziale, quella della confraternita di Perugia. Lascio quindi la casella vuota e domani inaugurerò quella comprata ad Arles, che sarà più che sufficiente per arrivare fino alla fine.
(Camping Municipal)
38km
Fortunatamente, questa notte sono riuscito a dormire come si deve. Non è che questo mi faccia rivalutare la qualità dell’ostello, ma non ricordo l’ultima volta che mi sia svegliato così in forma. Immediatamente mi rendo conto che in stanza è impossibile rimanere a fare colazione senza svegliare gli altri due, ma all’esterno dell’edificio fa troppo freddo. Non posso far altro che piazzarmi con grande nonchalance nell’androne, seduto a terra. Un paio di altri ospiti vanno e vengono; provo a salutarli ma non girano neanche la faccia. In effetti, non devo dare una bella impressione, e diciamo anche che fino alle sette e mezza chiunque ha diritto ad essere un po’ asociale.
Riempita la pancia, faccio un bel respiro e mi tuffo per strada. Rispetto a ieri, la città sembra deserta; incrocio giusto qualche studente. Una cosa che mi colpisce, però, è l’illuminazione pubblica. L’impressione è che sia sovrabbondante e davvero ben studiata. Montpellier dev’essere una splendida città da vivere di notte.
Lasciando la Via Tolosana e rinunciando all’itinerario di Sara, oggi mi lascerò guidare ancora una volta dalla app che già usai per raggiungere la Francigena da Bergamo. L’unica deviazione che le ho imposto è proprio per questi primi chilometri. Visto che sono nella periferia nord, ho pensato che non sarebbe stato male uscire dalla città passando da una zona del centro storico che ieri non ho visitato. Nello specifico, avendo scoperto che c’è un grande arco di trionfo, ho deciso sarebbe stato un perfetto punto di passaggio.
Una volta raggiunto, gioisco tra me e me per la scelta. L’illuminazione artificiale che avevo notato nelle vie secondarie, qui è pazzesca. Sia l’arco che tutto il parco antistante compongono uno scenario di pura magia.
L’area, detta Promenade du Peyrus, è come un’immensa terrazza sulla città. È dominata al centro da una grande statua equestre e, ai lati, da eleganti file d’alberi. La gemma di questo luogo già speciale, però, è una costruzione simile anch’essa ad un arco di trionfo, ma in realtà a pianta esagonale; viene detta château d’eau, ed è il termine ultimo del monumentale acquedotto Saint-Clément. La torre è l’apice assoluto dell’arte illuminotecnica che stamattina mi ha già regalato molto più di quanto mi aspettassi. Dei fari colorano l’interno della costruzione d’azzurro, il quale si riflette poi nella grande vasca d’acqua che c’è di fronte, assieme alla luce dei lampioni tutt’attorno.
Ci rimango almeno trenta minuti, scattando fotografie e gustandomi tutta quella bellezza, senza pentirmi nemmeno per un attimo del tempo sottratto al cammino.
Ben sazio, scendo poi ai piedi degli Arceaux, l’imponente parte finale dell’acquedotto. È una struttura in pietra alta quasi 30 m, composta da due file di archi sovrapposti, di cui quelli inferiori sono alti 8 m ciascuno. È lunga 800 m e permette che l’acqua condotta fino a Montpellier (la sorgente è lontana 14 km) possa arrivare fino al punto più alto della città: Place du Peyrou, appunto.
Nel parcheggio ai suoi piedi, sta venendo allestito un mercato. Le bancarelle già espongono tantissime cose da mangiare e sono davvero invitanti.
Calcolo che per uscire definitivamente dalla città impiegherò almeno un’ora. Mentre seguo il percorso tra viuzze anonime, mi godo l’ordine e la pulizia che avevo notato fin dal viaggio in tram di ieri.
Man mano che mi allontano dal centro, gli edifici si fanno più grandi, diventando ben presto moderni palazzoni. Mentre ormai sta facendosi giorno, arrivo nei pressi dello stadio e lì perdo ingenuamente la rotta giusta, finendo in una strada dipartimentale larga e molto trafficata. Non ci sono spazi per i pedoni, ma la meta è davvero molto lontana oggi e non mi posso permettere di tornare sui miei passi.
Vicino ad un McDonald ancora chiuso, nei pressi di una rotonda grandissima già piena d’auto, mi godo un’alba meno memorabile delle tante godute in mezzo alla natura, ma resta comunque un momento incredibilmente energizzante. Cammino a lato dello stradone per ben 7 km, contando decine e decine di altissimi platani ai suoi lati.
A metà strada perdo un quarto d’ora a cercare un orecchino speciale che un amico orafo aveva fatto apposta per me, anni prima. Lo avevo rimesso dopo moltissimo tempo, proprio per questo cammino. Rappresentava qualcosa di molto poetico, un uomo-rondine, che in qualche modo aveva a che fare con lo slancio che mi ha spinto a partire. Purtroppo la ricerca non dà buon esito, e devo dirgli addio con gran rammarico.
Con Montpellier ormai lontana alle mie spalle, mi fermo a prendere un caffè a Fabregues, una cittadina la cui particolarità è che il suo centro – di origine medievale – è strutturato in cerchi concentrici perché meglio si potesse difendere l’abitato. Dei cartelli molto ben illustrati mi fanno capire che non è l’unico luogo con queste caratteristiche, ma uno dei tanti presenti qui nella provincia storica della Linguadoca. Questi borghi sono stati denominati in epoca moderna Circulades.
Ancora una volta resto piacevolmente stupito della capacità dei francesi di valorizzare il proprio patrimonio e di saperlo promuovere in maniera sempre molto efficace.
Da Fabregues, il percorso studiato dall’applicazione mi indirizza lungo un sentiero che costeggia un’autostrada. Dentro di me penso che, in quella posizione, sarà sicuramente un tracciato orribile, ma in realtà – tolta la visione della grande via asfaltata – il panorama si rivela splendido. Il percorso, infatti, mi ha fatto salire di qualche decina di metri e ora godo di una visione panoramica su tutto il territorio a nord, in larga parte pianeggiante. Le uniche alture stanno all’orizzonte, coronate qua e là da pale eoliche. La presenza di queste ultime potevo prevederla, visto che dove sto camminando il vento tira davvero molto forte.
Lasciato questo sentiero, arrivo a Gigean, seconda circulade di quest’oggi.
In una piazza in centro ho la fortuna di imbattermi in un mercato molto particolare, ricco di bancarelle con cibi da strada incredibilmente accattivanti; una propone addirittura una degustazione di ostriche. Da questa zona fino alla vicina costa mediterranea, infatti, questi molluschi sono molto diffusi.
Ahimè, la vocina della mia coscienza pellegrina cestina l’idea di un pranzo fuori dagli schemi perché troppo costoso, e mi dirotta verso un semplice negozio di alimentari, dove mi concedo almeno una confezione di affettato più decente del solito. Ci farcisco la baguette che avevo di scorta e mi fermo a mangiare nel parco lì di fianco.
Sazio e di buonumore, una ventina di minuti dopo mi rimetto in moto, godendomi alcune zone davvero pittoresche del paese. Uscitone, mi ritrovo in un’ampissima area vitata, ricca di sentieri e strade che è una gioia percorrere. Sullo sfondo campeggiano armoniosamente le stesse colline che qualche chilometro prima avevo visto tanto piccole.
Dopo nemmeno un’ora arrivo a Poussan, un altro villaggio molto simile ai precedenti. Mi piace molto attraversare questi piccoli centri. Non si può dire sprizzino di chissà quale vitalità, ma sono graziosi e ben tenuti.
Il territorio attorno dà loro grande respiro, eccezion fatta per l’autostrada, che a Poussan passa proprio di fianco al paese. Questa volta per superarla mi devo addirittura imbucare in un sottopassaggio che sembra più una via di scolo. Una volta dall’altra parte, do inizio agli ultimi dieci chilometri della tappa di oggi.
Il percorso disegnato dalla app mi lascia felicemente stupito, facendomi passare in una serpentina di sentieri nei quali non sarei mai riuscito ad orientarmi da solo. In quest’area la terra si è fatta rossa e ci sono per lo più arbusti medio-bassi. Mi diverto come un bambino a camminare lungo queste piste, entusiasta anche per la luce fantastica che si è venuta a creare.
Nel chilometro e mezzo finale, poi, il paesaggio cambia ancora. Torno su asfalto, in mezzo a grandi vigneti e campi arsi dal sole. Arrivo infine a Loupian, ennesima cittadina deliziosa di un territorio che avevo immaginato molto più anonimo. Di buonumore, mi metto a cercare un negozio per fare scorta di cibo per stasera e domani, ma alcuni abitanti mi avvisano che l’unica bottega del paese è chiusa per ferie.
Un po’ preoccupato, decido di chiamare il camping. Mi viene detto in tono rassicurante che nel campeggio c’è anche un bar, e posso prendere lì qualche panino, e così lascio il centro del paese decisamente rasserenato. Poco prima di arrivare al campeggio, resto incantato dalla bellezza di una chiesa isolata nella campagna. È molto sobria, ma straordinariamente in armonia col paesaggio che la circonda, in particolar modo un gran vigneto al suo lato. Sono le quattro e mezza del pomeriggio e la luce si è fatta ancora più suggestiva. Per l’ennesima volta mi sento come dentro una cartolina.
