(Albergue municipal)
24km
Alla sveglia c’è fermento nel grande albergue. Siamo in tanti, e ognuno con un piano diverso per superare la chiusura della regione. È stata una notizia che ci ha destabilizzato all’inizio, ma ci siamo sostenuti a vicenda e ora c’è voglia di recuperar la leggerezza del viandante, andar oltre l’ostacolo e continuare la strada verso Santiago.
Muoviamo i primi passi intorno alle 8:30. Le vie della città non sono ancora illuminate dal sole, ma il cielo è terso. Abbandoniamo il fascinoso centro storico attraversando un parco dopo l’altro. I viali che calpestiamo hanno conchiglie d’ottone incastonate nella pavimentazione: sostituiscono le frecce gialle, facendoci sentire ben voluti e accompagnati.
Camminiamo verso la periferia, e dopo un paio di chilometri ci troviamo circondati da grandi palazzi moderni. In molte città questo cambio di scenario porta con sé anche qualche segnale di degrado, mentre qui è il contrario: tutto si mantiene ordinato e pulito. Gli spazi rimangono anche particolarmente ariosi, popolati da tutte le persone che iniziano la propria giornata.
Mentre sfioriamo i verdi giardini del campus universitario, spunta anche il sole, con quel suo bacio ben augurante capace di regalare energie uniche.
Poco dopo raggiungiamo il delizioso ponticello di Acella Landa, sul piccolo río Sadar. È un affluente del fiume Elorz, che abbraccia Pamplona assieme all’Arga.
Come ieri, resto colpito dalla grazia delle aree immediatamente a ridosso di questi corsi d’acqua, e basta una piccola ricerca mirata sul web per scoprire che non ho esagerato con l’enfasi. La città, infatti, ha investito sulla realizzazione di veri e propri parchi fluviali. Devono essere una benedizione per la gente del posto, e non di meno per noi pellegrini.
Proseguendo lungo una sorta di ciclabile, superiamo le cittadine sorelle di Cizur Menor e Zizur Mayor, oltre le quali poi comincia la campagna vera e propria. In un attimo ci troviamo immersi tra enormi terreni recentemente arati ma già seccati dal sole, e anche l’asfalto lascia spazio a un più godibile sentiero ghiaioso. È uno scenario essenziale, capace con i suoi pochi elementi di innescare un senso di stupore e libertà. Ci sentiamo calati in un pezzo magico di mondo, fuori dal tempo, tra natura, agricoltura e storia, e la semplicità dei nostri passi sembra essere la condizione ideale per assaporare queste suggestioni.
La strada non è piana, e dei leggeri saliscendi arricchiscono il nostro “navigare”. Il cammino è scandito dai mojones in pietra che stanno a lato della via. Ognuno impreziosito dalla stessa conchiglia gialla, sembrano guidarci premurosamente.
Anche il clima è quanto di meglio avremmo potuto desiderare: il calore del sole, infatti, sta combattendo sulla nostra pelle una lotta ostinata con la frescura del vento – oggi tanto forte che pare di poterlo afferrare. Sopra di noi, infine, un cielo azzurrissimo e qualche nuvola irrequieta completano la tavolozza di questo spicchio di mondo e di vita.
Sappiamo di essere fortunati nel poter essere qui ora, e ce lo ripetiamo di frequente. Mentre avanziamo non restiamo compatti e le nostre chiacchiere sono molte meno del solito. È evidente che tratti come questo rendono affamati di contemplazione e riflessioni interiori, cosicchè finiamo per regalarci vicendevolmente spazio e silenzio, in totale spontaneità.
Più o meno di nascosto, ci facciamo l’un l’altro qualche fotografia, e alcune di queste diventano poi piccoli regali che ci scambiamo sorridendo. È emozionante vedersi immortalati in mezzo a paesaggi simili. Le nostre sagome solitarie si innestano perfettamente in questo palcoscenico, sul quale l’anima del mondo sembra integrarsi totalmente con quella del viandante.
Dopo circa 11 km di marcia, sostiamo per un attimo presso una lapide dedicata ad un pellegrino venuto a mancare. Scendiamo poi nel paesino di Zariquiegui, dove troneggia sotto il sole la bella chiesa di San Andrès – negli splendidi grigi e ocra delle sue pietre.
Tiziano ricorda nitidamente che in passato qui ci fosse un bar, ed essendo già le 11 sarebbe l’ideale per calmare i nostri stomaci e spezzare la mattina. Troviamo solo un microscopico negozio di alimentari e souvenir, ma almeno ha una macchinetta per il caffè, e tanto basta. La titolare si dimostra gentilissima, anche se inevitabilmente un po’ amareggiata per l’annata funesta e l’imminente chiusura della regione. Consumiamo la merenda sulle panchine davanti alla chiesa, scaldandoci al sole come lucertole.
Tornati in marcia, usciamo dal paese e iniziamo la salita verso lo scollinamento tanto atteso, quello dell’Alto del Perdón, uno dei luoghi più significativi del Camino Francés.
In un punto abbastanza anonimo nel mezzo del sentiero, troviamo due pellegrine spagnole in sosta. Sono le uniche incontrate oggi, logicamente per via delle misure di confinamento. Chi si troverà all’interno del perimetro della regione dopo le 19 di stasera, infatti, sarà costretto a rimanerci fino a nuovo ordine – o almeno così viene minacciato.
Tenendo conto che saranno anche impediti nuovi ingressi, è più che probabile che in questo momento siamo gli ultimi a camminare sul Francese. Anzi no! Dimenticavo che alle nostre spalle restano ancora Serena e le sue due compagnie di viaggio. Stamattina sono partite molto più tardi di noi, ma siamo d’accordo di salutarci a Puente de la Reina prima di dividerci.
Man mano che la cima della collina si avvicina, anche l’emozione sale. A qualche decina di metri dall’obiettivo, ci giriamo a contemplare il territorio già percorso, scorgendo nitidamente Pamplona in lontananza. A questo punto io scelgo di accelerare il passo, desideroso di arrivare in cima. Tiziano, invece, opta per il contrario, preferendo gustarsi il momento rallentando.
Chi prima chi dopo, cominciamo a intravedere i profili delle famose scultore che tanto caratterizzano la sella, anche se a dominare la scena sono le gigantesche pale eoliche. Fanno da sentinelle lungo tutto il crinale, con il loro movimento lento e il loro biancore poco naturale, ma confesso che a me non dispiacciono.
Manca poco a mezzogiorno quando muovo i primi passi sopra l’Alto del Perdón. La terra che ora si staglia di fronte a me è sconfinata, e dovunque io posi lo sguardo incontro bellezza. Le mie urla di gioia ed entusiasmo accolgono l’arrivo di Amedeo e poi di Tiziano. Anche i loro occhi sono luccicanti di emozione: ci sentiamo forti e felici.
Pur essendo ancora molto distante dalla grande meta, sento comunque di aver raggiunto un traguardo particolarmente speciale. Non è il fatto che sia uno storico luogo di passaggio per i pellegrinaggi di ogni tempo; la vera ragione sta nella scoperta che qui il vento, la terra, il cielo e il sole si incontrano in maniera unica e per me totalmente inedita. Ho anche la sensazione profonda che questi stessi elementi primordiali stiano gioendo con me, come se mi avessero aspettato, come se riconoscessero nel pellegrino l’ultimo tassello perché questo luogo raggiunga il suo apice di bellezza e di senso.
Sono pensieri grandi, ma sembrano nascere in piena e spontanea armonia.
A tale concerto di emozioni partecipa anche l’arte, nella forma della famosa scultura tagliata nel ferro da Vincente Galbete e installata qui nel 1996. Rappresenta una carovana di pellegrini di diverse epoche, tutti diretti verso la tomba dell’apostolo. Sono sagome suggestive, che si sposano splendidamente all’ambiente che le circonda, diventando un accento fisico e visivo riuscitissimo. Su di esse campeggia la frase “Donde se cruza el camino del viento con el de las estrellas”, che stimola ancor di più la forza poetica che pervade il sito.
Una cosa manca, però, e inaspettatamente: è il silenzio. Sul crinale, infatti, il vento soffia con enorme forza e nelle orecchie si produce un boato ininterrotto. Non sono mai stato un amante di questo elemento, eppure qui pare non disturbarmi. Anzi, addirittura lo sto percependo quasi come un amico. In realtà, è un sentimento che già provato anche nelle settimane passate – soprattutto in terra francese – ma qui ne sto vivendo l’espressione più entusiasmante.
Dedico qualche minuto sulla soglia della discesa che ci aspetta. Se mi sporgo di qualche grado, qui il vento è sufficientemente forte da potermi sostenere. Resto così, quindi, impercettibilmente sospeso. Gioco con questo soffio che sembra inesauribile, e il suo fischio si trasforma in un’allegra risata che trascina anche me.
Momenti simili si tramutano immediatamente in pilastri indimenticabili per quest’esperienza già superlativa.
Restiamo quasi mezz’ora, pur sapendo che ci aspettano ancora una decina di chilometri. Quando infine salutiamo l’Alto del Perdón e cominciamo a scendere, il cielo si ingrigisce. A valle imbocchiamo una via ghiaiosa simile a quella delle ore precedenti, ma ancora meno pianeggiante.
Dopo un’ora di saliscendi tra campi arati, incontriamo il paese di Uterga. Sembra ben curato, ma non incontriamo anima viva. Solo verso la fine troviamo un albergue aperto che fa anche da bar, e ne approfittiamo almeno per un aperitivo.
Il proprietario è un giovane sudamericano che vive qui da una vita con la famiglia. Trasmette una grande rilassatezza e ci accoglie molto gentilmente. Anche lui sta patendo quest’annata economicamente buia, ma tenta di affrontare la cosa senza piangersi addosso.
Seduti ai tavolini fuori, facciamo conoscenza anche di Abel, un cliente del posto che si dimostra particolarmente originale ed espansivo. Scambiamo due chiacchiere parlando di calcio, del Cammino e della festa di San Firmin a Pamplona – che ci dice essere di proporzioni incredibili, seconda solo al carnevale di Rio de Janeiro. Promettiamo a noi stessi di parteciparvi prima o poi, nonostante il pensiero di questa pandemia incomba minacciosamente anche sul futuro di tutti quanti.
Riprendendo la nostra marcia, superiamo l’anonima Muruzábal e raggiungiamo Obanos. All’ingresso del paese veniamo guidati da una fila di conchiglie d’ottone incastonate nel manto stradale, come quelle viste a Pamplona. Sono indizio di una cura estetica che scopriamo caratterizzare l’intera cittadina. C’è anche una chiesa molto grande, che purtroppo si va ad aggiungere alla lunga lista di quelle trovate chiuse in questi mesi. La superiamo passando sotto ad un arco splendido e costeggiando poi un campo coperto di pelota basca.
Obanos ci saluta definitivamente attraverso l’ennesima scultura dedicata al Cammino. Si tratta di un’alta lastra di ferro da cui è stata asportata la sagoma di un pellegrino, e si è invitati a passarci attraverso. Forse non un’idea superlativa, ma comunque sempre un dettaglio piacevole a scandire il nostro avanzare. Chissà quanti viandanti moderni si sono divertiti a passare in quell’esatto spiraglio!
Tramite Tiziano, riceviamo nuove indiscrezioni riguardo alle misure delle regioni per contenere la nuova diffusione del virus. Pare sia sempre più probabile che da un giorno all’altro si decida di confinare anche la Rioja, la regione in cui tutti ci sposteremo stasera. Spendiamo quindi gli ultimi chilometri tentando di ragionare sugli scenari possibili, ma finiamo col rinviare tutto a quando avremo la mente più lucida e la pancia piena.
Sono da poco passate le tre del pomeriggio quando finalmente raggiungiamo Puente la Reina. Passando subito davanti ad un albergue gestito da religiosi, chiediamo il piacere di un timbro sulla credenziale. Nessuno pernotterà qui stanotte, ma ci fa piacere avere un ricordo dell’ultimo luogo raggiunto a piedi in Navarra.
Superata la Iglesias del Crucifijo, ci incanaliamo nella via centrale del paese, dove troviamo chiusa anche la chiesa di Santiago El Mayor. Poco dopo, un bar attira più di altri la nostra attenzione trasmettendo all’esterno della musica particolarmente piacevole. Successe esattamente lo stesso ad Espinal, qualche giorno fa, una volta scesi da Roncisvalle. Decidiamo però di rinviare l’almuerzo per visitare prima il famoso ponte che dá il nome al paese.
Una volta raggiunto, restiamo sorpresi per la grandezza e l’ottimo mantenimento. Quest’opera, però, non è il solo motivo per cui è famosa Puente la Reina. Proprio qui, infatti, convergono le due vie pellegrine più note per superare i Pirenei: il cammino proveniente da Saint-Jean-Pied-de-Port e quello dal passo di Somport.
Dopo un po’ di contemplazione e le foto di rito, è finalmente arrivato il momento di pranzare. Anzi, innanzitutto di brindare, con l’irrinunciabile cerveza di fine tappa. Comincia anche un po’ a piovere, e il bar deve chiudere per una breve pausa. Acconsentono però a servirci comunque, lasciandoci seduti ai tavoli esterni, protetti sotto un grande ombrellone.
Cominciamo a ragionare su quale strategia adottare per oltrepassare La Rioja prima che ne chiudano i confini. Ovviamente, considerare gli scenari peggiori ci destabilizza e ci crea pure un sottile rammarico, ma approfittiamo del nostro essere gruppo per sostenerci a vicenda.
