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cammino di santiago - roberto pesenti

01/09 San Raffaele Cimena – Torino

(da Federico, tramite Couchsurfing)

La notte ho avuto un fastidioso disguido. Entrato in casa per andare in bagno, ha iniziato a suonare un allarme assordante. Ahimé, il buon Savino si era dimenticato di disattivarlo, e io non ho potuto far altro che rimanere ad aspettare desolatamente che scendesse a spegnerlo, dispiaciuto per aver contribuito a quel disturbo.
Ritrovati a colazione, poi, ci intratteniamo molto a lungo a parlare e la partenza slitta intorno alle 8:20. Ho anche il tempo di veder tornare i bambini, e quindi poter salutare proprio tutti. Qualcuno ha perfino gli occhi lucidi. Sono i superpoteri del pellegrino: nel pieno del proprio sogno, gonfio d’amore che gli arriva da ogni cosa, scatena sorpresa a chi ha il cuore aperto per qualche motivo. Ogni volta, però, l’ora degli addii arriva sempre prestissimo. Il pellegrino non è un uomo migliore di altri, ma nel suo lungo e lento tuffo credo diventi simbolo. È ciò che lui evoca che tocca i cuori. Oggi penso questo.

Il tempo è splendido, ma per tutta la prima parte della mattina riverso la mia attenzione sullo smartphone. Non è certo un piacere, ma voglio organizzare al meglio il mio passaggio a Torino. Un posto dove dormire l’ho già trovato tramite Couchsurfing, ma il fatto è che sta nell’estrema periferia nord. Non sarebbe stato un problema, avrei semplicemente potuto deviare, ma devo prima passare per forza dal centro per riuscire a risolvere il problema delle scarpe. Non sono ancora rassegnato a comprarne un altro paio, perché sono ancora in ottimo stato, fuori che quel brutto scollamento. Voglio chiedere una consulenza per capire se sia possibile ripararle, anche se so che dovrei essere talmente fortunato da trovare anche qualcuno che me lo faccia all’istante.
Creo un programma serratissimo, cercando i migliori calzolai e i negozi dove avrei maggiore scelta, laddove non rimarrebbe che comprarle. Al contempo, studio le varie possibilità per raggiungere l’appartamento dove dormirò e come poi mi potrò ricollegare all’itinerario tradizionale. Torino è una metropoli e io ci arriverò appena dopo pranzo, quando i negozi saranno chiusi. Mi scervello perché sono convinto che, prendendola alla leggera, rischierei di perdere troppo tempo e magari trovarmi costretto a passare un giorno in più in città.

Riemergo dallo schermo di quando in quando, per assicurarmi di non sbagliare strada, ma a grandi linee riesco comunque a rendermi conto dell’ambiente che sto attraversando. Uscito dal San Raffaele, il percorso costeggia il canale Cimena fino al paese successivo, oltre il quale incontro un ragazzone barbuto che cammina in senso opposto al mio. Porta un grande zaino, e infatti è un pellegrino anche lui. È francese e molto giovane; cammina già da circa 700 km e sta dirigendosi a Roma. La sua partenza non è stata meno improvvisata della mia, a quanto pare, e incontrarlo mi emoziona molto, forse perché viene a piedi proprio dal prossimo Paese verso cui sono diretto, quello che più mi spaventa. È partito molto prima di me stamattina e intuisco che non gli dispiacerebbe mantenere il passo, ma riesco a strappargli alcune informazioni, qualche consiglio per il mio passaggio oltralpe e pure una foto ricordo, che non guasta.

Durante una pausa a metà mattina, incontro e scambio quattro chiacchiere anche con Veronica, una ragazza argentina che vive da queste parti e che stava portando a spasso il cane. Ormai socializzo con chiunque incontri! Ridiamo un po’ assieme e ci salutiamo senza null’altro che il piacere di quei pochi minuti.

Poco dopo, arrivo di nuovo sulle sponde del Po, presso San Mauro Torinese. La passeggiata in pavé che si affaccia sul fiume è particolarmente piacevole. Da una terrazza si può già vedere la Mole. Mancano almeno dieci chilometri ancora per raggiungerla, sarà meglio darsi una mossa. Voltandomi, invece, mi rendo conto che siamo ai piedi del colle di Superga, con la sagoma in controluce della Basilica. A volte è bello trovarsi in mezzo alla natura, in posti sconosciuti, ma non è male nemmeno camminare in luoghi più familiari e significativi. Sono già stato a Torino varie volte, ma ovviamente non l’ho mai raggiunta a piedi. In questo momento sono circa 400 i chilometri che mi separano da casa, e li ho fatti tutti camminando! Sembra impossibile, io stesso fatico a crederci. A pensarci mi viene quasi da ridere.

Il percorso prosegue imboccando una ciclovia godibilissima, che sbocca nel magnifico Parco del Meisino, in corrispondenza di una grande ansa del fiume. Camminare in queste aree mi dà un piacere incredibile. Mi continuo a ripetere quanto siano fortunate le persone che abitano in queste zone, convinto che molte altre parti della città non godano di polmoni verdi di queste proporzioni.

Anche quando il Parco finisce, la pista continua parallela al Po, e per la maggior parte del tempo si gode dell’ombra di grandi alberi. A un certo punto, ormai a un passo dal Ponte Vittorio Emanuele Primo, mi imbatto in un Bibliobus parcheggiato in un’area di sosta tra il fiume e la strada. È spalancato e dentro si possono vedere scaffali pieni di libri, e anche fuori ci sono diversi espositori. È decorato con coloratissime illustrazioni, ma a dominare su tutto è il rosa shocking dell’abito indossato dalla giovane bibliotecaria seduta al tavolo dei prestiti.
Curioso come al solito, mi avvicino per fare qualche domanda, d’altronde le biblioteche per me sono sempre posti speciali ed è la prima volta che vedo un servizio come quello. A dirla tutta, però, non sono queste le sole ragioni, infatti non resisto dal voler conoscere la ragazza.

Con lo zaino in spalla e nel pieno di un grande viaggio, rompere il ghiaccio ormai è diventata una sciocchezza, anche se aiuta anche il fatto di sapersi di passaggio, senza nessuna aspettativa né possibilità, se non quella di godersi due parole e qualche sguardo, quando va bene.
Lei si chiama Sara, e la prima grande sorpresa è che si rivela essere anche lei una camminatrice. Anzi, lei è già stata sul Cammino, quindi tra noi due sono io il principiante. Ci raggiunge anche Luca, il suo collega. Lui è di Rivoli, e per un attimo sogno che possa essere un clamoroso aggancio per trovare in anticipo l’alloggio per domani, ma non sembra dell’idea.
Saputo che passerò dalla Sacra di San Michele, Sara mi fa una proposta che mi lascia di stucco: si offre di accompagnarmi per salita e discesa dalla famosa abbazia. L’idea è splendida, le chiedo soltanto di darmi un giorno di tempo per darle conferma. Dopodiché scambio il numero con entrambi e riparto. Ma pensa un po’ la vita! Sarebbe la prima persona in questo cammino che incontro in giorni diversi.

Pochi minuti e sono sul ponte che dà accesso al centro della città. Ci sono poche auto, o almeno così pare. Gli spazi sono così grandi… Da una parte c’è Piazza Vittorio Veneto, dall’altra il tempio della Gran Madre. Un nome insolito per una chiesa, ma anche affascinante; sembra più pagano che cattolico.
Tornare da queste parti mi emoziona. L’ultima volta ci ho passato due giorni, da solo, per assistere ad uno dei concerti più belli della mia vita, Yann Tiersen al Teatro Colosseo, l’anno scorso. Due anni prima, invece, partii da qui per andare a fare una settimana a Taizé, la mia prima e unica. Anche a vent’anni, quando iniziai a studiare arte contemporanea, fu qui che venni a vedere una delle mie prime mostre; era di un surrealista che nemmeno mi piaceva, Paul Delvaux. Non sono molte le città in cui sono tornato più volte, e stavolta ci sono arrivato addirittura senza mezzi.

Ho almeno un paio d’ore in attesa che apra il calzolaio che ho scelto. Affamato, ho la fortuna enorme di trovare una focacceria specializzata in specialità liguri, non ho bisogno d’altro. Scelgo l’abbinata dei miei sogni: focaccia di Recco e farinata. Straordinarie! Molto gentilmente, i proprietari mi lasciano mangiare dentro, su una mensolina, anche se non si potrebbe, sempre per via del virus. Quando riparto, saluto e vengo salutato con grande cortesia; è il gesto più semplice del mondo, ma fa sempre la differenza.

Il cielo e il sole sono al loro meglio, e la città di conseguenza. Passo del tempo in un negozio di bigiotteria molto originale. È pieno di collane e orecchini che piacerebbero tantissimo a una mia ex, ma mi trattengo dal fare regali che poi farebbero solo casino. Non mi faccio mancare un bel gelato. Cerco il posto in base alle recensioni sul web; può non esser molto poetico, ma funziona. Scopro l’estasi della stracciatella al gusto di caffè, uno dei gusti migliori mai assaggiati in vita mia. Inaspettatatmente, sembra stia diventando il pellegrinaggio dei gelati e delle vasche da bagno.

Tra una cosa e l’altra, finisco spesso a pensare al beneficio che mi ha dato la ginocchiera comprata a Mortara: c’è quasi del miracoloso. Mi domando quanto avesse ragione Marco, un conoscente che sosteneva che il problema al ginocchio rappresentasse la parte di me che non accettava la partenza. Sono arrivato a pensare che forse in parte sia vero. Ogni volta che mi fermo la allargo per lasciare riposare la pelle e il tessuto; è anche comodissima. È strano come questo tema riesca a mettermi in pace. Di certo è perché sembra lo abbia risolto, ma credo anche sia per via degli esperimenti di dialogo col corpo. Inizio a pensare che sarà un qualcosa che sperimenterò ancora più a fondo durante le prossime settimane.

Arriva l’ora della consulenza del calzolaio. La sentenza è inappellabile: pollice in giù! È possibile incollarle, ma prevedendo poi solo un uso per piccole gite; non potrebbero sopportare tutto quello che ancora mi aspetta. Ricevuto.
Poco lontano trovo quel paio di negozi monomarca in cui già avevo programmato di recarmi se fosse andata così. Nel primo tutto costa troppo, mentre nel secondo trovo opzioni più adatte a me. Il proprietario, a quanto dicono certe recensioni sul web, ha la fama di avere un carattere poco cordiale, diciamo così, e anch’io ne faccio esperienza. Nessuna disonestá, solo poca gentilezza. Per fortuna, una delle commesse mangia la foglia e mi assiste nella scelta con grande premura. Scambiamo due chiacchiere piacevolmente ma, quando sto quasi per decidermi, viene mandata a fare altro e sostituita da una collega che sembra sintonizzata sulla stessa lunghezza d’onda del titolare. Mossa molto chiara. Mi chiedo di cosa abbiano paura. Mi accompagna in cassa e mi comunica il prezzo. Le scarpe sono di una linea vecchia, ma intuisco che chiedere uno sconto a questo cyborg sarebbe inutile.

Eccomi, quindi, a muovere i primi passi con le mie scarpe nuove di zecca. Sono più leggere delle altre e non mi danno nessun fastidio, nonostante debbano ancora prendere la forma del piede. Se già sono comode ora, mi immagino poi! Spero proprio di non incappare in vesciche o chissà che altro.
Porto con me anche quelle vecchie perché ho già deciso dove lasciarle.
Prendo l’autobus e scendo alla fermata prima della casa di Federico, il ragazzo che mi ospiterà stasera. Usare un mezzo non mi fa sentire in colpa neanche stavolta, per il semplice fatto che l’autobus mi porta indietro rispetto al mio senso di marcia. Cammino qualche minuto e suono alla casa parrocchiale di una chiesa dedicata proprio a San Giacomo. Non è un caso trovarla ora, perché avevo già programmato ieri di passarci. Piuttosto, lo è stato scoprire che era vicina a dove avrei dormito, quello sì. Chiedo se sia possibile avere un timbro per la mia credenziale e ne approfitto per lasciare anche le mie scarpe, spiegando di non farsi intimorire dalla grandezza della parte scollata, perché sono facilmente riparabili e ancora perfette per un uso normale. Il sacerdote cede alle mie insistenze, anche se poco convinto siano poi un grande affare. Spero si ricreda e che il calzolaio abbia detto la verità.

Alleggerito e contento, raggiungo finalmente la dimora di stasera: un palazzone moderno e altissimo, almeno per i miei standard da provincia. L’appartamento è addirittura all’ultimo piano.Federico è un uomo pieno di energia, generosissimo ed entusiasta di incontrare persone nuove; ne ha ospitate un numero sbalorditivo. Mentre finisce il suo lavoro al computer, mi lascia tranquillo a sistemarmi e fare la doccia. Mi invita anche a godere dello spettacolo dal balcone e dalla terrazza in cima all’edificio, e in effetti il panorama in entrambi i punti è eccezionale. Anche la grande area industriale circostante, con le sue immense proporzioni, mi produce un certo fascino; forse perché la posso guardare dall’alto, oppure perché ha come sfondo le Alpi, sovrastate da un cielo splendido. Sono bastati pochissimi giorni per vederle ora così vicine, è incredibile, eppure ricordo che a Lamporo mi sembravano straordinariamente distanti. È un altro grande fronte di scoperta del viaggiare camminando: capire quanto sia efficace spostarci sulle nostre gambe. Non si può capire se non si sperimenta.