Il campeggio è lì a due passi. Mi accoglie Jean, il manager, che si dimostra fin da subito gentilissimo e accogliente. Una volta sbrigate le pratiche di registrazione, vado a sbirciare cosa offre il menù del bar – ancora chiuso – ma prezzi e orari non mi convincono, così mi informo su quanto disti il primo supermercato. Sfortunatamente si trova a Mèze, e per me che sono a piedi è troppo lontano. Facendo due calcoli, non mi resterebbe nemmeno il tempo per occuparmi del montaggio della tenda, di farmi finalmente una doccia e, perché no, godermi un po’ di meritato relax prima di cena.
Jean, intenerito, mi propone di prendere in prestito gratuito una vecchia bicicletta scassata che solitamente noleggiano, un modello simile alla nostra graziella. Accetto immediatamente, entusiasta anche di poter farmi una pedalata in questi bellissimi paesaggi.
Appena uscito dal campeggio, oltretutto, scopro di poter evitare la strada carrabile e gustarmi una splendida pista ciclabile che si tuffa tra campi verdissimi e allevamenti di cavalli bianchi. Un sogno!
Se ieri l’esperienza di autobus e tram mi aveva già stranito per quanto ne ero disabituato, oggi quella in bicicletta mi entusiasma come mai avrei potuto immaginare. Senza zaino, corro col vento in faccia in mezzo a questo paradiso e mi sembra di andare alla velocità della luce. Rido come non mai anche di queste stesse suggestioni, il che rende tutto doppiamente divertente. Che regalo!
La giornata si chiude con uno scroscio di pioggia già previsto, mentre io sono già nella mia tenda, bardato a dovere, pasteggiando per l’ennesima volta con un cous cous confezionato, di cui ormai ho la nausea per quante volte l’ho già mangiato. Oggi però sono troppo felice per come è andata, e non basta certo un cibo precotto a rovinarmi l’umore.
(Hotel le Saint Eloi)
27,5 km
Contro ogni aspettativa, anche questa notte non è stata delle migliori. Purtroppo la casa-mobile si è rivelata una vera scatola di cartone: il vento l’ha scossa in continuazione, e il rumore della pioggia sul tetto produceva un rimbombo insopportabile. Oltretutto qualcosa continuava a sbattere, senza che sia mai riuscito a capire di che si trattasse. Non significa non abbia dormito, ma di certo non me ne resterà un buon ricordo.
Questa faccenda del dormire male spesso mi fa pensare. Ho quasi l’impressione che le nottate simili a questa ad oggi siano state la maggior parte. Se avessi mai dormito così per un mese intero nella mia vita routinaria a Bergamo, credo mi sarei ridotto in condizioni sempre peggiori, settimana dopo settimana. In cammino, invece, sembra sia un problema assolutamente contenibile. Mi sono accorto che faccio questo pensiero ogni mattina – giusto un minuto, proprio appena svegliato. Ovviamente sono sempre pensieri un po’ scombussolati che in pochi istanti si perdono chissà dove, insieme alle ore inquiete della notte e gli incubi assurdi.
Così succede anche oggi, naturalemente. Una volta alzato, il cervello si spegne e mi focalizzo solo sul fare colazione e sistemare tutto. Grazie al cielo non piove, ma fa comunque piuttosto freddo. C’è ancora buio e ovviamente nel campeggio non incontro nessuno. È affascinante passare tra altre mobil-home e i camper, pensare che dentro alcuni di quelli c’è gente che dorme, che magari viene qui in vacanza da anni. Sono divisi tra loro da alte siepi, e i vialetti sono illuminati con lampade da giardino.
Passo di fianco anche alle piscine desolate e al complesso che ospita bagni e docce: è una struttura circolare che sembra un grande ufo, con tutte le luci rigorosamente accese. Se lavorassi nel cinema, tutto questo comporrebbe un ottimo scenario per qualche b-movie, oppure per un film di David Lynch, ma di certo qualcuno ci avrà già pensato.
Aspetto Fabian all’incrocio fuori dal camping. Vedo passare giusto un paio di auto e le finestre delle case intorno sono quasi tutte ancora buie.
Appena prima che scocchi l’ora pattuita, mi scrive che ritarderà una decina di minuti. Per un attimo avevo pensato non sarebbe venuto e già mi stavo facendo mille film in testa.
Una volta arrivato, intuisco già dall’andatura che non è al massimo della forma. La prima cosa che mi dice, infatti, è proprio che ha passato una nottataccia e che il fisico è messo ancora peggio di ieri. Non so come andrà la tappa – probabilmente questo complicherà un po’ le cose – ma sono comunque molto felice di ritrovarlo, convinto che ce la caveremo anche oggi.
Partiamo con il cielo coperto e il buio ancora a farla da padrone. Immagino che non avremo il piacere di vedere l’alba, stamattina. Peccato.
Lasciamo Gallargues e ci dirigiamo verso il fiume Vidourle. L’unico ponte pedonale, però, è 3 km più a nord, quindi iniziamo a camminare paralleli al corso d’acqua verso quella direzione. Costeggiamo per un lungo tratto una sorta di alto argine di pietra e cemento, senza capire se serva per il fiume o meno, perché ne rimane molto distante e in mezzo ci sono anche parecchie vigne. Ci teniamo il dubbio e arriviamo al ponte.
Ancora una volta, l’attraversamento porta con sé il passaggio di un confine: abbandoniamo il dipartimento del Gard ed entriamo in quello dell’Hérault.
Durante il passaggio in un quartiere residenziale del paese di Villetelle, noto che attorno a noi ci sono solo ville con grandi giardini, tutte circondate da alti muri di cinta. Non è uno scenario troppo originale, ma ho la sensazione che ci sia qualcosa di strano, senza riuscire subito a cogliere di che si tratti. Dopo qualche minuto, però, capisco che il dettaglio che mi stranisce sono proprio i muri esterni. In effetti, fino ad ora avevo sempre incontrato case recintate, ma mai da muri – per di più così imponenti.
Questo fa sì che ogni casa sia un’isola a sé, protetta in maniera radicale, sia dalle intrusioni che dagli sguardi. Ripeto, niente di sconvolgente, eppure ne resto turbato. Mi si innescano riflessioni sulla convivenza, sul senso di minaccia che l’essere umano sente, sulle sue deformazioni. Tutto in me si mescola all’esperienza del mio procedere ogni giorno in un luogo diverso, senza proprietà se non il mio zaino e vivendo per la maggior parte del tempo all’aria aperta. Non arrivo a grandi conclusioni, semplicemente lascio incontrare pensieri e sensazioni, niente più.
Un altro dettaglio interessante è che proprio su quei muri troviamo tantissimi empégues come quelli di ieri, sempre a lato dei cancelli. Segni che rendono un po’ più umano questo piccolo arcipelago di cemento.
Usciti dal paese, torniamo nella natura, imboccando un ampio sentiero pianeggiante immerso tra i boschi. Lungo il cammino incontriamo alcune costruzioni edificate esclusivamente con pietre a secco, dall’aria quasi primitiva. Pare si chiamino Capitelles. Venivano utilizzati dai pastori o dai cacciatori, oppure come depositi nelle stagioni di raccolto. Esteticamente non sono straordinari, ma hanno il pregio di rendere un po’ più interessante il percorso di oggi, fin qui un po’ anonimo.
Passata una grande e profonda cava, decidiamo finalemnte di sederci a mangiare qualcosa. Il buon Fabian è davvero a pezzi, purtroppo; i dolori di ieri sono aumentati drasticamente. Quando ci rimettiamo in marcia, sto un po’ al suo passo per spronarlo e sostenerlo, ma poi sono costretto a chiedergli di poter proseguire da solo al mio ritmo. Per quanto possa sembrare paradossale, andare così lento crea anche a me dolori e affaticamenti che non sopporto, e per fortuna si dimostra comprensivo. Cammino davanti a lui per circa tre ore, scegliendo di fermarmi ogni mezz’ora ad aspettarlo. Ad ogni pausa mi godo il paesaggio o la vista di qualche allevamento di buoi. In un’occasione mi diverto anche a cantare ad alta voce davanti ai loro sguardi impassibili, entusiasta di quella libertà con cui giocare.
Ogni volta che ripartiamo, cammino prima qualche minuto con lui e poi riprendo il mio passo. Facciamo così per una dozzina di chilometri, quasi tutti in linea retta, fino a che raggiungiamo Vendargues.
Da questo paese Fabian mi ha già avvisato che prenderà i mezzi pubblici per raggiungere il centro di Montpellier. È una decisione che non nasce dalla pigrizia e non è improvvisata. Più di una fonte, infatti, sia tra le mie che le sue, contempla questa possibilità per concludere la tappa. In gioco ci sono circa 8 km che corrispondono alle periferie orientali della grande città.
Stamattina ho dedicato buona parte dei miei strappi solitari a riflettere su cosa fare a riguardo. Mi sono domandato in continuazione perché si concordi tanto in questa “scorciatoia”. Forse quelle zone di Montpellier sono particolarmente malfamate, oppure è solo un modo per i pellegrini di avere più tempo da dedicare alla visita della città, che sembra rinomata per la sua bellezza. Sono tentato, ma molto combattuto. Una parte di me la vive come vero e proprio tradimento al pellegrinaggio che sto facendo. L’altra mi chiede di non essere così duro e di accompagnare Fabian, in modo da godermi con lui la conclusione di questi tre giorni preziosi di cammino condiviso.
