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cammino di santiago - roberto pesenti

23/08 Castiglione d’Adda – Corte Sant’Andrea (LO)

(ostello AD Padum)
26km

Come al solito, mi alzo molto presto. Grazie al cielo, la nottata è stata particolarmente riposante. Raduno il mio bazar e scendo a fare colazione da solo; don Gabriele già mi aveva avvisato non mi avrebbe fatto compagnia. Lascio un biglietto e una piccola offerta sotto il piatto, dopodiché parto con ottimismo, salutando Castiglione prima dell’alba.

Impostata la destinazione sul navigatore, comincio a seguirla pienamente fiducioso. Purtroppo qualcosa va storto, tanto che ben presto mi ritrovo bloccato in mezzo a campi impraticabili. Stavolta il mio aiutante digitale non c’ha proprio azzeccato. Mi incaponisco per un po’, convinto di poter trovare uno sbocco, ma sono costretto a cedere. Torno sui miei passi, abbacchiato per aver sprecato almeno venti minuti guadagnati svegliandomi presto.

L’alternativa a questa prima rotta l’avevo già studiata ieri: una comoda ciclovia che costeggia la provinciale fino a Codogno, ma l’avevo esclusa perché lunga almeno 3 km in più. In ogni caso, ora non mi rimane altra scelta.
Una fila sterminata di bassi pali elettrici mi accompagna verso l’orizzonte, e solo qualche rara auto rompe il silenzio di questi primi chilometri.
Pochi minuti dopo averla imboccata, di nuovo in mezzo a campi e canali, vedo sorgere l’amico sole in tutto il suo splendore. Questo momento della giornata è già diventato uno dei miei preferiti. Non ho mai visto tante albe in così pochi giorni, e farò del mio meglio per aggiungerne il più possibile.

Geograficamente, la deviazione mi ha fatto inclinare ancora parecchio verso est, praticamente la direzione opposta rispetto a Santiago de Compostela. Pur consapevole che sarà cosa breve, in me fa capolino un po’ di insofferenza: sembrerebbe essere il bisogno di orientarmi definitivamente verso la meta finale. È inaspettatamente pungente, ma riesco a contenerlo.
Sembrano riflessioni esagerate, ma sono tante le cose nuove che sto percependo da quando sono in cammino, sia fisicamente che emotivamente. Mi ci vuole sempre un certo sforzo per capire come interpretarle.
Ascoltarsi non è un’arte troppo facile, e non sempre tirare dritto facendo finta di niente è la soluzione migliore. Sotto questo aspetto, sono convinto che avrò molte opportunità per crescere durante il viaggio.

Mi allontano dalla provinciale nei pressi di Camairago, deliziandomi con l’atmosfera un po’ misteriosa che hanno certi paesini di pianura in queste prime ore del giorno. Dopo Cavacurta, poi, il percorso torna finalmente a piegarsi verso ovest.
Nei pressi di una cappelletta appena fuori del paese, faccio una breve pausa per far riposare il ginocchio. Poco prima di ripartire, vedo arrivare una donna con passo veloce e mi resta impressa la sua aria distesa.
Mi trovo a raggiungerla poco dopo: si è fermata e sta guardando in basso, sorridendo.
A pochi passi da lei, scopro cosa la trattiene e mi inchiodo anch’io, con il suo stesso sorriso sulla faccia. A terra, in mezzo alla pista, c’è uno gambero; ma la cosa divertente è che se ne sta lí, immobile, in una posizione esilarante: ben eretto e con le chele all’aria, ben larghe. Sembra Gandalf davanti al Balrog. Forse pensa che sia il modo migliore per evitare guai. Strana strategia…
Ne ridiamo insieme, poi mi chiede dove sia diretto con quello zaino, e così attacchiamo bottone. Visto che andiamo nella stessa direzione, proseguiamo insieme strada e discorso. Si chiama Lorenza ed è una donna incredibilmente esuberante e positiva. Entrambi espansivi, finiamo col parlare di tantissime cose, con un’apertura reciproca incredibile. Spero mi capiti quanto più possibile durante il cammino, perché per me condivisioni di questo tipo hanno un valore grandissimo, me ne sento sempre incredibilmente arricchito.Arrivati infine a Codogno, io proseguo e lei torna indietro, ma ci scambiamo i contatti. Un’altra bella persona!

Felice per il prezioso incontro, mi inoltro nella cittadina fino a raggiungere la chiesa. È domenica e sta per iniziare la messa grande. Entro e spendo un minuto di silenzio per tutte le vittime del virus. È il gesto che chiude il mio abbraccio simbolico ad alcuni luoghi emblematici dell’epidemia che ci ha colpiti. Nel mio cuore, la memoria di questi passaggi si unirà a quella dei mesi scorsi, e ora non resta che portare tutto a Santiago.
Uscendo, mi intrattengo un paio di minuti con i volontari all’ingresso, che dirigono i fedeli e si accertano che rispettino tutte le misure preventive. Sono felicemente stupiti per la lunghezza del mio pellegrinaggio, e finiamo anche per commuoverci un po’ tutti quando gli spiego perché sono passato anche di qui. Mi augurano buon viaggio con occhi pieni di benevolenza.
Mentre proseguo all’interno del paese, penso a quello che gli abitanti si sono trovati a vivere all’inizio dell’anno. In piazza c’è molta gente, alcuni per la messa e altri per il bar. Il mio passare di qui non cambierà nulla, ma sono contento comunque di averlo fatto.

Controllo la rotta sul navigatore. L’ultimo paese in cui oggi potrei trovare da mangiare è Somaglia. Senza deviare troppo dal percorso, trovo un bar-ristorante disponibile a preparami una pasta da asporto. Dopo un quarto d’ora, il proprietario arriva con una porzione immensa in una vaschetta di alluminio coperta, facendomi anche un prezzo di favore.
Mi siedo a mangiare poco più avanti, in un prato attraversato da una ciclabile. Non ci sono panchine, ma ultimamente mi faccio sempre meno problemi da questo punto di vista. Pieno come un uovo, mi rialzo poi con non poca fatica, ma particolarmente soddisfatto per la grande abbuffata.

Riprendo il cammino passando sotto l’Autostrada del Sole e poi lungo un’infinitá di bei campi, seguendo per chilometri il corso di un canale. C’è un caldo africano e, trovata l’ombra di qualche albero, ne approfitto al volo, anche se manca davvero poco alla fine della tappa. Stavolta mi tolgo la maglietta zuppa di sudore e la lascio al sole a seccare, mentre mi asciugo con un panno in microfibra. Così facendo dovrei riuscire a evitare altri scompensi come quelli dei giorni passati. “La soluzione viene approvata da me medesimo, e d’ora in poi verrà adottata come procedura ufficiale”: sembra follia pura, ma mi scopro a pensare davvero questa frase. Inizio a sospettare che arriverò a Santiago con qualche rotella in meno. Chissà non sia un bene.

Non molto dopo, affascinato da una fila di grandi alberi a lato della strada in mezzo alla campagna, finisco per dare retta ad uno strano ghiribizzo e ne abbraccio uno. Non è la prima volta che mi capita nella vita, ma durante il cammino sì. È passata una settimana da quando sono partito, e il mio rapporto con la natura ha cambiato marcia: la percezione di connessione e il senso di intimità sono decollati. Guardavo quella fila di piante già da qualche minuto; ero incantato come un bambino. Poi d’un tratto uno in particolare mi ha attratto tanto da spegnere ogni mio pensiero e calamitarmi a lui; è stato tutto di un’immediatezza incredibile. È bello sentirsi abbastanza liberi da lasciarsi andare a questi gesti innocui e spontanei. A volte ne nasce qualcosa di davvero speciale.

Peccato solo che neanche questi piacevoli diversivi riescano a distrarmi dal male al ginocchio, che oggi sembra indifferente anche al riposo che qua e là gli concedo.
Nonostante ciò, riesco a raggiungere la meta che ho scelto per oggi: la piccola frazione di Corte Sant’Andrea. Finalmente farò il mio esordio sulla Via Francigena. Sono felicissimo!

Il luogo è desolato, ma molto affascinante. Una fila di cascinali tutti attaccati fronteggiano la chiesa e l’ostello, attaccati tra loro. Fuori dalla porta di quest’ultimo, bandiere e targhe di vario genere evocano quell’ospitalità tutta dedicata ai pellegrini, facendomi provare emozioni forti. “Eccomi, sono io, ci sono!”, dice una voce dentro me. Mi sento al posto giusto, sulla via che ho scelto. È come se fossi io, ora, a sentirmi abbracciato.

Al telefono avevo saputo che il gestore non sarebbe stato presente, ma che avrei potuto ricevere le chiavi da una signora che vive nelle case di fronte. Metto il naso in una corte aperta, chiamo, ma nessuno risponde. Spunta qualcuno solo dopo diversi minuti, ma mi dicono che loro non le hanno. Un’altra copia dovrebbero averla all’osteria, dal lato opposto dell’abitato. Percorro quindi l’unica breve strada, che si sviluppa a ferro di cavallo. Incontro per prima la grande piazza della chiesa, che mi dá l’impressione di essere un luogo fuori dal tempo. Sarà perché non c’è nessun altro, o forse per l’atmosfera rurale che sembra sfuggita in gran parte alla modernità, oppure ancora per ciò che leggo riguardo al Transitum Padi, il punto in cui da secoli i pellegrini attraversano il Po, lì a un passo.
La strada, poi, finisce con un grande arco, che capisco essere il naturale accesso al paesino. Solo ora mi rendo conto di essere arrivato qui in senso contrario. Sarà così, d’altronde, fino al confine francese, e forse renderà questa mia percorrenza ancora più speciale.
Entrato nel ristorante, trovo un ambiente familiare. Un paio di tavoli hanno concluso il pasto da non molto, e ora stanno chiacchierando davanti ai bicchieri vuoti. Gli sguardi che ricevo sono un po’ diffidenti, ma senza essere fastidiosi. A cena il locale sarà chiuso, ma in ostello dovrebbe esserci qualche scorta di cibo.
Chiavi in mano, vado a scoprire com’è fatto.