Fortunatamente, comunque, la regione è piccola e allungando il passo dovremmo uscirne in un paio di giorni – a seconda di dove troveremo alloggio in questo periodaccio. Sarà una bella sfacchinata, certo, ma alla nostra portata.
L’aspetto che più ci preoccupa è che queste chiusure potrebbero poi riguardare anche le regioni successive, compromettettendo forse definitivamente questa bella avventura. Come ogni altro pellegrino entrato in Spagna fino a pochi giorni fa, avevamo già considerato fin dalla partenza quest’evenienza, ma trovarcisi di fronte ha tutto un altro sapore.
Mentre aspettiamo Serena, Muche e Jana per salutarle – così si chiamano le altre due – vado a comprare qualche scorta di cibo.
Le tre amiche pellegrine, giustamente, se la sono presa con comodo e arrivano solo verso le 18:30. Mentre consumiamo un ultimo aperitivo, le ascoltiamo descrivere brevemente la comunità in cui vivono, a circa 30 km da qui. È un esperimento di convivenza che nasce a partire da una realtà già esistente, un albergue a Villamayor de Montjardin fondato anni fa da un hippie olandese giramondo -me lo descrivono proprio così. Pare che questi avesse riconosciuto nel cristianesimo la migliore centratura per la propria spiritualità, e nel Cammino il luogo dove spenderla pienamente.
Così come già successo a Zubiri quando ci siamo conosciuti, il loro racconto riesce a catturarmi e ci lasciamo con la promessa di risentirci ancora una volta dopo l’arrivo a Santiago, pandemia permettendo.
Come previsto, poco dopo riceviamo un messaggio da Maria, la ragazza che abbiamo trovato con BlaBlaCar e che ci accompagnerà a Logroño in auto: sta per arrivare a prenderci. Salutiamo quindi il bel trio di amiche e andiamo ad incontrarne una nuova.
La nostra autista si rivela una ragazza vitale, allegra e piena di risorse. Già microbiologa, non si è accontentata della prima laurea e ha proseguito gli studi, scegliendo di studiare farmacia. Come se non bastasse, è anche poetessa e proprio ha recentemente pubblicato il suo primo libro.
Il viaggio con lei si rivela divertentissimo, anche se in me ribolle comunque una certa malinconia mentre vedo scorrere il paesaggio al crepuscolo fuori dal finestrino. Sembrano terre decisamente affascinanti, eppure Tiziano ieri mi aveva detto che non mi sarei perso un granchè. Ho il sospetto lo abbia fatto apposta per spegnere le mie ultime fantasie da pellegrino integralista. Glielo dico, e non riesce a nascondere il sorriso di chi è stato beccato. Alla fine, però, va bene anche così: la tappa di oggi è stata comunque indimenticabile e valeva la pena percorrerla.
A dirla tutta, sono anche un po’ stranito dal viaggio in auto, dal muovermi stando seduto e a questa velocità. L’ultima volta che avevo preso un mezzo era stato poco prima di Montpellier, assieme a Fabian, ed è passato quasi un mese.
Arriviamo a destinazione verso le 20, salutiamo la nostra divertente accompagnatrice e raggiungiamo l’Albergue Municipal. Passiamo anche davanti all’imponente cattedrale, ma la parte inferiore è coperta da alcuni ponteggi. Fortunatamente, almeno quella superiore è libera e ben illuminata e mi aiuta a disintossicarmi un po’ dalla malinconia dei chilometri non camminati.
Una volta registrati e sistemati in albergue, Tiziano e Amedeo si fiondano nella brulicante Calle de Laurel per regalarsi una cena golosissima a suon di pinchos – golosi e sofisticati stuzzichini, noti come tapas in altre parti di Spagna. Io, invece, opto per una cena spartana in camerata. Con mio grande piacere, si unisce a me anche Zoe, che stamattina ha preso l’autobus fino a Los Arcos, camminando poi l’ultima tappa tra Navarra e Rioja, fin qui.
Sono solo quattro giorni che la conosco – o che la incrocio, per meglio dire – ma parliamo comunque di tutto con una sintonia straordiaria. Ha la metà dei miei anni, eppure la sua testa e il suo spirito sembrano parecchio più maturi. Ormai, poi, è già diventata proverbiale la sua capacità di sopportare i dolori e di proseguire tenacemente, addirittura col sorriso.
Buona parte dei pellegrini che pernottano qui stasera li ho già visti più volte nei giorni scorsi. Gli altri che riempiono le camerate, invece, sono quelli che fino a ieri erano avanti a noi di una, due o addirittura tre tappe: ci ha radunati qui la fuga comune dalla Navarra. Inutile negare che, nonostante i letti alternati, le misure anti COVID non sono certo le migliori possibili, ma è emozionante vedere tanto affollamento di viandanti in unico luogo.
Qualche momento prima del coprifuoco, Tiziano e Amedeo tornano belli carichi da quanto bevuto e mangiato, invadendo la camerata con una sana allegria caciarona. Portano con sé anche la conferma del confinamento della Rioja nel giro di due giorni, ma tutto sommato è qualcosa a cui un po’ tutti ci eravamo già rassegnati.
(Albergue municipal Jesús y Maria)
20,5km
La notte non è andata male, ma ci svegliamo ancora carichi delle nostre preoccupazioni. Oggi però ci aspetta ancora una tappa breve, da prendere con calma. Arriveremo nella bella Pamplona e là cercheremo di raccogliere tutte le informazioni e le novità possibili. A quel punto ragioneremo di nuovo sul da farsi e prenderemo le nostre decisioni.
Stamattina ci regaliamo anche una colazione al bar, cosa molto rara per me. Peccato però che il proprietario ci presenti un conto oggettivamente sproporzionato, rovinandomi il piacere di questo piccolo lusso. Che fare, mettersi a litigare per qualche spiccio? Non vale di certo la pena, così porto pazienza e cerco di iniziare il cammino senza lasciarmi rovinare ulteriormente il morale.
Battendo ogni record, partiamo poco prima delle 9, con un cielo plumbeo e minaccioso. Spulciando la guida e parlando con Tiziano, scopro che oggi cammineremo su sentieri per lo più pedecollinari fino a Iruña, nome basco del capoluogo navarreno.
Saranno per lo più saliscendi molto accessibili che ci faranno percorrere tutta la valle di Esterìbar, solcata dal fiume Arga e dalla cosiddetta Carretera de Francia – una strada che collega Saint-Jean-Pied-de-Port proprio a Pamplona.
Poco dopo Zubiri, ci imbattiamo in una gigantesca cava che fa da scenografia al nostro cammino per qualche chilometro. È uno spettacolo particolarmente brutto, e istintivamente mi scopro a pensare ai cugini francesi, che di certo ci avrebbero fatti salire fino in cima alle colline piuttosto che farci camminare davanti a questo ecomostro. Temto di consolarmi ricordando a me stesso di stare percorrendo una rotta di pellegrinaggio secolare, piena di storia di cui anch’io ora sto entrando a far parte, ma il tentativo non sortisce l’effetto sperato.
Dopo i piccoli abitati di Ilàrraz e di Ezquìnoz attraversiamo un’area boschiva, oltre la quale incontriamo un gran capanno la cui facciata è totalmente dipinta con un caloroso benvenuto ai passanti nel Paese basco.
Il sentiero prosegue poi in maniera un po’ anonima, alternando tratti scoperti ad altri incanalati nella vegetazione. A differenza dei mesi passati, non perdo nemmeno un minuto sulle tracce Gps: le frecce gialle bastano e avanzano, e così mi rimane un bel boccone di tempo da godermi come meglio credo.
Qua e là Incontriamo alcuni pellegrini, la maggior parte dei quali già conosciuti nei primi due giorni. In qualche occasione mi ci affianco e cerco il dialogo, ascoltando le loro storie e condividendo la mia.
A dirla tutta, però, provo sentimenti ambivalenti: qualcosa del mio peregrinare tra Francia e Italia sembra continui a mancarmi, forse proprio quell’avanzare solitario vissuto per due mesi interi. Una seconda voce interiore mi ripete invece che cambiare è sano e parte nodale di questa esperienza.
Mi torna anche alla mente una frase che un amico mi rivolse tanti anni fa: “Ricordati che, se vuoi cambiare, non potrai più essere lo stesso”, un motto meno banale di quel che può sembrare. Era tutt’altra situazione, ma riesce lo stesso a scuotermi positivamente.
Sfioriamo il paesino di Larrasoaña e raggiungiamo Akerret, continuando tra piccole discese e salite ai piedi delle colline boscose. Ci conducono fino al fiume Arga, che attraversiamo presso Zuriain. Costeggiamo per un breve tratto la statale, e risaliamo infine fino al minuscolo abitato di Iroz.
Confesso che il ricordo di questa valle probabilmente non resterà impresso nel mio cuore, ma vale il discorso già fatto: il Cammino di Santiago è questo, e non è nato per essere innanzitutto bello. Quello che sto facendo non è turismo, o almeno non solo, ed è giusto che me ne ricordi.
Dopo un sottopasso, riemergiamo nei pressi di un’area barbecue pubblica. Non sta più piovendo, ma tira un gran vento e una pensilina coperta diventa il luogo perfetto per fermarsi a pranzare. Rigenerati, ripartiamo poi con calma, costeggiando la località di Arleta e la sua chiesetta, che regalano finalmente un po’ di grazia ai miei occhi affamati. Pochi minuti dopo si comincia a scorgere l’inizio della pianura urbanizzata, la Cuenca de Pamplona.
L’ultimo lembo del versante opposto è occupato da quartieri ben distinti, composti da villette tutte identiche tra loro. Sono disposte in maniera talmente ordinata e rigorosa da sembrare un grande gioco da tavolo. Non riesco a credere che urbanizzazioni simili possano giovare alla comunità di persone che li abita.
Comincio a desiderare ardentemente di arrivare in centro Pamplona, e incrocio le dita sperando che la periferia che attraverseremo non sia troppo male.
Finalmente a valle, oltrepassiamo il fiume Ulzama grazie all’antico ponte della Trinidad de Arre: un bel regalo per la vista e per lo spirito.
Siamo a sedici chilometri camminati fin qui, e d’ora in avanti gli altri saranno tutti per strade cittadine. A memoria, l’ultima area che ho percorso con una concentrazione simile è stata forse quella di Carcassone, quasi tre settimane fa.
Armati delle nostre mascherine, camminiamo in un clima urbano che percepiamo teso, frustrato, probabilmente anche a causa dell’imminente chiusura della regione.
Ci chiediamo come questa gente percepisca il nostro passaggio: chissà se si domandano che faremo ora, o se qualcuno è disturbato dalla nostra apparente noncuranza.
Sulla pagina Facebook di Tiziano una manciata di utenti che hanno commentato i suoi post sembrano perplessi, o a volte addirittura indignati: il nostro essere a zonzo nel pieno di questa situazione li turba. Personalmente, a parte alcuni casi, credo sia comprensibile; d’altronde la pressione che si è venuta a creare in tutto il mondo è davvero critica. Speriamo vada tutto bene, e non solo per noi.
Poco prima dell’arrivo, la rotta ci conduce lungo una strada secondaria che costeggia un grande campo. Per circa un chilometro ci liberiamo dalla congestione cittadina e riusciamo a tirare un po’ il fiato.
Dieci minuti dopo sbuchiamo a un passo dal Ponte della Magdalena: sormonta lo stesso fiume Arga le cui acque ieri avevano rigenerato alla perfezioni i nostri piedi.
L’antico arco di pietra è davvero elegante e le aree verdi lungo gli argini sono particolarmente curate: tutto inizia finalmente ad assumere il fascino che aspettavo. Mentre stiamo passando sull’altra sponda, comincia di nuovo a piovigginare e il vento parte a sollevare le prime foglie secche di quest’autunno spagnolo.
Le imponenti mura cittadine rievocano inevitabilmente quelle della mia Bergamo. Camminando tra i sentieri del parco che sta ai loro piedi, superiamo un grandissimo baluardo triangolare e iniziamo poi a salire, imbattendoci subito nel Portal de Francia. È chiamato così perché rappresentava l’ingresso principale per chi arrivava in passato da oltre i Pirenei, esattamente come noi oggi. Per un attimo resto letteralmente incantato dai meccanismi dell’argano che comandano il ponte levatoio, come se tornassi bambino.
La città è comprensibilmente semivuota, ma non per questo meno bella. La mia attenzione è catturata soprattutto dalla tavolozza di colori usati per le facciate, dalla raffinatezza dei tanti balconi e dalla pendenza alternata delle vie.
Siamo stanchi, ma felicissimi di essere qui. Di comune accordo, scegliamo di registrarci subito all’Albergue Municipal, di lasciare lì le nostre cose e dedicarci poi a fare un bel giro per il centro.
Alleggeriti dei nostri zaini, arriviamo in Plaza Castillo mentre ancora piove. È un luogo enorme, con un tempietto circolare al centro, simile a un chiosco per la musica. Percorriamo qualche via in cerca di un buon posto dove bere qualcosa, ma motli locali sono chiusi a quest’ora.
Dopo forse venti minuti perdo l’ispirazione: spiego ai ragazzi che preferisco rinunciare alla bevuta e dedicarmi invece a visitare un po’ la città. Loro non sono dell’idea però, così ci salutiamo e ci diamo appuntamento per l’ora di cena.