Alla fine prendo con fatica la decisione di continuare a piedi, anche se vorrà dire spezzare questa breve e ricca esperienza con lui. Sento di dover rispettare più che posso il mio cammino, anche se questo bisogno di radicalitá mi interroga. Cosa c’è davvero in gioco? Perché mi sembra che tutto si rifaccia ad una sfida esistenziale? Le risposte sembrano prender forma solo nell’ambito intimo e misterioso della fede. Non ce la faccio nemmeno a metterle per iscritto. Ho preso una decisione, ma mi sento svuotato, e non capisco perché.
Arrivati a Vendargues, quando tutto ormai sembra deciso nonostante il cuore lacrimi, un banale cartello riesce inaspettatamente a rimettere tutto in discussione. È un ampio benvenuto ai pellegrini da parte della comunità locale, ma la sua particolarità è che è rivolto specificatamente a quelli che, come me, sono diretti a Santiago de Compostela.
È capitato molto raramente in questi quaranta giorni di cammino di imbattermi in messaggi destinati a chi sta dirigendosi laggiù, ed è sempre stato emotivamente molto toccante. Forse il motivo è che ogni volta, davanti a quelle parole, io ero il solo in viaggio verso quella meta – e spesso anche l’unica persona presente. È stato sempre un po’ come ricevere un abbraccio, una pacca sulla spalla, qualcosa che mi faceva sentire accompagnato nel mio procedere solitario – ed è lo stesso che capita quando incontro ogni tipo di segnaletica che mi conferma di essere sulla strada giusta.
Immerso in queste suggestioni, mi accorgo che proprio nel mezzo del manifesto campeggiano le indicazioni per raggiungere la fermata del famoso autobus. Anche se lo reputo un semplice cartello, e non certo un segno del destino, si dimostra sufficiente per mandare in pezzi la fragile decisione che avevo preso.
Fabian è di fianco a me, sorridente: finalmente è arrivata la fine delle sue sofferenze. Vederlo così alleggerito e contento mi convince definitivamente a continuare con lui fino in fondo, e festeggiare questi tre giorni tanto preziosi passati insieme. Senza volerlo, esalo un gran sospiro, ed esplodo anch’io in una risata liberatoria. Lui mi guarda incuriosito e solo a quel punto gli comunico con malcelato sollievo che ho cambiato decisione. Sorpreso, confessa di essere molto felice per questo colpo di scena, e insieme ci dirigiamo alla pensilina, dove approfittiamo dell’ombra e dell’attesa per pranzare.
Arrivato il nostro autobus, saliamo e compriamo i biglietti in vettura. Sono curiose le sensazioni che provo vedendo tutto scorrere veloce dai finestrini, o spostandomi non più da solo ma con tante persone tutte assieme.
Raggiunto il capolinea più o meno a metà strada, proseguiamo in tram.
La sorpresa maggiore è che le periferie che attraversiamo sono assolutamente ordinate e pulite, niente che meritasse davvero di essere sorpassato così impunemente. Dentro di me sommo questi chilometri a quelli saltati ingenuamente tra Sisteron e Pepin, e prometto a me stesso che prima o poi nella vita dovrò “restituirli” al cammino.
Dopo circa mezz’ora, ci ritroviamo in pieno centro. La città è davvero imponente, ma allo stesso tempo ariosa e molto elegante. È stracolma di gente, per lo meno per quello a cui sono abituato ultimamente. Non oso immaginare quanta ce ne sarebbe senza il Covid. Vedo tantissimi giovani passare, e questo mi fa ancora più effetto, perché in questo mio peregrinare mi ci imbatto molto raramente.
Entriamo in un bar con tante vetrate, affacciato sulla stazione dei treni. Convinco Fabian a brindare a questo momento con uno shot di qualcosa di forte. Quale occasione migliore di questa, d’altronde? Non esattamente convinto, mi propone un mauresque, un cocktail tradizionale a base di pastis e orzata. Accetto senza discussione, eccitato di assaggiare qualcosa di nuovo. Il sapore dell’anice si sposa benissima a quello della mandorla, ma il drink si rivela piuttosto blando rispetto a quello che avevo in mente. Non c’è problema, va benissimo anche così.
Anche se è distrutto, l’amico parigino accetta la mia richiesta di spostarci per poterci salutare in un posto meno anonimo di questo. Gli propongo il santuario di San Rocco, in pieno centro. Questo santo, gli spiego, ha un valore importante per i pellegrini. Anzi, ne viene addirittura riconosciuto tra i massimi protettori, perchè anch’egli raggiunse Roma proprio da Montpellier, sua città natale.
Nelle nostre chiacchierate Fabian ha conosciuto la mia poca predisposizione alla devozione dei santi, ma non me lo fa presente, forse perché capisce che la mia fede è tutta fatta di contraddizioni, ma resta onesta e appassionata.
Raggiungiamo quindi la chiesa e, alle sue porte, infrangiamo le ferree regole di distanziamento sociale e ci stringiamo in un forte abbraccio davanti a tutti. È davvero una grande e bella emozione! Ci ringraziamo a vicenda, dicendoci felicissimi dell’esperienza fatta assieme. Non andiamo oltre, di parole ne abbiamo spese a sufficienza.
Resto a guardarlo mentre se ne va; ha preso un’ottima stanza con AirBnB. Fin da ieri ha scelto che non proseguirà oltre, il suo cammino finisce qui. Domani visiterà per bene la città, poi tornerà a Parigi da sua figlia. Per il futuro non ha ancora deciso, ma per quello ci sarà tempo.
Una volta rimasto solo, entro in chiesa e lì resto per un’ora almeno. Ho molto tempo a disposizione perché l’ostello che ho trovato apre solo alle 18. Resto in preghiera, oppure semplicemente a riposo, contemplando tutto ciò che ho attorno e ascoltando un paio di volte l’usciere fare da cicerone a dei fedeli: racconta loro tutta la storia di San Rocco, e resto colpito dal fatto che il tono della sua voce si mantenga fervente e allegro. Chissà quante altre volte lo ha fatto, eppure sembra non abbia perso freschezza e partecipazione.
C’è anche una vetrina con dei souvenir e dei libri in vendita. Sono molto attratto dall’immancabile conchiglia del pellegrino. Io ho già la mia appesa allo zaino, ed è di capasanta – come vuole la tradizione – ma è la valva superiore, più piccola e piatta. Al contrario, quella abitualmente utilizzata è quella inferiore. Più grande e convessa, si dice servisse come cucchiaio per i pellegrini del passato. È anche oggettivamente più bella e il desiderio di sostituirla alla mia è tanto. Quella che porto, però, è un regalo ricevuto prima della partenza, e alla fine decido di onorarlo e rinunciare all’acquisto.
Prima di andarmene, ho anche la fortuna di poter gustarmi le esercitazioni di un suonatore d’organo. È di una bravura straordinaria, o forse è il mio orecchio inesperto che me lo fa sembrare, ma che importa!
La giornata è meravigliosa e mi permette di gironzolare per le vie del centro godendomi tutta l’eleganza monumentale di Montpellier, nonostante ad ogni passo la stanchezza morda sempre più.
Fattasi l’ora, raggiungo l’alloggio e scarico finalmente il peso portato per più di dieci ore. Il posto è più che spoglio, e nemmeno troppo pulito. Non c’è cucina, sala relax o altro spazio comune per gli ospiti: stranissimo. Io sto in una stanza con un paio di letti a castello, che condivido con altri due ragazzi. Capisco che non sono viaggiatori, ma non riesco a cavar loro nient’altro.
Prima di cena, studio il percorso per domani: essendo fuori da ogni cammino segnalato, lascio fare a Komoot anche stavolta. La scelta più incisiva sta nel rivoluzionare l’itinerario di Sara. Lei era scesa sulla costa, fiancheggiando l’immenso stagno di Thau e attraversando le sue magnifiche località portuali. Io, invece, ho trovato una soluzione più pratica ed economica passando più nell’entroterra. Per dormire, trovo un campeggio in un paesino che si chiama Loupian. La tappa sarà molto lunga, ma sono carico.
Conclusa la fase logistica, mangio sulla mia branda i soliti cibi in scatola e poco più. Da domani tornerò a camminare da solo; fatico a rendermene conto. Incredibile come mi fossi già abituato alla presenza di Fabian. Comunque sono contento di aver scelto l’autobus ed essere arrivato in città con lui; è stata una degna conclusione di questi tre giorni insieme. Chissà quando incontrerò ancora qualcun’altro con cui camminare. Mi addormento serenamente, fantasticandoci sopra.
(Camping Les Amandiers)
33 km
L’esperienza di ieri ha definitivamente convinto Fabian che partire presto la mattina sia la soluzione migliore. Oggi, però, sono io quello stravolto, perché le mie poche ore di sonno sono state anche piuttosto inquiete. Cerco comunque di lasciarmi tutto alle spalle e iniziare la giornata nel migliore dei modi.