Passiamo una splendida serata, parlando davvero di tutto. Mi spiega che riesce a lavorare facilmente da casa, ma da sempre si dedica anche a un numero di attività che mi lascia sbigottito. Mi racconta aneddoti di ogni genere; sembra aver vissuto tre vite in una. Ha competenze ampissime, ma una delle sue caratteristiche maggiori sembra essere una generosità senza misura. Pensando a quante persone ha ospitato, resto stupito quando mi confessa che sono l’unico che ha voluto lavare i piatti, ma mi fa piacere essere ricordato per questa dovuta gentilezza.

Buona notte, Torino.

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31/08 Lamporo – San Raffaele Cimema (TO)

(in tenda da Savino e Angela)
35 km

La notte è stata particolarmente inquieta, ma la mattina mi consolo con la compagnia del buon Giancarlo, che ha accettato di svegliarsi presto e fare colazione con me.
Alla partenza, il paesino è immerso in una luce ancora molto tenue. Se ne esce come si è entrati: seguendo il canale. C’è addirittura una chiesetta che gli sta a cavallo. Non oso immaginare l’umidità, però una scelta simile è manifestazione di una creatività non scontata, che apprezzo molto.

Una volta tra i campi, ritrovo la vista delle Alpi. Hanno le cime già rosate da un sole che io ancora non posso vedere. In pochi secondi, inaspettatamente, esplodo in una commozione strabordante. Mi aspettavo un’emozione intensa stamattina, con l’alba sulla grande catena montuosa, ma non così. Quei massicci mi trasmettono qualcosa che non so interpretare, e che entra in me squarciando ogni difesa. È come un vento benevolo, tiepido, ma fortissimo, e dentro mi pare di sentire pezzi che si staccano e si frantumano. Rimane una grande spaccatura, è come fossi cavo ora, eppure senza sentirmi mancante di qualcosa. Tutto può passare attraverso; sono sopraffatto dallo sconvolgimento, ma sento anche di essere più leggero. Piango moltissimo e, come nei migliori momenti, un riso liberatorio fa compagnia alle lacrime.
Mi nascono parole di preghiera e le appunto; hanno anche loro un colore speciale oggi. Come inizio di giornata, direi che non è niente male.

Questa volta mi ci vuole parecchio tempo per tornare in me. Nel frattempo, il sole è salito ma qualche nuvola gelosa e isolata sembra voglia coprirlo a tutti i costi. Raggiungo e attraverso il Canale Cavour. Ne ho visti molti fin qui, ma vivo la strana sensazione di un primo incontro, forse perché di certo è il più grande che ho incontrato. L’acqua scorre calma e la sua superficie è perfettamente piatta, sembra quasi solida. Mi dà un senso di sobria eleganza. Lo lascio, sapendo che più avanti ci incontreremo ancora.

Trovo altre scritte su qualche cippo. Una dice:

Camminiamo, leggiamo e balliamo.
Questi tre divertimenti non potranno mai fare del male al mondo”.

Un’altra:

Una briciola d’oro non ti dà una briciola di tempo”.

Questa è pesantissima, un colpo di maglio. In fondo nella vita ci vogliono entrambe le cose: qualcosa che dia slancio ai nostri voli sognanti, e qualcos’altro che che ci radichi nella concretezza.

Attraverso anche la Dora Baltea, che fino ad oggi per me era stata solo un nome bellissimo conosciuto quasi trent’anni fa sul sussidiario delle elementari e mai più apparso nella mia vita.
A Torrazza Piemonte mi imbatto in un gigantesco cantiere proprio sul tragitto che devo seguire. Aggirandolo allungherei troppo il percorso, così lo attraverso sfacciatamente, oltrepassando nastri e recinzioni. Tutto fila liscio, vengo notato ma nessuno si interessa alla mia presenza.
Purtroppo pago comunque la mia apparente furbizia, perché sbaglio strada una volta uscito dal cantiere, e me ne accorgo solo un quarto d’ora dopo, ormai fuori rotta. In questi casi la cosa che preferisco è farmi un regalo di consolazione, qualcosa che riempia lo stomaco, mi rilassi e mi dia energie per ripartire.

Faccio tappa al supermercato, quindi, e mi regalo una merenda. Cercando di tornare sul percorso giusto, poi, incrocio una coppia di anziani a passeggio sotto il sole, mano nella mano. Mi volto spesso a riguardarli mentre si allontanano. Non ci si stanca mai di vedere certe cose.

Come previsto, ritrovo il Canale Cavour, ma questa volta ci camminerò di fianco fino a raggiungere Chivasso. Una volta là, mi fermo a pranzare in una pizzeria all’ingresso della cittadina, ingolosito da un cartello con scritto “Pizza al tegame”. Sono l’unico cliente e al proprietario accenno il fatto di essere alla ricerca di un alloggio economico o di un luogo dove piantare la tenda. Inizialmente sembra entusiasta del mio viaggio e mi dà l’impressione finirà col rispondere alla mia domanda con qualche utile dritta. In realtà, non appena finisce di cuocere la pizza, se ne va a fumare e mi lascia al mio pranzo senza concludere il discorso. Decido quindi di bussare come al solito alla porta del parroco.

Trovo la chiesa aperta, ma una gentilissima donna delle pulizie, Maddalena, mi avvisa che il sacerdote è fuori paese. Nel frattempo entra con passo sportivo una signora, lasciando fuori dalla porta il passeggino che spingeva. Va a ringraziare davanti all’altare, in piedi e a braccia aperte, cantando qualcosa a voce bassa. È bello vederla, ma intanto vado con discrezione a dare un’occhiata al passeggino, che così abbandonato per strada mi preoccupa un po’, ma per fortuna lo trovo pieno solo di una borsa della spesa.
Quando la donna esce non la fermo. Forse però sbaglio, perché l’intuito mi diceva di farlo, per chiedere anche a lei per un alloggio. Comunque ormai è andata.
Cammino ancora un po’ per il centro, ma è come se in questo paese non percepisca un clima ideale per me. Provo comunque a chiedere ad altre persone: prima una coppia di impiegati comunali che aveva appena staccato, poi un uomo distinto seduto su un panchina poco distante. Seppur cortesemente, tutti mostrano di non avere intenzione di aiutarmi.

Mi nasce in testa la convinzione che il paese successivo, San Raffaele Cimena, farà al caso mio. Ho ancora energia nelle gambe, e mi butto. Esco da Chivasso attraversando per la prima volta il Po e sbucando in scenari collinari molto simili a quelli del mio paese d’origine. Il cielo ha qualcosa di strano: la luce del sole è fortissima, ma non si ha quella percezione di biancore diffuso. Tutto è limpido, nitido, e il blu del cielo è particolarmente intenso, occupato qua e là da nuvole che sembrano sculture di marmo. Non so, è come quando si passa ad un televisore 4K, qualcosa del genere. L’arsura si somma alla fatica per i tanti chilometri percorsi, ma il fisico regge comunque bene, probabilmente sostenuto dalla bellezza attorno.

Attraverso un’area lungo il fiume dove tutto, ma proprio tutto, è ricoperto da una sorta di edera infestante. Infinite foglie brillanti rivestono ogni centimetro quadrato di superficie, come un mosaico: una cosa mai vista.

Avvicinandomi poi a San Raffaele, vicino a dei frutteti, incrocio un uomo in bicicletta che traina un carretto con sopra due bambini. Hanno tutti e tre un’espressione molto simpatica e sembra si stiano divertendo un mondo. Mi presento e provo a chiedere se in paese potrebbero esserci luoghi dove io possa piantar la tenda senza infastidire nessuno.
Il signore alla guida si chiama Savino, ed è il nonno dei due bambini. Mi dice che di fronte a casa sua ci sarebbe posto. Poi, pensandoci un altro po’, cambia idea e mi propone di stare da lui per questa notte, convinto che anche la moglie sarà d’accordo. Wow! Ancora una volta resto stupefatto e ringrazio con tutto il cuore.
Mi indica dove si trova la casa e ci diamo appuntamento, perché prima deve finire il tour coi simpaticissimi nipoti. Più che giusto!

E così, eccomi a camminare più felice che mai, rinvigorito dalla splendida novità. Arrivato al paese, noto subito che ha un aspetto davvero molto arioso e curato, trasmettendo la sensazione di una buona vivibilità. Chiedo a un passante dove potrei trovare dell’acqua. Con mio gran piacere, anche lui mi risponde con un bel sorriso e viva gentilezza, indirizzandomi al parco vicino. Una volta là, domando a dei bambini dove si trovi la fontana. Anche loro mi indirizzano con una cortesia quasi appassionata. Forse sono solo stato molto fortunato, ma l’impressione è che questo paese sia un’insolita oasi di buone maniere e generosità.

Mi dirigo poi alla chiesa per farmi timbrare la credenziale. Al suo interno, ho il piacere di trovare appesa l’immagine di Chiara Luce Badano, di cui conosco la biografia. È la prima volta che ne vedo il ritratto affisso in un luogo sacro. Oltre a me non sembra esserci nessuno, ma in bacheca c’è l’indirizzo e il numero del sacerdote. Abita lì dietro; suono, ma nessuno risponde.
A fianco della chiesa scopro esserci il Comune. Provo lì, ma un cartello indica che si può entrare solo su prenotazione, per via del Covid. Provo allora a chiamare per telefono il parroco. Si dimostra molto affabile, ma purtroppo è in vacanza e non può aiutarmi. Proprio in quel momento una bambina esce dal Comune. Le chiedo se possa entrare anch’io, spiegandole il motivo. Mi risponde che la sua mamma lavora lì e può domandarglielo; così entra e, un minuto dopo, torna con un via libera. Perfetto! Dentro trovo alcune impiegate che confermano a loro volta la diffusa cortesia del paese. Ascoltano entusiaste le cronache delle mie prime due settimane di viaggio e mi offrono anche un tè. Ricevuto poi un bel timbro sulla mia credenziale, ci salutiamo in allegria.

Poco dopo, sono fuori da casa di Savino. Angela, la simpatica moglie, si presenta subito. Riescono subito a mettermi a mio agio, facendomi capire chiaramente che per loro non sono assolutamente un disturbo; sentirsi accolti in questo modo è stupefacente. I due nipotini sono incuriositi dal fatto che tutte le cose che mi servono stiano dentro a uno zaino, ed esprimono il desiderio di vedere la tenda montata. Così, prima che arrivi a prenderli la mamma, decidiamo coi nonni di piantarla in giardino. Mi diverte collezionare un’esperienza di campeggio anche in un cortile privato.
L’unica nota dolente di questa giornata è lo scoprire che mi si è letteralmente aperto uno scarponcino, scollandosi proprio sulla punta per almeno quattro o cinque centimetri. Mi consolo pensando che domani arriverò in una grandissima città come Torino, dove certamente troverò un gran numero di negozi che faranno al caso mio. Fossi stato in mezzo alla campagna, avrei dovuto di certo prendere dei mezzi e scombussolare tutti i miei programmi.

Una volta arrivata la mamma, salutiamo i piccoli e io posso approfittare di una doccia rigenerante. Passiamo il resto del tempo in cucina, dove ceniamo e ci raccontiamo le nostre vite. Come sempre sembra accadere, ne nasce una condivisione intima e preziosa, dove non mancano tanti momenti divertenti.
Arriva infine l’ora di andare a dormire, ed è quasi buffo salutarli alla porta e sistemarmi in cortile. Grazie al cielo mi sono ricordato di chiedergli le chiavi in prestito, nel caso dovessi andare in bagno.

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30/08 Ronsecco – Lamporo (VC)

(Hospitale don Francesco Ottavis)
22km

Parto senza troppa fretta, vista la nottata turbolenta e i pochi chilometri previsti per oggi. Riconsegno le chiavi al bar. Fabio sceglie di offrirmi la colazione e quando ci salutiamo si commuove un po’. La generosità e l’umanità di questa famiglia è incredibile!

Durante la prima ora abbondante, attraverso i campi in mezzo a una fitta nebbia. A molti forse sembrerebbe tetra, ma a me dà un senso di poesia ed eleganza straordinari. È lo stesso paesaggio che ho amato i giorni prima, ma ora sembra essersi mascherato; eppure sa sedurmi anche così: ingrigito e appannato.

Incontro grandi stormi di cicogne: prima ferme in un certo luogo, le vedo poi sollevarsi in volo tutte assieme e riprendere posizione altrove, o infine volarsene via. Bellissimo.
Altri protagonisti di questi scenari sospesi sono degli imponenti tralicci elettrici. I cavi che li collegano tracciano onde flessuose che si perdono all’orizzonte. Inaspettatamente le loro sagome non stonano nella scenografia lattiginosa di stamattina.