Giro prima un po’ a caso, ma poi mi nasce lo strano presentimento di starmi perdendo qualcosa di prezioso. Raggiungo quindi l’ufficio turistico, ma stranamente lo trovo chiuso. Decido così di andare in cattedrale, l’unico luogo di rilievo di cui sono a conoscenza.
È a due passi dall’albergue, ma la facciata non è appariscente come mi sarei immaginato e mi lascia un po’ titubante. Una volta dentro, invece, la mia impressione cambia rapidamente. L’architettura sembra piuttosto sobria, costruita con pietre color nocciola che mi trasmettono un senso di tepore.
Tutto ciò che vedo mi piace, ma niente supera la tomba monumentale posta tra le prime file di banchi, sotto all’altare. Non è interrata, e le statue d’alabastro dell’antica coppia di regnanti sono stese su un piano scuro a circa un metro da terra. Sono di una raffinatezza sconvolgente: ogni particolare mi cattura e continuo a girarci attorno per trovarne di nuovi. L’illuminazione è quella ideale e dà forse il suo meglio nella fascia inferiore, spartita in una serie di nicchie gotiche, ciascuna occupata dalla piccola statua di un monaco o di un cardinale. È una serie mozzafiato, seppur vagamente inquietante.
Visito anche il chiostro, rimanendo totalmente atterrito da tanta magnificenza. Le sue caratteristiche e la cura con cui è mantenuto lo avvicinano alla perfezione.
Accedo poi al museo diocesano presente all’interno del complesso, e anche qui mi trovo sommerso da una bellezza inestimabile. La cosa strana è che collezioni di questo genere, per quanto preziose e uniche, abitualmente non riescono ad incantarmi. Forse in questo caso il design degli spazi espositivi e la comunicazione incredibilmente efficace hanno saputo far la differenza, coinvolgendomi più del solito.
Inevitabilmente, torno al Municipal un po’ trasognato. Tiziano e Amedeo già stanno riposando sulle loro brande. Mi faccio una doccia veloce e usciamo a mangiare. Ci fa compagnia anche Zoe: continua il suo pellegrinaggio valorosamente, nonostante confessi molta fatica – in particolare a causa del dolore ai piedi. Provo ad aiutarla condividendo qualche dritta riguardo all’allacciatura delle scarpe, sperando possa esserle utile quanto lo è stato per me.
Scegliamo un bel bar-ristorante specializzato in cucina basca. Sembra un locale tra i tanti, ma il servizio e le pietanze si rivelano prelibatissime. Nonostante ciò, io mi limito a un semplice aperitivo, per risparmiare un po’; cenerò in albergue al nostro ritorno, con qualcosa preso in un piccolo supermercato oggi pomeriggio.
Ovviamente, passiamo parte del tempo a ragionare su che fare domani. Le posizioni sono simili a quelle di ieri sera, in particolar modo la mia: ancora non digerisco il confinamento regionale e l’idea di saltare delle tappe continua a sembrarmi un “tradimento”. Vorrei continuare solo con le mie gambe, passando il confine in un modo o nell’altro.
Purtroppo usciamo senza una soluzione, e continuiamo il confronto una volta ritornati in alloggio. È una struttura gigantesca, composta da un’enorme camerata divisa in due ali. Qui abbiamo modo di riunirci con una dozzina di altri pellegrini, più meno tutti già conosciuti, e valutare insieme le varie possibilità.
Alla fine, la persona che più di altre riesce a farmi demordere ragionevolmente è Serena, la veneta conosciuta ieri. Domani, però, non tutti adotteranno la stessa soluzione. Alcuni prenderanno l’autobus di prima mattina e si recheranno a Los Arcos, partenza dell’ultima tappa della regione. Da lì, entreranno camminando in quella successiva – La Rioja – concludendo la tappa a Logroño.
Io, Tiziano, Amedeo, Serena e le sue due compagne, invece, non prenderemo nessun autobus. La mattina partiremo da qui e cammineremo fino a Puente la Reina, dopodichè noi uomini ci trasferiremo a Logroño con un passaggio trovato per puro caso su Blablacar.
Ben altra situazione per le ragazze: la comunità dove vivono, infatti, si trova all’interno della stessa Navarra, e proprio lungo il Cammino. A loro, quindi, non basterà far altro che continuare il loro pellegrinaggio fino a casa, e semplicemente concluderlo lì.
(Albergue Rio Arga)
21,5km
La notte non è stata delle migliori. I caloriferi non hanno mai smesso di funzionare e l’aria fredda che entrava dalla finestra ha creato solo una corrente altrettanto fastidiosa. A questo cammino continua a mancare una bella infilata di dormite riposanti, e sembra che nemmeno tornare a condividere una stanza sia bastato a inaugurare un’inversione di marcia. Poco male, comunque; almeno non va peggio. Anzi, a pari condizioni, adesso posso farmi qualche risata fin dalla mattina presto, cosa che mi dà gran gusto.
Messo il naso fuori dalla stanza, mi gusto il gran fermento che anima l’hotel: un brulichio di pellegrini di ogni genere vanno e vengono con i propri zaini. Siamo tutti differenti, ma uniti nella stessa avventura.
Credo che tutto questo si decuplichi in un anno normale. Innanzitutto immagino avrei dormito nella grande camerata della Collegiata, e non qui alla Posada. I pellegrini sarebbero stati un’infinità e ogni cosa di conseguenza. Ma non è molto utile star troppo a pensarci. La verità è che dobbiamo tutti ringraziare il cielo di poter essere qui oggi, ognuno a godersi la propria “sana imprudenza”.
Dopo la colazione, faccio ancora una scappata nella bella chiesa dove già avevo fatto capolino ieri. Il tempo non è molto, ma inginocchiarsi a sancire la propria gratitudine non è mai una cattiva idea.
Al mio ritorno, gli amici di Laigueglia già scalpitano nella frescura del mattino. Sopra di noi, il cielo è occupato solo da qualche nuvola sottile, e le previsioni dicono che il clima non dovrebbe peggiorare.
Il momento cruciale prima di partire è la foto ricordo al celeberrimo cartello sul quale campeggiano il nome della nostra meta e la distanza che ce ne separa: “SANTIAGO DE COMPOSTELA 790”. Mi sorprende percepire che il mio cuore non sia per nulla intimorito da quella cifra. La sento assolutamente alla mia portata. Che bellezza! È il frutto di queste prime nove settimane di cammino, una prova che qualcosa già è cambiato.
Può sembrar scontato, oppure irrilevante, ma chi lo dice che un viaggio per forza riesca a cambiarti? Io ho parti di me dure come sassi, e non credo di essere l’unico. Ogni trasformazione per me è un dono, e ho compreso da tempo che non è saggio sottovalutare quelle di minor portata, perchè spesso si rivelano indispensabili per innescare i mutamenti più radicali.
La vista di Tiziano che si fa fotografare di spalle accanto al cartello, mi catapulta fuori dalla mia bolla di pensieri. Sta mimando un passo, quello della partenza di stamane. Dice che ne ha una uguale fatta la scorsa volta, quando tutto qui era innevato. Bell’idea farne una seconda allo stesso modo! Dice che la posterà. È molto attivo sui social, e in particolare su un gruppo italiano dedicato al Cammino di Santiago. Mi ci sono iscritto anch’io, ma non posto praticamente mai.
Per quanto mi riguarda, continuo a condividere una selezione di foto del giorno solo attraverso lo stato Whatsapp. I post restano visibili per 24 ore e li possono vedere solo le persone che ho salvate in rubrica. È una condivisione oggettivamente più intima, e il fatto che svaniscano giorno per giorno ho trovato conferma contribuisca a trasmettere la incessante dinamicità di questo viaggio.
Molti mi hanno ringraziato per questo; è stato un po’ strano. Addirittura, le poche volte che ho aspettato la mattina anziché la sera per pubblicare le immagini, più d’uno mi ha chiesto se andava tutto bene, se era successo qualcosa. Non me lo sarei mai aspettato.
Tiziano è da quattro anni che condivide sul web tracce dei suoi viaggi. Dice che gli hanno permesso di conoscere molte persone, anche dal vivo, e da quello sono nate diverse opportunità concrete, alcune delle quali è riuscito a concretizzarle. Riguardo al gruppo Facebook, tra l’altro, è in contatto diretto con l’amministratrice, che sembra essere eccezionalmente disponibile ed aggiornata su tutte le novità riguardanti questo periodo matto.
Quanti pensieri, e non siamo ancora partiti! Tra l’altro sono le 8:40: non ho mai cominciato così tardi a camminare. C’è da dire, però, che la tappa di oggi è di soli 21 km, e pure molto accessibili. E poi, dopo il dislivello di ieri di cosa potremmo mai preoccuparci?
Partenza, quindi!
Da un sentiero a lato strada, entriamo in una boscaglia non incantevole, sbucando poi alla periferia della piccola Burguete. Incontriamo subito un negozio di alimentari. Io ormai ho l’abitudine di approfittarne per far scorta di pane e altro cibo a buon prezzo. È un approccio associato alla lunghezza del mio viaggio e alla necessità di fare economia. I due compagni, invece, non sembrano troppo della stessa idea. È più che comprensibile visto che cammineranno “solo” lungo il Francés, che anche con la pandemia dovrebbe offrire comunque ottimo sostegno ai pellegrini – sia per gli alloggi che per il vitto. Alla fine, però, cedono alla golosità e comprano comunque qualche stuzzicheria per uno spuntino a metà mattina.
Il pueblo non è per niente male; si sviluppa quasi interamente attorno a una via centrale. Esteticamente, ritrovo lo stile basco conosciuto in questi giorni, con una cura minuziosa di facciate e piccole aree verdi.
Seguendo le famose frecce gialle dipinte qua e là, prendiamo una svolta che in un baleno ci fa lasciare l’abitato e ci conduce tra campi, pascoli e qualche fattoria.
Dopo un tratto di bosco, poi, arriviamo in un paesino simile al precedente: Espinal. Qui troviamo un bar incastrato in fondo ad una piazzetta laterale, che ci ha attratti con un’inattesa musica jazz trasmessa delle casse esterne. Con nostro grande piacere, poi, siamo presto raggiunti anche dalla mitica Zoe.
Rinvigoriti e conosciutici anche un po’ meglio, lasciamo quindi il villaggio tornando ancora tra prati verdi, e iniziando pian piano a salire.
Non vorrei sbagliarmi, ma credo sia da queste parti che incontriamo il nostro primo mojón. Così si chiama in Spagna il cippo, la colonnina in pietra posta al bordo della via, quella che la identifica.
Superato un altro bosco, sbuchiamo su una grande terrazza erbosa che ci regala una vista sulla valle sottostante. La tappa di oggi, in realtà, soffre parecchio il confronto con quella di ieri, e anche uno scorcio non memorabile come questo ha almeno il pregio di rievocare le ore di ininterrotta meraviglia vissute sulla strada per Roncisvalle.
Durante la discesa nel bosco, incontriamo un sentiero addirittura lastricato. Forse un vezzo, oppure un modo per non dover fare troppa manutenzione a un percorso che ospita usualmente migliaia e migliaia di persone, chissà.
Gli attraversamenti di Bizkarreta e Lintzoain non sono memorabili, e oltre quelli non rimane che superare l’ultima stringa collinare, con un’area boschiva ancor più estesa delle precedenti.
A tre quarti della traversata si passa per il Puerto de Erro, un ampio crocevia posto al centro di una sella. Ormai non rimane altro che proseguire in lenta discesa verso la nostra meta di oggi: Zubiri.
Ci arrivo da solo, in anticipo sui miei due compagni di viaggio. Il motivo, però, non è solo la differenza di passo; la verità è che mi sono proprio voluto staccare. L’inesauribile goliardia di Tiziano e Amedeo è un ingrediente nuovo e già preziosissimo, ma questi due mesi mi hanno tolto ogni dubbio: dentro me convivono e si alternano un’affamata estroversione e un’anima da vero orso.
Non voglio essere frainteso: sono innamorato della ricchezza che riconosco negli altri e mi entusiasma l’imprevedibilità della condivisione profonda, eppure il cammino solitario sembra sapermi regalare qualcosa di unico. Parlo di un’armonia straordinaria, di cui sembrerebbe sia diventato dipendente.
Dopo l’esperienza con Fabian tra Arles e Montpellier, mi trovo ancora a verificare quello che forse è un assioma dei grandi viaggi a piedi, e probabilmente anche della vita: ciascuno ha un assoluto diritto di vivere l’esperienza in profonda libertà. Questo comporta la responsabilità di ascoltarsi e creare le migliori condizioni per beneficiare di questo avanzare lento, nutriente e poetico, senza dimenticare mai di garantire a chi si ha di fianco di poter godere della medesima opportunità.
Zubiri accoglie i pellegrini col suo iconico ponte gotico sopra il fiume Arga. Seduta su quelle pietre scolpite secoli prima, trovo una ragazza tedesca incontrata ieri tra le cime verdi dei Pirenei. Con lei c’è un ragazzo di non so quale nazionalità. Durante la tappa stavano assieme ad altri, ma evidentemente anche il loro gruppo si è sfaldato.
Nel giro di pochi minuti arrivano anche i due baldi liguri, e poco dopo un giovane esageratamente distrutto dalla tappa – che a onor del vero non era certo proibitiva.