Si alza con noi anche Severine, che però la prende con maggiore calma, perché ha altri programmi rispetto ai nostri. Sembra più stordita di me dalla sveglia e non spiccica parola.
Conclusi preparativi e colazione, la salutiamo e usciamo in piazza.
Vista l’ora, c’è ancora buio, e lo spettacolo dell’abbazia illuminata è davvero magico. Mentre Fabian studia la mappa per capire dove dirigerci, comincio già a muovere i primi passi, godendomi le vie deserte del centro storico.
Ci lasciamo velocemente il paese alle spalle, gustandoci il lieve diffondersi della luce che colora la pianura agricola.
Meno di un’ora e siamo raggiunti da un’alba stupefacente, nei pressi di un passaggio ferroviario in mezzo a vigneti senza fine. Il sole infuocato, i binari, le vigne: una combinazione inaspettatamente affascinante che ancora non avevo sperimentato.
Ieri le nuvole ci avevano messo i bastoni tra le ruote, quindi per Fabian è ufficialmente la prima alba del suo piccolo cammino. Direi che non gli è andata per niente male.
Passiamo oltre, sempre circondati da una pianura coltivata quasi solo a viti. Arrivati al Canale del Basso Rodano – che irriga il territorio tra Arles e Montpellier – l’itinerario ci fa imboccare il sentiero di terra rossa che lo costeggia. Ora è il piatto corso d’acqua a farla da protagonista.
Camminare in mezzo a grandi pianure ha la caratteristica di mettere alla prova il viandante; la monotonia dello scenario è qualcosa con cui si è costretti a fare i conti. Trovare il giusto assetto interiore è fondamentale, perché la povertà di punti di riferimento produce frustrazione. Il rischio è che poi si indebolisca oltre il morale anche il corpo, finendo alla svelta col trascinarsi.
In questo senso i dislivelli della Via Domitia erano a volte durissimi, ma aiutavano a restare più attenti e reattivi – oltre al fatto che i paesaggi erano spesso meravigliosi. D’altronde allora Sara me lo disse chiaro e tondo, in risposta ad alcuni miei messaggi un po’ lamentevoli: “Goditi queste montagne, Robi, perché poi le rimpiangerai”. Ricordo perfettamente il tono con cui me lo disse, e ora la comprendo in pieno.
Non voglio nemmeno esagerare, però: il mio rapporto con la pianura rimane buono. L’abitudine all’introspezione e il gusto per la contemplazione mitigano molto noia e spossatezza. Ovviamente oltre al fatto che non sono solo: non proprio un dettaglio.
A proposito di Fabian: ieri abbiamo parlato tantissimo, mentre oggi ci stiamo godendo lunghi tratti conmpletamente in silenzio. Sembriamo entrambi restii a riempire queste ore insieme, come fosse un tacito accordo.
Per un attimo mi chiedo se ci sia nell’aria qualche traccia di insofferenza da parte sua, ma i pur pochi dialoghi scorrono perfettamente. Anzi, spese ormai tutte le informazioni principali riguardanti le nostre vite, oggi i temi si fanno più astratti e interiori, e chissà non sia conseguenza anche dell’ambiente stesso.
Restiamo di fianco al canale per meno di un’ora. Nel frattempo, verso sud, l’orizzonte sembra essersi trasformato inaspettatamente in una lama luminosa. Guardando meglio ci rendiamo conto che sono delle distese d’acqua in cui il sole si riflette. Diamo quindi un’occhiata alla mappa, scoprendo che si tratta di due stagni molto grandi. Nella mia testa gli stagni sono sempre stati bacini di dimensioni ridotte, con qualche animale attorno, ma mi rendo conto che forse la mia è una visione troppo elementare. Da queste parti sembra vengano chiamati così anche bacini che io normalmente avrei chiamato laghi. In ogni caso, spiando sul web, apprendo che questi sono i due principali della Piccola Camargue, un territorio affine alla Camargue vera e propria, ma posto fuori dal Delta del Rodano.
Tra noi e gli specchi d’acqua noto poi delle sagome bianche: sono i tipici cavalli di quest’area, esemplari particolarmente affascinanti. Come i pochi versi di un haiku, pochi elementi riescono a comporre un dipinto davvero sublime. È un’esperienza che fa parte della quotidianità di questo cammino, ma non riesco e non voglio abituarmici.
Più o meno da queste parti, secondo dei calcoli assolutamente approssimativi, mi rendo conto che dovrei aver superato la soglia dei 1000 km percorsi. Non sembrano esserci paesi abbastanza vicini, così decidiamo semplicemente di fermarci su uno dei tanti ponti che attraversano il canale, a festeggiare con una meritata merenda.
La cosa strana è che non sono particolarmente entusiasta, né tantomeno commosso. Mi viene da sorridere sinceramente, quello sì, ma niente più. È come se questo traguardo avesse innescato una leggera malinconia. La cosa migliore che riesco a fare è lasciarla vivere e non oppormici, né spendermi a interpretarla. Va bene anche così, semplicemente.
Non so se Fabian abbia percepito questa cosa, ma comunque mi sta di fianco benevolmente mentre facciamo pausa, rispettando la mia poca euforia con rispetto. Se – per qualche ragione – ora non so essere felice del mio traguardo, riesco almeno ad esserlo per questo suo modo di essere. È un momento che non saprei davvero commentare oltre, ma me ne ricorderò, sono sicuro.
Si riparte, lasciandoci il canale alle spalle e tornando di nuovo tra campi sconfinati. C’è anche qualche pascolo, stavolta. Una lieve altura regala un po’ di varietà agli scenari attorno a noi, facendoci anche addentrare in una piccola area boscosa. Ci godiamo i passaggi all’ombra delle piante, interrotti qua e là da qualche radura.
Incontriamo allevamenti di capre, di maiali di vario genere e di cavalli.
Incapace di resistere, mi avvicino ai recinti con lo sguardo di un bambino allo zoo – soprattutto davanti ai maiali, numerosissimi. Anche questa per me è una cosa nuova: vedere una dozzina di maialini scappare alla mia presenza e venire protetti da alcuni grossi esemplari, mentre il più grande tra loro sembra venire a mettere in chiaro che quel territorio è protetto.
Fabian non ne sembra minimamente interessato; anzi, parrebbe che per lui la cosa davvero insolita sia il mio stupore. Mi capita spesso nella vita che gli altri si straniscano di fronte al mio meravigliarmi così frequente, spesso per cose davvero comuni. Quando torno sul sentiero, però, mi guarda sorridendo. È davvero una persona benevola e poco giudicante, e questo mi mette incredibilmente a mio agio.
Proseguendo, passiamo in mezzo ai resti di un grande bosco bruciato, arrivando infine alla prima vera cittadina: Vauvert. Sembra molto vivibile e il centro storico ha il suo fascino. Nella bella piazza principale ci fermiamo a bere un caffè, seduti ai tavoli esterni di un bar. Io ne approfitto per fare qualche chiamata, tentando di trovare un alloggio per stanotte e uno per quando avrò superato Montpellier. Nella grande città, infatti, ho già individuato un ostello che può fare al caso mio.
Per quanto riguarda Fabian, sarà ospitato da una dipendente comunale di Gallargues-le-Montueux, meta di oggi. Qualche giorno fa, infatti, aveva tentato di prenotare un letto nella struttura specifica per l’ospitalità ai pellegrini, ma era stato avvisato che era chiusa. La signora dall’altra parte del telefono, però, si è impietosita e gli ha offerto un ripiego nella piccola casetta che ha nel giardino di casa. Anch’io ho chiamato lo stesso numero ieri, ma comprensibilmente senza esito.
Nonostante mi sia chiaro come siano andate le cose, purtroppo provo comunque una certa frustrazione. Mi rimbomba nella testa la convinzione che una maggior padronanza della lingua mi avrebbe permesso, come in Italia, di attivare molta più empatia negli interlocutori francesi ai quali mi sono rivolto fin qui per trovare alloggio. Riflettendoci meglio, capisco che non posso saperlo con certezza e che in questo momento non sto tenendo presente di essere stato comunque aiutato molte volte.
In ogni caso, finisco col prenotare in un campeggio, ma questa volta non in tenda, perché ho bisogno di dormire bene stanotte e recuperare le ore di sonno perse ieri. Come a Cavaillon, opto quindi per una mobilhome, ma in assenza di promozioni devo sceglierne una molto più piccola. Il prezzo che mi viene chiesto è comunque alto, ma in tutto il paese non c’era alternativa più economica.
Rispetto alla tappa di dopodomani, oltre Montpellier, ho il piacere di parlare con un’impiegata di origini italiane del comune di Gigean. Mi avvisa che la gîte comunale, come tante altre, è chiusa a causa del Covid. Chiedo se possano darmi l’autorizzazione a piantare la tenda da qualche parte. Lei non può prendere questa decisione, ma si opera con grandissima gentilezza per ottenerla, ricevendo purtroppo solo risposte negative.
La ringrazio di cuore, spiegandole che la sua premura mi risulta ancora più preziosa di quello che stavo cercando, ed è vero come non mai.