A un tratto, noto in lontananza un edificio molto grande, sviluppato in orizzontale: è la tenuta Darola. Alcuni dettagli mi fanno intuire che non sia una costruzione qualsiasi; ha un’architettura troppo elegante, sembra una reggia rurale.
Lungo le facciate ha tante finestre – cieche e non – disposte in file ordinate; il portale è sobrio e imponente. Aggirandola lentamente, capisco che si sviluppa su una pianta rettangolare molto estesa. All’interno mi pare di scorgere una torre e un campanile. Mi fanno pensare che forse era progettata come una cittadella autonoma, e magari dentro ci vivesse una piccola comunità o una famiglia nobiliare.
Ne rimango talmente affascinato che perdo una svolta, ma quando me ne accorgo decido di non tornare sui miei passi. Riuscirò facilmente a ricollegarmi più tardi, e non mi dispiace camminare un po’ di più del previsto oggi.
Nel frattempo la nebbia si è diradata, ma le nuvole sono livide e cariche.

Lungo il rettilineo asfaltato, incontro l’ennesimo cimitero in mezzo a campi spogli. Dev’essere di vecchissima data e in disuso da decenni. È piccolo, ma stranamente all’interno è pieno di alte piante. L’edera è ovunque e sembra se lo stia mangiando lentamente. Incuriosito, provo a intrufolarmi; sulle pareti c’è qualche scritta cretina e alcuni slogan satanisti. In mezzo a rovi, immondizia e resti di qualche pernottamento, inizio a provare un po’ di disagio: un mix di vecchie paure infantili, sensazioni inquietanti da fatti di cronaca nera e suspence spiccia, come nei film horror di pessima qualità. Esco sforzandomi di mantenere un certo contegno, come se qualcuno potesse vedermi, e una volta fuori tiro un sospiro di sollievo. Non pensavo di soffrire ancora di timori simili.

Incontro poi un’altra tenuta grande e affascinante, ma molto diversa dalla prima. Il muro di cinta è basso e permette più chiaramente di vedere all’interno. Qui ci sono addirittura due chiese e da protagonisti la fanno i mattoni a vista. Sul portale leggo: “Principato di Lucedio”. Senza grosse traccia di modernità, se non l’asfalto e i tralicci, sembra davvero di aver viaggiato un po’ nel tempo.

Pochi secondi e cominciano a cadere le prime gocce. È ora di sfoderare la mantella! Di fretta e furia spoglio lo zaino dove l’ho lasciata e provo a farmi trovare pronto in tempo, ma non tutto va nel modo migliore. Mi impiglio qua e là, sbaglio verso, qualcos’altro mi cade. La pioggia inizia già a infradiciarmi, ma nonostante tutto non mi agito troppo, e addirittura comincio a riderne tra me e me.
Un bell’acquazzone ancora mi mancava: sarà un altro tassello al grande puzzle che ho iniziato a comporre partendo per questo folle viaggio a piedi. Camminare col mio zaino in spalla mentre piove mi dà un senso di libertà grandissimo. Inaspettatamente, sono contento come un bambino.
La scrollata d’acqua non dura moltissimo ma lascia un sipario di nuvole scure su cui si disegna un fantastico arcobaleno, in equilibrio sul solito tappeto giallo delle risaie.

Le pedule con cui sono partito hanno un paio d’anni e sono in goretex, ma a quanto pare qualcosa non va, perché ho già i calzini zuppi. Ho potuto verificare anche la completa inutilità di uno dei miei acquisti pre-partenza: un paio di piccole ghette che avrebbero dovuto evitare il passaggio dell’acqua nei calzini. Scomodissime a mettersi e incapaci di restare in posizione per più di duecento metri, mi è bastato questo primo utilizzo per bocciarle del tutto.

La strada ora sale leggermente, tagliando a metà un bosco, oltre il quale trovo l’ennesimo piccolo cimitero. Da lì parte un sentiero per una certa chiesa, di cui da lontano avevo visto il tetto spuntare tra gli alberi. Lo seguo e la raggiungo. Immersa nella vegetazione, è diroccata e particolarmente tetra. Mi riparo sotto il portico mentre scende un altro scroscio.
Aspettando che smetta, mi scopro a pensare che viaggiare da solo per ore ogni giorno mi sta piacendo davvero all’inverosimile.

Finita la pioggia, torno sulla strada; il cielo si è aperto moltissimo. Scendo dalla collinetta e prendo una lunga svolta a destra. Mi aspetta una grandissima sorpresa: per la prima volta durante questo cammino vedo davanti a me le Alpi. Sono lontane, ma non è solo uno sfondo splendido. Io quelle montagne le dovrò raggiungere – a piedi! – e poi superarle, per andare molto più in là. Sono una schiera imponente e nobile, che in quel momento mi pare si sia presentata solo per me, per vedere che faccia ho, per spaventarmi un po’ e…per chiamarmi, eccome! Una voce muta, sottile, la loro, ma capace di far vibrare qualcosa nel petto, come le basse frequenze a certi concerti. Roba da far cadere le difese. Provo forse l’emozione più prorompente da quando sono partito. Mi ritrovo a piangere e ridere insieme: niente di nuovo, niente di meglio. Ci sono poche cose nella vita belle come questi momenti, in cui la massima felicità nasce dalla massima commozione.
Davanti a me ancora parecchi chilometri senza ostacoli alla vista. Potrò camminare verso quelle vette continuando a guardarle e a farmi guardare da loro. Ci parlerò, ma d’altronde sto iniziando a parlare con tutto. Sto benissimo.

Dopo un’ora e mezza arrivo a una rotonda con un monumento davvero originale: un uomo distinto, ritto in piedi, indica a un bambino davanti a sé un punto all’orizzonte. Mi avvicino per leggere la targa: la scultura è dedicata all’imprenditore agricolo, al suo impegno a favore di questa terra e alla trasmissione di valori, traguardi e tradizioni alle nuove generazioni. Un bel messaggio, non c’è che dire; non me lo sarei mai aspettato. La statua, però, mi strappa anche una risata perché a me dà l’impressione che l’uomo stia mandando in castigo il bambino, piuttosto che quello che ho letto.

Poco dopo attraverso il curioso borgo di Castell’Apertole. Tramite alcuni cartelli e un po’ di sana osservazione, capisco che ha anch’esso una storia lunga e interessante e che ora contiene al suo interno luoghi di ricezione turistica e non solo. Scambio due parole in allegria con un abitante, che mi confessa voler intraprendere anche lui un pellegrinaggio verso Santiago. Glielo auguro, sperando di riuscire a mia volta ad arrivarci.
Un centinaio di metri più in là, scorgo quello che in passato era il minuscolo cimitero di quel borgo. Stranamente lontano dalla strada, immerso tra i campi, ora è evidentemente abbandonato. Ha un fascino che ricorda il caro De Chirico. In poche ore stamattina ho già visto un sacco di luoghi originali, affascinanti e misteriosi allo stesso tempo.

È ora di pranzo. C’è un ristorante, ma è ancora chiuso; entro comunque. Avranno di certo qualcosa di pronto, penso; tanto a me non interessa consumare al tavolo, e nemmeno mangiare chissà che. Inaspettatamente, la mia presenza sembra uno scandalo e mi negano qualsiasi cosa; solo la cameriera che sta pulendo il cortile solidarizza un po’ e mi indica un altro posto poco più avanti, a Colombara, più alla mano e, soprattutto, aperto.
Le indicazioni sono tutte corrette; là ordino un piatto tipico della zona, povero ma non troppo: riso con fagioli e salame. Si chiama panissa. Mentre aspetto che me lo preparino, faccio un aperitivo con un buon rosso della casa e qualche stuzzicheria, su un tavolo all’aperto baciato dal sole.
Una volta ritirato il piatto d’asporto, vado a gustarmelo su una fresca panchina di roccia, all’ombra di un albero nel praticello di una chiesetta cinquanta metri più avanti. Alle mie spalle scorre un piccolo canale che rende tutto ancora più rilassante. Impagabile! …e per di più il piatto è squisito.
Ovviamente approfitto anche per un buon pisolino e poi, nonostante l’ora sia la meno adatta, torno a incamminarmi tra le risaie, col sole che picchia in testa come un martello.

Scopro anche un’abitudine del posto molto apprezzabile: scrivere frasi dedicate ai pellegrini su delle grandi pietre lungo il percorso. Riflettendoci, l’effetto è un po’ quello della Bacheca di Facebook, però all’antica.

Dopo meno di due ore sono a Lamporo, un piccolo paesino sviluppato per lungo sulle due rive di un piccolo canale. Al centro, l’unico grande incrocio, con la piazza e la chiesa. Dietro questa c’è l’ostello dove dormirò, di recente apertura. Lì, ad accogliermi trovo Giancarlo, altro hospitalero volontario. Ahimè, dopo pochi minuti, come già Pietro a Vercelli, anche lui mi riversa tutte le sue titubanze e le sue preoccupazioni per il lungo cammino che ho scelto di fare, facendosi anch’egli insistente in modo un po’ eccessivo. Per me è una giornata molto speciale e non me la sento di lasciarmi scaricare addosso ansie, pur ragionevoli, ma fondamentalmente inutili. La decisione è presa e i passi si interromperanno solo giunto alla meta o se verrò bloccato da eventi davvero irrisolvibili, punto. Ora tutto va bene, ed è tempo di godere di questa fortuna, non di torturarsi col peggio che potrebbe essere. Comunico quindi a Giancarlo che preferisco si interrompa, dopodichè vado a sistemarmi.

Durante le ore successive non resta traccia dell’impatto un po’ elettrico che abbiamo avuto, e finiamo col chiacchierare beatamente di tanti altri temi, tra cui alcuni aspetti riguardanti la sua tarda vocazione pellegrina. Mi racconta che ha lavorato tutta la vita come bancario, e solo dopo la pensione si è trasformato in un grande camminatore. I familiari hanno faticato a capire il valore che lui trova in questo genere di esperienze, e sembra che ancor oggi si domandino se sia impazzito.
È divertente ascoltarlo mentre ne parla, perché non sembra dispiacersi per questi fatti; camminare è diventata una cosa talmente bella e importante per lui, che nulla sembra poterlo scalfire.

Nel tardo pomeriggio scegliamo insieme cosa mangiare per cena; siamo solo io e lui.
Come Pietro a Vercelli, anche in questo caso è lui a occuparsi di cucinare. Prima o poi, mi piacerebbe vivere a mia volta questo genere di esperienza. Sembra si debba fare solo un brevissimo corso.
Festeggiamo sobriamente le mie prime due settimane di cammino. Tutto va per il meglio e la giornata finisce in piena serenità.

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29/08 Vercelli – Ronsecco (VC)

(spogliatoi campo sportivo)
19km


In ostello anche la colazione è condivisa. Siamo tutti un po’ rintronati dalla sera prima, ma diventa comunque un altro momento cordiale che apprezzo particolarmente.
Guardiamo insieme le previsioni. Sembra che inizierà a piovere fra non molto.
Rimango stupito di essere l’unico a voler approfittare di questa parentesi senza pioggia per partire. Vedo gli altri prenderla con comodo, andare a prepararsi o mettersi a leggere, così finisce che me ne vado senza riuscire nemmeno a salutare diversi di loro.

Attraverso la piazza principale ringraziando il buon Cavour che, sul suo piedistallo, sembra indicarmi la via.
Uscito dalla città e in piena campagna, in corrispondenza di una svolta in mezzo ai campi, mi imbatto nel primo adesivo con l’indicazione esplicita per Santiago. È un’emozione mica da poco! Un semplice quadrato bianco con una freccia gialla nel mezzo, attaccato alla bell’e meglio su un palo della corrente qualsiasi. Pura poesia!

Un altro segno, in realtà, mi accompagna da quando cammino sulla Francigena: un simpatico pellegrino stilizzato, con bordone, bisaccia e mantello. Anche questo lo trovo sotto forma di adesivo, oppure su cartelli in metallo, o altre volte dipinto qua e là. Camminare come me in senso contrario significa avere alcune difficoltà nel trovarlo, ma godere della compagnia di questi segni resta impagabile.
È una cosa che ho scoperto sulla via per Matera. Laggiù se ne alternano diversi, ma poco importa: quando sei solo, a camminare in terre mai viste prima, la compagnia di quelle tracce è testimonianza di una premura concreta nei tuoi confronti. Anche un piccolo simbolo su un guardrail può essere capace di iniettare calore in un momento di smarrimento; ci rassicura, siamo sulla strada giusta, invita a fidarsi e non tradisce mai.

Il cielo è uggioso, ma le risaie m’incantano sempre di più, e in fondo è bello anche conoscerle con condizioni atmosferiche differenti; le combinazioni cromatiche cambiano, e anche le emozioni che si provano sono diverse. Sotto un pesante soffitto di nuvole, il giallo perde di luminosità, mentre il verde sembra sempre cavarsela in qualche strano modo.