L’impatto è stupendo: il posto è grande e costellato di immagini e oggetti dedicati alle grandi vie di pellegrinaggio d’Europa. Le travi a vista e i pavimenti in cotto rendono l’ambiente caldo e ospitale. C’è anche un cortile immenso, con una gran quantità di sedie da esterno; mi fanno immaginare che oasi diventi in annate migliori di questa.

Faccio una lavatrice per me e un paio con le lenzuola lasciate da altri pellegrini, probabilmente usate la notte prima.
Le ore rimanenti mi pesano un po’ per via della solitudine. Pazienza, è una cosa a cui devo sapermi abituare fin da subito, perché è certo che capiterà spesso.

Arrivata l’ora di cena, do un’occhiata in dispensa. Fortunatamente è fornita con tutto il necessario, e mi regalo una gran frittata e qualche altra stuzzicheria. Come sempre, riempire lo stomaco aiuta corpo e spirito.
Vado a letto presto, con un senso di gioia nuova.

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Italia, Lombardia
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22/08 Lodi – Castiglione d’Adda (LO)

(casa parrocchiale)
21,5km

Dormire sui banchi non è stato il massimo. Bastava che mi girassi, anche lentamente, e si inclinavano o si spostavano, dandomi un senso di instabilità che mi ha svegliato ogni volta. Ho pensato fosse una buona soluzione per evitare di respirare tutta la polvere che c’era per terra, e chissà, forse è andata bene così.
Che mi sia riposato o no, comunque, poco cambia: bisogna comunque ripartire.
Per colazione un succo e una barretta. Risistemo la stanza rimettendo sedie e tavoli com’erano, cercando di non fare troppo rumore, poi lascio le chiavi nella cassetta della posta e mi tuffo nelle strade deserte di Lodi. Direzione: Castiglione d’Adda. Mando un vocale a don Sergio, per ringraziarlo ancora. Mi risponde che mi ha sentito partire, e dalla finestra mi ha benedetto. “Un po’ come il papa”, aggiunge ridendo. Persona davvero bella.

Già all’uscita di Lodi, mi godo un’alba memorabile sulle risaie immediatamente fuori dalla città. Scopro con gioia che esiste una pista ciclabile che porta dritti a Castiglione. Confesso che a volte questo genere di tracciati, soprattutto in mezzo alla pianura, sono un po’ monotoni, ma resta comunque un gran privilegio rispetto al restare su un marciapiede o addirittura a bordo di una strada trafficata.

Il caldo e l’umidità non si fanno aspettare, mettendomi fin da subito alla prova.
Poco prima delle dieci, arrivo a Turano Lodigiano e mi metto a cercare un posto dove mangiare qualcosa. Prima però, mi faccio attrarre da una chiesa color pesca, ed entro per approfittare del fresco e per un minuto di raccoglimento. Una volta fuori, incontro il prete del paese, che mi si rivolge con parole senza tempo:  “Buongiorno pellegrino! Da dove vieni e verso dove stai andando?”. È forse la prima volta che qualcuno mi chiama fin da subito con questo titolo, e la cosa mi produce un gran bell’effetto. Scambiamo giusto due parole, piacevolmente, ma poi mi fiondo al piccolo minimarket del paese perché non ce la faccio più dalla fame.

Mentre scelgo cosa acquistare, un cliente molto solare mi fa vivere per la seconda volta in pochi minuti il piacere di essere chiamato e salutato come pellegrino. Si dice amante del Cammino e ci fermiamo a parlare un po’ negli spazi ristretti del negozio. Inevitabilmente, tutti ascoltano il dialogo, il quale si allarga presto alle proprietarie, e ne nasce un gran bel momento. Vengo anche presentato ad un bambino, pare già buon camminatore. Con cortesia, mi mostrano a lui come fossi una specie rara, tentando di instillargli il seme prezioso dell’anima viandante. Speriamo dia frutto, anche se arriva da uno che è solo all’inizio della propria avventura.
Imprevedibilmente, ricevo in dono ciò che volevo acquistare, e si consolidano sempre più in me sentimenti di gratitudine e sorpresa. Ho gli occhi lucidi. Sarò in grado di essere altrettanto generoso quando anch’io tornerò ad una vita meno nomade? Ci spero di tutto cuore.

Saluto queste splendide persone e mi siedo nel parco di fronte per fare uno spuntino. Prima di rimettermi in marcia, mi regalo anche un caffè nel bar vicino, trovando un’atmosfera altrettanto genuina e accogliente, cosa che non riesco e non voglio dare per scontata. Mi domando se questa cordialità soffi nell’anima dell’intero paese.

La sosta è stata rigenerante, ma non abbastanza per far passare del tutto la mia debolezza. La difficile nottata di Lodi, o chissà che, mi ha anche lasciato in eredità un fastidioso raffreddore. Ma avanti tutta! Se ne andrà con il passare dei giorni.

Tornato sulla pista, incrocio tanti ciclisti. Carico di gioia per i begli episodi appena vissuti, ne saluto molti, ma nessuno batte ciglio. Poco conta, mi basta il piacere di regalare il mio sorriso. Incrocio alcune coppie di ogni età a passeggio. Una di queste mi ferma dopo aver visto la conchiglia appesa allo zaino. Hanno già percorso il cammino francese, quello più lungo e famoso, che parte da Saint-Jean-Pied-de-Port. Come alla maggior parte della gente che ha fatto quell’esperienza, sono rimasti particolarmente sensibili ad ogni cosa glielo ricordi, ma un pellegrino giacobeo fuori da casa mi dicono sia una vera eccezionalità. Ci intratteniamo qualche istante con piacere reciproco.

Nei chilometri successivi, purtroppo, ho un calo fisico importante. Nonostante la distanza percorsa non sia stata esagerata e manchi pochissimo alla meta, devo assolutamente fermarmi a riposare. Trovo un fazzoletto di prato coperto d’ombra, proprio a lato della strada. Quasi ci svengo sopra. La mia pressione perennemente bassa a volte ha i suoi vantaggi, ma non certo con un clima del genere. Tento di dormire un po’, forte del largo anticipo rispetto all’orario che mi ha comunicato don Gabriele. Purtroppo, dopo dieci minuti comincia l’inevitabile: il sole si sposta quanto basta perché qualche raggio riesca a passare tra le fronde. Ci sono poche cose che mi lasciano più frastornato dell’essere svegliato così. Cerco ogni soluzione, ma sembra sia destino che debba togliermi da lí. Risultato: riprendo il cammino mezz’ora dopo, più sfinito di quando ero arrivato. Le sensazioni sono simili a quelle di una piccola influenza, ma non ho nessuna intenzione di interrompere già il mio cammino, fosse anche solo per un giorno. Gambe in spalla e, stringendo i denti, raggiungo Castiglione.

Manca ancora almeno un’ora perché possa suonare alla casa parrocchiale, così torno a sedermi, stavolta però al fresco, dentro a un bar in piazza. Ordino un ghiacciolo e mi distraggo un po’ sullo smartphone, scoprendo che questo paese è stato uno dei più colpiti dal virus, con un numero esorbitante di vittime. Oltretutto, trovo scritto che il parroco che mi sta per ospitare è stato protagonista di un gesto forte a fine febbraio, con una risonanza addirittura nazionale. Nel mezzo di quei primi durissimi giorni in cui la malattia flagellava il paese, ha celebrato una messa senza assemblea e impartito una benedizione solenne, col Santissimo portato sul sagrato vuoto. Mentre tutta la gente stava chiusa in casa terrorizzata da quell’onda tragica, le campane irradiavano l’annuncio di quel gesto in ogni angolo del paese. Un rito particolarmente iconico, al di là di ogni fede religiosa.

Arrivata l’ora concordata, vengo accolto a braccia aperte da don Gabriele. La casa è ampia e molto accogliente. Per la notte mi offre l’uso di un’intera stanza che, pur semplice, è arredata con mobilio antico, dandomi quasi l’impressione di essere in una sagrestia. Semplicemente non sono abituato, ma presto prevale l’euforia per tutte le comodità che mi sono state offerte, e così comincio ad allargarmi alla mia maniera, trasformandola in un vero accampamento.
Do una lavata a maglietta, mutande e calze e le stendo su un filo tirato tra appigli improbabili. I mille colori del mio guardaroba ambulante, sparsi ora tutti attorno, mi aiutano a sentirmi più a mio agio.
Posso approfittare addirittura di una piccola vasca, una di quelle in cui si entra aprendo uno sportello e ci si mette a mollo da seduti. Un’esperienza che pensavo avrei fatto molto più in là negli anni. “Tutta grazia!”, come si dice, e infatti ne esco davvero riposato.
Ho del tempo a disposizione, e lo uso prima per riposare e poi per le solite cose: diario, studio delle tappe successive e così via. Domani sarà un gran giorno: finalmente interecetteró la Via Francigena. Questo porterà molti cambiamenti: non dovrò più inventarmi i percorsi, ma basterà seguire le indicazioni; potrò fare capo a una filiera di luoghi d’accoglienza ad hoc; inoltre incontrerò sicuramente qualche altro pellegrino, anche se probabilmente diretto in senso contrario al mio, verso Roma. C’è addirittura un’applicazione che agevola il viandante in ogni sua necessità. Credo davvero sarà tutto molto diverso.