La pausa caffè si è prolungata più del previsto, ma al mio compagno di viaggio sembra non essere dispiaciuto. Comincia infatti ad avere qualche dolore alle articolazioni e alla schiena; cose prevedibili nei primi giorni di cammino, ma sempre da gestire con attenzione.
Una volta ripartiti, incontriamo un altro luogo particolarmente importante per il paese: l’arena dei tori. Scopro così che anche nel sud della Francia ci sono manifestazioni simili alla corrida. In particolare qui viene chiamata Corse camarguaise e gli animali non vengono fatti combattere, né tantomeno uccisi. Pare che l’unica sfida sia quella di rubare laccetti e coccarde poste sulla testa e sulle corna del toro – anzi, del bue per la precisione, cioè del toro castrato.
Un altro segno inusuale che incontriamo tra le vie del paese sono dei simboli verniciati a spray fuori dalla porta o dai cancelli di molte case. Includono sempre rappresentazioni di elementi emblematici della Camargue, come i suoi tipici animali. Alcune case ne hanno cinque e più, ciascuno con l’indicazione di un anno diverso.
Domandiamo spiegazioni a un abitante, scoprendo che si chiamano Empégues. Nascono da una vecchia tradizione che ha cambiato forma nel tempo. Oggi sono certificazioni che la famiglia proprietaria della casa ha devoluto un’offerta a un gruppo giovanile del paese. Le richieste di supporto economico sono fatte annualmente, e da lì la tradizione di produrre uno stemma diverso ogni anno. Curioso!
Ripreso il cammino, facciamo pausa pranzo a Codognan e poi raduniamo le ultime energie rimaste, trascinandoci verso Gallargues-le-Montueux.
Nel bel mezzo di un’enorme vigneto alle porte della cittadina, troviamo risposta a un dubbio nato durante la mattinata, notando che c’erano tantissimi grappoli rimasti a terra sotto vigne già vendemmiate.
Assistiamo, infatti, ad una raccolta fatta soltanto con un imponente mezzo motorizzato. Avanzando tra i filari, riesce a staccare i grappoli scuotendo energicamente ogni pianta. Quelli caduti sono evidentemente conseguenza di quel procedimento ma, a quanto pare, per qualcuno il gioco vale la candela.
L’ultimo tratto è insolitamente brutto: il percorso ci guida prima nel pieno di un’anonima zona industriale e poi per una strada a lato della ferrovia.
Il paese, invece, sembra ben curato, ma io ci rimango solo il tempo di fare un ultimo fallimentare tentativo in Comune. Non riesco ad accettare non mi si voglia autorizzare a campeggiare per una notte sul territorio comunale. In Italia ho sempre trovato qualcuno che mi ha accolto amorevolmente, pur nella semplicità. Sono molto nervoso, non posso negarlo, e scarico un po’ anche su Fabian.
Mentre mi lamento come un moccioso, una parte di me se ne rende conto. Mi vergogno di star sbottato in questo modo infantile e provo a scusarmene e tornare a rasserenarmi.
Il periodo è quel che è, devo ricordarmene bene, e comunque ogni cosa che ho ricevuto gratuitamente non posso permettermi di darla per dovuta. Va accettato il dono così come va accettato il rifiuto. Ho ancora molto da imparare.
Prima di lasciare il mio compagno raggiungere l’indirizzo che gli hanno indicato, definiamo luogo e orario per la partenza di domani mattina, quella della nostra ultima tappa insieme. Dentro me covo una sottile preoccupazione di avergli fatto passare la voglia, ma spero di sbagliarmi.
Arrivato al campeggio dopo aver fatto un po’ di spesa, scopro che anche qui c’è incluso l’utilizzo della piscina. Non c’è il sole e non fa caldissimo ma, una volta lasciate le mie cose nella mobil-home, decido comunque di approfittare del servizio per consolarmi meglio dai soldi spesi.
La serata nella minuscola casa-mobile è un po’ noiosa e il pensiero va all’amico parigino che, nel frattempo, mi invia la foto della sua sistemazione. È un piccolo capanno da giardino, di quelli per riporre gli attrezzi, e può ospitare a malapena il suo materassino. Mi si stringe il cuore pensando alla nottata che sta per passare, soprattutto quando comincia a piovere, ma la verità è che provo anche un po’ di cinico sollievo per me stesso. Mea culpa.
(Maison des pelerins)
24 km
Spengo il telefono prima che suoni la sveglia delle 6. Oggi sarà una tappa speciale: la prima totalmente in compagnia di un’altra persona.
Nel silenzio della piccola camerata, saluto a bassa voce Fabian. Non lo vedo particolarmente in forma. Poverino, chissà se si è già pentito di avermi dato retta? Gli sorrido, sono certo che arrivati a destinazione, sotto il sole del primo pomeriggio, sarà felice di essere partito presto. In ogni caso, è stato veramente un bel gesto fidarsi di me, per niente scontato.
Scendo in cucina per preparare la colazione e scopro con mia gran sorpresa che la ragazza del ristorante ci ha fatto trovare il pane fresco. Era incluso nel prezzo, ma ieri mi aveva confessato che non sarebbe riuscita a portarcelo per quest’ora, e invece ce l’ha fatta! Tutto il resto è già in cucina. Faccio scaldare del latte e preparo il caffè. Metto in tavola marmellata, burro e zucchero, taglio il pane, prendo tazze, posate e tovaglioli. Sono gesti che mi piace fare, in particolar modo quando qualcun altro condividerà la colazione con me. Fabian arriva con una faccia stravolta ma, trovando tutto pronto, sul suo volto si disegna un’espressione di stupore e subito dopo un bel sorriso. Un buon inizio, direi!
Una volta pronti, ci carichiamo gli zaini in spalla e scendiamo per le strade ancora deserte di Arles. L’aria è fresca e la città ha un fascino indiscutibile. Il mio nuovo compare ha già il naso sulla sua guida. Mi propone di rinunciare al percorso più lineare per Saint-Gilles-du-Gard, meta di oggi, e di optare per uno alternativo, suggerito dal testo. Accetto volentieri. Mi alleggerisce tantissimo il fatto che qualcun altro prenda il ruolo di navigatore.
Raggiungiamo il grande fiume Rodano e lo attraversiamo, dedicando un minuto ad ammirare lo spettacolo che stiamo per lasciarci alle spalle: le luci della città si riflettono nell’acqua mentre il cielo, rannuvolato, tarda a mostrare il suo primo chiarore.
In un’ora scarsa usciamo dal tessuto urbano e arriviamo sulle sponde del Petit-Rhône, il ramo occidentale del delta del Rodano.
Il sentiero che imbocchiamo corre parallelo al fiume, mentre dal lato opposto, qualche metro più basse rispetto a noi, ci sono risaie a perdita d’occhio. La vegetazione ai bordi della pista è folta e variegata, anche se la fanno da padrone soprattutto degli alti canneti verdi.
La via alternativa scelta da Fabian si sviluppa quasi tutta in questo modo: una grande curva lunga chilometri e chilometri, tra il Petit-Rhône e i campi.
Da domani, invece, lasceremo che il fiume prosegua verso il Mediterraneo, mentre noi ci dirigeremo a Nord-Ovest.
Piccola note geografica: il Petit-Rhône ha un fratello maggiore, il Grand-Rhône – ramo orientale del delta del Rodano – e sono i due corsi d’acqua che delimitano la famosa Camargue. Purtroppo noi ne sfioreremo solamente il confine settentrionale, ma conto assolutamente di tornarci in futuro.
Durante il cammino le zanzare sono tante ma, come nei giorni tra Lodi e Vercelli, godo di un’inattesa immunità. Senza mostrare grande tatto, non riesco a evitare di riderne un po’ col povero Fabian, che invece è vittima di punture continue.
Altri animaletti che ci fanno compagnia per ore sono le lumache. Il sentiero ne è completamente pieno e basta un poco d’erba verdissima per nasconderle totalmente, condannandole a finire schiacciate a decine sotto i nostri scarponi. Il suono dei gusci che si frantumano è la nostra colonna sonora per una buona metà della mattina.
È su questo sinistro sottofondo che iniziamo a presentarci davvero l’un l’altro. Grazie alla possibilità di usare l’inglese, finiamo col parlare tantissimo. Conoscersi camminando è particolarmente bello: ci si apre reciprocamente con enorme scioltezza. Forse il moto continuo evita il formarsi di certe rigidità, non saprei.
Pensandoci, direi che sono parecchie le cose che vengono meglio camminando: riflettere su qualcosa di cui non riusciamo a venire a capo, sbollire, rilassarsi dalle tensioni accumulate; oppure distrarsi, lasciare la mente perdersi, magari aumentando il ritmo.
Un passo dopo l’altro si può esplorare il mondo intero, con una velocità sufficiente ad innamorarsi di tutto. Quando sei lungo la via sembra che le cose abbiano più senso, che non siano mai banali.
E poi il corpo si attiva in maniera equilibrata, sana; si digerisce meglio, si respira meglio, e queste non sono cose che valgono meno. Esagero se dico che camminare è una delle migliori opportunità di sperimentare la sinergia tra anima e corpo, tra mente e cuore? Io dico di no.