Tiziano convince Amedeo ad approfittare dell’acqua fredda del fiume per rimettere in sesto i piedi, e in effetti poi tornano entrambi rigenerati ed euforici. Mi rendo conto che in due mesi – incredibilmente – non ho mai fatto nemmeno questo, e scelgo anch’io di provare. Si unisce a me anche Zoe, arrivata da poco e molto dolorante proprio ai piedi. È un’ottima occasione per continuare a conoscerci, e in ogni cosa che mi racconta trovo una piccola conferma delle belle sensazioni già percepite ieri.
Per questa notte, io e i due ragazzi abbiamo prenotato una stanza al Rio Arga, l’albergue che sta esattamente al termine del ponte. Prima di registrarci, però, facciamo tappa ad un bar in fondo a una piccola laterale per una meritata cerveza.
Consumato il rito con la dovuta calma, raggiungiamo poi l’alloggio. Non è niente male; l’unico inconveniente è che la cucina non si può usare per via delle restrizioni legate al virus. Anche qui, come ieri e il giorno prima, ci vengono consegnate lenzuolo e federa usa-e-getta, e credo sarà inevitabilmente così per tutto il resto del cammino.
Nelle ore successive, arriva un altro trio oltre al nostro, ma tutto al femminile: due donne e una ragazza. La maggiore si chiama Serena, ed è veneta. Mi spiega che tutte e tre stanno sperimentando un’esperienza comunitaria qui in Navarra, assieme ad una famiglia e poche altre persone: una convivenza laica incentrata sulla fede cristiana. Si accorgono subito che la cosa mi stuzzica, e ci promettiamo di riprendere il discorso a cena.
Per ultimi, raggiungono l’albergue anche due ragazzoni decisamente fuori dagli schemi. Uno porta capelli e barba lunghi e arruffati. È particolarmente imponente, con mani e piedi enormi, una mascella pronunciata, la voce profonda e un atteggiamento particolarmente spavaldo: sembra un antico vichingo catapultato chissà come in questo scombinato 2020. L’altro ha un cappello a tesa larga e un grande bavaglio, entrambi neri. Quando si scopre, mostra un volto completamente glabro, l’opposto del suo compare. Ha comunque connotati molto spiccati, soprattutto i due occhi: sembra quasi riesca a tenerli costantemente spalancati. Danno l’impressione di essere famelici come quelli di un serpente, e sembrano braccare gli sguardi altrui in maniera piuttosto inquietante. I loro zaini sono l’unico particolare che aiuta a capire siano pellegrini. Si fanno subito notare per un modo di fare arrogante con cui fanno pressione sul proprietario per ottenere un prezzo minore, inquinando molto il clima di pacata accoglienza che avevamo trovato.
Il vero tema di questo pomeriggio, però, è la notizia preoccupante che Tiziano ha appena ricevuto: pare che la Spagna stia per intraprendere delle misure serissime per contrastatare la nuova diffusione del virus. L’ordinanza che più ci coinvolge è la chiusura di Burgos, uno dei punti di passaggio più noti del Francès nonché capoluogo della Castilla y León.
Proviamo a chiedere all’albergatore se può darcene conferma o aggiornarci su eventuali evoluzioni in corso. Purtroppo però l’anziano signore che gestisce il posto – dal nome particolarmente calzante di Santiago – sembra saperne quanto noi. Tra l’altro, poco dopo lascia l’albergue senza nemmeno aver prima tentato di fare una telefonata di verifica.
Chiaramente in tutti quantoi inizia ad insinuarsi una vaga preoccupazione, ma nelle ore successive arrivano anche altre notizie, decisamente più allarmanti della prima: sembra infatti sia imminente una chiusura dell’intera regione della Navarra, come ulteriore contromisura alla nuova ondata pandemica.
Cerchiamo di rimanere calmi, ma è sempre più difficile. La regione è molto grande e sono necessari circa cinque giorni di cammino per uscirne. Ahinoi, però, l’ipotetica chiusura avverrebbe prima, forse già dopodomani.
Con l’ora di cena arriva l’ufficialità della notizia: ci restano due giorni per uscire dalla regione, altrimenti rischiamo di rimanerci incastrati. Chiaramente iniziamo tutti a discutere per considerare insieme le varie possibilità.
Visto l’ordine di non poter usare la cucina, stiamo tutti intorno al tavolo mangiando panini o altre cose combinate alla bell’e meglio. L’opzione più quotata sembra quella di raggiungere domani Pamplona – come da programma – e là riaggiornarci, sicuri che in una città così grande le informazioni saranno ancora più precise. Quello in cui confidiamo, infatti, è che venga offerta ai pellegrini la possibilità di continuare normalmente, ma siamo coscienti che non sarà per nulla facile che questo si realizzi.
Mentre alterniamo interventi e bocconi, veniamo raggiunti dai due ultimi arrivati, che sembrano ostentare lo stesso atteggiamento abbastanza rude e poco socievole mostrato al loro arrivo. L’ambiente si vela di un nitido disagio, soprattutto perché cominciano a cucinare fregandosene totalmente degli accordi presi. Glielo faccio notare, e il vichingo mi risponde con fare sbruffone se io voglia forse punirlo (questa l’esatta traduzione), lasciandomi di stucco. A tavola, poi, il suo compare interviene con battute provocatorie e pungenti, come se cercasse di aizzare ciascuno piuttosto che contribuire a trovare una soluzione. Da parte sua, dichiara che non ha problemi a prendere un autobus, perché l’idea di spezzare il cammino non gli crea nessun problema. L’opinione è interessante e scelgo di spingerlo ad aprirsi. Cerco il dialogo anche per non andarmene da zittitto, cosa che mi brucierebbe non poco. Lui mette in campo un approccio fatto di deviazioni di tema e colpi bassi – come insinuazioni e allusioni provocatorie – ma io reggo bene e rilancio senza abbassare gli occhi. L’impressione è che la cosa produca effetto: il clima è da partita di scacchi. Nessuno dei due, però, arriva allo scacco matto. Io scelgo di lasciare il tavolo in un momento favorevole della discussione, quando lo strano tipo è rimasto un po’ a corto di battute e allo stesso tempo Serena ha cominciato a inserirsi con decisione.
Tiziano e Amedeo sono già ritornati in camera da un pezzo, e prima che anch’io lasci il refettorio le ragazze mi fanno promettere di continuare domani a Pamplona il discorso rimasto aperto sulla loro comunità.
Inaspettatamente, anche Adam – il vichingo – mi congeda con parole di rispetto. Era stato in silenzio molto più dell’amico, e ha ascoltato tutto con attenzione. Ne approfitto per conoscerlo un pizzico più a fondo, e da lacuni dettagli del suo esprimersi colgo una profondità che fino a poco fa era riuscito a cammuffare perfettamente. Ora che è calmo e aperto, trasmette un intenso mix di virilità, intelligenza e sensibilità, come mai ne ho percepiti in altri. Ci lasciamo con una stretta di mano carica di stima reciproca. Saluto infine anche il mio “avversario”, ancora tutto impegnato a battibeccare. Mi risponde con un sorriso di chi pare abbia gradito il contenzioso.
La mia serata prosegue poi in stanza, con Tiziano e Amedeo. Restiamo svegli ancora parecchio, lottando contro la stanchezza e tentando di considerare tutte le possibilità a nostra disposizione. Per quanto mi riguarda, fatico enormemente ad accettare di saltare altre tappe dopo quel paio che già avevo perso in Francia. Loro cercano di farmi ragionare sul fatto che quello che sta succedendo è troppo grande per noi e non è saggio io mi ostini, ma mentre parliamo sono già piegato sullo smartphone per capire come potrei raggiungere in due giorni il Camino del Norte, sulla costa settentrionale.
Consideriamo anche l’eventualità – non così assurda – che a queste chiusure ne seguiranno altre a catena, e che il nostro viaggio dovrà presto o tardi interrompersi. In quel caso siamo tutti d’accordo sul fatto che non torneremmo comunque a casa, e la serata si conclude tra strampalate idee di fuga: loro verso il Portogallo e io addirittura a studiare il francese in Marocco!
(Hotel La Posada)
24km
Stamattina di sveglie ne suonano tre diverse: tre suonerie e tre modi distinti di alzarsi. Tiziano è molto ben organizzato ed efficiente: si alza al volo, gestisce tutto con ordine e si prepara in un batter d’occhio. Amedeo fa molta più fatica ed è piuttosto disordinato; il risultato è che sarà di gran lunga il più lento. Io un po’ una via di mezzo.
Da basso ci aspetta Patrizia. È incredibilmente raggiante, soprattutto vista l’ora. Non c’è alcun dubbio, questo lavoro le calza a pennello. Dopo un’ottima colazione e prima di lasciarci, ci propone una foto di rito davanti alla porta dell’albergue. L’idea ci piace, e ci mettiamo in posa volentieri. Siamo ben assortiti, da tutti i punti di vista: per il colore dei capelli, i mille altri dei vestiti e degli zaini, abbiamo altezze diverse, corporature, pose differenti. In comune sembra resti giusto la nazionalità, ma non solo: su ognuno dei nostri volti brilla anche un gran sorriso entusiasta, e con quello della nostra speciale hospitalera fanno quattro.
L’ora è arrivata. Salutiamo Patrizia e muoviamo i primi passi con un’eccitazione fuori dal comune. Questa è la prima tappa del Francés, il Cammino per antonomasia. Non importa io abbia già camminato per quasi nove settimane: qui comincia qualcosa di radicalmente nuovo.
Sono le 8 e in paese non si vede ancora quasi nessuno. Guardo il pavè di Rue de la Citadelle pensando a tutti i pellegrini che l’hanno calpestato prima di noi – oggi, quest’anno, quello prima o gli ultimi mille. Sono suggestioni imponenti. Questo piccolo luogo suda Storia e storie.
La prospettiva delle case ai nostri lati converge verso la porta di Notre-Dame-du-Bout-du-Pont, sormontata dal campanile e dal suo piccolo orologio. La chiesa è aperta e ci entro per pochi secondi – il tempo di un grazie.
Raggiungo poi i due compagni con qualche passo spedito, superando l’arco e trovandomi sul ponte, …quel ponte!
Continuiamo poi lungo la seconda parte del borgo, uscendo infine da un’altra antica porta.
Alla prima svolta già cominciamo a salire e a scaldarci con quel po’ di fatica in più. Le abitazioni sono poche e c’è tanto verde. Sono tutte curatissime, e mantengono lo stile estetico che ormai ho imparato a conoscere e che continua ad incantarmi.
Man mano che proseguiamo, la campagna prende il sopravvento e si iniziano a vedere i primi scorci sulle colline circostanti. Le case, poi, lasciano il posto alle fattorie; i campi e i pascoli s’ingigantiscono. Camminiamo sempre ben esposti, percui più saliamo più i panorami si ampliano: è uno spettacolo fantastico.
Il sole ha fatto arrossire i monti verso cui ci stiamo dirigendo, ma in meno di un’ora arriva finalmente anche da noi. Tiziano ne è particolarmente felice: l’unica altra volta che aveva percorso questa tappa, c’era la neve e un tempo da lupi. Ci racconta di quella folle e pericolosa esperienza, condivisa con alcuni altri pellegrini. Ci mostra qualche foto e fatichiamo a credere siano gli stessi luoghi che stiamo attraversando ora.
Cammino ammaliato dai fascinosi pendii tondeggianti, divisi in riquadri da filari e recinti. La strada è un tappeto srotolato su questo paradiso e sembra di poterci scivolare sopra.
A percorrerla, ci sono diversi altri pellegrini: qui una coppia, là uno da solo. Che strano effetto: da un giorno all’altro sono diventato parte di un flusso, di una corrente d’uomini e passi!
In questi paesaggi grandiosi, sono toccanti le piccole sagome dei compagni che ancora non abbiamo raggiunto – tanto simili e diverse allo stesso tempo. Da lontano, li vediamo fermarsi e girar la testa verso valle, restare sospesi qualche secondo in contemplazione. A volte imangono immobili fino a che li superiamo. Chissà, magari è solo per fatica. È un’alternanza a cui sono così poco abituato, e porta a continui incontri, saluti, a qualche battuta. Nessuno ha fretta, non se ne può umanamente avere in una giornata del genere, lungo questa rotta appena cominciata.
Per me, un’altra grande novità è data dalla concentrazione che non devo più dedicare al percorso. Non so nemmeno se i sagnali siano molti o sufficienti; non ci guardo perché già da ieri ho preso una decisione con gran naturalezza: affidarmi alla preparazione e all’esperienza di Tiziano. Era un privilegio irresistibile e ora posso camminare con molta più leggerezza, senza dover piegarmi così spesso sullo schermo del telefono a zoomare mappe per cercar direzioni e corrispondenze. Non so come andrà domani, e nemmeno come finirà oggi. Non so se e quando le nostre strade si divideranno, ma in questo momento – almeno adesso – è davvero un sollievo. Con Amedeo, poi, forma una coppia esilarante, e la meraviglia si mescola all’allegria.
Chiacchierando, scopro anche che due anni prima Tiziano aveva camminato molto con Claudio Pellizzeni, un travel blogger. È suo il videocorso che ho seguito questo giugno e che mi ha dato alcuni degli stimoli chiave per lasciare tutto e partire. Che bella casualità!