Arrivata l’ora della cena, raggiungo don Gabriele che mi aspetta in cucina. Sceglie di preparare una buona amatriciana con un sugo regalatogli da qualche parrocchiana. Parliamo molto piacevolmente di tutto e di più, spostandoci poi in salotto. Di fronte al divano mi colpisce un tavolino basso stracolmo di libri: sembrano diverse decine, posti tutti in pile ordinate. Mi spiega che ama lasciarli lì ad attenderlo, oppure anche dopo che li ha letti. L’effetto non è niente male; credo che in futuro gli ruberó l’idea. Alle pareti stanno appese alcune opere d’arte che a loro volta attirano la mia attenzione. Ci perdiamo a parlare un po’ anche di quelle, ma ben presto le palpebre di entrambi iniziano a farsi pesanti. Non rimane che augurarsi la buonanotte, solo che mentre io vado a dormire, lui invece ha ancora qualche impegno da sbrigare in chiesa.

La vita dei sacerdoti è molto meno scontata di quanto si possa pensare. Ho lavorato per alcuni anni al servizio di una congregazione, e ne ho conosciuti molti altri nei contesti più disparati: chissà che forse non ne scriva in futuro…

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21/08 Spino d’Adda – Lodi

(sala Caritas @ parrocchia di Santa Maria del Sole)
16 km

Anche stamattina spengo la sveglia prima che suoni. Nemmeno questa notte è stata il massimo, ma in fondo sono tutte prove: quelle che non ho fatto prima di partire, ovviamente.
La tenda, per esempio, comincia a farmi innervosire. Le ho provate tutte, ma non riesco a far sì che tutto il perimetro rimanga ben aderente per terra. Non ha paleria, e per tenerla in piedi si usano le racchette. Quindi alza qui, tira lá, smolla questo e tendi quello….niente!
Alcune fotografie sul web mostrano che non è un difetto, ma una sua caratteristica. Sarei disposto a farmi umiliare in tre secondi da un esperto campeggiatore, a patto che mi dica se sbaglio e dove sbaglio. L’unico modo che ho trovato per riuscirci aveva l’inconveniente di lasciare troppo molli i lati con le cerniere, e di notte hanno continuato a sbattere come vele di una nave in tempesta.
Chiaramente, a un certo punto ho rinunciato ad ogni altro tentativo e ho accettato tutti i disturbi possibili con rassegnata dignità.

Comunque ora eccomi sveglio. Cominciano i rituali di radunamento, sgonfiaggio, insacchettamento, piegatura, appallottolamento, e così via, fino a quando l’universo di cose che dava forma al mio piccolo habitat temporaneo si comprime nello zaino. E se non è magia, poco ci manca.
Mi piace un mondo anche guardarmi indietro dopo pochi passi, osservare l’erba schiacciata, i sassi usati per piantare i picchetti, pensare a quanto poco possa bastare a volte.

Oggi passerò sicuramente da Lodi. Insieme a Codogno, saranno le ultime tappe simboliche dedicate alla memoria della tragedia accaduta nei mesi scorsi.
Ho già adocchiato qualche paesino dove potrei chiedere ospitalità, vedremo se sarò fortunato. Per uscire da Spino torno sui passi percorsi ieri, proprio fino a quel ponte sotto il quale avrei dovuto dormire.
Da lì mi riaggancio alla ciclovia. Mi riporta in mezzo al verde, in scenari un po’ più ariosi di quelli del giorno prima. Riesco anche a vedere il sole spuntare, ed è sempre una grande gioia.

Il ginocchio resta l’unica scocciatura, ma ho diverse armi da giocare: pause, antinfiammatori, e…. basta. Mi barcameno con quelli, e per fortuna l’andamento del problema è altalenante, lasciandomi diversi momenti di tregua. Ai miei familiari non sto dicendo nulla per evitare incursioni imbarazzanti e inutili da parte loro, visto che sono ancora relativamente vicino.
Nemmeno l’umidità alle stelle mi aiuta. Mi ritrovo fradicio fin dai primi chilometri, e così rimango, ma ogni volta che mi fermo per far riposare il ginocchio, basta un poco di vento e dai bollori della marcia passo a brividi, che spero non sfocino in qualcosa di peggio.

Lascio la provincia di Crema e faccio pausa dopo Boffalora, presso una sorta di spiaggia erbosa sull’ansa del fiume: un posto niente male. Sta di fianco a un ristorante, è tutto molto curato. Ho una panchina solo per me e mi ci allargo con immenso piacere, togliendo gli scarponi come fossero pezzi d’armatura.
Dopo un bel panino e qualche altra delizia da viaggiatore, mi regalo un caffè al banco.

Rigenerato, tento la ripartenza ma senza troppa convinzione.
Lungo la via, attratto anche un po’ dal nome, telefono alla parrocchia di San Martino in Strada per trovare ospitalità, ma ricevo un due di picche abbastanza severo, rimanendo spiazzato sul da farsi, ma non per questo pessimista. Mi dico che in qualche modo mi arrangerò.

Proseguo fino a Lodi, cittadina che fin da subito mi appare davvero bella. Faccio un piccolo giro nel centro storico, regalandomi un po’ d’ombra e uno dei migliori gelati di sempre. Mi intrufolo poi in una messa appena cominciata nel Tempio dell’Incoronata, che ho scoperto essere un gioiello rinomato della città. Mi riempio gli occhi di bellezza, ma sono costretto a uscire dopo un quarto d’ora, demolito da una predica davvero insopportabile e stantia.
Riesco ad approfittare degli ultimi minuti di apertura del Duomo, dove chiedo se posso ricevere il timbro per la mia credenziale. Vengo accompagnato in un ufficio grande ed elgante, dove incontro don Sergio e don Gabriele. Il primo è parroco presso la vicinissima Santa Maria del Sole; il secondo è a sua volta parroco, ma di Castiglione d’Adda, a circa 20 km più a sud.
Si dimostrano molto gentili e allegramente incuriositi dal mio pellegrinaggio. In pochi minuti, scelgono di farmi una doppia offerta: pernottare questa notte qui a Lodi e domani a Castiglione. Non potrei chiedere di meglio! Non mi cruccio troppo nemmeno del rallentamento che questo produrrà sul programma che m’ero fatto: i chilometri in meno mi aiuteranno a diminuire la pressione sul ginocchio. Tutto sembra quadrare meglio quando non organizzo niente. Mistero!

Seguo don Sergio presso la casa parrocchiale. È molto più giovane dell’altro, ed è straordinariamente sorridente. Mi mostra una sala dedicata fino a qualche mese prima allo smistamento dei beni per la Caritas, ma ora è inutilizzata a causa del Covid. Per me è perfetta. Prima di andarsene mi raccomanda di farmi trovare pronto per uscire a cena. Non dico di no.

Oggi ho fatto solo 16 km, ma ci ho messo un’infinità per via delle pause. Ora, comunque, ho tutto il pomeriggio per darmi una rassettata e rilassarmi un po’.
Prima di tutto pulisco la stanza dalla tanta polvere e la allestisco per la notte, mettendo il materassino su un gruppo di banchi che ho affiancato. Lavo i panni e tiro un filo per stenderli tra un’anta e l’altra di un largo armadio.
Allo stesso lavandino, in qualche modo, mi pulisco anch’io, recuperando vigore a sufficienza per tornare sulle vie già percorse del centro.
Piazza della Vittoria è un gioiello: i tanti portici, la facciata del Duomo, i colori delle case, il bel selciato mi incantano.
Torno alla camera, scoprendo una targa che dice sia intitolata a San Giacomo. Mi gusto la coincidenza senza aspettarmi altro; quel piccolo segno mi è già più che sufficiente.
In stanza mi annoio un po’. Scrivo, ma mi appesantisce continuare a stare su quello schermino. Infatti non ho un diario fisico, di carta, ma uso lo smartphone, soprattutto per risparmiare altro peso.