È memorabile il passaggio presso il piccolo borgo di Lignana, dove vengo attratto da un gruppo di uomini fuori dal bar del paese, tra i quali mi accorgo esserci un viandante come me. Mi accorgo subito che ha una luce molto particolare negli occhi e un’allegria contagiosa. Si chiama Luca, ha almeno dieci anni più di me, è originario di Trieste ma partito dalla Francia. Lui sì che è un vero pellegrino: senza tenda (“per non diventare un orso da campeggio”, spiega), con cellulare ma senza scheda, in pieno e allegro affidamento. Ricerca riparo sempre nelle parrocchie. Mi racconta di aver imparato a non demordere anche quando sono chiuse, perché non di rado si trova una porta lasciata aperta, per sbaglio o per provvidenza. La notte passata, però, ha dovuto accontentarsi del portico della chiesa di fronte, perché il sagrestano gli ha rifiutato l’ospitalità, eppure lo dice con tanta allegria da essere contagioso.
Nella veranda del bar tiene banco, mentre si rolla una sigaretta di Pueblo. Dice che è al quarto caffè offertogli, e un po’ si nota. Indossa un cappello Panama e un abbigliamento per nulla tecnico o traspirante. Non che io stia viaggiando con capi particolarmente sofisticati, ma penso banalmente a quanto tempo debbano impiegare i suoi per asciugarsi dopo averli lavati. In ogni caso, è molto bello vedere un pellegrino vestito in quel modo; mi ricorda mio nonno quando andava in montagna.

Gli uomini attorno si dimostrano incredibilmente aperti nel confrontarsi con gli originali racconti di viaggio, e creano un clima di accoglienza palpabile. Mi fermo anch’io per un cappuccino e, presentandomi, rubo un po’ la scena a Luca. Lui non sembra dispiaciuto, però. Anzi, ne approfitta andando a mettersi in coda per il Comune o la posta, lì di fronte. I miei racconti fanno commuovere uno degli uomini, cosa che mi colpisce incredibilmente.
Arriva presto l’ora di ripartire. Il barista, mio omonimo, decide di offrirmi la brioche, e pure un nocino. Grande!
Prima di incamminarmi, raggiungo Luca per salutarlo, e gli confesso grande ammirazione per il suo approccio al pellegrinaggio. Lui, contentissimo per quelle mie parole, mi regala un rosario ed un santino con un angelo custode, quasi eccitato per la fede che lo anima.


Attraverso ancora una volta risaie molto belle. Di nuovo, pochissimi elementi in gioco e massima resa emotiva. Il cielo ha cominciato ad aprirsi. È piovuta solo qualche goccia oggi; le previsioni hanno sbagliato.


Arrivo a Ronsecco: paesino che trovo deserto, ma mi strappa un sorriso lo slogan che campeggia su un gigantesco poster: “Un paese da vivere!”. Non ho percorso molti chilometri, ma vorrei fermarmi qui, oggi. Il motivo può sembrare assurdo: la prima sillaba del nome di questo posto è la stessa del mio nome. Non ha molto senso scegliere sulla base di una banale assonanza, eppure è qualcosa che sembra davvero “chiamarmi” a restare.

Il Comune ha appena chiuso, mentre trovo la chiesa aperta. È dedicata a San Lorenzo, come quella di Bergamo dove tutto è iniziato. Non sono un cultore della devozione ai santi, ma non posso negare che una parte di me è rimasta legata all’immagine tradizionale del coro di eletti appollaiati tra le nuvole, che cala la propria protezione su chi ancora si barcamena in questo mondo. Con questo approccio più ludico che devoto, mi affido al santo finito sulla graticola, sperando che mi aiuti a trovare riparo per stanotte.

Entro nella parrocchia e piego a terra un ginocchio, poi l’altro; questo lo faccio ogni volta che trovo una chiesa aperta. È un gesto che ripeto senza scetticismo, e per me è cosa rara. Forse è così perché ci trovo un valore universale: in qualsiasi forma Dio esista, sento dentro me la convinzione che ci sia, che un principio unico e amorevole abbia originato e regga l’esistente e il suo infinito mistero. Inginocchiarmi è farne memoria, ammettermi piccola parte privilegiata, coinvolgere il corpo nell’esprimere gratitudine, pregare che la salute non mi abbandoni.

Dopo un attimo, inizia a suonare da poco lontano della musica latina a massimo volume. Sorrido stupito ed esco.
Viene dal cortile del baretto di fronte, ma ancora non vedo nessuno. Entro. Qualcuno c’è, invece, e sono subito ben accolto. In pochi minuti scopro che è gestito da una famiglia molto ampia. I veri responsabili sono Fabio e sua moglie, una coppia più giovane di me. Hanno un figlio e una figlia, e tutti gli altri componenti li aiutano.
Ovviamente pranzo lì, con delle ottime lasagne e del pollo a un prezzo onestissimo. Spiego chi sono e cosa sto facendo. Anche Fabio mi parla di sé, e anche con lui nasce un momento di condivisione toccante. Il culmine è quando mi confessa quanto ami sua moglie, che lo ha saputo “raccogliere da terra”, mi dice, e gli si bagnano gli occhi mentre lo racconta.
Mi spiega che il bar è un circolo Arci; lo hanno preso in gestione poco prima del lockdown. A causa delle chiusure forzate hanno rischiato che tutto andasse in fumo fin da subito, ma dice che la gente del paese si è dimostrata incredibilmente solidale, e con il loro aiuto stanno riuscendo a rialzarsi.
A riprova che fare del bene è contagioso, chiama direttamente il sindaco per chiedere se può aiutarmi per stanotte. Questi si conferma davvero gentile, e fa venire una persona a darmi le chiavi di uno spogliatoio del campetto dietro la chiesa. Grandioso!


Terminato il pranzo, chiedo se loro abbiano un timbro per la mia credenziale. Mi dicono di no, ma il padre di Fabio se ne inventa uno incredibilmente creativo. Con un pennarello colora la piccola tau che porta al collo e la preme sulla carta. Fa poi lo stesso con un tappo di plastica, per disegnare la corona esterna. Chapeau!
Li saluto e prometto tornerò anche per cena.

Passo tutto il pomeriggio a pulire e sistemare lo spogliatoio. Potrei viverla in maniera più spartana, ma sono fatto così, e oltretutto mi piace l’idea di lasciarlo più pulito di come l’ho trovato. È un minimo segno di gratitudine che forse qualcuno noterà, ma poco importa.
Dopo la doccia, spendo un po’ di tempo parlando con una delle cognate di Fabio, che ha portato il nipote a giocare lì di fianco.
Una volta andati loro, arrivano tre altri ragazzini. Sembrano molto incuriositi della mia presenza. Li saluto divertito e attacco bottone, approfittando di una rete di recinzione tra noi che mi fa sembrare forse meno minaccioso. Mi fanno domande sulla mia esperienza e rispondo con gioia. È la prima volta che mi capita di parlare del mio pellegrinaggio con dei bambini.

La sera torno al bar, come promesso. Fabio e la moglie sono fuori per un catering. Il papà e la mamma mi trattano benissimo, cucinando solo per me almeno tre etti di carbonara e della torta salata da portar via. Parlo molto con entrambi, e mi colpiscono per la loro umanità. Lui in particolare, così come ha fatto il figlio, mi racconta di vicende molto intime, eventi durissimi, che sarebbero veri e propri cataclismi per chiunque. Nonostante ciò, mi impressiona constatare quanto ancora riesca a trasmettere amorevolezza; penso che molti al suo posto si sarebbero induriti gravemente. Quando il discorso si sposta su temi più sociali, fa alcune affermazioni molto severe su cui non sono d’accordo, ma mi sento perfettamente a mio agio perché il suo sguardo, la sua espressività e le premure che ha per me e per i familiari continuano a parlarmi di un uomo dal cuore davvero buono. Forse anche questo è il caso, come spesso capita, che alcune ostinate asprezze si formano su grandi ferite. Non posso saperlo, ma è quello che sento. Quando arriva l’ora di andarmene, sceglie di farmi pagare una cifra minima, mandandomi a letto pieno e felice.

La notte succede qualcosa di brutto: alle tre dei giovanissimi ragazzi si ritrovano nel piazzale del campetto, a quindici metri da dove stavo dormendo. Uno urla come un pazzo, ce l’ha col mondo.  L’aggressività con cui sbraita fa gelare il sangue nelle vene. L’impressione è quella di una scena già vista qualche volta, da adolescente, quando alzavamo troppo il gomito e non sapevamo che farne di tutta l’inquietudine che portavamo dentro. La cosa, però, si prolunga moltissimo e la tensione in certi momenti è insopportabile, nonostante tutti tentino di calmarlo. Alla fine ci riescono e se ne vanno. Confesso di aver avuto un po’ paura nei momenti più accesi, ma soprattutto mi è rimasto addosso un profondo dispiacere per lui.

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L’antipasto pugliese



Era l’autunno del 2018. No, non partii per un cammino allora. In estate ero rimasto sommerso dal crollo di un progetto che probabilmente non era adatto a me, o a quello che ero in quel momento della mia vita. Ottobre fu un mese di palpabile depressione, ma ebbi modo di scoprirmi dentro un’inattesa riserva di speranza.

Piano piano mi rialzai, e tra i pilastri che cominciai a piantare c’era anche il desiderio di sperimentare il viaggio come strumento di esplorazione esteriore e allo stesso tempo di crescita. Fin da ragazzo sognavo una grande partenza, ma scelsi spesso il “piano B”, o in altre occasioni tornai sui miei passi senza essere andato davvero oltre.

Mi regalò grande consapevolezza un corso online con una nota travel blogger italiana. Gli esercizi iniziali spingevano a scrivere molto di sè. Si era guidati alla scoperta delle connessioni tra la dimensione interiore e l’avventura del partire. Quelli successivi, invece, aiutavano a concretizzare il progetto. Accettai il consiglio di un approccio graduale.
Iniziai proprio con la semplicità del camminare: gite davvero minuscole, ma furono sufficienti a nutrire la mia naturale attitudine alla meraviglia e all’immersione nell’altrove. Da tempo sapevo che erano gemme preziose incastonate in me: capivo che era la strada giusta.

La luce in fondo al tunnel dei mesi precedente andava via via aumentando. Godetti di una splendida esperienza a Copenaghen con una ragazza speciale, poi arrivò la mia prima vera vacanza in solitaria zaino in spalla, alla veneranda età di 35 anni. Fu qualcosa di minimo per quest’epoca di globetrotter: passai meno di una settimana tra i grandi centri urbani dei Paesi Baschi spagnoli. Fu bellissimo. Assaggiai un gran senso di libertà e la sicurezza in me stesso, sorprendentemente, sembrò davvero irrobustirsi.

La cosa più curiosa, però, fu un sentimento spontaneo che mi salì dalla pancia prima ancora di tornare: non era quello il genere di viaggio di cui avevo bisogno. Avevo imparato ormai benissimo a destreggiarmi tra le mille offerte turistiche e culturali d’ogni genere che sovrabbondano nelle città più blasonate, ma qualcosa non mi faceva stare del tutto bene. Provavo disagio, in certi casi malinconia, qualcosa che già conoscevo benissimo.
Ero chiamato ad altro. Non volevo più essere solo “consumatore” di qualche bazar urbano, per quanto ricco e seducente. Era arrivato il momento di sperimentare una nuova forma di viaggio. Quello che desideravo, senza giri di parole, era già il Cammino.

Santiago era un’evocazione a quei tempi, qualcosa di misterioso e simbolicamente mastodontico al tempo stesso. Sentivo che non era ancora il momento, ma era ora di darsi da fare e mettere le fondamenta per quella partenza.

Un passo allo volta: mai motto fu più azzeccato. Le ferie a disposizione erano poche, ma volevo sfruttarle al meglio. Sarebbero state a fine novembre. Cosa potevo fare in sette giorni in autunno inoltrato? Di certo un cammino breve, e preferibilmente al sud, dove il clima sarebbe stato più mite. Bastò una rapida ricerca per capire che la Via Peuceta sarebbe stata la soluzione perfetta per cimentarmi in questo primo tuffo nel mondo del viaggio a piedi. Da Bari a Matera: meno di duecento chilometri, sette tappe. Perfetto!

Inaspettatamente, alcune circostanze compromisero il progetto autunnale, ma non mollai il colpo. Il prossimo turno di ferie era a fine febbraio. Niente era perduto. Anzi, avrei avuto il tempo di perfezionare alcuni aspetti organizzativi, e soprattutto di prepararmi ancora meglio.
Sui colli della mia Bergamo percorsi duecento chilometri con in spalla uno zaino pieno di bottiglie d’acqua. Ebbi modo di innamorarmi di quei luoghi che per una vita avevo avuto a disposizione, ma che non mi ero mai dedicato ad esplorare a fondo. Diventarono profondamente miei, e così ottenni già molto più di quanto potevo sperare: oltre alla preparazione fisica, alla conoscenza ogni giorno più profonda del mio corpo, stavo già viaggiando.