Sono stato fortunato, con questo mio nuovo compagno d’avventura. Oserei dire sia la persona perfetta al momento giusto. Tra noi sembra che tutto fluisca con naturalezza. A volte capita che uno o l’altro finisca nel dilungarsi in qualche monologo, ma entrambi siamo anche buoni ascoltatori, e alla fine il discorso torna sempre in carreggiata. In ogni dialogo trovano sempre spazio delle belle risate, domande mai inopportune, piccoli segni di stima reciproca.
È qui perché ha pensato che questa possa essere un’esperienza utile per lui in questo periodo. È separato e ha una figlia. Ha un lavoro molto soddisfacente nel settore finanziario delle energie rinnovabili, ma si è preso una pausa, quelle per capire cosa fare dopo. È solido, ha progetti concreti, nessun accenno a qualche timore particolare. Parla con rilassatezza e buona umiltà.
In un altro momento della vita mi sarei sentito in soggezione davanti ad un uomo così esperto e convinto di sé, ma oggi no. L’essere sulla strada, a quanto pare su quella giusta, probabilmente dona anche a me una sana centratura.
A dirla proprio tutta, credo conti molto anche il fatto che io sia ormai ben allenato e lui invece assomigli a me quando sono partito. L’avermi di fianco sembra rassicurarlo e portarlo ad affidarsi un po’ a me. Nella mia vita raramente sperimento questa condizione, e pare mi faccia sentire particolarmente a mio agio, stemperando quel pungente senso di inferiorità che troppo spesso mi attanaglia nel rapporto con gli altri.
Le ore scorrono in scenari ripetitivi ma comunque belli. Il clima molto caldo e umido raddoppia la fatica.
Entrambi abbiamo bisogno di un caffè e scopriamo di avere una sola possibilità lungo il percorso, facendo deviazione a Saliers.
L’esperienza mi insegna quanto sia difficile trovare bar aperti in paesini dispersi tra le montagne o nella campagna, ma con i consigli di un postino scoviamo nel villaggio quello che cercavamo. Senza di lui sarebbe stato impossibile, perché vista da fuori è una casa come tutte le altre. Scopriamo con gusto che fa anche da piccolo negozio di alimentari, oltre che da caffetteria. Ci prendiamo un po’ di frutta, qualcosa di rinforzo per il pranzo e un paio di caffè, gustandoci la merenda seduti nel grazioso cortiletto esterno.
Tornati in cammino raggiungiamo il Reno, un paio di chilometri dopo. Attraversandolo, ci lasciamo alle spalle in un sol colpo il fiume stesso, le Bouche-du-Rhône e la Regione Sud (o PACA), facendo il nostro ingresso in Occitania e precisamente dal dipartimento del Gard.
Fabian è cotto, e lo capisco. Nelle stesse condizioni climatiche, anch’io ho sofferto moltissimo i primi giorni di viaggio. Cerco di essergli di sostegno, ma ha una buona tempra e basta solo qualche parola ogni tanto. Ad ogni modo, si sta già rendendo conto di quanto sia stata azzeccata la scelta di partire presto.
Immerso tra campi e zone industriali, iniziamo a vedere all’orizzonte il profilo di Saint-Gilles-du-Gard sopra una bassa collina. Come molte altre volte, però, il percorso non segue una via dritta verso la meta. Psicologicamente non è il massimo, ma mancano ormai solo una manciata di chilometri. Tra l’altro sono anche ravvivati dall’attraversamento del canale che scorre ai piedi della cittadina, vicino al suo pittoresco porto turistico. I cambi di scenario aiutano sempre molto quando si è affaticati.
È mezzogiorno e mezzo. Non ci resta che salire nel borgo storico – sopraelevato di un centinaio di metri – per goderci il panorama su tutta la pianura attraversata questa mattina. L’ostello non aprirà prima di due ore, quindi ci mettiamo a cercare una panchina all’ombra dove goderci il nostro pranzo al sacco. Troviamo il posto ideale in un bel parco di fronte al palazzo comunale. Spogliati con gran gioia scarponi e calze, ci avventiamo letteralmente sui nostri pasti super-economici, che ingurgitiamo in un batter d’occhio. Tentiamo di sfruttare il tempo restante per un sonnellino, ma le zanzare non ci danno tregua. Nessuno dei due trova una soluzione efficace al problema, e finiamo col rassegnarci.
Arrivata l’ora dell’apertura raggiungiamo l’ostello, che sta proprio nella piazza principale, di fronte all’abbazia dedicata a Sant’Egidio. Questa ha una facciata straordinaria e l’impatto è talmente forte che, nonostante la stanchezza, riesco a convincere Fabian a visitarla prima di andare a registrarci.
L’interno non è sensazionale, ma è comunque apprezzabile. Troviamo anche una statua che rappresenta in maniera un po’ semplicistica il legame tra il pellegrino di oggi e quello delle epoche passate. È una figura intera di un uomo in cammino: la metà destra ha veste e accessori ispirati ad un pellegrino medievale, mentre l’altra quelli uno contemporaneo.
La cosa più bella che visitiamo è il cortile esterno, posto alle spalle dell’abside. Lì ci sono alcuni resti del vecchio coro, che fanno subito capire quanto in passato la chiesa fosse stata molto più lunga.
Resto affascinato e incuriosito anche da una parte non crollata. È un elemento davvero particolare: sembrano i resti di una piccola torre, ma in realtà è una scala a chiocciola tutta in pietra, antica di secoli, ancora racchiusa nelle pareti che la sostengono. È visibile al suo interno solo se accompagnati da una guida, ma oggi pare non sia possibile, purtroppo.
Conclusa la rapida visita, ci rechiamo finalmente alla reception, dove una gentilissima signora ci accoglie, ci timbra le credenziali e ci mostra l’alloggio. Al momento siamo i soli presenti in ostello. Si rivela un luogo umile ma spazioso, e non manca niente.
Dopo la doccia, mentre Fabian sonnecchia e io sto stendendo i panni che ho lavato, rientra la signora di prima per mostrare i locali anche ad una nuova pellegrina appena arrivata, una ragazza francese.
Un attimo dopo facciamo la sua conoscenza. Si chiama Severine e vive anche lei a Parigi, come Fabian. Ha un’aria vagamente diffidente, eppure dopo poco ci invita ad accompagnarla a visitare la cripta della chiesa. In effetti, prima non eravamo scesi, quindi accettiamo volentieri.
Facciamo anche la felice scoperta che, avendo con noi la credenziale, possiamo scendere gratuitamente. Si scende da una scala che sta quasi al centro della navata principale. Una volta sotto, lo spazio si rivela essere particolarmente ampio, più di quanto avrei potuto immaginare. È piuttosto spoglio, fatta eccezione per il sepolcro del santo. Ha comunque grande fascino, per molti dettagli anche minori. Tra queste un paio di piccole vetrate colorate – forse moderne – e una statua la cui vernice si è degradata in maniera stranissima, creando un effetto affascinante del tutto simile a quello della vitiligine.
Usciti, Severine ci lascia per proseguire da sola il tour del paese, e noi ne approfittiamo per andare a fare la spesa per la cena.
Fabian mi chiede se mi va di cucinare una pasta. Accetto volentieri e optiamo per un’amatriciana, a patto di non prendere la classica pancetta confezionata, ma di cercare un’alternativa migliore in macelleria.
Ne troviamo una proprio a pochi metri dall’ostello. Il proprietario ha un atteggiamento spiritoso, ma mi dà subito l’impressione di essere anche un po’ furbo. Ne ho conferma quando ci serve, perché raddoppia sfacciatamente le quantità che gli domandiamo, sia di carne che di formaggio. Fabian resta composto, ma io non trattengo un commento a bassa voce. Il macellaio, pur sorridendo, fa un po’ lo sbruffone e mi dice che se voglio posso parlare anche italiano, perché lui è originario della Corsica e conosce la mia lingua. Ne approfitto senza vergogna e gli faccio notare il fatto, confermando comunque l’acquisto dell’intera quantità. Non amo questo genere di furberie, e ancora meno in questo periodo in cui sto risparmiando all’inverosimile. La mia sfrontatezza lo fa rifugiare in qualche balbettio sornione, e tutto finisce lì.
Severine arriva appena in tempo per l’aperitivo che abbiamo preparato. La ragazza è di quelle molto loquaci ma, nonostante le spieghi i miei problemi non ancora risolti col francese, non si sforza minimamente né di parlare più lentamente né tantomeno di abbozzare un po’ di inglese. Praticamente si rivolge solo a Fabian, escludendomi totalmente. Sorvolo, concentrandomi sulla preparazione della pasta.
La cena va poi perfettamente, e le porzioni enormi sembrano molto apprezzate. Quella che per me è solo una discreta amatriciana, per loro è una delizia. La mia gioia più grande, però, è che il gran piatto di spaghetti riesce ad ammutolire la signorina, strappando una risata sotto i baffi anche al mio compare.
Finito il pasto, resto comodo a tavola, aspettandomi ingenuamente che i due si propongano almeno di lavare i piatti, ma non fanno nemmeno finta. Avrei una gran voglia di spronarli, ma non mi va di rischiare gli equilibri con Fabian, così mi faccio carico anche della pulizia. Purtroppo, poi, non si fermano nemmeno per asciugare, ma vanno immediatamente in stanza.