Finalmente arriva l’ora di cena, e don Sergio si presenta puntuale. Raggiungiamo una bella via che oggi non avevo visto, Corso Umberto, dove c’è un discreto viavai di persone. In una strada così ci farei volentieri un buon aperitivo, peccato per l’afa.
Arriviamo alla pizzeria, che sembra ottima. Lui si conferma pieno di allegria ed entusiasmo, il che mi fa sentire particolarmente a mio agio.
La cena diventa presto un’occasione di incontro e conoscenza davvero gradevole. Ha l’età di mio fratello maggiore e, tra gli altri suoi ruoli, è un avvocato del Tribunale della Chiesa. È un titolo che ha raggiunto dopo molti studi, che mi confessa aver affrontato con grande passione: “Desideravo molto approfondire gli studi”, una frase tanto semplice, quanto efficace per far sanguinare in silenzio il mio cuore, ancora ferito dai miei abbandoni scolastici. Mi descrive quali sono gli ambiti in cui è maggiormente chiamato in causa, e ascoltarlo è molto interessante. Mi racconta anche dell’esperienza difficile vissuta dal padre a causa del Covid, e degli insegnamenti che quella prova gli ha trasmesso. Sul tema spendo anch’io qualche aneddoto, visti i mesi appena conclusi in RSA nel bergamasco.
Insiste per offrire la pizza, e a me non resta che rilanciare con un gelato, ovviamente nello stesso posto dov’ero stato nel pomeriggio.
Conclusa la serata, sceglie di aggiungere un gesto ancora più forte di sostegno, regalandomi un contributo per il mio viaggio. Sono stupefatto e grato. Non è l’unico che mi ha voluto sostenere, anche molte ex colleghe e colleghi mi hanno mostrato una generosità inaudita, che ancor oggi mi lascia scioccato ogni volta che ci penso.

La giornata non è stata niente male. Muoversi a piedi continua a dimostrarsi una sorpresa costante per tutto quanto mi capita. Le ore in cui cammino da solo nella campagna, poi, sono un toccasana per l’anima. Se riuscissi a risolvere il problema del ginocchio, sarebbe davvero il massimo.
Vabbè, domani mi aspetta un’altra tappa tranquilla e un alloggio già programmato. A Dio piacendo, dovrei dormire tranquillo stanotte. O forse era meglio non dirlo…

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20/08 Treviglio – Spino d’Adda (CR)

(tenda @ campo sportivo)
27km

Il materassino continua a mettermi a dura prova, anche stavolta non sono riuscito a dormire bene. Mi infastidiscono insopportabilmente i rumori che fa sotto al mio peso e quando mi giro. Soffro anche la sua silhouette troppo stretta; le braccia e le mani continuano a cadere verso l’esterno e per qualche ragione non lo sopporto. Mi sveglio spessissimo e patisco continui incubi senza senso.
Nonostante questo, la mattina mi alzo di buona lena. Non sono nella forma migliore, ma pensavo peggio.
Faccio colazione con Stefano, che mi dà qualche dritta per uscire dal paese attraverso le strade secondo lui più gradevoli.
Infine ci salutiamo, felici di esserci potuti conoscere. Come altri, mi domanda se può seguirmi su qualche social network o blog.

Qui apro una parentesi: prima di partire, molte persone mi hanno chiesto di tenerli aggiornati sulle mie condizioni, ma non è esattamente quel tipo di cosa che amo fare. Fin dal primo giorno, però, ho ceduto alla tentazione di postare una o due immagini sul mio stato whatsapp a fine giornata. Inaspettatamente, però, ci ho già preso gusto e ora sto aumentando pian piano le fotografie che scatto e quelle che posto ogni sera. Con piccole didascalie, creo un racconto minimo della giornata. Già molti miei conoscenti hanno mostrato di apprezzare la cosa e, tradendo le mie prime intenzioni, sospetto che finirò col dedicarle ancora più spazio.

Spiego quindi a Stefano come può seguirmi virtualmente, rendendomi conto che c’è qualcosa di molto bello in questa cosa e che l’avevo sottovalutata. Ció che mi tratteneva era il desiderio di affrontare questo viaggio col coraggio di staccarmi profondamente da ciò che mi lasciavo alle spalle. A quanto pare, mi sono contraddetto fin dall’inizio, ma questi primi giorni mi hanno già mostrato una cosa inattesa: per molte persone, per esempio alcune particolarmente malate, queste mie cartoline serali sono un regalo inaspettatamente prezioso, non solo banali distrazioni tra le mille altre.
C’è anche un’altra cosa: chi segue ciò che pubblico è costretto a veder scomparire tutto in ventiquattro ore, restando ogni giorno in attesa di nuovi post temporanei. Riflettendoci, mi pare che questo concordi molto con il tipo di esperienza che sto vivendo, aumentando il senso di coinvolgimento, e la cosa mi piace.
Un altro aspetto particolare è che tutto può essere visto solo dai miei contatti, cioè pressoché solo persone che già mi conoscono dal vivo, e anche questa sorta di intimità mi mette a mio agio.
Insomma, non sono pentito della mia resa alla dimensione social del viaggio, anche se è già chiaro che, se continuassi, non permetterà quel distacco radicale che era uno degli obiettivi più coraggiosi di questa esperienza. Chiusa parentesi.

Lascio Treviglio seguendo i consigli di Stefano, che mi portano presto tra la campagne agricole a ridosso dell’Adda. Informatomi, ho trovato conferma dell’esistenza di una ciclabile che si snoda seguendo il corso del fiume. Ho anche fatto un giro di telefonate per chiedere una specie di autorizzazione informale a piantare la tenda stasera nell’area del grande parco fluviale, ricevendo risposte molto cortesi e qualche dritta.
Forse sono mosse da principiante, ma d’altronde è quello che sono. Comprendo bene la differenza tra quando riesco a buttarmi e quando apro il paracadute; il mio tentativo è restare almeno un passo fuori dalla mia zona di comfort, quella dove tutto è sotto controllo, ben programmato, e nulla veramente a rischio. Di meglio, per ora, non riesco a fare.

Arrivare a Rivolta d’Adda corrisponde a due primi, piccoli traguardi: l’uscita a piedi dalla mia provincia e, più o meno, i primi cento chilometri di cammino. Cose modeste, ma ne sottolineo a me stesso il valore per nutrirmi dello stimolo che mi restituiscono.
Qui, tra l’altro, mi devo un po’ sforzare per superare il Parco della Preistoria senza entrarci. La tentazione è forte perché è stato un luogo magico per la mia infanzia, ma è troppo grande e costoso, del tutto incompatibile con questa mia avventura pellegrina.
Prendo maggiore coscienza di un aspetto principale di questa esperienza: vedrò moltissime cose che mi attrarranno, ma la stragrande maggioranza di esse dovrò solo attraversarle o costeggiarle, e passare oltre. Curioso come sono, saranno parecchie le rinunce, ma solo così il sogno potrà prendere forma.
“Tante ciance per un piccolo parco per bambini”, penso. “Chissà quando arriverò in luoghi come Arles, allora!”.

Imbocco la ciclovia dell’Adda Sud, scoprendone la vegetazione magnifica e dall’aspetto quasi esotico. L’umidità è alle stelle – mai sofferta così tanto – ma per fortuna non sono preda delle zanzare.

Il fastidio al ginocchio è contenibile, ma non sparisce mai davvero.
Provo a usare la ginocchiera elastica che mi sono portato, ma ho la sensazione che sia totalmente inutile, oltre che fastidiosa.
Sono invece entusiasta del mio cappello parasole ultraleggero preso per due spicci alla Decathlon. Lo comprai per percorrere il Cammino Materano, ma ai tempi mi sembrò troppo ridicolo e lo lasciai casa. Ora ne sono innamorato, mi sta letteralmente salvando.

Non cammino sempre sulla ciclovia perché segue il fiume nelle sue grandi anse, aumentando troppo il chilometraggio rispetto alle forze che ho a disposizione.
Raggiungo un ponte meraviglioso sul Canale Vacchelli, del quale non avevo mai sentito parlare, ma sembra essere molto importante per l’irrigazione di questa provincia.
L’Adda è a due passi e il ponte, in realtà, è quella che si chiama una presa d’acqua. Ha un passaggio carrabile e una parte coperta e chiusa, splendidamente decorata, soprattutto tenendo conto di essere in mezzo alla campagna. Di fianco c’è una cascina, e al di fuori di quella una suggestiva fontana a leva. Mentre bevo come non ci fosse un domani, sopraggiunge un ragazzo in bici, con cui mi intrattengo per una breve e piacevole chiacchierata. Nel frattempo, due operatori del parco dell’Adda Sud escono da una specie di magazzino. Chiedo loro se ci siano luoghi adatti nelle vicinanze per piantare la tenda. Mi indirizzano verso Spino d’Adda, poco oltre, dove sotto il ponte fuori dal paese ci dovrebbe essere uno spazio riparato e discreto.
Acqua fresca e tanta gentilezza: a volte è difficile pensare a cose più importanti di queste.

Una volta raggiunto il posto, lo studio per bene, ma non mi dà l’idea di essere sicuro. La mia paura maggiore è quella di essere derubato. Ho messo in conto potrebbe succedere in mille modi diversi e nelle occasioni più disparate, ma vorrei evitare soprattutto che succeda così presto.
Decido di spostarmi verso il paese in cerca di spazi più rassicuranti, e ne trovo subito uno: una casa molto originale con un grandissimo prato che sarebbe perfetto per me. Decido di provarci e citofono. Mi viene a rispondere una giovane donna, legittimamente un po’ stupita dalla mia richiesta, ma che sembrerebbe disponibile a concedermi un pezzo di giardino per la notte. Prima, però, chiama il marito per concordare con lui la decisione, e purtroppo lui si oppone categoricamente. Non li biasimo, ma sono contento di averci provato.
Vado poco oltre, dove trovo grandi campi arati, con la terra indurita dal sole. Trovo un posto adatto a me nei pressi di un grande albero, ma anche in questo caso decido di avvisare gli abitanti di una casa lì di fronte, per spiegargli che rimarrò lì solo una notte e quindi non si spaventino. Prendono atto con qualche comprensibile titubanza, ma tanto mi basta.