A pochissimi giorni dalla partenza, un solo dettaglio cominciava a fare capolino, un eco totalmente inatteso: quel virus, che dall’altra parte del mondo aveva già fatto scattare un allarme dirompente, era arrivato dritto dritto anche da noi, proprio a qualche decina di chilometri da casa.

Partii il 24 febbraio, farcito di sentimenti contrapposti. Fu un’esperienza splendida, una gioia infinita i cui limiti furono solo quelli del legittimo timore che la mia presenza produceva a chiunque. Ero pure fuoristagione per quel genere di impresa, e non potevo confondermi in nessun gruppo di viandanti. Ovunque passassi, tutti potevano intuire cosa stessi facendo, ma soprattutto capire che ero un forestiero. Mi sembrava di vivere in un’altra epoca. Non subii mai discriminazione, nessuno mi attaccò in nessun modo, ma inevitabilmente ognuno provava poca o tanta titubanza, soprattutto quando capiva da dove provenissi – io che vivevo e lavoravo proprio in quei paesi della Valle Seriana in cui il virus, giorno dopo giorno, aveva iniziato a scatenare tutta la sua ferocia e paure mai provate prima.

Con dovuta prudenza, evitai una miriade di occasioni di contatto. In molti casi celai la mia provenienza o mentii, per lo più a chi incontravo solo per pochi istanti. Chi mi ospitava, invece, era tenuto a raccogliere i miei dati e segnalarli all’azienda sanitaria locale: ero tracciato, ed era giusto così. Rappresentava la soglia minima precauzionale per quel momento, ma era percepibile che non sarebbe servita a nulla da sola.
Rischiai anche di non concludere il mio cammino perché la Basilicata aveva dichiarato che chiunque – proveniente da Nord Italia – avesse varcato i confini regionali avrebbe poi dovuto essere sottoposto a quarantena, cosa che non mi sarei potuto permettere.

Sapevo di essere un privilegiato, ma non solo: dentro covavo il terrore di essere un vero e proprio untore. La consapevolezza di quello che stava succedendo era ancora blanda rispetto a quello che poi successe davvero, ma tutto era già in nuce.
Fu una scommessa imprudente e apertamente condannabile, ma per fortuna tutto andò straordinariamente. Non ero infetto e nessuno pagò il mio azzardo. La mia prima esperienza di cammino mi regalò tutto quello che sognavo, e molto di più. Quelle ore sotto un sole splendidamente caldo, in mezzo a lande sconfinate di uliveti o tra campi di grano immensi, furono tra le più dolci della mia vita. Era pura armonia.
Arrivato a fine tappa, riducevo ai minimi termini la mia vicinanza con le altre persone, ma ebbi modo comunque di misurare un calore umano e un’ospitalità disarmanti.

Gioii infinte volte, ma assaggiai anche l’amarezza di diversi episodi controversi, che non sto qui a descrivere. Dentro me, però, tutto trovava il proprio posto, mi appariva perfetto. Forse non subito, ma bastava qualche chilometro per metabolizzare qualche delusione e capire che era anch’essa un tassello fondamentale di quell’esperienza che non mi evitava nulla, ed era esattamente quello che cercavo. Non più solo le comodità e i vezzi delle mie vacanze precedenti, quello era già un piccolo assaggio di un viaggiare come avevo bisogno io, fatto anche di fatica e difficoltà, a braccetto però con libertà e meraviglia.

Il Cammino Materano fu tutto questo e molto di più. Ogni cosa si dimostrò un assaggio di qualcosa che avrei vissuto in maniera ancora più ampia nei mesi successivi.
Non mi era ancora mai passata per la testa l’idea di partire da casa per raggiungere la Galizia, ma già prima di arrivare a Matera avevo deciso: se si fosse riusciti a contenere questa minacciosa epidemia, avrei lasciato tutto e sarei volato a Saint-Jean-Pied-de-Port, e da lì avrei finalmente dato il via al mio cammino verso Santiago.

Le cose andarono diversamente. Rientrato a Bergamo, il mondo era già cambiato: la mia terra era invasa di paura e morte, e il sogno di partire finì seduta stante nel cassetto, senza dispiacere né rimpianto. Lavoravo in casa di riposo e c’era ben altro da fare.
Solo oltre i Pirenei sette mesi dopo, parlando con gente da tutta Europa, scoprii che nessuno aveva davvero capito – o creduto – cosa avevamo vissuto in quelle prime settimane. Ne ho dato testimonianza a più persone possibili e sono stato ascoltato con stupore e sconcerto.

Inaspettatamente, già scrivendo questo primo articolo mi trovo a pensare che forse non fu poi così sana la mia imprudenza, fin da quel febbraio pugliese. Sappiate perdonarmi se ve ne sentirete offesi. Possa consolare qualcuno il fatto che il sogno che ho seguito, allora così come sulla via dell’apostolo, non fu un capriccio qualunque. Ha rinnovato parti della mia anima che sembravano già frantumate, e oggi sono un uomo migliore.
Spero che questi scritti riescano a restituire almeno una parte della benedizione di quei passi.

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28/08 Albonese – Vercelli

(Ospitale Sancti Eusebi)
30km

Ho dormito senza svegliarmi mai, cosa molto rara. Adriana, invece, deve aver passato una nottataccia, ma è invasa d’amore per i suoi cani sofferenti e accetta queste prove dando tutta sé stessa.

Fatta colazione e raccolta la mia roba, ci salutiamo sulla soglia, consapevoli e felici che il nostro sia stato un incontro pieno di intensa umanità. Io ancora una volta ho vestito i panni di colui che ha ricevuto, ma sto capendo sempre meglio che è fondamentale per imparare poi a restituire, quando la vita invertirà i ruoli.
Una volta in strada, con il ginocchio fasciato dal tutore e senza traccia del solito fastidio, avanzo con gli occhi lucidi. Può sembrare esagerato, ma è vera gioia, è gratitudine. Sento che la vita mi sta sostenendo.

Strisce bianche, disegnate da poco sull’asfalto nuovo, indicano la via con tutta la loro nitidezza. A entrambi i lati della strada, folte sponde erbose camuffano i canali di irrigazione. Oltre quelle soglie, si stendono gli immensi tappeti gialli delle risaie, con solo qualche albero a far da sentinella lungo i loro bordi.
Prima carta da zucchero, il cielo si lascia dipingere dall’aurora con pennellate sempre più calde, fino all’arrivo di un sole microscopico. Poco importa sia piccolo o grande, basta quel punto appena svegliatosi per acquerellare tutto il visibile, prima con un velo magenta e poi arancione.
Avanzo sul bordo della strada, continuando a fermarmi e girarmi verso quello spettacolo, per poi riprendere la rotta e ricadere poco dopo nella tentazione di un ultimo sguardo. Per quanto sembri assurdo, rimango “imprigionato” per non meno di un quarto d’ora in questa buffa coreografia dello stupore.

A Nicorvo, primo paese dopo Albonese torno a solcare la Francigena.
Condotto tra i campi, incontro stormi di cicogne e di altri uccelli dai corpi sinuosi, con strani becchi neri ricurvi. Mi scervello sui motori di ricerca, convinto di averli già visti da qualche parte. Avevo ragione: sono Ibis sacri, proprio quelli egiziani, e, per la precisione, il profilo che ricordavo era quello del dio Thot. Sembra abitino anche da queste parti da pochi decenni, e che le risaie siano una straordinaria oasi di biodiversità aviaria. Ora che lo so, me ne accorgo sempre di più.

A Robbio mi fermo per una pausa all’ombra di alcuni alberi, di fianco a una antica chiesetta dedicata a San Pietro che mi scoccia molto trovare chiusa.
Verso l’uscita del paese, ne trovo un’altra: come la prima è vecchia di molti secoli e tutta in mattoni, cosa frequente da queste parti, ma ha in comune anche il fatto di essere serrata. Pazienza.

La fatica si fa sentire sempre più, mentre macino chilometri nell’ultima campagna lombarda. Qualche pioppeto e alcuni tratti meno scontati regalano un po’ di varietà al paesaggio, e la torre merlata di Palestro diventa un riferimento visuale fondamentale per concentrare tutte le energie che mi restano. È poco gratificante scoprire poi che non è un luogo visitabile, ma non mancano cose più importanti, come trovare una fontana e un posto dove fermarmi a riposare e mangiare qualcosa.
Lascio per un attimo il percorso ed entro in paese. Davanti alla chiesa incontro Maurizio, un pellegrino originario della Val di Susa. Scoprendo che sono diretto proprio lá, mi anticipa che rimarrò incantato dalla bellezza della sua terra. Ottima notizia! Tutto mi sta piacendo finora, ma affrontare la lenta salita verso le Alpi è qualcosa che aspetto particolarmente.
Lo lascio proseguire e vado a fare una siesta in un parco per bambini. Le panchine non sono tante e, visto che su una mi ci voglio sdraiare, attacco bottone per qualche istante con un nonno che vigila la nipotina, in modo da comunicare che sono innocuo e solo di passaggio. Forse mi faccio troppi problemi, ma in fondo le persone sembrano rassicurate quando mi presento loro, e a volte si fanno anche molto affabili, il che non è cosa da poco.

Lasciare Palestro corrisponde anche a superare il confine lombardo-piemontese, dopo quasi 300 km di cammino. Ho oltrepassato di gran lunga la distanza percorsa in Puglia a febbraio. Ricordo bene, allora, come già quei 190 km mi sembrassero un’infinità prima di partire. Guarda invece la vita che sorprese! Ovviamente anche la psiche è gratificata da questo traguardo. Non è solo una questione numerica, ma di rafforzamento della consapevolezza di potercela fare. Bellissime sensazioni!

Resto incantato dalle enormi risaie prima di Vercelli. La particolarità è il punto di vista dato dal sentiero che sto percorrendo, alcuni metri più alto dei campi. Mi permette di vedere ancora meglio quella distesa brillante gialla e verde, e tuffarmici con gli occhi.
All’orizzonte, vedo avvicinarsi man mano il profilo della città. Sono emozionato perché è uno snodo storicamente importantissimo per la Via Francigena. Qui, infatti, si uniscono due rami fondamentali: quello che arriva dal Gran San Bernardo e quello che invece si collega al valico del Monginevro, dove sono diretto io.

Gli ultimi chilometri sono un po’ frustranti: prima perché perdo una deviazione, poi a causa del dover camminare ai bordi di una strada molto trafficata. Seguendola, però, supero il fiume Sesia e finalemnte arrivo a muovere i primi passi in città.
Dopo non molto, l’inizio della pavimentazione lastricata introduce al centro storico, fino a Piazza Cavour. C’è poca gente e molte attività sono chiuse, ma riesco comunque a trovare un’ottima gelateria aperta e premiarmi per la trentina di chilometri camminati oggi. Sono stanco, ma il ginocchio è ancora in forma ed è come aver vinto alla lotteria.

Riconoscendo la mia inequivocabile tenuta, un passante mi indirizza spontaneamente al luogo principe dell’accoglienza pellegrina qui a Vercelli: l’Hospitale Sancti Eusebi. L’hospitalero si chiama Pietro, di Ancona, ed è all’ultimo dei suoi quattordici giorni di servizio volontario. Fin dalle prime battute, faccio conoscenza coi suoi modi rudi e la sua espressione perennemente accigliata, ma se è lì non c’è dubbio: sotto quella scorza si nasconde un animo caldo e generoso.
Questo bel pensiero inciampa per un attimo in qualche sua affermazione molto irruenta con cui dá per spacciato il mio progetto di raggiungere Santiago de Compostela. Dice di essere in stretto contatto con la rete di hospitaleros spagnoli e quindi non c’è speranza che io riesca ad arrivarci. È indiscutibile l’autorevolezza delle sue fonti, ma anch’io ne ho di dirette della Spagna e sono decisamente meno rigide nel giudicare la fattibilità del Cammino, per lo meno ora. Mi dice di fare pure come voglio, e che vedremo poi. Gli faccio intendere che gradirei fosse meno insolente, tentando di difendere almeno un po’ del buon umore con cui sono arrivato.

Mi accompagna alla stanza, che condivido con un giovanissimo comasco, Samuele. Ha vent’anni e sta andando in bici verso il Gran San Bernardo, per completare l’unica parte di Francigena che non era riuscito a percorrere nel tour precedente. Faccio una doccia e, tornato, ci conosciamo meglio. Scopro una persona davvero in gamba: sensibile, umile e intelligente. Nonostante l’età, ha già sofferto un lutto molto importante, ma proprio nel modo in cui lo sento parlare anche di quello trovo la conferma delle mie impressioni positive. È un gran piacere averlo incontrato.