Non vado a letto di buonumore e il nervosismo mi ha fatto pure passare il sonno. Attaccato al cellulare, mi metto a cercare opzioni accettabili per gli alloggi dei giorni successivi, senza nemmeno un gran successo. Finisco con lo sprecare così addirittura due ore, crollando solo per sfinimento. E vabbé, pazienza.
(Maison du pelerin et du voyageur)
30 km
Sveglia prestissimo: alle 4 per partire alle 5, come da programma. Fortunatamente non piove, e già questa è una grazia straordinaria. Appena apro gli occhi, però, qualcosa mi insospettisce. L’illuminazione del campeggio è rimasta accesa e su tutta la superficie della tenda noto subito in controluce un gran numero di piccole sagome ovali. Intuisco cosa possano essere; spero di no, ma purtroppo ci azzecco: sono chiocciole! Con rammarico, le sbalzo via tutte piuttosto bruscamente. Se me ne scappasse anche solo una, finirei sicuramente con lo spappolarla mentre piego tutto – come d’altronde succede ogni volta con mille insetti più piccoli, diventati lugubri ornamenti della zanzariera. La tenda è letteralmente invasa, e nel girarci intorno devo sopportare il dispiacere aggiuntivo di calpestare almeno un’altra dozzina di questi poveri molluschi. D’altronde, non potevo fare altrimenti.
Chiuso lo zaino, mi sposto sotto una tettoia per fare colazione e parto poi di gran lena.
Il centro di Saint-Rémy illuminato dalla luce calda dei lampioni è particolarmente suggestivo, e mi regala un’ultima cartolina di questa cittadina deliziosa.
Una volta uscito e arrivato ai piedi della collina, inizia a piovere a grandi gocce, ogni secondo più forte. È in anticipo di almeno mezz’ora rispetto alle previsioni, ma poco cambia; non resta comunque altro da fare che continuare a camminare.
Scopro che la strada tutta dritta che ho scelto è senza lampioni. In testa ho la torcia frontale e, oltre all’asfalto, illumina le migliaia di gocce che mi scendono davanti agli occhi. L’effetto è quello di un viaggio interstellare, come lo screensaver che c’era una volta su tutti i pc. La cosa mi diverte e mi salva un po’ il morale. Sommerso e infreddolito dall’acqua, frastornato dal rimbombo dentro al cappuccio, mi sento spinto solo ad andare più svelto, quasi potessi fuggire in qualche modo da questo nubifragio.
Passando poche automobili e a un certo punto sento il desiderio fortissimo di spegnere la torcia. Questo buio profondo è qualcosa di nuovo per me, e scopro che mi piace da morire. Si interrompe solo con l’illuminazione di qualche raro cortile o quando un fulmine squarcia il cielo per un istante. A suo modo, anche l’atto stesso di camminare in quelle condizioni mi conquista. La fatica è maggiore, ma divento più grintoso; è quasi esaltante.
L’acqua piovana che scende dalla collina si riversa sulla strada, allagandola completamente. In alcuni casi affondo i miei passi in 20 cm di acqua, che poi rimane intrappolata nelle scarpe.
Cammino così per un’ora e mezza, con i piedi che sguazzano come pesci nella loro boccia. In certi momenti è come essere in trance e arrivo anche a riderci su, addirittura a godermela. Può sembrare assurdo, ma può capirmi chiunque sa cosa significhi portare avanti qualcosa che lo appassiona anche nelle condizioni peggiori.
Passano sì e no tre auto. Quando succede mi fermo e accendo la torcia per farmi vedere, poi la spengo subito dopo.
Finalmente arrivo al primo paese, Saint-Etienne-du-Gres. Esausto, mi appoggio alla parete sotto al primo portico. Sopportando il freddo che subito aumenta, tiro il fiato, mangio qualcosa e controllo che la rotta sia giusta. Mi interessa capire quanto manca al prossimo paese e se le previsioni meteo dicono qualcosa di nuovo.
Pare che la pioggia andrà diminuendo da un momento all’altro. Nel frattempo, poi, si fa giorno e la scena comincia a sembrare finalmente meno apocalittica.
Imbocco una dipartimentale particolarmente trafficata, ma almeno non è sommersa d’acqua. La strada non ha un vero camminamento per i pedoni, ma c’è comunque abbastanza spazio per non rischiare di essere investito.
Mentre la pioggia pian piano diminuisce, arrivo alla bella Cappella di San Gabriele, meta del sentiero collinare che la Via Domitia mi avrebbe fatto percorrere quest’oggi. Da qui in poi, torno sul tracciato ufficiale, che fortunatamente mi fa abbandonare per qualche chilometro l’asfalto, portandomi in un’ampia zona agricola. La semplicità degli scenari di campagna rasserena corpo e spirito, anche se lo stomaco brontola.
Il percorso mi dirotta di nuovo sulla dipartimentale in corrispondenza dell’arrivo a Fontvieille. È una cittadina che so essere bella e storicamente significativa per quest’area, ma per me è soprattutto il punto di ristoro che attendevo da ore. Un grande manifesto sembra leggermi nel pensiero: mi invita a scendere nella strada sottostante e raggiungere un vicinissimo panificio. Obbedisco, già con l’acquolina in bocca. L’interno è minuscolo e io, con i bastoncini da trekking e il mio grosso zaino sotto la mantella, devo stare quasi immobile per non far cadere qualcosa. Compro un trancio di pizza e una quiche ancora tiepide, ma non trovo nessun posto asciutto dove sedermi. Così, come sotto il portico qualche ora prima, mi limito ad appoggiarmi a una parete senza neanche togliere lo zaino, sbranando tutto come se non mangiassi da giorni.
Mi regalo altri cinque minuti di sosta, mentre i clienti della panetteria vanno e vengono fingendo di non vedermi. Mancano solo una dozzina di chilometri e finirà anche la Via Domitia. Da non crederci! È ancora presto per festeggiare, ma sono davvero a buon punto.
Pensare a Santiago, lontana com’è, non mi aiuta in questo momento. Meglio fissare degli obiettivi parziali. Resto un calcolatore incallito, ma sto comunque riuscendo a concentrare le energie nel modo giusto. Daje, Robi!
Lo snack ha sortito il suo effetto e riesco a ripartire con buono slancio. Per arrivare ad Arles mancano altri 7 km, sempre lungo la stessa strada su cui ero prima. Ora si snoda tra campi e aree boschive, in un continuo saliscendi. C’è un bel po’ di traffico e lo spazio per camminare in sicurezza è spesso inesistente. La buona notizia è che almeno sembra abbia smesso definitivamente di piovere.
Lungo il tragitto, incontro spesso indicazioni che parlano di un’abbazia e di un acquedotto romano. Sono tentato dal secondo, ma è fuori strada, mentre l’altra si trova già sul mio percorso. Non c’è gara.
È l’Abbaye de Montmajour e pare sia un luogo davvero speciale e antico. A un certo punto, la inizio a vedere in lontananza e capisco che è pure molto grande. La fisso come obiettivo: manca ancora parecchio, ma farlo mi aiuta a concentrare le forze. Una volta arrivato, salgo la scalinata e mi presento alla reception. L’unica possibilità sembra essere una visita guidata piuttosto lunga e non troppo economica per le mie tasche. Chiaramente devo rinunciare, anche se prima di gettare la spugna ho la faccia tosta di rilanciare. Essendo un pellegrino venuto a piedi fin lì per quasi mille chilometri, avendo camminato sotto un diluvio per ore ed essendo a un passo dalla meta di oggi, elemosino la possibilità di entrare solo per pochi minuti, senza guida e gratuitamente.
Ricevo un no inappellabile. Forse hanno ragione: c’è una regola e va rispettata, anche se dentro mi rode. Sarò superbo, egocentrico e accattone, ma non mi tolgo dalla testa l’idea che avrebbero potuto anche chiudere un occhio. Certo, lo so, mi presento in pessime condizioni: la faccia è stravolta, lo zaino sembra un’enorme gobba sotto la mantella e, come se non bastasse…sembro pure gravido!
Eh, già, è proprio così. È da giorni, infatti, che ho trovato una soluzione utilissima ma esteticamente orribile per riporre le scorte di cibo. Per fare in modo che non si schiaccino e che io le possa prendere e mangiare anche senza smettere di camminare, le infilo in una dry-bag super tecnica e me la appendo al legaccio dello zaino che mi passa sopra il petto. Oltre ad essere già abbastanza inguardabile così, per evitare che quelle cose mi picchino fastidiosamente sullo sterno, chiudo la sacca in modo che ci resti dentro dell’aria. Il risultato è una specie di boa, un grosso palloncino grigio che mi rimbalza morbidamente addosso fin quando non mi pappo tutto quello che ci sta dentro e posso così ripiegarlo e metterlo in tasca.
Per quanto mi renda ridicolo, è perfetto anche per altre due ragioni. La prima è che mi protegge dal vento quando sono in maglietta, ma è la seconda quella più utile: quando piove, la borsa fa sì che la superficie gelata della mantella non resti aderente al torso. Con questo goffo stratagemma riesco a resistere molto meglio e più a lungo, perché si crea una cappa d’aria riscaldata dal corpo stesso. Come ho detto, però, in quello stato sono davvero impresentabile.
Quindi, poco male. Posso almeno dire di averci provato. Ci faccio una risata e continuo il mio pellegrinaggio.