Resta quindi il problema del cibo. Cerco un negozio di alimentari nelle vicinanze ma non lo trovo. Sono costretto ad andare in paese, ma il primo negozio utile è a due chilometri. Senza zaino sarebbe una passeggiata, ma non mi fido a lasciarlo qui. Pur stanchissimo, non mi resta che proseguire col mio carico sulle spalle.
Nel frattempo, scelgo però di azzardare un’altra mossa: telefonare al parroco. Si chiama don Alberto e si dice del tutto disponibile a lasciarmi un posto dove piantare la tenda. Fantastico! Ci diamo appuntamento presso l’oratorio, ma prima passo al supermercato.
Una volta incontrati, mi accompagna nel suo ufficio per timbrarmi la credenziale e poi torniamo in oratorio, che in questo periodo è chiuso. C’è un fazzoletto di prato discreto e protetto dietro gli spalti del campo da calcio. In effetti è ideale per piantare la mia tenda in tutta tranquillità.
Mi saluta, dandomi indicazioni su dove lasciare le chiavi domani mattina.

Poco dopo arriva un’altra persona. Si chiama Antonio, ha 77 anni e si occupa della manutenzione del campo e degli spogliatoi. Mi dà l’impressione di essere un uomo estremamente buono. Io preparo la tenda, faccio la doccia negli spogliatoi e posso addirittura lavare i vestiti nella lavatrice che usano forse per le divise sporche. Parliamo poi piacevolmente per quasi un’ora, fin quando deve andare. Mi avvisa che a momenti dovrebbe arrivare un ragazzo a tagliare l’erba. Faccio anche la sua conoscenza. Si chiama Jacopo e sembra davvero in gamba, ma è anche l’unica persona fin qui che si mostra particolarmente perplesso rispetto all’impresa in cui mi sono cacciato. Sono contento di poter sentire opinioni diverse, anche su questa mia scelta così importante.

Per cena, cuocio una improbabile pasta e fagioli confezionata, esordendo col mio fornelletto da campo. Mi risulta molto scomodo. Di certo, anche in questo caso, tanto è causato dalla mia inesperienza, ma già nasce in me una gran voglia di liberarmene e alleggerire almeno di qualche etto il carico sul ginocchio sofferente. Ascoltando bene il mio corpo, credo sia l’unico modo per far davvero sparire il dolore.

Anche oggi sul mio stato whatsapp posto le foto di alcuni dei miei “angeli del giorno”, come li chiamo, e ne sto trovando tanti.
Sono sereno, con la pancia piena e mi sento al sicuro.
Spero basti per riuscire a riposare bene stanotte

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19/08 Martinengo – Treviglio (BG)

(Couchsurfing da Stefano)
27km

Mi sveglio magnificamente riposato. Sono le sei e mezza. I miei due amici hanno accettato di alzarsi alla mia stessa ora, per fare colazione insieme e salutarci come si deve. Se fossi partito prima avrei potuto approfittare di più della frescura del mattino, ma non è sempre la cosa più importante. Mi godo ancora la loro compagnia piena di premura e umorismo, poi concludiamo con una foto di rito sulla quale si imprimono i nostri tre sorrisi e le nostre occhiaie.
Dal terrazzo mi lanciano gli ultimi saluti e mi vedono andar via.

Lascio Martinengo e finalmente inizio a dirigermi verso ovest. Il mio percorso non procederà certo tutto in linea retta, ma perlomeno ora i miei passi si muovono verso ovest, e psicologicamente è una sensazione niente male.

Uscendo dal paese, costeggio una chiesa i cui affreschi interni so essere sorprendenti, ma purtroppo è chiusa. Mi riprometto di visitarla al mio ritorno, anche se non so ancora che sarà di me dopo quest’esperienza. La scelta di lasciare tutto si associa al desiderio di essere libero se arriveranno opportunità inattese che sapranno conquistarmi. Speriamo succeda!

Mi godo qualche chilometro immerso nella campagna, per poi sbucare a Romano di Lombardia, che sfioro soltanto.
Attraversando il ponte sul fiume Serio, il caso vuole che veda passare in auto proprio i due amici lasciati poche ore prima. Chiamandomi e sventolando le braccia fuori dai finestrini, mi regalano ancora un’iniezione di allegria, molto utile quando si passa da contesti urbani non certo entusiasmanti.
Lungo la strada ho anche modo di scambiare due chiacchiere con un ciclista, Adriano, che si ferma e mi domanda dove sono diretto, incuriosito dalla conchiglia che ho appesa sullo zaino. Quando glielo svelo, gli si illumina il volto e mi lascia con dei grandi auguri di buon viaggio; una bella sensazione essere salutati così da uno sconosciuto.

Fuori dalla chiesa di Bariano, chiedo informazioni a un giovane padre, tutto tatuato. Un figlio, vulcano di energia, sta giocando nella piazzetta, mentre credo ce ne siano altri in un passeggino doppio che tiene vicino a sé.
Mi colpisce all’istante per i suoi occhi spalancati: sembrano invitarmi a fare conoscenza, a fidarmi di lui. Non mi tiro indietro, e gli domando se ci siano negozi di alimentari e parchi dove fermarsi a mangiare. Confermando le mie impressioni, si rivela una persona straordinariamente estroversa e gentile. Mi dà le indicazioni che gli ho chiesto, ma continuiamo a parlare. Quando viene a sapere dove mi sto dirigendo, il sorriso in volto gli si accentua ancora di più e, anticipando la rivelazione con un attimo di suspense, mi indica il figlio più grande e mi svela il suo nome: si chiama Santiago.
Un piccolo grande bacio dalla sorte, di quelli che tanti pellegrini raccontano di ricevere prima, durante e anche dopo i loro lunghi cammini.
A molti potrebbe sembrare una semplice ed inutile coincidenza, eppure percepisco come un piccolo zampillare di energie che si incontrano, una lampadina che si accende. Per un istante la mia parte più scettica e razionale cerca di spiegarmi che è solo un caso, poi anche lei si rende conto che in vita mia non ho mai incontrato fisicamente nessuno con questo nome. Mi lascio quindi trasportare dalla suggestione che questo incontro non sia casuale.
Il padre, invece, si chiama Matias ed ha origini argentine. Si mostra particolarmente interessato alla mia scelta e al mio progetto, e mi racconta di alcuni suoi grandi viaggi molto affascinanti, non perdendo mai quella luce che gli ho visto negli occhi fin dall’inizio.
Pochi minuti e siamo raggiunti anche dalla moglie, Federica, anche lei giovane, solare e dalla pelle piena di tatuaggi. Sono tutti belli – incredibile! – singolarmente, come coppia e come famiglia. Nel passeggino scopro le altre due figlie: si chiamano Camilla e Isabella: sono due splendide gemelline, seppur con fattezze incredibilmente diverse l’una dall’altra.

Sembra arrivata l’ora di salutarsi, ma Matias rilancia con entusiasmo, invitandomi a pranzo da loro. Accetto l’invito con grandissimo piacere.
Andiamo con l’auto nel paese di fianco, Masano, dove vivono. Ho un po’ di amaro in bocca per quei tre chilometri non camminati, ma mi rassereno: ho voluto farmi trasportare dal senso di connessione che ho provato, non ho accettato per banale convenienza. Il cammino saprà perdonarmi.

La casa è molto bella, calda, accogliente, piena zeppa di magnifiche foto di tutti loro. Mentre i due genitori si danno da fare per cucinare cose golose, i tre piccoli giocano, li chiamano, si infastidiscono a vicenda, come è normale che sia. Sotto i miei occhi, Matias e Federica si dividono freneticamente tra i bimbi e la cucina. Mostrano severità quando serve, ma sforzandosi di trasmettere la loro amorevolezza. Io assisto con gran rispetto, dicendomi che probabilmente non sarei in grado di stare nei loro panni.

Dopo pranzo, resto a chiacchierare ancora un po’ e, quando infine ci salutiamo, Matias insiste per accompagnarmi all’imbocco della pista ciclabile, lì a due passi. Restati soli, mi confessa che si sta separando da Federica. Mi rammarico, perché mi erano piaciuti molto tutti insieme, ma mi dà anche l’impressione di star affrontando la scelta con maturità. Strano e prezioso trovarsi in così stretta connessione con una persona appena conosciuta, e anche lui mi pare pensi lo stesso. Ci salutiamo come fossimo vecchi amici, augurandoci il meglio.

Oggi devo arrivare a Treviglio. Lá ho trovato un posto dove dormire tramite Couchsurfing, un’applicazione che in tutto il mondo mette in contatto viaggiatori come me e persone che offrono pernottamenti gratuiti. Sembra strano a dirsi, ma tutto trova il suo equilibrio fondandosi sulla convinzione reciproca che l’incontro tra diversità sia fonte di straordinario arricchimento.

Sfioro Caravaggio senza passare da un altro famoso santuario, per via del tempo già speso a casa di Matias e Federica.