Prima che sia troppo tardi, esco per comprare qualcosa e visitare altri angoli della città. La cosa che mi resta più impressa è la Basilica di Sant’Andrea, con il bel sagrato reticolato e la sua facciata grigio-verde che stacca moltissimo dal colore dei due campanili che la coronano: un’armonia inedita per me. Seppur le linee appartengano al passato, vivo la sensazione di essere di fronte a una costruzione moderna, non mi è mai capitato. Tutt’attorno, altri edifici rendono quell’area particolarmente elegante, e in mezzo alla piazza svettano alcuni alberi giganteschi. Vorrei tantissimo andare ad abbracciarne uno, ma rinuncio, imbarazzato da una cricca di adolescenti lì vicino.
Mi lascia un bel ricordo anche il Duomo, la cui facciata mi ricorda quella di San Giovanni in Laterano, ma in piccolo. Chissà se è un’eresia o c’è un fondo di veritá in questo abbinamento.
Nel complesso, a questa città riconosco grande eleganza, ma per qualche motivo non riesce a incantarmi. È come se mancasse di vitalità. Sarei molto felice di tornarci quando questa pandemia finirà e darle una seconda chance.

Stasera cenerò in ostello, e cucinerà proprio Pietro. Avendo capito che ci sono diversi altri ospiti, compro una bottiglia di buon vino.
Una volta tornato, faccio conoscenza con il resto della truppa. Ci sono tre ciclo-pellegrini: un irlandese, Tom, e due dall’Emilia-Romagna. Questi hanno avuto la mia stessa idea, portando a loro volta un gran bottiglione di rosso. Poi ci sono uno svizzero e un italiano a piedi: sono partiti divisi, ma stanno provando a proseguire insieme.
Siamo tutti maschi. Non è un privilegio né un problema: semplicemente ci godiamo l’atmosfera da ciurma piratesca, deliziati dalla cucina del nostro hospitalero e dal vino che scorre come niente fosse.
Età, direzioni, lingue e mezzi differenti, poco importa. Anzi, sembra che le differenze attorno a questa tavola alimentino la gioia della nostra festa.
Davvero non poteva esserci modo migliore di celebrare una tappa così significativa!

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27/08 Garlasco – Albonese (PV)

(da Adriana)
25 km

La partenza da Garlasco è appesantita dal dolore al ginocchio. Stamattina si manifesta fin da subito, intristendomi parecchio, ma per fortuna senza abbattermi.

Ci pensa ancora l’amico sole a dipingere paesaggi esaltanti alle mie spalle. Resto secondi, a volte minuti, lì impalato. È come mettermi in carica. La passione per l’arte mi ha allenato ai più svariati tipi di bellezza, ma nel mio cuore niente è paragonabile a momenti come questo. Ogni caratteristica che il mio occhio riesce a cogliere, supera quelle dei migliori quadri che ho conosciuto. Inoltre, e soprattutto, la natura è viva. Per quanto la suggestione davanti a un’opera possa scaraventare l’essere umano in mille universi differenti, un’immagine artificiale resta cosa morta, e con la fotografia e il video aumenta solo l’inganno. Possono essere traccia, memoria, evocazione della vita, ma restano echi statici, senza un’anima propria.
La natura no. Nasce, vive e muore come noi, qualunque cosa significhi.
Sono diventato un adoratore del sole; chi mai avrebbe detto che questa sarebbe stata una delle più grande conseguenze del mio viaggio? Non lo vedo certo come una divinità, e non mi viene voglia di inginocchiarmici davanti o implorarlo di qualcosa. È un compagno generoso, è un essere amante, ecco come lo sento. Ho addirittura l’insolita sensazione che sia lui a cercarmi, come se fosse lui ad aver bisogno di me.

Faccio la prima vera pausa a Remondò, dopo più di tre ore di cammino. Mangio qualcosa, prendo un antinfiammatorio e mi sdraio su una panchina affacciata su un grigio parcheggio, proprio nel centro del paese. Mi sono chiesto per un attimo se avessi potuto turbare qualcuno, ma è l’unico posto all’ombra che ho trovato, e stamattina le energie sono già tutte finite. Schiaccio un pisolino, non ho alternative, ma per fortuna ne esco bene. Di certo non ho fatto il pieno, ma ora la lancetta del carburante è tornata sopra la riserva. Avanti!

I paesaggi di campagna che attraverso sono davvero splendidi. Il giallo delle risaie splende con una potenza tutta nuova per me. Nemmeno nel mio cammino pugliese – la splendida Via Peuceta – avevo potuto vedere niente di simile; era ancora inverno e il grano nei campi non era altro che germoglio verde.
L’orizzonte piatto divide a metà il panorama. Sopra domina l’azzurro; sotto, invece, le geometrie dei campi, tagliate dalle piste di terra battuta che seguo: binari bianchi costeggiati qua e là da filari ordinati. Piccoli boschi artificiali somigliano a plotoni sull’attenti, immobili ad onorare il passaggio del pellegrino. Anche il popolo di alte piante di granturco, ammassato a volte ai miei lati, sembra una folla incuriosita e un po’ invidiosa.

Appeso al trapezio della fantasia, ma coi piedi che continuano a premere forte a terra, arrivo infine a Mortara, e con in testa una decisione inaspettatamente risoluta: comprarmi una ginocchiera con delle stecche mobili ai lati. Non è un’idea nata da un raptus qualsiasi, ma la fioritura di un ascolto del mio corpo iniziato fin dal primo giorno. Da molto tempo sono convinto che sia una questione di peso, ma se non voglio liberarmi ancora della tenda, l’unica soluzione che rimane da provare è questa. Nella mia testa, il tutore riuscirà a trasferire una pur minima parte del carico che grava sull’articolazione. Spero di aver ragione e che sia sufficiente per liberarmi da questa criticità.

La provvidenza e Google Maps mi indirizzano verso una piccola ortopedia, a pochi minuti dall’orario di chiusura. Lì trovo il proprietario, la giovanissima figlia e la dipendente, Cristina. Sono davvero molto cortesi e, soprattutto, hanno esattamente il prodotto che cerco. Appena indossato mi dà un senso di comodità e sostegno effettivo, proprio quello che speravo. In me sembra esplodere una fiamma di ottimismo: funzionerà, ne sono sicuro! Raggiante in viso, condivido la mia gioia, pago e chiedo anche qualche dritta. Vorrei festeggiare questo acquisto mangiando qualche leccornia del posto e domando anche se hanno consigli su dove potrei alloggiare nei chilometri successivi.
Il proprietario si occupa di indirizzarmi ad una vicina salumieri per assaggiare le specialità a base d’oca, tipiche di questi posti, ma il regalo più grande me lo fa Cristina, telefonando ad una signora che secondo lei potrebbe essere disponibile ad ospitarmi stanotte. Straordinariamente, l’affare va in porto al primo colpo e io sono al settimo cielo.
Anche la commessa è molto felice di essermi stata utile. Pma di salutarci scambiamo giusto due chiacchiere: mi confida alcune sfide molto delicate che sta vivendo e quanto a fondo confidi in Dio per superarle. Grato ed entusiasta, prometto di portare tutto con me a Santiago.

Corro a festeggiare, comprando dapprima un po’ di frutta in un negozietto lì vicino, trovandoci altre persone incredibilmente gentili e allegre. Mi dirigo poi alla salumeria che mi hanno consigliato e acquisto qualcosa di davvero succulento: salame e ciccioli d’oca! Tutto felice, concludo con la panetteria, che però ha già chiuso, ma la fame mi affina l’ingegno e mi rende sfacciato: busso alla porta di servizio, quella del laboratorio, e mostro l’espressione più pietosa che sono in grado di fare. Le convinco! Ho anche il pane.

Mi gusto il pranzo squisito nella bella piazza del comune, godendomi una lunga pausa rigeneratrice. Chiamo poi Adriana, la persona che mi aspetta, la quale mi avvisa che dovrà uscire fra non molto. Mi do quindi una mossa e riprendo il cammino a passo spedito.
Con la ginocchiera mi sembra di avere una gamba nuova. Sono un po’ preoccupato che, esagerando ora sulle ali dell’entusiasmo, la pagherò poi stasera e domani. Nonostante ciò, non resisto; dopo giorni di sofferenza voglio godermi questa leggerezza e mi butto a rotta di collo in una marcia serratissima.

Il paese di Adriana si chiama Albonese. Non si trova sul tracciato della Francigena, ma appena di fianco. Dista cinque chilometri e mezzo da Mortara, e inaspettatamente riesco a percorrerli in un’ora, ad una velocità che fin qui per me era impensabile. Certo, ho seguito una strada dritta e molto trafficata, rinunciando a un tratto tra i campi che sarebbe stato di certo più bello, ma si fa di necessità virtù. Forse la ginocchiera potrebbe davvero rivelarsi la soluzione giusta.

Adriana conferma a pieno e fin da subito la sua vocazione all’accoglienza. La casa è su due piani e ricchissima di oggetti, libri e quadri interessanti. Al piano inferiore vive la madre, pioniera dell’attivismo animalista, di cui Adriana è stata degna erede. In casa con loro vivono due cani molto sofferenti. Uno in particolare, Charlie, è praticamente in punto di morte, ma resiste con un sorprendente attaccamento alle persone care con cui ha convissuto per anni. Anche la cagnetta, Milly, non sta benissimo. Adriana se ne prende cura con grande esperienza e un coinvolgimento commovente.

Alla fine, l’impegno che aveva sembra non fosse così importante e sceglie di restare per poterci conoscere meglio. È una persona dalla mentalità molto aperta e dal cuore grande. Parliamo a lungo, arrivando ad una confidenza inusuale. Mi racconta anche di come sia straordinario il paesaggio quando allagano le risaie e mi fa venire una gran voglia di venirlo a visitare in futuro.
Mi permette di fare il bagno anziché la doccia: regalo più che apprezzato. È il terzo che faccio in meno di dieci giorni, non posso crederci. Con una premura inaudita, insiste anche per prepararmi un impacco di argilla per il ginocchio. Perché si parla così poco della generosità della gente?

La sera ci raggiungono due suoi amici, appassionati camminatori e pellegrini: Anna e Adriano. Quest’ultimo mi ha visto la mattina riposare a Remondò, sulla panchina in paese. Ridiamo e chiacchieriamo con gran gusto.
Mi godo il momento squisito, che culmina con una benevola tortura alla povera cagnetta, di cui prendiamo in prestito la zampa per lasciare un’impronta sulla mia credenziale a mo’ di timbro.

Adriana mi fa infine l’ennesimo regalo: insiste perché io vada a dormire da solo nel suo letto matrimoniale. Lei resterà sul divano, non solo per una questione di generosità, ma anche per poter accudire meglio durante la notte i due poveri animali. Un altro esempio di amore che mi rimarrà certamente nel cuore.

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26/08 Pavia – Garlasco (PV)

(casa del pellegrino @ comunità Exodus)
24km

Anche questa volta lascio l’ostello prima dell’alba e parto. Gelo credo sia partito molto prima di me. In direzione contraria, non sapeva dove sarebbe arrivato, ma parlava ieri di un chilometraggio per me impensabile. Gli ho passato il numero di don Roberto, sperando possa conoscere anche lui Emilio e la sua famiglia.

Il cammino mi fa passare in mezzo a chilometri di bosco sulle rive del Ticino. Li avrei di certo apprezzati molto di più se non fossero stati letteralmente infestati da una quantità immensa di ragnatele invisibili. Per evitare che mi si spalmino tutte su viso e corpo, utilizzo in qualche modo le racchette ma fallisco miseramente. Perlomeno non sento nessun dolore al ginocchio, grazie al cielo: la comodità del letto sembra aver fatto miracoli.
La giungla trasparente di fili sembra interminabile, e capisco ben presto che non mi resta altro da fare che camminare più speditamente possibile per superarla. È uno sforzo mentale devastante: l’accumularsi sulla pelle di quei fasci senza corpo mi obbliga continuamente a ripulirmene, ma senza mai poterli vedere. In qualche occasione mi sembra di essere diventato pazzo.

Reagisco istintivamente con euforia isterica e gioco perlomeno l’arma dell’umorismo, iniziando a recitare un monologo comico e delirante: mi immagino gigante in corsa dentro quella megalopoli di ragni minuscoli. Inarrestabile, sto devastando case tessute con cura e sacrificio. Me le porto via col mio passo veloce, lasciando gli abitanti senza più nulla, chi disperato, chi fatalista. Inventandomi reporter per “RagnoTV Pavia”, simulo interviste alle vittime della catastrofe, imitando impressioni a caldo sulla scia di quelle che sempre si ripetono nei notiziari reali in casi simili. L’assurdo escamotage, che sembra già sintomo di un esaurimento nervoso, invece me ne protegge.
Uscito dall’inferno filamentoso, sono stremato ma finalmente libero.
Uno scorcio da cartolina, col primo sole riflesso sullo specchio d’acqua del fiume, mi rasserena del tutto, aiutandomi a ricalibrare lucidità e respiro.
Prima di lasciare le rive del Ticino, mi fermo a mangiucchiare qualcosa dalle mie scorte, seduto in una canoa fuori da un bar chiuso: degna conclusione di queste prime ore all’insegna del nonsense.