Un quarto d’ora dopo, quando ai lati della strada cominciano a vedersi grandi platani e tutt’attorno esplode il giallo delle risaie, scorgo finalmente all’orizzonte il profilo della tanto agognata Arles.
Stavolta non ho le forze per il cambio di marcia, ma riesco comunque a sentire l’eccitazione di questo istante.
Quello che davvero, però, scioglie ogni tensione e mi fa scoppiare in una risata di gioia è l’imbattermi nei bellissimi simboli tipici del cammino di Santiago: la conchiglia e la freccia gialla. Sono verniciate all’ingresso della città, in corrispondenza del Canal-du-Vigueirat, che la costeggia dal lato da cui sono arrivato. I segnali giacobei mi invitano a seguire il corso d’acqua anziché entrare per la via principale. Gli ultimi segnavia del GR dicono l’opposto, ma non resisto al fascino della conchiglia e continuo lungo il canale.
Ahimè, scopro con rammarico che la scelta allunga il mio percorso di altri interminabili venti minuti. Davanti ai primi isolati del centro storico, però, la tensione cala e mi gusto in piena pace la mia entrata per nulla trionfale.
Dopo aver raggiunto il famoso anfiteatro romano, simbolo della città, mi regalo una passeggiata tra le vie eleganti, con i loro negozi costosi, i cafè, i ristoranti, i bistrot e le gallerie d’arte. In alcune strade le pareti degli edifici sono avvolte d’edera. Architetture e decorazioni regalano testimonianze di epoche molto diverse. Purtroppo la giornata uggiosa e lo spettro dell’epidemia rendono Arles un po’ sottotono, ma va bene così. Sono arrivato anche qua, e questo è quello che conta.
Raggiungo per ultima la Cattedrale di Saint-Trophime. Qui che termina ufficialmente la Via Domitia! Sono esausto, ma gonfio di emozione.
L’interno è molto spoglio. Mi sarei aspettato di trovare perlomeno simboli evidenti riferiti a Santiago e all’universo pellegrino, ma non trovo niente di particolare. Girandomi, mi accorgo di una specie di negozietto a lato dell’ingresso, una cabina trasparente con una scrivania, libri e souvenir.
L’addetto sta parlando con una persona che capisco essere più un amico che un turista. Ho tolto la mantella per decenza, ma zaino e conchiglia non lasciano spazio a dubbi sul motivo per cui io sia lì. Mi avvicino per essere visto, illudendomi che possa essere una piccola gioia l’arrivo di un pellegrino, soprattutto di questi tempi. Purtroppo mi sbaglio: l’inserviente mi vede ma non batte ciglio e continua a parlare del più e del meno per altri lunghissimi minuti.
Alla fine arriva anche il mio turno e mi gonfio tutto d’orgoglio mentre lo guardo timbrarmi la credenziale. Ne acquisto anche una seconda, come mi aveva consigliato Serena a Bergamo. Con rammarico, scopro che è più piccola e il posto per i timbri si sviluppa su entrambi i lati. Questo mi fa storcere il naso per un motivo che può sembrare banale: se deciderò di incorniciarla, una facciata rimarrà inevitabilmente nascosta. Pazienza, cos’altro posso fare ormai?
Concluse queste operazioni, domando che tipo di ospitalità pellegrine ci siano in città. Più di una persona, infatti, mi ha assicurato che ad Arles non avrei avuto problemi a trovarne e che non c’era certo bisogno di prenotare. Per risposta vengo accompagnato a un’anonima bacheca in penombra nella quale, tra altre cose, c’è anche affissa sotto vetro una semplice brochure. Sopra c’è stampata in piccolo una serie di numeri telefonici di famiglie ufficialmente disponibili ad ospitare pellegrini. Domando se posso averne una copia, ma mi dice che non ce ne sono, e non c’è altro materiale, dopodiché mi lascia lì.
C’è talmente poca luce che faccio anche fatica a fotografare la lista. Esco senza nemmeno essere salutato, nonostante in quel momento fossimo solo io e lui. Oggettivamente un po’ giù di morale, mi siedo al bordo della scalinata e comincio a telefonare.
Alle difficoltà mai risolte con la lingua, si aggiunge la scoperta che alcuni numeri sono inesistenti. Tra chi mi risponde, invece, alcuni mi liquidano velocemente e con poca cortesia, mentre altri – pur comprensibilmente – mi comunicano che preferiscono non ospitare per via del virus.
Esito finale: nessuna ospitalità pellegrina ad Arles.
Trovo un bed&breakfast a buon prezzo, ma il telefono squilla senza che nessuno risponda. È a un chilometro di distanza. Faccio un bel respiro e parto per verificare dal vivo, nonostante sia fisicamente distrutto. Una volta arrivato, suono il campanello e mi apre un ospite coreano; mi dice che il proprietario è fuori. Accetta di provare a chiamarlo con il suo telefono, ma non risponde nemmeno al suo numero.
A quel punto ripiego su un ostello trovato su Booking: ha prezzi un po’ più alti, ma si dichiara specifico per i pellegrini. Mi segno l’indirizzo e lo raggiungo. È in una posizione splendida tra l’anfiteatro e il teatro antico. Peccato però che non ci sia nessuna insegna e la porta sia chiusa. Comincio ad agitarmi un po’. Chiedo aiuto a un gruppo di persone fuori dal ristorante accanto. Nessuno conosce l’ostello e qualcuno mette in dubbio che io abbia letto bene l’indirizzo. Non controbatto e glielo mostro. Constatano anche loro che sono nel posto giusto, ma dell’ostello non c’è traccia. Provo a chiedere nel ristorante, et voilà, sono proprio loro che gestiscono i check-in, anche se non sono i proprietari. Che situazione strana! In ogni caso, sono troppo felice per farmi polemico. Sto per togliere tutto l’occorrente, ma la ragazza mi avvisa che purtroppo è ancora presto per l’accettazione; ci vorrà un’ora circa. Ennesima botta morale, ma non c’è nulla da fare. Lascio lo zaino in custodia e, perlomeno alleggerito, vado a mangiarmi qualcosa e a fare la spesa.
Prima di tornare in ostello, entro in una caffetteria per chiedere se possono regalarmi i quotidiani del giorno prima, spiegando che mi serviranno per far asciugare i miei scarponcini stanotte. La barista all’inizio mi dice di no, ma poi si impietosisce e fa un gesto poco igienico ma molto generoso: infila il braccio per intero nel bidone dell’immondizia dietro di lei. Il sacco è pieno e i giornali sono proprio sul fondo, ecco perché inizialmente me lo aveva negato. Per me è un piccolo grande dono e la ringrazio infinitamente, ma esco sperando che gli altri clienti non l’abbiano vista.
Nel frattempo, arriva l’ora in cui potrò finalmente entrare nella stanza. Compilato tutto insieme alla stessa ragazza di prima, vengo accompagnato all’interno dell’ostello, che si rivela piccolo ma perfetto, con una cucina attrezzatissima. Se l’avessi saputo, non avrei preso ancora cibo precotto per stasera. Forse da qualche parte c’era scritto e io non me ne sono accorto, non so. Pazienza.
Nella mia stanza ci sono tre letti a castello, ma per le disposizioni di sicurezza ci dormiremo solo in tre.
Il primo è lì a sonnecchiare. Dopo la doccia lo trovo più sveglio e ci presentiamo. Si chiama Hugo, mi pare gentile ed estroverso; è ad Arles per una settimana di studi in ambito musicale.
Dopo cena faccio la conoscenza anche dell’altro ospite, Fabian, poco più giovane di me. La cosa straordinaria è che domani partirà da lì per fare il suo primo piccolo cammino. Il suo progetto è imboccare la Via Tolosana, arrivando dove capita, perché ha solo una settimana. Nello scoprirlo, mi si accende una lampadina: vedo la sua guida sul letto e gli chiedo di prestarmela. Il tragitto rimane nell’entroterra e porta a raggiungere in tre giorni Montpellier. È perfetto, con tutta probabilità anche Sara ha seguito questo stesso percorso.
Spiego a Fabian la mia decisione di seguire quelle tappe e gli chiedo se è interessato a percorrerle con me. Essendo io un amante del cammino in solitudine e sapendo bene quanto siano importanti i primissimi giorni in questo genere di esperienze, gli chiarisco che non deve sentirsi obbligato e di rispondermi pure di no se l’idea non lo facesse sentire a suo agio. Lui però smi risponde subito che è d’accordo. Fantastico!
Per ultimo, però, decido anche di spiegargli come affronto io le tappe, quali sono i miei orari e le mie abitudini. Mi confessa che in realtà aveva in mente di svegliarsi e partire più tardi, ma ammette che non aveva considerato quanto faticoso sia camminare tutto il tempo sotto il sole. Sceglie quindi di fidarsi e tentare questa esperienza a modo mio.
Che dire? Non potevo chiedere di meglio. Tra l’altro, mi sembra davvero un tipo in gamba e – altra ottima notizia – parla perfettamente inglese, molto meglio di me. Concluso l’accordo, è ormai ora di dormire.
Tra le coperte saluto questa giornata così intensa, ricca di fatica e belle sorprese. Da domani comincia una nuova parte della mia avventura. Non vedo l’ora!