Raggiunta Treviglio, passo per prima cosa da un ufficio parrocchiale, dove mi faccio mettere un bel timbro sulla credenziale. Dopodiché faccio tappa in farmacia per presentare il mio problema al ginocchio, spiegando che non voglio iniziare subito a massacrarmi di antinfiammatori. Me ne consigliano uno blando, naturale, che evita anche la formazione di edemi. Cominciamo con questo. Faccio poi qualche rifornimento al supermercato e infine aspetto sotto casa di Stefano – così si chiama la persona che mi ospiterà. Si rivela essere molto gentile e alla mano. Fa l’avvocato ed è appassionato di Diabolik. Riesce a farmi sentire come a casa mia, cucinando anche un’ottima cena. Ha lasciato che comprassi io solo il vino e un dolcetto, dimostrandosi veramente generoso. La chiacchierata con lui è davvero interessante, e alla fine mi regala anche delle parole che mi fanno venire la pelle d’oca: “Sei tu che dai qualcosa a chi ti ospita”. Wow! Fatico a fare mio questo gigantesco complimento, ma prometto a me stesso di tentare sempre di onorarlo.

Per la notte, posiziono il mio materassino in salotto.
Sistemando le ultime cose, faccio una scoperta che mi strappa una risata e un’imprecazione. Scegliendo una nuova posizione nello zaino per la busta dei picchetti della tenda, ritrovo quelli che pensavo di aver perso in chissà quale modo pochi giorni prima della partenza. Dovetti fare i salti mortali per trovarne di nuovi, ugualmente leggeri, e invece eccoli qua! Dannazione! Pazienza, si aggiungeranno alle cose che sto già pensando di rispedire a casa fra non molto.

Solamente tre giorni e già l’esperienza si sta dimostrando eccezionale. Mi sento in un flusso di energia positiva che non posso dare per scontata. La fanno da padrone l’accoglienza calorosa di tante persone e la bellezza che continua a dischiudersi, tanto attraverso alcuni paesaggi quanto nel gusto che mi sta dando il camminare.
Il corpo è provato, devo ammetterlo. Più di ottanta chilometri in tre giorni sono di certo una delle cause principali del mio problema al ginocchio, ma sento comunque che questo è il ritmo giusto per me. Spero di non sbagliarmi.

Per la terza notte mi addormento pieno di gratitudine. È una delle sensazioni migliori del mondo. Ho scelto bene la mia avventura.

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18/08 Bergamo – Martinengo (BG)

(da Ale & Mauro)
27km

La nottata in tenda è stata pessima. Sono un inesperto totale e mi sono basato solo sulla temperatura per scegliere con cosa coprirmi, ma è stato da stupidi. L’umidità era tantissima e ho avuto un freddo boia. Non mi ero messo nemmeno la maglietta e così, in ognuna delle cinque volte in cui mi sono svegliato, ho aggiunto qualcosa: prima la t-shirt, poi il sacco a pelo, poi ho chiuso la tenda, e via così. D’altronde si impara sbagliando, e devo anche essere felice che ci sia stato bel tempo.
Tutto sommato, il buon umore è rimasto tale e quale, ed è più che sufficiente per alzarmi pieno di ottimismo.

La tenda è bagnatissima. Quando la apro, vedo il cielo rosa che lascia in controluce la sagoma spigolosa dell’ospedale. Che strana sensazione aver dormito qui. Guardo la torre di fronte a me – così chiamano le palazzine che compongono il complesso. La leggerezza che ho dentro si irrigidisce per un attimo ripensando a cosa è avvenuto in quel luogo, alle vite salvate e quelle venute meno. Esser qui di fronte, mi fa immaginare con più forza quanto accaduto, ma non posso che rafforzare il silenzio, inerme, sperando che non accada di nuovo e che la memoria di chi non ce l’ha fatta venga onorata.

Veder rimanere il solo zaino lá dove prima c’era una tenda piena di roba sparpagliata è una piccola magia. Non sono abituato, l’ho detto, e mi diverte. Per colazione, prendo qualcosa ai distributori automatici. C’è già gente, e tutti mi guardano comprensibilmente straniti. A chi mai è capitato di vedere un pellegrino in quei grandi corridoi? Chissà cosa penseranno.
Credo di essere l’unico che è lì per piacere. Vorrei sorridere a tutti, ma alcuni volti raccontano di grandi preoccupazioni, così mi contengo. Esco meditando su quegli sguardi, sul motivo che mi ha spinto lì, sulla memoria di quanto successo. Il mio zaino sembra pesare un po’ di più, ma è giusto così.

La destinazione di oggi è Martinengo. Lá mi aspetta una coppia di persone splendide, Alessandra e Mauro. Lei è la mia prima amica d’infanzia. Abitavamo a due passi l’uno dall’altra. Non sono riuscito a salutarli prima di partire, così ho accettato il loro invito con gioia. Poco importa se anche oggi camminerò in direzione quasi contraria alla meta finale: è un altro “sì” risposto alla vita.

Lascio decidere il percorso a un’applicazione che non ho mai usato prima: si chiama Komoot. Dovrebbe aiutarmi a evitare almeno qualche area industriale, e magari scovare qualche pista ciclabile o cose del genere.
Aggiungo come tappe intermedie un paio di santuari famosi di queste zone, quello della Madonna dei Campi di Stezzano e quello della Basella di Urgnano. In tutta onestà, non è una scelta esattamente devozionale, anche se non disdegno mai un momento di raccoglimento in questi luoghi. È soprattutto un modo per rendere la giornata più godibile.

Prima di tutto, però, scelgo di fare colazione in un piccolo bar. Il proprietario si dimostra gentile e generoso. Saputo quello che sto facendo, mi offre persino un paio di cornetti, ma mi lascia perplesso quando ci stiamo per salutare: ci tiene a dirmi che la sua famiglia è un po’ ovunque in Europa e in caso di bisogno basta che lo chiami. Resto sorpreso da quell’offerta di supporto così inusuale, ma lo ringrazio per l’altruismo.

Il problema al ginocchio rimane. Non provo vero dolore, ma è come se i miei movimenti fossero limitati, e proseguendo sembra aumentare. Così, di quando in quando, faccio una breve sosta, la prima delle quali è proprio fuori dalla Madonna dei Campi. Il santuario è molto grande e dall’architettura raffinata, per niente rurale, con un ampissimo giardino tutt’attorno. L’ho già visitato diverse volte, ma oggi proprio non me la sento di entrare, resto solamente a riposare qualche minuto su una panchina di fronte.

In centro a Stezzano, poi, ho un appuntamento con Egidio, altro caro amico che non avevo potuto salutare prima della partenza. Mi godo quest’altra pausa con grande calma, un po’ per la buona compagnia e un po’ per la fatica: d’altronde il sole è cocente, lo zaino si fa sentire, e io pago tutta la preparazione che non ho svolto.

Qualche minuto dopo aver lasciato il bar, sobbalzo all’improvviso, ho dimenticato là i bastoncini! Fortunatamente li ritrovo, ma lo spavento è stato grandissimo. Mi accompagnano da anni e sono ultraleggeri, perfetti soprattutto col ginocchio che mi sta facendo dannare. Perdere subito qualcosa di così importante sarebbe stata una vera mazzata al morale.

Faccio le prime esperienze di cammino tra i campi della nostra pianura: nonostante il sole martellante, l’immersione nel verde mi mette subito a mio agio e proietta la mente agli stupendi ricordi della Via Peuceta, percorsa a fine febbraio.
È stato quello il mio primo vero pellegrinaggio, da Bari a Matera: splendido! Mi ha permesso di verificare la mia tenuta fisica e mentale e innamorarmi di questo genere di esperienza. Credo che non sarei qui, oggi, senza quel viaggio.

Tra i campi di Zanica, con la borraccia quasi vuota, suono al campanello di una cascina. Una gentile signora me la riempie di acqua freschissima e mi augura buon viaggio. Una volta tornato sulla strada ghiaiosa, però, mi raggiunge a passo spedito. Incredibilmente, si scusa di non avermi offerto altro, visto l’orario di pranzo, e mi invita a mangiare con lei e la sua famiglia. Sono totalmente disabituato a ricevere ospitalità gratuita da perfetti sconosciuti. Accetto con gran piacere. Il cascinale è bellissimo; è una fattoria didattica, ma hanno anche delle stanze. Sembrano affiatati tra loro, anche se fanno cenno alle difficoltà dovute ai lockdown. Dopo il pasto, li saluto con gratitudine e torno sulla strada, ancora sorpreso di aver ricevuto un’accoglienza così spontanea e generosa.

Sedotto dal silenzio delle strade di campagna, scelgo di provare il piccolo cavalletto che mi sono portato, posizionare il telefono e farmi un breve video. Sistemo tutto in mezzo alla carreggiata campestre, accendo la videocamera e comincio a camminare partendo da dietro lo smartphone, scimmiottando tanti video già visti online. Dopo qualche metro, mi viene il terribile dubbio che possa arrivare un mezzo qualsiasi senza accorgersi di nulla, schiacciando cellulare e cavalletto. Mi volto di scatto, ma prendendo immediatamente un grosso spavento per via di un signore che, proprio in quel momento, era arrivato alle mie spalle in bicicletta senza che me ne accorgessi. Lui stesso, poverino, trasale e borbotta qualche imprecazione.
Il tempo che ho dovuto impiegare ad inscenare il video e il suo stesso epilogo mi fanno intuire che quella non sarà un’attività frequente in questo cammino.

Proseguo fino ad arrivare al santuario della Basella di Urgnano, costruito in un luogo in cui tradizione narra sia apparsa la Madonna, come d’altronde anche il precedente. Non l’ho mai visitato, e non mi dispiacerebbe una toccata e fuga, ma lo trovo chiuso.