Seguendo una strada asfaltata tra campi e cascine sparse, arrivo poi a Villanova Ardenghi, dove incrocio un sorridente pellegrino sardo che sta cercando di raggiungere Roma a passo molto spedito. Mi dice che ieri si è fatto quaranta chilometri, sfasciandosi totalmente i piedi, ma si è imposto di arrivare alla capitale sfruttando le poche ferie a disposizione. Viene da chiedersi se sia il modo migliore di vivere il pellegrinaggio, ma la verità è una e nota: non esiste “un modo migliore”. In ogni caso, con quel sorriso, qualcosa mi dice che ce la farà.

Successivamente, il percorso si tuffa tra i campi seguendo ancora una volta un canale che li irriga. Sono ormai in piena Lomellina. Il rischio che queste pianure risultino monotone esiste, eppure mi scopro immune a questo problema. Camminare in quuesto paesaggio fatto di pochissimi elementi è un piacere, anche se mi salva il fatto sia scandito, tra un paese e l’altro, da casolari e fattorie. Fossero davvero solo campi e null’altro, immagino sarebbe davvero un’esperienza estenuante.

Raggiunta Gropello Cairoli il ginocchio torna a bloccarsi, e più del solito. Arrivo fino ad una cappelletta vicino all’ennesimo cimitero (sembra d’obbligo che il cammino li costeggi tutti!) e mi siedo per riposare e non farmi prendere dal panico. Il problema è grosso e sembra non voglia risolversi nemmeno con gli antinfiammatori, che comunque prendo. Letteralmente, prego che la mia avventura non si frantumi contro questo problema, perlomeno non così presto. Sulla scia dei deliri mattutini, finisco col parlare anche col mio corpo come fosse un’entità a sé. Tento di ascoltarlo meglio, gli faccio delle domande e delle promesse. Alla peggio, avrò almeno evitato di piangermi addosso inutilmente. Quando mi rialzo, dopo una mezz’ora abbondante, il ginocchio sembra ristabilito. Non mi faccio trascinare da facili suggestioni, ma non escludo che l’aver tentato di stabilire una nuova “alleanza” col mio corpo abbia giovato. In ogni caso, nonostante tanti tentativi ed esperimenti, non posso ancora dire di aver capito cosa riesca ad essere decisivo per calmare l’infiammazione. Incrociamo le dita.

Arrivo nei pressi di Garlasco relativamente presto. Oggi la mia tappa si conclude qui. Soggiornerò presso una sede della fondazione Exodus di don Mazzi. È una specie di cascina, una cui ala è dedicata all’accoglienza pellegrina, mentre il resto compone una comunità residenziale per minori in fase di recupero dopo esperienze di tossicodipendenza, e forse anche per altre problematiche.
Sono entusiasta di poter conoscere un luogo simile; penso possa arricchire molto la mia esperienza. Quando sono partito da Bergamo avevo il sogno di poter intercettare tante realtà diverse durante il cammino in Italia, compresi ecovillaggi, di cui recentemente avevo iniziato a sentir parlare e che mi avevano incuriosito. La durezza fisica vissuta fin qui, però, mi ha fatto capire che a piedi è complicato far spazio a grandi e piccole deviazioni.

Ad ogni modo, mi presento con grande entusiasmo, ma forse troppe aspettative. Mi accoglie un’educatrice e incontro subito qualche ragazzo, solo contatti brevi. Fra non molto pranzeranno, ma le precauzioni per l’epidemia di Covid mi impediscono di poter partecipare al pasto comunitario; sarebbe stata un’ottima opportunità per conoscere tutti e informarmi meglio sul progetto.
L’educatrice mi fa capire che forse per cena potrebbero trovare un modo per inserirmi in sicurezza, ma purtroppo i loro orari sono troppo in là rispetto ai miei. In queste settimane, infatti, per me è quasi d’obbligo cenare e andare a letto molto presto, così da poter poi partire la mattina con temperature più basse possibile. Peccato davvero.

Entrato nell’appartamento destinato ai pellegrini, mi imbatto in non poca incuria, ricordando che Arcangelo ieri me lo aveva timidamente accennato quando gli dissi che sarei venuto qui. Non riesco a sentirmi a mio agio del tutto, ma me ne faccio una ragione.
Docciato e sistemata ogni cosa in stanza, chiedo dove posso lavare e stendere le mie poche cose, e un paio di ragazzi insistitono per potersene occupare. È il loro turno in lavanderia oggi e dicono che possono occuparsene facilmente. Hanno anche un’asciugatrice, quindi già nel tardo pomeriggio potrò avere tutto pronto e asciutto. Preferirei fare da solo, ma scelgo di accettare. Li ringrazio e mi incammino verso il supermercato per fare rifornimento.

Lungo il tragitto, finisco col dedicare qualche pensiero a questo paese diventato tristemente famoso tanti anni fa sulle pagine di cronaca nera di tutti i giornali: solo poche riflessioni inconcludenti, ma per un attimo riescono a rattristarmi.

Una volta tornato e sistemata la spesa, faccio ancora capolino in cortile per chiedere la carta igienica. Un educatore mi accompagna in magazzino e, nel frattempo, tento anche con lui di strappare qualche informazione sulla comunità e sulla fondazione, ma abbozza solo una mezza risposta e poi se ne torna da dove era venuto con imprevedibile nonchalance.
Non so bene cosa pensare. Mi sembra così strano che nessuno abbia piacere a parlare un po’, eppure il clima è tutt’altro che frenetico. Non mi resta che accettare la situazione così com’è.

Prima di cenare, scendo a chiedere se sono pronti i miei vestiti, ma i ragazzi abbozzano frasi strane e capisco che non se ne sono occupati. Mi assicurano che lo faranno immediatamente e tutto sarà pronto alla svelta.
All’orario che mi hanno indicato, ridiscendo ma sembrano averla presa di nuovo con calma, e anche gli educatori non se ne occupano. Mi sento trattato male, lo dico sinceramente, e ne soffro.
Dispiaciuto di doverlo fare, vado in lavanderia a fare un po’ di pressione con la mia presenza. I panni erano già lavati da almeno mezz’ora e bastava un giro di asciugatrice, ma incredibilmente devo insistere.
Mentre seccano, percepisco un’insofferenza palpabile per il mio rimanere lì. Ben presto le parti si invertono, e sono io a finire col provare talmente tanto disagio da scegliere di ritirare le mie cose ancora umide e stenderle in casa. Probabilmente non asciugheranno nella notte, ma ormai non mi importa più.

Alla fine sono stato molto combattuto sul donativo da lasciare, ma non ho voluto rifarmi in maniera infantile di quanto vissuto. Mi concedo solo di lasciare una nota agli operatori su quanto accaduto, molto simile a quello che ho appuntato qui.
Riesco a stemperare il nervosismo riflettendo al mio meglio sull’accaduto e poi vado a dormire, molto più tardi del solito.

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25/08 Costa de’ Nobili – Pavia

(ostello di Santa Maria in Betlem)
27km

La notte sul pavimento dell’oratorio è stata simile ad ogni altra che ho passato su questo maledetto materassino. Non so proprio perché non riesca ad abituarmi a queste piccole scomodità. Nonostante ciò, mi alzo ogni volta di buona lena e ne vado fiero; questa bella pazzia mi sta regalando forze straordinarie.

Dopo un buon caffè, saluto Emilio con gratitudine e affetto, e parto prima dell’alba.
In pochi minuti sono già sceso tra i campi che si aprono proprio a partire da dietro la casa. È uno scenario da favola. Gli elementi sono pochi, quelli ricorrenti di queste tappe padane: i campi, un canale, i filari, una chiesa in lontananza. Non c’è nemmeno una nuvola, e il cielo è tutto un’immensa sfumatura di colori diversi, capaci di mettere l’anima incredibilmente in pace.

Ancora una volta ho la fortuna e la gioia di assistere ad un’alba stupefacente, questa volta nei pressi del fiume Olona. La superficie liscia dell’acqua fa da specchio al paesaggio essenziale. È poesia pura.
Dopo la contemplazione, però, arriva sempre il momento di ripartire. Dirigendomi verso ovest, riprendere la marcia vuol dire dover dare le spalle al sole appena sorto: una piccola cosa, ma che ogni volta mi produce tutto un ricamo di emozioni. Assomiglia a quando finisce un primo appuntamento andato bene, e arriva il momento di salutarsi; lo si fa con fatica, e ridendo stupidamente. Ci si allontana camminando all’indietro per continuare a guardarsi, poi ci si gira e si va. A volte ci si volta ancora, magari incrociando l’ultimo sguardo, felici. Ecco, col sole vivo la stessa cosa.

La favola, purtroppo, si interrompe quasi subito, e per almeno un quarto d’ora. Il percorso, infatti, aggira tutta una grande cava a cielo aperto: uno scenario non certo dei migliori.
Uno stacco simile mi fa riflettere quanto la bellezza, o il suo contrario, incidano sullo stato d’animo e, di conseguenza, anche sulle forze a disposizione. In ogni caso, fare esperienza in entrambi i sensi è importante. Le ore di fronte alla magnificenza della natura sono utili allo sviluppo del benessere profondo, mentre quelle passate in luoghi poveri di armonia, invece, temprano l’anima; bisogna solo accoglierle nel modo migliore.

Dopo un affondo tra i campi sterminati, raggiungo il comune di Belgioioso.
Il ginocchio continua a fare i capricci, e spesso riesce a farmi dei brutti sgambetti al morale. Stamattina devo già prendere una dose di antinfiammatorio, ma prima ho bisogno di riempire un po’ la pancia. Trovo una salumeria-gastronomia molto invitante, con all’interno un tavolino per consumare. Scelgo di farmi un vero e proprio brunch, sotto gli occhi benevoli di tutta la famiglia che sta lì a lavorare.
Non lascio subito il paese; il ginocchio è quasi bloccato e non è il caso che forzi. Prendo un caffè e sosto davanti al castello, qualche minuto ancora. Fermarmi mi dá un po’ di sollievo, ma d’altro canto spezza il ritmo e aumenta la fatica. Purtroppo la coperta è corta, come si dice, e non ho che farmene una ragione. Più che altro mi chiedo cosa farò se il dolore continuasse. Di certo sarei costretto a rispedire a casa tenda e materassino, e sperare basti quello, ma odio questa prospettiva e continuo a sperare in un’intuizione risolutiva.

Questo viaggio lento, fatto un passo alla volta, mi sta regalando consapevolezza su tante cose, e lo sta facendo gradualmente, come se conoscesse la mia propensione a sentirmi travolto. Mi domando cosa sarà di tutto quello che sto vivendo, come potrò tenerlo tutto dentro? Per ora non lo posso sapere, ma il movimento incessante del corpo, nella sua essenza elementare, mi aiuta a lasciare fluire dubbi e preoccupazioni. Il camminare sembra un’alchimia capace di far prevalere fiducia e benessere; confido nel meglio possibile.

Incrocio due anziani signori serenamente in giro in bici. Rispondono al mio saluto con una solarità e una gentilezza non comuni, regalandomi belle sensazioni. Poco dopo, me li ritrovo inaspettatamente di fianco. Sono tornati indietro perché sono curiosi di sapere dove stia andando. Non si vedono molti pellegrini quest’anno, e produce curiosità vederne uno, soprattutto in direzione opposta a Roma.
Ne nasce un felice dialogo che li convince a farmi compagnia fino a San Leonardo, il borgo dove vivono. Ci raccontiamo le nostre storie, mentre loro pedalano a passo d’uomo. Si chiamano Ernesto e Donato, e a San Leonardo ci son cresciuti. Ernesto, però, se ne andò per molto tempo, ma qualche anno fa è riuscito a tornare, e si dice molto contento d’averlo fatto. È gioviale e aperto di mente, ma ha anche lui le sue grandi sofferenze. Ancora una volta riconosco una disponibilità ad aprirsi del tutto inusuale; qualcosa che di solito viene messo in campo con gli amici più intimi, non certo con degli sconosciuti. Per me è un dono preziosissimo.
Donato non accenna a grandi afflizioni personali, ma mi parla con entusiasmo della sua passione per la bicicletta e le salite che ancora oggi riesce ad affrontare. È anche un creativo molto intraprendente, e mostra orgoglioso la foto di un go-kart che è riuscito a costruire da solo. Entrambi restano toccati dall’avventura che ho intrapreso, e Donato sceglie anche di sostenermi con un’offerta. Ancora una volta rimango stupito e commosso.

Arrivati al loro paese, facciamo una pausa su una panchina. Ernesto avrebbe tanto piacere ad accompagnarmi a visitare la Certosa. Ne parla con orgoglio e quasi mi convince, ma purtroppo non posso accettare in questa occasione, ci vorrebbe del tempo che proprio non ho.
Infine ci salutiamo, tutti e tre stupiti di quanto siamo arrivati a sentirci vicini in così poco tempo. Io rimango lì a fare e un pisolino, per tentare di recuperare un po’ di energie. Ernesto poi ritorna, a sorpresa; mi lascia un piccolo fagotto con una merenda per le prossime ore e, prima che lui sia riuscito a ripartire, ci trovo nascosta anche una banconota. Con gli occhi lucidi, lo saluto ancora, promettendo di avvisare quando tornerò, perché mi possa accompagnare a visitare la Certosa.