Già, casualità: qui questa parola è poco apprezzata, perché un po’ tutti preferiscono pensare che il Cammino – soprattutto il Francès – sia un luogo in cui poco niente capita per caso. Spero anch’io di trovarne conferma, ancor più di quanto non sia già successo nei due mesi passati.
Finora, però, ammetto che raramente il mio affidamento agli eventi è stato davvero radicale. Piuttosto, mi sono sforzato spesso a determinarli, contenerli, indirizzarli: è una parte di me che non posso negare. In generale, è un comportamento che nasce dalla paura: cerco il controllo e la sicurezza per armarmi contro le minacce della vita, perché ancora non riesco a vederla come una madre accogliente.
Spero ci sarà acnora tempo per mettersi alla prova, sperimentandosi in modo nuovo attraverso questa viandanza così eccitante.
Raggiungiamo il rifugio di Orisson, con la sua grandissima terrazza panoramica, e decidiamo di fare una pausa godendoci il paesaggio. Non mi sembra vera tutta questa rilassatezza! Vero è che la tappa di oggi si sviluppa su 1000 m di dislivello – non certo poco – però è breve rispetto alle ultime, solo 24 km. Sono curioso di vedere come risponderà il corpo.
In questo momento, in realtà, sta scalpitando. È abituato a camminare per molte ore di fila e fatica a sopportare una pausa così lunga, ma è solo questione di contenerlo un po’.
Mentre mi guardo un po’ in giro, vedo arrivare una pellegrina tutta sola, che sembra già un po’ affaticata. Tiziano mi coglie di sorpresa, mettendosi a salutarla animatamente: si chiama Zoe, è italiana e si sono conosciuti all’aeroporto di Lourdes l’altroieri. È giovanissima, ha 18 anni, e qualcosa in lei mi colpisce molto. Non un singolo particolare, in realtà. È come se d’istinto la percepissi portatrice di qualcosa di speciale: una sensazione nebulosa ma acuta.
Preferisce non fermarsi. Ce lo dice con cortesia, ma senza nessun sorriso inutile. La guardo ripartire con una certa fatica e tanta determinazione.
Poco dopo, anche noi riprendiamo il cammino con grande calma. Ogni chilometro sembra più affascinante. Gli elementi del paesaggio restano simili, ma lentamente tutto sembra diventare più essenziale. In alcuni tratti, se non fosse per la striscia d’asfalto che stiamo percorrendo, quasi non ci sarebbe traccia del passaggio dell’uomo.
È un’ambientazione già paradisiaca di per sè, ma da un certo punto in poi si impreziosisce anche della presenza di alcuni cavalli lasciati liberi di brucare su queste cupole verdi.
Dopo 11 km ci regaliamo un’altra pausa presso una specie di sella dove si incrociano alcune vie. La vista da entrambi i lati è mozzafiato, e infatti non è certo per la stanchezza che abbiamo deciso di fermarci.
Su una piccola cresta rocciosa, svetta la statuetta della Vierge de Biakorri. Su quelle rocce resto una decina di minuti, senza parole di fronte all’ampiezza e alla dolce imponenza dei Pirenei.
Abbiamo superato i 1000 m d’altitudine e non è stato per niente difficile. Il sole scalda a tal punto da poter stare tranquillamente a mezze maniche.
In cielo non mancano grossi rapaci a rendere ancor più magica l’atmosfera, e riconosciamo addirittura alcuni grandissimi grifoni. Non ne avevo mai visti, e resto ad osservarli per alcuni minuto, completamente ammutolito.
D’un tratto, inizio a vivere del disagio per l’eccessivo prolungarsi della pausa.
Io per pigrizia e Amedeo per affidamento legato all’inesperienza, stiamo lasciando a Tiziano la gestione quasi esclusiva della tappa – pause comprese. Lui sembra particolarmente a suo agio nel ruolo, ma legittimamente sta rispondendo alle proprie esigenze. Mi sforzo di accettare la cosa senza contestare, anche perché mi è chiaro fin da subito che non ci sarebbe proprio nulla da recriminare: d’altronde siamo qui ciascuno in piena libertà e autonomia.
Tornati in moto, percorriamo gli ultimi chilometri asfaltati fino alla bassa Cruz de Thibault. Alle 14 circa, a ormai 1300 m di altitudine e lungo un semplice sentiero, ci imbattiamo in una grande lapide scura. La scritta Navarra non lascia spazio a dubbi: siamo entrati ufficialmente in Spagna!! Che effetto strano: provo un brivido d’emozione e una vertigine, come e più di quella vissuta per l’ingresso in Francia.
Coi due amici esplodiamo in grandi risate ed esultanze. Siamo appena partiti e già abbiamo attraversato un confine così importante.
Come fu dopo l’addio all’Italia, ancora una volta vivo un’inattesa variazione nella vegetazione, entrando in un bosco meraviglioso e diverso da qualsiasi altro attraversato fin qui. Ci camminiamo con incredibile gusto per quasi un’ora e, uscendone, incontriamo il minuscolo rifugio Izandorre. Tiziano ci racconta che è proprio qui che aveva trovato riparo dalla neve due anni fa, insieme a vari altri pellegrini matti come lui. Io e Amedeo ci divertiamo qualche minuto ad immaginare la scena, mentre leggiamo qualcuno dei mille messaggi scritti sulle pareti interne.
Non più di mezz’ora dopo, raggiungiamo il Collado Lepoeder: è il punto più alto della tappa di oggi, più o meno a 1400 m d’altitudine. Ci arriviamo in buone condizioni e con gran felicità. Dicono che questa tappa sia una delle più belle del cammino. Se è così, devo dire che ce la stiamo godendo come merita.
Da qui parte la strada asfaltata consigliata dall’Officina del pellegrino di Saint-Jean. L’alternativa è scendere attraverso un altro grande bosco, seguendo un sentiero minimamente ripido. Non c’è nemmeno bisogno di parlarne, siamo tutti e tre della stessa idea e ci tuffiamo entusiasti tra gli alti alberi, scoprendo un luogo magico che si sviluppa per diversi chilometri.
Sbuchiamo infine nei pressi di un ponticello di legno, oltre il quale ci aspetta l’imponente complesso della Real Collegiata. Siamo arrivati!
Una parola in particolare è risuonata parecchio nelle ultime ore: cerveza! È tempo di brindare, e i tavoli all’aperto della Posada sono lì che ci aspettano, occupati tutti da turisti e altri pellegrini. A qualcuno potrebbe sembrare assurdo, ma non mi ero mai regalato un boccale di birra fredda a fine tappa. Farlo oggi, in compagnia di due persone che hanno camminato tutta la giornata con me, è un piacere semplice e unico.
Andiamo poi a registrarci all’hotel. In questo periodo storico i pellegrini sono troppo pochi e la Collegiata risulta inadeguata perché troppo grande, così si è accordata con la Posada per offrire alloggio in forma economica.
Non essendoci ancora conosciuti, ieri abbiamo prenotato separatamente, cosicché ci vengono assegnate due stanze differenti. Ci diamo appuntamento nella sala del ristorante per la cena. Io inizialmente avevo progettato di mangiare il mio solito cibo in scatola per risparmiare, ma l’occasione e l’atmosfera sono talmente preziose che ho ceduto a un pasto caldo in compagnia.
Dopo la doccia, riesco a trovare qualche minuto per vedere il mio primo tramonto spagnolo e fare almeno capolino nella storica chiesa di Santa Maria.
All’ora di cena, aspetto per un po’ i due compagni, ma tardano molto ad arrivare e il personale di sala mostra parecchia insofferenza ai miei tentennamenti. Alla fine decido di lasciarmi condurre dove c’è posto. Vengo fatto sedere con una numerosissima famiglia francese, e subito attacco bottone con i genitori. Si dicono molto credenti, e mi spiegano che ogni anno affrontano qualche giorno di pellegrinaggio insieme ai figli, alcuni dei quali molto piccoli.
A cena inoltrata, arrivano finalmente anche Amedeo e Tiziano, che confessano di essersi appisolati. Vengono fatti accomodare ad un tavolo per due, e li raggiungo dopo il dessert per gli ultimi brindisi col buon vino della casa.
Mi spiegano che la loro camera è grande, che sono solo loro due ma c’è un letto in più, se mi andasse. Non sarebbe utilizzabile per via delle misure di sicurezza, ma mi lascio convincere. Sposto le mie cose mentre loro vanno a fumarsi una sigaretta.
Aperta la porta della stanza, però, vengo investito da un’ondata di calore inaspettato: i caloriferi vanno all’impazzata e sembra di stare in una sauna. Si soffoca davvero e non trovo nemmeno come regolarli, così apro subito le finestre. Se continuerà così, stanotte potremo sicuramente dormire senza sacco a pelo.
Una decina di minuti dopo tornano i ragazzi, belli allegri. Quattro risate e spegniamo le luci. Prima di dormire, ciascuno si perde un po’ nel proprio cellulare – per scrivere messaggi, diari, postare fotografie o solamente per distrarsi. Infine, ci auguriamo finalmente la buona notte e lasciamo calare il sipario su questa prima giornata spagnola.
(La vita è bella)
40km
È dalla partenza che non ero così eccitato al suono della sveglia. Domani sarà importante perché inizierò il Camino più famoso di tutti, ma oggi non è certo da meno. Il confine franco-italiano, Arles e a suo modo anche Lourdes sono stati traguardi preziosissimi, ma Saint-Jean-Pied-de-Port lo sarà ancor di più, senza alcun dubbio.
Non ho riti particolari per occasioni come questa, semplicemente vivo ogni gesto con una consapevolezza acutissima e custodendo sotto pelle un’energia pronta a scatenarsi. Affiora solo un sorriso che sembra proprio non volersene andare, ed è bello sentire la pelle della faccia tirata, le palpebre restare un po’ schiacciate, gli occhi inumidirsi un po’. Sentire il volto contratto per un sorriso sembra addirittura alimentare il buon umore che lo ha prodotto.
Il corpo trasmette tanti segnali che noi processiamo senza rendercene conto, o che semplicemente non ascoltiamo. L’esperienza fisica di questi due mesi mi ha insegnato a riconoscere non solo i campanelli d’allarme, ma anche le percezioni associate al piacere: una gamma che in queste settimane si è decuplicata. È come quando cammino e sento la pianta del piede schiacciata sotto il mio peso e quello dello zaino: mi sono reso conto che anche quella è una sensazione fisica che mi gratifica, nonostante porti con sé mille tipi di fastidi.
Ad ogni modo, è proprio con quel sorriso che do il buongiorno a Nico mentre inizia a preparare la colazione. Dev’essere tornato tardi perché non l’ho nemmeno sentito, ma ha deciso comunque di svegliarsi insieme a me: una cortesia che mi fa molto piacere.
A tavola parliamo un po’ e, tra una risata e l’altra, noto le sue facce mentre vede quanto mangio. Vorrei riderne con lui, ma mi trattengo perché sembra particolarmente turbato. Per un attimo quasi mi giustifico, ma mi pare eccessivo, quindi continuo serenamente come nulla fosse, gustandomi le sue smorfie buffe.
La tappa di oggi sarà la più lunga che abbia mai percorso. Seguirò in toto le tracce GPS di Sara. Questa volta non ho nemmeno provato a chiamare al paese intermedio, Saint-Just-Ibarre. Figurati se ormai rinuncio all’occasione di realizzare il sogno di arrivare a Saint-Jean in due mesi netti! Il vento della vita ha spinto perché arrivassi fin qui, sarebbe stato maleducato rifiutare l’offerta, giusto?
Finita la colazione e gli ultimi preparativi, saluto il mio fantastico ospite e scendo in strada. Il solito impatto con buio e freddo ormai ha finito col piacermi, tanto so che in meno di dieci minuti il corpo sarà già caldo.
Uscito da Mauleon, proseguo sulla strada principale che la collega ai paesi successivi. Ai lati, ci sono case diverse tra loro, ma sempre con alcune caratteristiche ricorrenti e distintive di questi luoghi. In pochissimo tempo una leggera foschia diventa una vera nebbia. Strano, eppure oggi avevo letto ci sarebbe stato bel tempo…
Arrivato alla chiesa di Garindein, imbocco una traversa e comincio a salire. In pochi minuti scopro che lo strato di nebbia si limita al livello della strada che ho lasciato. Mi ritrovo tra pendii erbosi, vicino alle ultime ville del paese. Il gran buio se n’è già andato e il cielo comincia a illuminarsi. Dalla foschia lattiginosa che ho superato, iniziano ad alzarsi alcuni grandi lembi rosati dall’aurora, disperdendosi nell’aria come zucchero filato. È incredibile come la mattina presto sia sempre così ricca di silenziose meraviglie.
Continuando a salire, le case finiscono e comincia un piccolo bosco dove noto qua e là delle macchine parcheggiate. Devono essere di cacciatori perché agli alberi ci sono cartelli che invitano a non fare rumore per non disturbare tanto loro quanto gli uccelli.
Oltre il bosco, la salita si addolcisce e vedo spuntare la mia ombra davanti a me: anche oggi un bel bacio beneaugurante dal mio amico più grande.
Il panorama si fa via via più interessante: sotto di me ho l’ampia valle ancora coperta di nebbia, attorniata da colline sinuose che ci si tuffano come le gambe nella schiuma della vasca, e alle loro spalle montagne man mano più alte, fino ai bianchi Pirenei. Sono le 8:30 e sono già senza parole. Iniziare così non ha prezzo!