Qualche ora dopo, arrivo finalmente alla casa di Alessandra e Mauro. Lì, sono accolto e abbracciato con splendide premure. Hanno una gran voglia di sentire le prime cronache di viaggio e tutto quanto è venuto prima. Chiacchierare con loro è sempre una gioia. Ale, poi, mi convince addirittura ad approfittare della vasca per farmi un bagno con dei sali speciali. Non so da quanti anni uso soltanto la doccia, e sono quasi in imbarazzo, ma ovviamente finisco con l’accettare, rinunciando a ogni indugio. Ne esco rinato, è stato davvero un piacere.

Le ore scorrono alla svelta, e la cena arriva in un batter d’occhio. Non mancano confidenze preziosissime e tante risate, ma il regalo che resterà più di altri nella storia di quest’avventura è il timbro che si riescono a inventare per riempire la seconda casella della credenziale. Ale si scervella per bene e alla fine chiama Mauro perché entrambi lascino la propria impronta digitale, rossa. La cosa speciale è che le incrociano, creando un cuore perfetto. Come si fa a non volere bene a questi due!

Passo la notte sul divano letto, comodo come non mai, condividendolo senza problemi con i due gatti di casa.

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17/08 Bergamo, partenza dalle terre ferite

(in tenda @ ASST Papa Giovanni XXIII)
28km

Sdraiato sul materassino gonfiabile, resto ancora un minuto a guardare il soffitto. Ho la schiena a pezzi, ma un sottile sorriso sulla faccia.

Settimana scorsa ho portato il mio comodissimo letto da mia zia. Per proteggere il materasso avevo solo della pellicola estensibile nera. L’abbiamo caricato sul Fiorino di mio padre, e io l’ho seguito in auto con le altre parti della struttura. Andando lenti per sicurezza e con tutto quel nero, sembrava un corteo funebre. È da allora che dormo sul materassino, lasciandolo semplicemente appoggiato al pavimento. Sono state tutte notti orribili, ma ho perso ore tra web e negozi per trovare “quello giusto”, e adesso devo convincermi a tutti i costi sia quello perfetto per me.

La casa è vuota, ci ho messo un mese a portare via tutto; addirittura, le ultime cose solo ieri. L’unico problema è che quelle ultime cose hanno riempito una macchina intera. Non ci fossero stati i miei, avrei dovuto buttare metà di quello che avevo. Abbandono definitivamente questo appartamento dopo più di quattro anni, vuoto, pulito e imbiancato. Sono stati anni importanti, ma me li lascio alle spalle senza nostalgia.

Mi metto seduto e tento inutilmente di sgranchirmi, ma il morale altissimo mi fa ignorare ogni grido d’allarme del corpo. Tenta da settimane di farmi capire che non posso partire senza essermi mai esercitato negli ultimi due mesi, e non vuole sentir parlar di lockdown, di trasloco o del fatto che ho finito di lavorare tre giorni fa. So bene quel che rischio, oltretutto con uno zaino da 15 kg, ma non potevo fare meglio di così, quindi silenziatore attivato e avanti tutta.

Sgonfio il materassino, lo arrotolo e lo infilo nello zaino insieme al sacco-lenzuolo. Acqua gelida per la faccia mentre il caffè sale, poi una passata ai denti e non resta che aspettare Chiara.

Lei è un’amica della provincia di Brescia. Alla fine dell’anno passato abbiamo frequentato entrambi un corso online incentrato sulla capacità del viaggio di portare cambiamenti nella propria vita. Non ci scambiammo nemmeno un messaggio, ma cinque settimane fa, quando decisi definitivamente di partire, postai questo sul gruppo Facebook dei partecipanti:

«E….niente, tra una cosa e l’altra ho deciso definitivamente.
Fra una quarantina di giorni si parte!
Confidando nella buona stella degli audaci e dei sognatori, andrò a tuffarmi nel torrente d’anime e di storie, natura e Vita, che ha per meta quel santuario galiziano e poi un oceano, partendo da casa come il nostro buon capitano Claudione.
Anche se lo sappiamo davvero tutti ora: la meta è ogni meta, ogni tappa, ogni passo, ogni momento di consapevolezza condita da gratitudine sincera.
Sono contento di condividere anche qui questa decisione. Col sorriso in faccia e nel cuore, confido nella vita: che mi proponga ogni modo possibile di attraversare quest’annata scombussolata, questa Europa scopertasi vulnerabile.
Partirò da una Bergamo sopravvissuta e un pochino più matura.
Concludo citando un caro amico di Alzano Lombardo, paese che ormai conoscete tutti. Una cosa che per me è stata davvero molto forte:

“Abbiamo vissuto almeno dieci giorni di vere tenebre, dove tutto era buio. Questo virus ci ha insegnato che non siamo onnipotenti, ma che valiamo dall’uno in giù e che siamo pieni di ansie totalmente inutili. Se non facciamo tesoro di questi insegnamenti e non impariamo a rallentare, a curare la consapevolezza delle tantissime cose belle e gratuite che compongono la nostra vita, se torneremo a lavorare come muli e ad essere sempre di fretta, incazzati, frustrati, beh…allora vuol dire che non avremo capito un cazzo e avremo buttato nel cesso l’unica cosa buona che ‘sto stronzo di virus ci ha lasciato”.

Altre parole di altri amici mi hanno sospinto, una dopo l’altra, fino alla decisione di questo tuffo.
È bello quando ci si rende conto di essere sull’argine di un fiume enorme di energie positive. Non vedo l’ora di buttarmici!».

È solo allora che conobbi Chiara. Mi rispose con qualche commento pieno di entusiasmo. La sua provincia aveva sofferto i momenti peggiori di questa tragedia tanto quanto la mia, e mi scrisse di capire molto bene il significato di quelle parole. Innamorata del Cammino, subito mi propose di accompagnarmi nella prima tappa, come segno di partecipazione sia concreta che simbolica al progetto.

Dentro me, in realtà, fu una sorpresa che mi scombussolò, perché non era vero che aveva capito. Le radici della mia scelta stavano molto più indietro nel tempo e in fondo a me stesso, non avevano un legame esclusivo con l’esperienza della pandemia. Le parole del mio amico Sergio mi avevano regalato una spinta decisiva, sì, ma erano state “solo” un innesco. Evidentemente non mi ero espresso nella maniera migliore.

Ad ogni modo, pensare di condividere un giorno così importante cedendo a un fraintendimento mi produsse inizialmente una grande tensione. Mi chiesi perché, e capii che sotto sotto c’era la mia volontà di controllo. Era legittima e comprensibile, ma ormai la vita aveva giocato la sua carta.
Che fare, quindi? Stare a spiegarle, entrare nei dettagli, declinare gentilmente l’invito? No, troppo pedante.
Dissi a me stesso che il cammino è fatto di quotidiani imprevisti, e partire subito con un “No, grazie” sarebbe stato probabilmente un brutto passo falso.

Mi scervellai per un paio di giorni, ma poi trovai la soluzione: sì, questa partenza poteva diventare anche quello che Chiara ci aveva letto, ma qualcosa andava cambiato.
Nel progetto originale pensavo di raggiungere Milano e collegarmi alla Via Francigena nei pressi di Pavia, ma così non andava. Decisi di ridisegnare completamente le prime tappe, toccando alcuni luoghi che più di ogni altro erano stati simbolo della tragedia nella mia terra: gli ospedali di Bergamo, di Seriate e di Alzano Lombardo, e ovviamente il paese di Nembro.

L’unica alternativa per passarci, però, era salire di qualche chilometro la Val Seriana. All’inizio mi sembrò assurdo perché voleva dire andare in direzione esattamente opposta a Santiago, ma fu facile risolvere anche questo.
Bastava che il primo giorno del mio lungo cammino diventasse un percorso ad anello, con Bergamo a fare sia da partenza che da meta: nient’altro che una minuscola follia incastonata in una ben più grande, niente di meglio!

Unendo i puntini sulla mappa, fu facile definire i dettagli. Ovviamente, la partenza da casa era intoccabile.
Come primo punto di passaggio scelsi la RSA dove lavoravo, a Torre Boldone. Lì avevo visto coi miei occhi e toccato con mano la tragedia dei mesi passati.
Raggiungere poi Alzano e Nembro era cosa facile, perché i paesi sono uno dopo l’altro. Il punto seguente, l’ospedale di Seriate, mi avrebbe permesso anche di pranzare comodamente lungo il percorso, dai miei genitori a Villa di Serio. Infine, da Seriate l’anello si sarebbe chiuso facilmente all’ospedale di Bergamo, il Papa Giovanni XXIII, transitando anche davanti alla clinica Gavazzeni, in rappresentanza di tutte le altre in città.
L’itinerario del primo giorno era pronto! Per quanto riguarda le tappe seguenti, decisi di rinunciare a quella meneghina, passando invece da Lodi e Codogno, altre due città simbolo della primissima ondata.
Questo significava collegarsi alla Francigena nei pressi di Piacenza, anziché Pavia. e ovviamente non era un problema.
Sapevo di non poter onorare ogni luogo martoriato dall’esplosione pandemica, ma quel nuovo progetto seppe conquistarmi immediatamente. Quando le spiegai tutto, anche Chiara ne fu entusiasta.