Riprendo il cammino verso Pavia. Ormai entrato in città, mi fermo ancora rapidamente un paio di volte, prima per un ghiacciolo e poi a mangiare una piadina. È incredibile quanto senta il bisogno continuo di reintegrare, anche a questo non sono abituato.
In ogni luogo riesco a fare due parole con qualcuno e non mi sento mai solo.
Arrivato al Ponte coperto sul Ticino. Resto colpito: nella sua semplicità conserva una bellezza non comune. Tra l’altro, si rivela essere qualcosa di più di un luogo di transito. Infatti, nei piccoli balconi che costellano i lati, coppiette o piccoli gruppi di giovani in mascherina si riposano nella frescura del riparo ventilato.
Attraversato il ponte, mi volto verso il centro storico della città. Non ho le energie per andare a visitarlo, ma resto a bocca aperta davanti all’immensa cupola del duomo che sovrasta tutto ciò che la circonda. Non mancherò di passarci quando in futuro tornerò da queste parti.

D’improvviso, una coppia di pellegrini francesi in bicicletta mi si accosta. Lei non può usare le gambe e si muove su un mezzo speciale a tre ruote su cui, sdraiata, preme sui pedali con le braccia: tosta! Sono stanchi, ma sprizzano vitalità e buon umore. Mi chiedono del mio viaggio e mi accennano al loro. Scopriamo di aver prenotato nello stesso ostello, ma ci vedremo per cena, perché vogliono prima fare un giro per la città.

Il posto dove dormirò fa capo alla parrocchia di Santa Maria in Betlem, poco distante da lì. Ho dovuto accettare una stanza tutta per me perché non c’era più posto in camerata; per fortuna mi hanno fatto un prezzo di favore.
Prima di arrivarci, trovo un calzolaio lungo la strada e ne approfitto per fargli aggiustare il vecchio paio di plantari ortopedici che mi sono portato di scorta, convinto che quelli che sto utilizzando si consumeranno prima di arrivare a Santiago. Il proprietario è un ometto simpatico, e anche lui sceglie di offrirmi gratuitamente il suo servizio. Si tratta di una piccola riparazione, ma resta comunque un dono, e quindi per niente scontanto. Ricevere così tanto è un’esperienza nuova per me. Non è facile spiegare cosa provochi dentro, ma capisco che c’è in gioco qualcosa di importante per la crescita del mio cuore.

L’ostello, gestito da suore, si rivela un luogo particolarmente accogliente. Gli interni sono moderni, puliti e ordinati. C’è una cucina a disposizione e quattro tavoli per mangiare, ma la cosa più bella è un magnifico giardino tra la casa e la chiesa, con un vecchio lavatoio di pietra di cui approfitto per i miei pochi panni sudati.
Faccio conoscenza di Arcangelo, detto Gelo, pellegrino di Cuneo che ha già camminato varie volte in lungo e in largo per l’Europa. Su d’età ma in formissima, porta una lunga barba bianca. È un po’ burbero all’inizio ma, tornando insieme dal supermercato, si fa molto più espansivo, condividendo tantissime cose interessanti sulle esperienze che ha vissuto.
A cena, incontriamo anche la coppia di francesi e successivamente arriva anche Monica, una donna milanese che ha appena concluso un piccolo pellegrinaggio tra Genova e Pavia, la cosiddetta Via del Sale. Ci racconta di non aver programmato nulla e di averlo vissuto in pieno affidamento, imbattendosi anche in qualche episodio vagamente inquietante.
È bellissima tutta questa condivisione. Ogni dettaglio sembra arricchirmi nel profondo.

Tonificato nel morale, al corpo spero basti dormire su un letto vero.
Domani si vedrà.

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24/08 Corte Sant’Andrea – Costa de’ Nobili (PV)

(oratorio don Enzo Boschetti)
25 km

A una settimana esatta dalla mia partenza, eccomi alla prima tappa lungo la Via Francigena!
Per non aggiungere peso allo zaino, ho scannerizzato la parte della guida che mi interessava: due etti risparmiati. Ho fatto lo stesso con quella per la Via Domitia, cioè il percorso che mi porterà dal confine francese fino ad Arles. I miei zii, poi, si sono resi disponibili per inviarmi le scannerizzazioni che non ho fatto in tempo a fare: quelle della guida per la seconda parte di Francia e quelle del Cammino vero e proprio in terra spagnola. Come se non bastasse, ho anche tutte le tracce GPS fino ai Pirenei, gentilmente offerte dall’amica Sara di Milano, “zia” di tutti i pellegrini che intraprendono questa rotta. Lei partí dal capoluogo meneghino sei anni fa, scrivendo giorno dopo giorno il suo diario di viaggio sul web (www.100daysontheway.com), e corredando il sito con tante altre informazioni utili, tra cui proprio le tracce. Certo, ribadisco non sia il massimo consultare tutto sullo schermo dello smartphone, ma il gioco vale la candela.

Parto poco prima dell’alba e ricevo in regalo un cielo stupefacente, una tavolozza di colori mozzafiato. Tra le risaie sulla via di Orio Litta, lo scenario supera ogni rosea aspettativa con lo spuntare del sole all’orizzonte.

I cartelli informativi e le indicazioni per i pellegrini diventano una presenza frequente e per me inedita, arricchendo la mia esperienza di mille nuove suggestioni.

Camminare su una via di pellegrinaggio carica di secoli di storia è davvero un’emozione unica.

Proseguo vicino al Lambro, e nei campi sottostanti vedo una colonna di pietra e marmo graduata. Serve a misurare l’altezza del corso d’acqua durante le piene. Alcune date tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento sono poste in corrispondenza di quelle più significative del periodo. Quei pochi numeri mi fanno un effetto strano, perché non stanno scritti su un libro e nemmeno su una lapide commemorativa, ma sono incisi proprio nel punto in cui l’acqua arrivó. Spostarli da lì indebolirebbe la loro forza. Sono come testimoni posti a guardia della memoria, capaci di evocare quegli eventi all’istante. È un dettaglio che probabilmente non a tutti innescherebbe questo concerto di emozioni, me ne rendo conto, ma a me credo rimarrà impresso.

Incontro il bel Ponte di Mariotto, sul Lambro, appena prima di quello che attraverserò, passando dal lodigiano al pavese.

Raggiunto Chignolo Po, prendo una decisione importante: quella di rispedire a casa il fornello, il cavalletto e la busta di picchetti ritrovata a sorpresa, per un totale di circa un chilo. Spero che questo sarà sufficiente ad alleviare il dolore al ginocchio. Se così non fosse, vedremo poi.

Dopo aver preso qualcosa da mangiare, mi dirigo all’ufficio postale, facendo con calma la mia prima coda. Allo sportello la signora si mostra, ahimè, poco utile; pensavo ingenuamente sarebbe stata un’operazione facile e rapida, ma qualcosa va storto. Non hanno scatole adatte, e sostiene che le buste non facciano al caso mio. Non è nemmeno sicura se io possa o meno rispedire a casa la piccola bombola che alimenta il fornello. In effetti, ora che ci penso, suppongo abbia ragione. Potrei abbandonarla, ma l’idea non mi piace affatto. Mi indirizza verso la vicina cartoleria per l’acquisto della scatola, ma ne hanno solo alcune davvero improbabili, coloratissime e più costose della spedizione stessa. Temporeggio e rifletto.

Nel frattempo faccio la coda anche per entrare in farmacia, dove comprare qualcosa di un po’ più forte delle pastiglie di Ananase comprate a Treviglio. Con la sfacciataggine di chi è già particolarmente cotto dalla mattinata, svento anche il tentativo di sorpasso a coda ferma della immancabile vecchietta falsamente ingenua, per la gioia anche degli altri che stavano ad aspettare con me. Una volta dentro, prendo quello che mi serve, ma a colpirmi è l’allegra gentilezza del proprietario e delle dipendenti. Una di queste si rende anche disponibile ad accettare la mia bombola in regalo. Senza quella, una busta diventa più che sufficiente, e il problema è risolto. Rasserenato e di buon umore, torno alla posta e faccio la mia terza coda della giornata.

Mentre aspetto sul marciapiede, mi si accosta un cliente della farmacia che ha sentito dove sono diretto e mi dà quindici euro da lasciare in offerta a Santiago. Faccio promessa solenne e lo saluto, ma rimanngo un po’ sovrappensiero: da una parte è stato un gesto semplice, tutto positivo, ma dall’altra mi colpisce perché poco comune. Quanta fatica si fa a fidarsi degli altri, oggi più che mai; eppure uno sconosciuto mi ha appena consegnato del denaro, come nulla fosse. Che bel sapore ha la fiducia!

La coda sembra interminabile, ma diventa piacevole grazie alla compagnia della simpatica famiglia che ho davanti. Alla fine riesco nella mia missione e riprendo il cammino dopo ben due ore!

Qualche chilometro dopo, a Miradolo Terme, trovo un invitante distributore automatico di prodotti latticini locali e mi regalo uno yogurt squisito. Mentre me lo sto gustando sotto il sole, sopraggiunge in bicicletta una coppia molto giovanile, ma non giovane. In pochi secondi attacchiamo bottone. Lui è un’esplosione di energia: si chiama Antonio e mi racconta molto di sé, con grande senso dell’umorismo e infinito entusiasmo. Mi dice di essere (o essersi?) soprannominato “El condor libre”, e già questo dice tanto! È sposato con la donna al suo fianco, Grazia, ma mi ammonisce: “Tu sposati, sì, ma…mi raccomando: all’ultimo momento!”. Che perla!

In mezzo ai campi, poi, incrocio anche i primi due pellegrini “francigeni”, che ovviamente camminano in senso contrario al mio. Uno di Brescia e l’altra non lo ricordo. È proprio una bella sensazione. Mi fa sentire in compagnia, parte di qualcosa di più grande.

Pieno di buon umore, raggiungo poi Santa Caterina e Bissone, immediatamente dopo. Qui ci sarebbe anche un ostello pellegrino, ma è chiuso, come d’altronde molti altri quest’anno, per via del Covid. Essendo orario di chiusura anche per i negozi di alimentari, mi regalo un pranzo in un ristorantino gestito da cinesi. Sono l’unico cliente ed è già quasi pomeriggio. Si mostrano molto gentili, ma ho l’impressione che in realtà avrebbero preferito chiudere. Egoisticamente, fingo di non accorgermene e mi godo con calma le portate e la frescura del locale.
D’improvviso mi viene in mente che c’era ancora una cosa che avevo bisogno di comprare in farmacia, però quella del paese non aprirà prima di un’ora. Faccio i miei conti e, finito il pranzo, decido di aspettare appisolarmi su una panchina all’ombra.

Sistemata poi ogni cosa, mi rimetto in moto, iniziando a ragionare su dove alloggiare stanotte. Riesco a mettermi in contatto telefonico con un sacerdote della zona, don Roberto, al quale spiego tutto, a partire dal fatto che ho con me un materassino e anche una tenda, quindi mi basterebbe davvero anche solo un pezzo d’erba. Mi dice che potrebbe fare al caso mio il campetto da calcio dell’oratorio di Costa de’ Nobili, e mi rimanda a un certo Emilio, che se ne occupa.

Arrivo al paesino non meno di due ore dopo, passando in mezzo a sterminate risaie. L’umidità però non è così aggressiva come fu nel lodigiano, ma forse ci ho solo fatto l’abitudine. Prima di tutto, faccio tappa in Comune per farmi timbrare la credenziale, dopodiché raggiungo la chiesa. Al suo fianco sta il campetto dove dormirò e, immediatamente dopo, la casa di Emilio.

Sia lui che la moglie Bruna si dimostrano magnifiche persone, splendidamente predisposte all’accoglienza, sembrano averla nel sangue. Faccio conoscenza anche della loro piccola nipote e di uno dei figli, Demis, poco più grande di me e padre della bimba. Mi invitano ad accomodarmi in cortile e mi offrono da bere e da sgranocchiare qualcosa.
In poco tempo ho l’impressione di conoscerli da anni, tanto mi mettono a mio agio. Con Demis, in particolare, ci raccontiamo l’un l’altro le nostre vite con incredibile naturalezza. È il meglio che potessi mai desiderare, e benedico per l’ennesima volta il giorno in cui ho deciso di partire.

Rimasto poi con Emilio e Bruna, prima mi permettono di lavarmi velocemente in cortile usando la canna dell’acqua, poi mi portano sul retro per mostrarmi l’orto e tante altre cose interessanti costruite da lui.
Sembrano felici della mia presenza; mi propongono di dormire nel sala del piccolo oratorio adiacente invece che nel campo, e io accetto più che volentieri. Non contenti, scelgono di offrirmi anche la cena. Sono esterrefatto da questa cascata di generosità, mi sento in paradiso!

Finito il pasto, ci auguriamo buonanotte, con la promessa di salutarci ancora domani mattina.
Che giornata!

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Italia, Lombardia