Non è finita qui. Camminando su un sentiero sterrato con solo qualche pianta a lato, arrivo sotto la cima di un colle infuocato dalla luce del sole, sembra quasi fluorescente! Alcune mucche sono arrampicate lì a brucare, indifferenti a tutta quella bellezza. A bocca e occhi spalancati, continuo un passo alla volta, ammaliato.
Più avanti altre mucche, ma stavolta sotto il livello del sentiero. Una mi fissa, poi comincia a salire piano verso di me; imperturbabile, mi sfiora e raggiunge poi la parte alta. Un’alba, una montagna, un animale ed io: per un attimo sembra che esista solo questo, come fosse un sogno, qualcosa di simbolico e originario. Fantastico!
Il percorso segue le ondulazioni delle colline spoglie fino a una sella con un abbeveratoio. Lì si incrociano cinque altri sentieri, disegnando un asterisco in mezzo all’erba bassa. Ora posso vedere anche il panorama anche nella direzione opposta, con altre colline a perdita d’occhio.
Proseguo sul versante che vi si affaccia, tornando per un attimo all’ombra. Risalgo poi quasi sul crinale, procedendo per sinuosi saliscendi, immerso in questo sconfinato paradiso. Cammino così – entusiasta – per almeno per 3 km, poi sono obbligato a immettermi su una strada.
Ad un tratto incontro un cacciatore a ridosso del guard-rail, impalato a contemplare la valle. Sorridendo, gli chiedo se è lì per i piccioni o per il panorama. Mi risponde con il mio stesso sorriso, lascia una pausa e poi torna a guardare davanti a sé: “Per entrambi”, risponde. Un momento semplice e straordinario. Insieme, senza dire più nulla, continuiamo a guardare davanti a noi ancora per un lungo minuto, poi lo lascio e riprendo il mio cammino.
La strada continua a mezzacosta e ai suoi lati si fanno via via più numerose le auto e i camper parcheggiati. Dalla parte opposta della valle, un colle gemello. Sento urla e segnali mandati da una sponda all’altra. Poco più avanti c’è un hotel-ristorante con molte persone fuori, tutte col naso all’insù. Anche se non ne ho mai vista una, tiro le somme e capisco che sono spettatori di una gara di caccia. Me lo conferma la barista, una volta entrato a prendere un caffè. Dopo la pausa mi allontano, ma senza aver sentito nemmeno uno sparo. Curioso.
Da lì in poi comincio a scendere e in meno di un’ora raggiungo a fondovalle la cittadina di Saint-Just-Ibarre, dove la tappa originale si sarebbe dovuta concludere.
Appena arrivato, mi capita una fastidiosa esperienza: un grande cane slegato comincia a seguirmi. Per fortuna è assolutamente docile, per nulla minaccioso. Purtroppo sembra poco intelligente, però, perché si muove liberamente per la carreggiata nonostante passino diverse vetture. Una dopo l’altra, tutte sono costrette a inchiodare e superarlo con prudenza, mentre io cerco inutilmente di allontanarlo. A un certo punto, in corrispondenza di una curva a gomito dove sono presenti alcune persone, rischia davvero di succedere un bruttissimo incidente. Quando tutto sembra scongiurato, un uomo al lato della strada comincia a urlare al cane di rientrare. Io nel frattempo faccio per andarmene, ma d’un tratto mi accorgo che l’uomo non sta inveendo contro il cane, ma contro di me, come fossi io il responsabile di tutto! Evito di rispondergli e me ne vado un po’ scosso, ma di matti ormai ne ho incontrati tanti, e non sarà di certo l’ultimo.
Attraverso il minuscolo paese, molto più piccolo di quanto pensassi. Attorno alla chiesa – con annesso l’immancabile cimitero – l’aspetto delle case torna ad uniformarsi: tutte sono dipinte di bianco e hanno gli infissi della stessa tonalità di rosso. Chissà come funziona qui: saranno obbligati ad accettare questo stile o lo sceglieranno con fierezza?
Supero il ponticello sulla Bidouze e, già in piena campagna, incrocio una bellissima coppia di giovani pellegrini: lei canadese e lui belga. Arriveranno anche loro a SJPdP, ma prima vorrebbero mangiare qualcosa da queste parti. In effetti è mezzogiorno e anch’io ho una gran fame, ma confesso loro di non sapere se ci siano posti aperti in zona. Parliamo molto piacevolmente per una decina di minuti. Di pellegrini così giovani per ora ne ho incontrati davvero pochissimi, forse solamente il buon Fabian e l’altra parigina a Saint-Gilles. Credo e spero sia solo l’inizio. Confido da domani di trovarne molti altri.
Alla fine ci dividiamo: io proseguo tra campi e pascoli, mentre loro tornano verso il paese.
Il percorso mi porta in una valle laterale e sfiora il villaggio di Ibarrolle, di poco rialzato rispetto alla strada e di certo non più grande del precedente. Il mio radar pellegrino ormai integrato, intuisce che quello è il posto ideale per il pranzo di oggi. Mi concedo prima una passeggiata esplorativa attorno al piccolo nucleo di case, poi scelgo una panchina davanti al comune, su un piccolo terrazzamento soleggiato dal quale posso godermi il panorama.
Ero convinto sarebbe stata una pausa di totale relax, e invece un cane chiuso in un giardino poco lontano continua ininterrottamente ad abbaiare. Ha iniziato quando ci sono passato di fianco per arrivare qui, e non ha più smesso.
Quando riparto, innesco il latrato di almeno tre altri cani. Un paio escono dal cancello e mi seguono per una decina di metri, ma per fortuna sono di piccola taglia. Come sempre, mi chiedo come sia possibile che neanche una persona esca a richiamarli. La strada continua dritta per un chilometro, fino ad un colle che dovrò superare. Ai lati stanno diverse altre abitazioni, tutte simili e divise da campi e giardini di proprietà. Spero con tutto me stesso che non ci siano animali così fastidiosi per ognuna di esse.
Le uniche persone che incontro stanno occupandosi di rifare un tetto. Chiedo loro se abbiano dell’acqua. Qualcuno mostra naturale cortesia, ma la persona che viene a prendere la borraccia non nasconde una certa scocciatura e quando torna mi fa pure pesare che ce n’era ancora un po’ dentro, come per dire: “Non te ne serviva davvero”. La verità, invece, è che mi mancano ancora 15 km ad arrivare, ma in ogni caso mi chiedo come mai una richiesta tanto banale possa produrre tanta asprezza. Vabbé, pazienza. Ringrazio, saluto e riparto.
Raggiungo il termine della valletta e da lì comincio a salire verso il passo. La pendenza non è male, ma va benissimo così. L’ultimo tratto si addolcisce molto. Senza più alberi attorno, posso già godere di un bel panorama alle mie spalle, con Ibarrolle in lontananza.
Più avanti, passo in mezzo a un gruppo di cacciatori che probabilmente ha concluso la propria battuta e ora stanno chiacchierando vicino alle auto parcheggiate. Come al solito, condivido il mio miglior entusiasmo ma sembra bastare solo per un saluto minimamente dignitoso e qualche risatina, ma io sono a un passo dallo scollinare e niente può rovinarmi l’umore.
Quando vedo la soglia avvicinarsi, comincio a rallentare sempre di più e l’emozione aumenta secondo dopo secondo. Man mano che avanzo, inizio per prima cosa a vedere le cime dei Pirenei e ad ogni passo successivo lo sguardo può scendere sempre più in basso: alle vette si aggiungono i versanti, poi i colli minori e infine, quasi d’improvviso, si apre la vista sulla grande vallata.
Sì! Sì! Sì! Ce l’hai fatta, Robi! Ce l’hai fatta! Piango, ovviamente, e lo faccio mentre rido, in quella combinazione che amo più di ogni altra. Sono qui, proprio qui, e ci sono arrivato io, coi miei piedi! Io, camminando! Da Bergamo a qui, a un passo da quel mitico luogo da cui il Cammino parte.
Da più di due anni pensavo al Francés. Quante volte avevo speso ore al computer per capire quale sarebbe stata la migliore soluzione per raggiungere Saint-Jean. Sembrava ovvio prendere l’aereo da Orio, a due passi da casa, arrivando a Lourdes, e poi da lì chissà: in autobus o in taxi con altri pellegrini conosciuti al momento. Sono tanti i modi possibili: se ne parla sui blog, sui forum, su facebook. Si contano i giorni necessari, si ragiona sulle ferie disponibili, e così ho fatto anch’io un’infinità di volte.
Poi però un giorno di luglio decido qualcosa di diverso: scelgo che non prenderò le ferie, e nemmeno l’aereo. Quel giorno si accende una luce, e nessuna vocina troppo prudente dentro la mia testa riesce a distrarmi dal fissarla. Tutto si fa chiaro, nitido, e cade ogni dubbio, ogni paura. L’idea è appena nata, ma ogni cosa è già cambiata.
Oggi sono due mesi esatti dalla partenza dell’esperienza più bella della mia vita. Non so perché fosse poi così importante arrivare qui proprio oggi. Forse l’unico motivo è il senso di armonia, di compiutezza che questa sincronia mi regala. È come se fossi arrivato “in tempo”, o “al momento giusto”. Sono sensazioni, un’attrazione verso il numero pieno, tondo, verso un ordine, come fosse segno di un destino che si compie, della vita che risponde, delle cose che una volta tanto vanno come volevi, come avevi bisogno.
“Ce l’ho fatta!…ce l’ho fatta davvero”.
Respiro.
Sorrido. Respiro.
Gli occhi bagnati. Sorrido. Respiro.
Non riesco a staccarmi da quello spettacolo. Il cuore batte forte.
Gli occhi bagnati. Sorrido. Respiro.
Soffio il naso. Cade l’ultima lacrima.
Sorrido. Respiro.
Mi abbraccio. “Ce l’ho fatta”.
Sono felice, non mi dimenticherò di questo momento, me lo prometto.
E ora, cuore mio, andiamo a prendercela, che oggi è ancora lunga.
Comincio la discesa lentamente, molto lentamente. Non posso e non voglio fermarmi, ma non ho nemmeno fretta che questo momento finisca.
La strada scende con ampie curve lungo il versante spoglio. Poco più in alto, un ristorante con tantissime auto parcheggiate fuori; sotto di me l’ennesimo gregge di pecore al pascolo.
Mando un messaggio vocale a un’amica speciale, Laura, pellegrina anche lei, per condividere un po’ di questa gioia. Mentre lo sto registrando, comincia a sfrecciare verso valle una serie interminabile di auto d’epoca straordinarie. Probabilmente erano quelle che avevo intravisto poco prima. Avranno finito di pranzare e ora staranno andando a esibirsi in qualche paese, o a fare semplicemente un gran giro tutti insieme. Sono una più bella dell’altra, la maggior parte cabriolet – alcune credo siano addirittura degli anni trenta. Le guardo incantato. Fin da quando ero bambino vivo questa sensazione davanti a ogni tipo di mezzi da cantiere, e oggi scopro che quelli non sono i soli veicoli a procurarmela. Inizio a salutare i piloti con grande euforia, e tutti mi rispondono sorridenti e coi loro clacson dai suoni buffi.
Man mano che scendo, inizio a vedere qualche casa. Già da Ibarrolle, tutte le case – ma proprio tutte – hanno le facciate bianche e gli infissi colorati con un preciso tono di rosso o di verde. La sensazione è quella di in un territorio in cui gli abitanti vogliono dare un’immagine unitaria della propria comunità, riuscendoci tra l’altro magnificamente.
Conosco poco di questa cultura ma, fin dalla breve esperienza dell’anno passato nei Paesi Baschi spagnoli, posso dirmi abbastanza certo che la loro identità collettiva vada ben oltre l’immagine: tutto fa pensare sia radicata molto a fondo e sia solidissima. Nell’aria c’è come uno spirito “plurale” che si fa colore, forma, stile, e che di certo mi mostrerebbe un’infinità d’altre sfaccettature se mi mettessi a studiare la loro lingua e la loro storia, oppure se degustassi i loro piatti tipici o imparassi a giocare alla pelota basca.
Camminare in questi territori, quindi, rafforza l’impressione di essere in casa d’altri. Non per questo, però, prevale il sentirsi estraneo; anzi, mi succede quasi il contrario: sento come un privilegio il poter attraversare questi luoghi splendidi, ed è una bellissima sensazione.
Immerso in questi pensieri, arrivo a Saint-Jean-le-Vieux, per poi tornare subito nei campi. Prendendo la svolta sbagliata, però, mi ritrovo poi a camminare qualche centinaio di metri ai bordi di una strada trafficatissima, ma non tutto il male vien per nuocere: infatti è proprio qui che ho il piacere di imbattermi nel bellissimo cartello d’ingresso a Saint-Jean-Pied-de-Port.
Le lacrime e le emozioni più vibranti le ho già vissute due ore prima, al passo sotto il Col-de-Gamia – quello del ristorante con le macchine d’epoca. Ora è tempo di ridere e rallegrarsi più che mai: anche questo traguardo è conquistato!
Lascio lo stradone e ritrovo il tracciato corretto, che sembra una vera e propria passerella d’onore. Supero la chiesa della Magdeleine e percorro l’incantevole strada che ne segue, tra prati e casette particolarmente pittoresche.
Arrivo ad un altro cartello: indica la cittadella, ma soprattutto la Porta di San Giacomo, e leggendolo quasi piangerei ancora qualche lacrima.