A proposito, eccola! In perfetto orario. È la prima volta che ci vediamo dal vivo, e non poteva esserci modo migliore. È carica e ha un sorriso super luminoso: davvero ottimi ingredienti. Il cielo è sereno e sono quasi le sette e mezza.
Esco dalla porta, zaino in spalla, e giro la chiave nella serratura, per poi lasciarla cadere nella cassetta della posta. Che bellezza salutare questi ultimi anni di vita in questo modo! Aiuta ad esser grati per tutto quanto si è potuto vivere.
E….il primo passo. Wow! Tutto ha inizio!

Come già le avevo anticipato, per prima cosa abbiamo un appuntamento, lì a pochi passi: nella chiesa di Redona – il nome del quartiere – don Gianangelo ci aspetta per la benedizione. È una persona splendida, di grande sensibilità, con la quale ho un’amicizia importante. Mi ha offerto lui la possibilità di questo momento insieme e l’ho accettata molto volentieri.
Ci accoglie con il suo consueto sorriso. La chiesa è enorme e vuota. Per qualche motivo mi aspettavo un gesto minimo, in un angolo appartato, invece Gianangelo onora il rito illuminando l’ampia zona davanti all’altare e invitando entrambi a porci lì, in piedi. Legge un brano della Bibbia, quello riguardante il sogno di Giacobbe: il messaggio fondamentale che ci vuole trasmettere è la rassicurante presenza di Dio al fianco di ognuno. L’invito è quello di ricordarmene quando mi sentirò particolarmente solo. L’intensità del momento è indiscutibile, peccato solamente che io continui ad essere distratto dal gran peso dello zaino che mi preme fastidiosamente sulle spalle.
Concluso il rito con la benedizione, andiamo in ufficio a porre il primo marchio sulla mia credenziale. È un vecchissimo timbro della parrocchia, sul quale giganteggia il nome di San Lorenzo. Non c’era modo migliore per cominciare. Salutiamo e ci rimettiamo subito in marcia.

La giornata è davvero bella. Per arrivare alla RSA scelgo via delle Delizie, un luogo per me importantissimo. È una viuzza che si snoda ai piedi di una collina dietro casa. Sembra una strada anonima, ma in realtà è unica: un paio di curve, pochi metri, e sei immerso letteralmente nel verde, cosa più che rara per una città. Lì, con passeggiate minime e meditazioni, mi sono preso cura con successo del mio equilibrio fisico e interiore durante i tragici mesi di primavera; grazie a questo, proprio lì sono nate importanti prese di coscienza, tra cui quella di partire.

Con qualche scorciatoia, poi, raggiungiamo in una ventina di minuti la casa di riposo di Torre Boldone. Le ex colleghe sanno del mio passaggio e si sporgono dal lungo terrazzo del reparto per salutarmi. Sono molto contento di essere passato da qui.

Poco dopo, incontriamo la prima amica che si unirà con noi, Laura, pellegrina a sua volta e persona dal cuore più unico che raro. Ci aspetta su una panchina con il suo proverbiale sorriso. È emozionata e felice.
Fatte le dovute presentazioni, continuiamo allegramente tutti insieme, mentre il sole e la temperatura cominciano ad alzarsi.

Tra una chiacchiera e l’altra, arriviamo all’ospedale di Alzano Lombardo, teatro davvero infelice per la nostra storia recente. Là una grande sorpresa: ad aspettarci di nascosto c’è un’altra Laura, e l’emozione è grande. Anche lei lavora nello stesso posto, come infermiera. Forse anche perché nati lo stesso giorno dell’anno, siamo uniti da un legame molto forte. È una gioia sia qui.
Immediatamente dopo si unisce anche Patricia, altra ex collega molto speciale: anima frizzante, tenace e incredibilmente spiritosa. Sono tre donne splendide, tutte che mi vogliono molto bene. Con loro ho condiviso moltissimo nei mesi passati. Averle vicino oggi mi fa sentire onorato e felicissimo.
Finalmente al completo, decidiamo innanzitutto di regalarci una bella colazione.

Non dedico gesti particolari a questa terra falcidiata dalla violenza del virus, solo un attimo di sosta nei luoghi simbolo e un po’ di raccoglimento interiore. È un po’ sfuggire da quel dolore, me ne rendo conto. Faccio quello che mi sento: in alcuni istanti, lascio pulsare dentro me la coscienza di quanto accaduto, degli occhi visti chiudersi e di tutti coloro di cui non so nulla, ma che ora non ci sono più. Non mi sento in grado di fare altro, ma quel poco so che lo sto vivendo con onestà.

Dopo la pausa, raggiungiamo l’officina di Sergio, nello stesso paese. Lui è l’amico meccanico le cui parole hanno saputo convincere Chiara a farsi avanti per essere qui ora. Purtroppo il padre mi avvisa che in questo momento è fuori per delle commissioni. Peccato.
Non trovo nessuno neanche a casa di Riccardo, altro grande amico di vecchissima data. No problem. Sono tentativi a cui non so resistere perché passo proprio accanto a questi luoghi. Lascio che la vita decida quali regali farmi e cerco fin da subito di rallegrarmi di tutto. Chissà se ne sarò capace durante i prossimi mesi.

Arriviamo quindi a Nembro, altro epicentro del male che ci ha colpiti. Nella bella piazza centrale, ci aspettano Paolo e Angela, Genia e la simpaticissima nipotina Gea. I primi tre sono amici straordinari, anime rare con le quali ho la fortuna di avere un legame molto stretto. Hanno perso molte persone care nei mesi passati e i loro cuori sanguinano ancora. Nonostante ciò, oggi sono felici io sia qui e questo per me è davvero un onore.

Mi trovo circondato da un gruppo di persone magnifiche, sembra un sogno.
Le amiche della RSA mi salutano con gli occhi umidi di commozione, e tornano sui loro passi. Poco dopo, anche io e Chiara ci congediamo e riprendiamo il cammino; scendiamo prima verso il fiume, per poi superarlo e arrivare a casa dei miei, giusto in tempo per il pranzo.
Con mamma e papà mi sono visto parecchio, ultimamente. Il loro aiuto è stato tanto e fondamentale. Accolgono splendidamente Chiara, che può anche conoscere mia nonna novantaduenne, ancora in splendida forma.
Quando è ora di ripartire, ci salutano con grande emozione. Posso solo immaginare quali siano ora i loro sentimenti.

Ben sazi, riprendiamo la marcia, stavolta verso l’ospedale di Seriate. Lungo la strada, riesco con gran gioia a incontrare Arianna e Lorenzo. Non mi era mai successo di poter vedere in poche ore tutti questi amici, e non poteva accadere in un giorno migliore.

Dopo il saluto all’ospedale di Seriate, ci dirigiamo verso Bergamo transitando davanti alla clinica Gavazzeni. Ci muoviamo per strade comuni, senza scenari memorabili, ma il tempo della scoperta e della meraviglia non mancherá, già a partire da domani.
Decido di regalare a Chiara un piccolo passaggio nel centro della città prima di raggiungere l’ospedale Papa Giovanni, ma purtroppo oggi la “mia” Bergamo non veste i suoi abiti migliori. Pazienza. Tutto è cammino.

Il tour prosegue verso la periferia ovest e ci conduce infine a destinazione.
Sono a pochi chilometri dal punto di partenza, ma in realtà ne abbiamo percorsi quasi trenta, e il corpo se ne rende conto.
Ho sentito in più occasioni un fastidio all’interno del ginocchio sinistro, sintomo di qualche trauma di gioventù. Contengo la preoccupazione e confido di riuscire a gestire la cosa.

Settimana scorsa ho ottenuto l’autorizzazione per passare la notte in tenda nel parco Terzo Paradiso – uno dei giardini esterni del complesso ospedaliero – e mi è stato promesso anche un timbro sulla credenziale. Come d’accordo, quindi, suono al campanello della vigilanza, ma nessuno sa del mio arrivo. Rileggendo la mail ricevuta, mi rendo conto di non aver seguito del tutto le istruzioni: avrei dovuto dare una seconda conferma, ma ho dimenticato di farlo e ora tutti sono stupiti della mia stramba richiesta. Fortunatamente, diverse persone si prendono a cuore la mia situazione e con un paio di telefonate arriva l’autorizzazione al campeggio, ma purtroppo nessun timbro. Pazienza. Non mi affliggo troppo, quel che conta è poter pernottare qui.
Mi godo le ultime chiacchierate con Chiara e le guardie, poi è tempo di salutarla. Oggi non potevo sperare in una compagnia migliore.

Dopo aver montato la tenda ed essermi docciato, vengo raggiunto da Serena. Anche lei pellegrina, dopo essere tornata da Santiago ha cominciato a fare da referente volontaria per la Confraternita di San Giacomo di Perugia. Ci siamo visti per la prima e unica volta un mese fa, quando mi ha consegnato la credenziale. Oggi è stata così gentile da voler passare a salutarmi. Insieme mangiamo anche una pizza in una sala d’attesa, poi lei se ne torna a casa mentre io mi rifugio in tenda.

Qui in ospedale, le persone con cui ho parlato mi hanno raccontato alcune cose particolarmente infelici dei mesi scorsi, aiutandomi meglio a capire quanto sia stata drammatica la situazione in questo luogo. Ricevere testimonianza diretta di un fatto, come sempre, aiuta a percepirne meglio molte sfaccettature, a riporle più a fondo dentro di sé.

Chiudo le zanzariere e mi infilo nel sacco-lenzuolo.
È stato un inizio splendido.

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