C’è anche un quadrato blu, di un blu che conosco molto bene, e al centro poche linee gialle che partono da un punto e si irradiano. È una conchiglia, ma è anche molto di più. Guardandolo diversamente, infatti, quel punto si trasforma da partenza a destinazione. E così d’un tratto le linee diventano tutte le vie che arrivano a Santiago de Compostela, oppure tutte le storie di vita di chi ha fatto quella scelta, di chi ha risposto a quella strana chiamata del cuore e ora si dirige laggiù. Sono suggestioni che mi riempiono l’anima.
Un attimo dopo sono di fronte all’antica porta, eccezionalmente da solo. Ancora una volta rallento, mi avvicino piano. Ha qualcosa di magico quel portale, la mia testa non riesce minimamente a immaginare quanti possano essere tutti i pellegrini che l’hanno attraversato. Con la mia piccola storia ho quella sensazione privilegiata di essere dentro una molto più grande. E ora…non resta che oltrepassare quella soglia, ringraziando ogni cosa – tangibile e intangibile – che mi ha permesso di arrivare fin lì e tuffarmi in un nuovo inizio.
Sono momenti memorabili, ma si sa che tutt’attorno la vita deve comunque scorrere normalmente. Niente fuochi d’artificio, quindi; nessun campana, nessun bacio particolare del sole, nessun rapace a stridere improvvisamente sopra di me, e va bene così. Rallento, cammino piano. Sorrido un po’, mi guardo intorno.
Un uomo vestito di nero sta appoggiato al muro col muso un po’ ingrugnito. Vende qualche verdura, ha una cassetta poggiata a terra; una sola, tutto lì.
Mi fermo a bere alla fontanella di fronte. Quando rialzo la testa, mi si avvicina un secondo uomo vestito a sua volta di nero, con basco e occhiali, più vecchio del primo. Comincia a parlarmi di sé: è un poeta, dice. Parla molto, troppo. Non gli interessa per niente dialogare, e stando così le cose non posso che lasciarlo cortesemente ai suoi versi.
Inaspettati, questi primi passi.
Percorro la Rue de la Citadelle gustandomi ogni particolare. C’è poca gente e diverse attività sono chiuse in questo momento. La maggior parte è dedicata in varia forma ai pellegrini, però non ho l’impressione di essere in un bazaar. Per quanto mi riguarda, oggi già so dove dormirò: da Patrizia, all’albergue La vita è bella. Me l’hanno consigliato almeno in tre persone diverse, è stato facile scegliere. Come si può intuire, è italiana e la vita ha voluto che stasera ci siano anche due pellegrini liguri. Tre italiani tutti insieme non li vedevo da più di un mese. Ne sono contento, sarà di certo una bellissima cena.
Prima però devo passare alla famosa Casa del Pellegrino, il punto informativo numero uno per il Camino Francès. Le cose che più mi interessano sono la certezza di poter raggiungere Roncisvalle domani passando dalla via alta, e avere gli ultimi aggiornamenti rispetto a quanti albergue siano aperti in questo periodo.
Raccolgo ottime notizie rispetto a entrambi i fronti, oltre che diverso materiale cartaceo che mi sarà di certo utilissimo. Faccio orgogliosamente timbrare la credenziale e m’incammino per raggiungere l’alloggio.
Mi apre la porta una donna a dir poco luminosa, con un briciolo di gaiezza un po’ magica, che me la fa subito piacere molto. Il posto è caloroso e bellissimo e l’accoglienza è quanto di meglio potessi sperare. Parlare italiano sembra far piacere a entrambi. Lei, infatti, non conosce il basco e questo le fa vivere qualche difficoltà in questa terra così orgogliosa, ma sembra una tosta e le sue più grandi armi sono il sorriso e un ottimismo che definirei radicale.
I due ragazzi liguri sono andati a fare qualche chilometro esplorativo lungo la tappa che anche loro percorreranno domani. La cena sarà molto presto. Faccio due conti e capisco che, ahimè, non ho tempo per visitare la cittadina, infatti devo passare obbligatoriamente al supermercato e in farmacia. Gambe in spalla, quindi!
Al mio ritorno, finalmente faccio conoscenza di Amedeo e Tiziano. Vengono da Laigueglia, un piccolissimo paese di mare in provincia di Savona. Fanno entrambi i bagnini da quelle parti e, finita la folle stagione di quest’anno, hanno deciso di tentare di raggiungere Santiago nonostante tutti i rischi legati alla seconda ondata pandemica.
Hanno un’età molto diversa: Amedeo ha 22 anni, dieci in meno di Tiziano. È quest’ultimo che ha proposto l’esperienza, forte del fatto che è già la quarta volta che affronta “il Francese”. Scopro addirittura che due anni fa è partito anche lui da casa a piedi, come me. Splendido! Ma quante probabilità c’erano potessi trovarmi qui oggi con una coincidenza tanto speciale?
Sembrano molto simpatici, e pure ben attrezzati. Scambiamo due parole, poi ci viene in mente che potremmo essere ancora in tempo per vedere il tramonto. Il sole in realtà è già sceso, ma il crepuscolo è comunque magico. Nel frattempo, è già ora di cena e rientriamo. Patrizia ci aspetta con la tavola apparecchiata. Per l’occasione ci ha preparato una pasta al pesto da leccarsi i baffi.
Oggi davvero non poteva andare meglio!
Parliamo di tutto. Ognuno racconta molte proprie vicissitudini, sogni realizzati o in corso d’opera. A nessuno manca qualche croce da portare, ma le energie attorno al tavolo sono super positive.
A un certo punto arriva una coppia di altri pellegrini. Con mia grande sorpresa, sono quelli che ho incontrato all’ora di pranzo a Saint-Just-Ibarre. Avevo fatto loro cenno a dove sarei stato stanotte e hanno deciso di venir qui anche loro. Sono contento di rivederli, anche se purtroppo restano con noi solo pochi istanti perchè hanno scelto di uscire per cena.
Torniamo in stanza verso le dieci e mezza, sazi, felici e gasati per domani.
Abbiamo deciso che partiremo insieme, e ne sono molto contento.
(a casa di Nico, con Air BnB)
35km
Ieri sono riuscito a convincere Jean-Luc ad anticipare l’orario della colazione, ma non è voluto scendere sotto le 7:30. Mi avrebbe fatto comodo una mezz’ora in più, anche se comunque è stato gentile: è rimasto anche a farmi compagnia a tavola. Abbiamo chiacchierato di pellegrinaggi, con un francese che sto iniziando a maneggiare ogni giorno sempre meglio. Da questo punto di vista è un peccato che lasci questo Paese proprio ora, ma ho un obiettivo più grande.
Sperando che le prossime ore non frantumino questo mio buon umore, comincio poi a fare quello che faccio ogni mattina: iniziare a mettere un piede davanti all’altro!
Fuori fa freschino. Auto non mancano, ma non c’è nemmeno troppo caos. Seguendo la strada che ho studiato, arrivo fino a un grande giardino pubblico di fine ‘800, con un chiosco per concerti nel centro. Me lo lascio alle spalle e, dopo aver attraversato un ponte sulla ferrovia, entro in un quartiere periferico vicino all’ospedale. Le case diventano man mano sempre meno, e in un paio di chilometri sono già in piena campagna, giusto in tempo per godermi una delle mie amate albe.
Terminata un’altra breve parentesi tra campi e allevamenti, mi immetto su una dipartimentale molto trafficata, con un gran viavai anche di mezzi pesanti. Inizialmente non ha davvero nulla di bello, è tutta da sopportare, ma poi il paesaggio attorno migliora quel tanto che basta da riuscire a sopportare meglio il resto.
Prima del paese di Orin, riesco finalmente a spostarmi su una tranquilla parallela più vicina alle colline. La via collega sei paesi che insieme compongono la valle di Josbaig.
I piccoli centri che attraverso, poco distanti l’uno dall’altro, sono tutti molto decorosi, in certi casi anche eleganti. Per l’ennesima volta, mi capita di notare uno stile architettonico omogeneo, con i soliti tetti che sto incontrando fin da Balaguéres e molti altri dettagli ricorrenti. Più che in altri posti, sembra esserci una identità ben definita e la volontà di esprimerla.
A Géronce mi fermo a prendere un caffè in un bar abbastanza anonimo. All’interno ci sono solo il proprietario e un cliente, entrambi sulla settantina. Forte del francese ormai oliato, approfitto di una loro curiosità per parlare un po’ e condividere il buon umore di oggi. Nella semplicità del momento, accade una cosa piccola che però mi tocca tanto: ricevo veri complimenti per il fatto di aver imparato la loro lingua senza studiarla, e in premio mi viene addirittura offerto il caffè. Ringrazio con gran sorpresa. So solo io i sacrifici che mi ha comportato la mia impreparazione, e l’asprezza gratuita di certe cose subite. Questo caffè me lo ricorderò molto a lungo.
Dopo Geüs-d’Oloron, la strada torna a incrociare la dipartimentale di qualche ora prima. Mi ci immetto di nuovo, il tempo di arrivare all’imbocco di un sentiero dove riaggancio il GR78. Fin qui stamattina ho fatto di testa mia, per ridurre il chilometraggio totale della giornata che altrimenti sarebbe stato insostenibile, ma ora proseguirò fino in fondo seguendo la traccia GPS di Sara. In alcuni tratti corrisponderà alla via ufficiale, ma poi la “tradirà” in molte occasioni. Da molto tempo, però, questo non è più un problema per me. Le grandi vie tracciate francesi sono favolose, ma nell’ottica di un cammino di tre mesi (nel pieno di una pandemia) bisogna fare i calcoli con tanti altri fattori.
Passo tra qualche campo gigantesco, imboccando poi un’altra grande strada, ma meno battuta della precedente. Snodandosi tra boschi e pascoli, in meno di un’ora mi conduce a L’Hôpital-Saint-Blaise: un piccolissimo villaggio, ma molto noto per la presenza di un’antica chiesa. Fortunatamente la trovo aperta, e ne approfitto per un momento di pausa e di raccoglimento. È molto sobria e spoglia, ma leggo che è particolarmente preziosa per la sua unicità architettonica. Addirittura anch’essa, come già la Eglise Sainte-Marie di Oloron o le Chiuse di Fonséranes a Beziérs, è nella lista UNESCO dei patrimoni dell’umanità.
L’altra particolarità di questo paese è che le case, pur mantenendo caratteristiche simili a quelle viste finora, si assomigliano tra loro ancora di più: le facciate sono tutte dello stesso tono neutro e le imposte rigorosamente rosse o marroni. Ad un tratto, noto anche una griglia artistica in ferro battuto applicata ad una finestra. C’è rappresentato un uomo con un cappello inconfondibile. Direi che ormai gli indizi sono sufficienti: sono ufficialmente entrato nei Paesi Baschi francesi.
Torno sulla strada e la seguo per ben 10 km. Serpeggia anche questa in mezzo all’ennesima valletta, noiosa quando chiusa tra alti alberi, e splendida quando si apre su pascoli verdissimi.
A causa di alcuni smottamenti, purtroppo, devo rinunciare a una passaggio lungo un sentiero tra i boschi che mi avrebbe fatto molto piacere. L’asfalto affatica molto di più che la terra, anche se ho trovato qualche escamotage per ridurne i cattivi effetti sui miei piedi: in particolare, una specie di passo alternato inventato da me. Sembra buffo a dirsi, ma lo uso da settimane in circostanze simili – e non solo – e funziona alla grande. Mi permette di cambiare costantemente l’appoggio dei piedi, quel tanto che basta ad evitare di fare attrito sempre e solo negli stessi punti. Oltretutto, concentrarmi sul mantenimento del ritmo mi libera da ogni altro pensiero e mi fa camminare più velocemente, eppure con meno fatica.
Dopo un’ora mi fermo a pranzare nei pressi di un ponte, baciato dal sole e con la vista rilassante di un piccolo campo verdissimo. Mi godo la pausa più che posso, anche perché la parte più impegnativa della tappa deve ancora venire.
Una volta tornato per strada, passa ancora un’ora e mezza prima che possa finalmente lasciare la dipartimentale. Seguendola arriverei a destinazione senza troppi fronzoli, ma preferisco così piuttosto che fare un altro chilometro su questa strada.
La svolta sta in corrispondenza di una curiosa chiesetta dedicata alla Madonna di Lourdes, affiancata ad un piccolo nucleo di case. Nel cortile di una di queste noto una signora che beve un caffè. Ne approfitto per chiederle se potrebbe riempirmi la borraccia. Accetta, ma quando torna ho la faccia tosta di domandarle anche un caffè. Noto che il gesto non le fa piacere, ma probabilmente non vuole mostrarsi scortese e accetta, aprendomi anche il cancello. Usando un po’ di simpatia e mostrandole molto rispetto, riesco a non farla pentire della buona azione. Finiamo anche col fare due chiacchiere molto distese, salutandoci poi con sincera allegria.
Passo l’ora successiva salendo a zig zag tra le colline, immerso nel verde e allietato dalla presenza di tanto bestiame al pascolo lungo la via.
La salita si prolunga molto, e in certi tratti si fa particolarmente ripida, ma riesco a stringere i denti e arrivare in cima in maniera dignitosa. Prima che parta la discesa verso Mauléon, noto un cancello aperto su un grande prato tondeggiante, che sembra affacciarsi verso valle. Entro senza pensarci troppo, scoprendo uno splendido belvedere che mi ripaga dei 30 km già camminati.
In mezz’ora scarsa, poi, riesco a raggiungere le prime case a valle. Non vado subito in centro; la prendo molto larga per far la spesa in un supermercato della mia catena preferita. Attraverso il fiume Saison – che taglia a metà la cittá – e scorgo anche un castello arroccato su un colle. Ieri ho studiato un po’ la tappa, ma non avevo letto niente a riguardo. Ad ogni buon conto, per ora non me la sento di arrivare fin lassù. Ci penserò magari dopo aver appoggiato lo zaino.
Per stanotte, l’unico alloggio che ho trovato è una stanza in casa di un ragazzo – tale Nico, prenotata tramite AirBnB. Non è troppo economica, ma non avevo scelta. Dalle fotografie e dai comfort indicati, però, sembra che valga quello che ho speso – cosa che non è sempre scontata.
Per raggiungere l’alloggio scelgo un tragitto molto largo, così da poter dare anche una sbirciata al centro della cittadina. Non noto niente di superlativo fino a quando sbuco in una lunghissima piazza che ha il dono di avere tutti i suoi alberi infiammati dai migliori colori dell’autunno. In quello stesso luogo, oltre all’ennesimo elegante chiosco per concerti, vedo dal vivo per la prima volta il cosiddetto fronton. Non è altro che un muro contro il quale si gioca uno sport estremamente tipico: la pelota basca. In questo caso è davvero gigantesco, ma so che ce ne sono di molto più piccoli.
Prima di proseguire, entro nell’ufficio turistico di fianco per far timbrare la credenziale. L’impiegata è molto gentile e insiste perché dedichi una visita anche alla parte alta di Mauléon, quella più antica. Mi accenna anche al fatto che questa è una delle capitali delle espadrilles, un tipo di scarpe che non sentivo nominare da quando ero piccino, e che la grande festa del paese si tiene a metà luglio. L’idea di tornare e trovare la grande piazza stracolma di gente, con musica a non finire e delizie di ogni genere mi stuzzica non poco: i baschi sono famosi per essere grandi festaioli e con loro c’è sempre da divertirsi.
Lungo il mio piccolo tour, resto colpito anche da altri edifici davvero appariscenti, come un’enorme villa monumentale, il palazzo comunale e un’altissima chiesa neogotica. Mauleon è già riuscita a conquistarmi con la sua bellezza, non me lo aspettavo per niente.
Attraverso per la seconda volta il ponte sul Saison, e finalmente raggiungo l’alloggio. Nico non è in casa, ma mi ha indicato dove trovare le chiavi. Le fotografie e le recensioni non mentivano: è un appartamento bellissimo. Ci rimango però solo una decina di minuti, perché voglio seguire il consiglio ricevuto, visitando la Cittá Alta prima che imbrunisca.
Senza più lo zaino, affronto la salita quasi saltellando: una sensazione di leggerezza pazzesca. Lassù scopro un quartiere affascinante, dall’aria molto popolare. Ancora una volta, tutto si affaccia attorno a una grande piazza, stavolta molto inclinata. Al centro stanno solo la grande sala pubblica e un altro piccolo fronton. Alcuni degli edifici laterali, civili o religiosi, sono vecchi di diversi secoli. L’impiegata aveva ragione: valeva davvero la pena passare di qui. Peccato per il castello chiuso, ma spero di tornare almeno una volta nella vita (quante volte me lo sono già ripetuto in queste settimane!).
Rientrato a casa e sistematomi per bene, incontro finalmente Nico, ma solo per un quarto d’ora perché stasera ha un impegno fuori. Nonostante il poco tempo condiviso, mi fa un’ottima impressione. È poco più giovane di me ed è insegnante di nuoto. È un lavoro che lo impegna per una sola metà dell’anno e ci tiene a dichiarare la grande fortuna che ha di essere pagato dallo Stato per il periodo in cui è inattivo. Dalla sua, cerca di approfittare il più possibile di questo privilegio viaggiando da anni in tutto il mondo. Fa viaggi di settimane o anche mesi, e la casa è piena di foto bellissime scattate da lui in tutto il pianeta. Mi spiega che stasera non può farmi compagnia perché fa anche il volontario nei pompieri. Una persona davvero inesauribile!
La cucina è fenomenale e c’è anche un angolo bar da professionista, altra passione del proprietario. Mi sento davvero a mio agio e approfitto del wi-fi per guardarmi un film e rilassarmi al meglio.
Domani arriverò a Saint-Jean-Pied-de-Port! Sarà un’altra tappa imponente, ma qualcosa mi dice che avrò le ali ai piedi.
(L’oustal)
39,5km
Jesus arriva perfettamente puntuale, svegliando però anche il povero Yann. Questi però, anziché restare a girarsi sotto le coperte, ne approfitta per venire un istante a salutarmi, confemandosi persona davvero gentile.
Lasciato l’amico pellegrino, arriviamo al bar in pochi minuti e subito Jesus mi prepara la colazione. È ancora troppo presto per partire e decido di aspettare con calma almeno le 7:15, ragionando nel frattempo sul percorso di oggi.
La piccola guida usata nei giorni precedenti ha ormai concluso la sua funzione, così decido di comporre la tappa in maniera abbastanza creativa: per i primi dieci chilometri seguirò delle dritte appena ricevute dall’oste e da altri clienti, poi continuerò a grandi linee lungo il GR78.
Mi sperimenterò su una distanza che non ho mai percorso in un solo giorno, ma non sono spaventato. Non ho potuto ridurre il chilometraggio perché diverse accoglienze per pellegrini nei paesini tra Bruges e Oloron-Sainte-Marie sono chiuse, sempre per il solito motivo. A mio favore, comunque, ho tutte le energie guadagnate da quando ho rispedito la tenda e il materassino; per non parlare del tempo, che oggi dovrebbe essere magnifico. Dopo la pioggia presa ultimamente, non c’è cosa che mi possa fare più piacere.
Saluto la combriccola del bar e parto con la torcia frontale impostata sulla solita lucina rossa. All’uscita dal paese, un grosso signore sta fuori dalla porta di casa a fumare una sigaretta. Mi sorride e mi chiede dove stia andando. Nomino la meta finale e gli spiego il consiglio ricevuto poco fa sulla strada migliore da prendere. Lui ascolta con attenzione e mi dà il suo benestare, augurandomi “Bon courage!”. Un ottimo inizio.
Cammino per circa un’ora lungo una strada asfaltata immersa tra campi collinari senza nessun tipo di luce artificiale. Tutto comincia a schiarirsi solo quando ormai ho raggiunto Lys, il primo paese. Svolto e proseguo tra campi di granturco, anche se sempre su asfalto, incontrando solo qualche rara abitazione. Gli edifici da queste parti mi paiono sobri ma tendenzialmente ben curati, in certi casi anche abbastanza eleganti, soprattutto visto il contesto rurale.
Mentre ormai si è fatto giorno, mi lascio i campi alle spalle e salgo tra prati e pascoli, in un panorama tutto ondulato e pacificante.
A Sévignacq-Meyracq avrei l’opportunità di collegarmi al GR78, ma scelgo di evitare una salita un po’ fine a sé stessa e raggiungo Bescat dalla strada a mezza costa. Scendo poi in una larghissima vallata, dalla quale posso gustarmi una splendida vista sui Pirenei.
Proseguo infine tra numerosi pascoli, fino a spuntare su una strada dipartimentale. Pur non avendo molto spazio per camminarci a lato, è abbastanza godibile perché costeggia deliziose ville immerse in giardini enormi.
Una volta a Buzy, mi compro una baguette e – per la prima volta – dell’affettato fresco: da settimane, infatti, ne mangio solo di confezionati, per il semplice fatto che si mantengono più a lungo fuori dal frigorifero. La cittadina è semplice e molto ben tenuta. Ritrovo i caratteristici tetti in lose, che ormai posso confermare essere una costante qui a ridosso della grande catena montuosa. Come in alcuni altri paesi, gli infissi sono a volte colorati in maniera vivace, spezzando efficacemente il grigiume con mia grande gioia. Noto inoltre che, curiosamente, sia nei giardini che a lato di alcuni campi, ci sono spesso delle palme. Probabilmente è una moda recente, comunque non stona troppo.
Il paese non è piccolo come pensavo e, man mano lo attraverso, mi convinco sempre più che sia un luogo di ottima vivibilità. Passo di fronte a una bella chiesetta e poi ad una scuola elementare, proprio durante l’intervallo. I bambini sono tantissimi: giocano e urlano come matti. Sugli scalini d’ingresso le maestre li tengono d’occhio, approfittando anche per prendere un po’ di sole. Le saluto con la mano ben in alto, per il semplice gusto di farlo: mi succede sempre quando cammino di buon umore. Purtroppo anche loro finiscono dritte nel girone dei musoni, ma non mi importa.
Raggiungo il vicino comune di Buziet percorrendo una suggestiva via tra i campi, delineata da un muretto in pietra. Ho un ottimo slancio, così mi concedo una breve visita al paese. Appare un po’ meno vivace del precedente, ma per il resto mi trasmette le stesse sensazioni. È davvero un bel territorio.
Dopo un paio di chilometri lungo un sentiero dritto e sterrato in mezzo a pascoli di mucche bellissime, arrivo ad un terzo villaggio: Ogeu-les-Bains.
Appena superate le prime casette, trovo una piccola area verde di fianco a un ruscello, con un rettangolo di ghiaia per le bocce, un tavolo da picnic e una bella panchina tra due betulle: non poteva andarmi meglio. È il momento del panino al crudo più buono di tutto questo mese!
Mentre preparo il tutto con l’acquolina in bocca, dalla piazzetta vicina arriva una sagoma chiara e pelosa, a passo lento e rilassato. È un bellissimo cane di media taglia, dal pelo lungo e chiaro. Nonostante ciò ha una particolarità che io non ho mai visto prima in un animale: è evidentemente depresso, davvero non saprei descriverlo diversamente. Mi si avvicina, ma non mostra nessuna attenzione per il cibo. Sta seduto davanti a me e mi fissa, con un musino triste, ma più inespressivo che lacrimoso.
Quella sua immobilità mi mette a disagio, ma al contempo mi fa anche un po’ ridere. In uno slancio di generosità, gli offro un pezzo di crudo, la cosa più preziosa che ho in questo momento. E lui cosa fa? Lo lascia cadere per terra e riprende a fissarmi! A quel punto prevale l’astio per lo spreco e lo spingo a mangiare il prosciutto. Con un po’ di insistenza, cede al duro “sacrificio”, cominciando poi a girarmi intorno senza sembrare interessato a niente in particolare. Mah! Io intanto finisco il mio pranzo con gran gusto e riparto, salutando l’animale che, mentre mi allontano, continua a guardarmi con la stessa espressione con cui si è presentato.
Ci sto ancora ridendo su, quando sbuco nella piazzetta della chiesa e del comune. Le proporzioni sono ovviamente quelle di un piccolo villaggio, senza elementi particolari, eppure quell’angolino riesce comunque ad impressionarmi per la sua grazia. Tra l’altro, noto che la chiesa è aperta e ne approfitto.
È piuttosto rustica, dal soffitto inusualmente basso e con tante statue devozionali, ma sembra esserci un’atmosfera particolare che mi ci fa stare bene, non saprei dire con certezza di che si tratti. Ne esco soddisfatto, e lascio poi il comune notando numerosi altri dettagli niente male.
Da qui, ritorno sul tracciato ufficiale del GR78, e ci resterò fino al termine della tappa.
Dopo le ultime case, la strada si dirige verso un bosco e ci si immerge, uscendo di quando in quando per affacciarsi su grandi campi sovrastati dall’imponenza dei Pirenei.
Man mano tutto prende forme diverse: la terra si fa gialla e fangosa, e ogni tanto incontro alcune radure coperte da un originale tappeto di felci “arrugginite” dall’autunno.
Lo scenario cambia ancora quando comincio a camminare lungo il Gave-d’Ossau, uno dei due corsi d’acqua che si congiungono proprio ad Oloron-Sainte-Marie, la mia meta. Per almeno un’ora attraverso una selva fangosa, che finisce in corrispondenza di un ponte, detto del Diavolo. Finalmente sull’altra sponda, approfitto di una panchina vuota per fermarmi un po’ a riprendere fiato dopo la stressante traversata nella fanghilgia.
I meravigliosi chilometri successivi – gli ultimi prima di arrivare in città – si dimostrano ancor più rilassanti della pausa fatta. I primi due non sono altro che il proseguimento della valle del Gave d’Ossau, ma il paesaggio stavolta è incantevole, totalmente diverso dal tratto precedente. Il clima non potrebbe essere migliore e incontro tanti abitanti della zona, lì per una piacevole passeggiata.
Giunto ad un grande incrocio, mi rendo conto di trovarmi nel punto di raccordo con il Cammino d’Arles – che da lì però si dirige verso il passo di Somport, mentre io proseguirò verso l’agognata San-Jean-Pied-de-Port.
Esattamente in questo luogo, è passato parecchie settimane fa l’amico Danilo, The Pilgrim Fox. Mi emoziona moltissimo pensare di essere finalmente sulle sue orme, perché fino ad ora ho percorso un itinerario diverso da quello che aveva seguito lui. È incredibile ripensare a quella telefonata del 9 luglio, quando io avevo appena deciso di partire e lui già era in viaggio. Ci sono, vècio! Fin qui sono arrivato anch’io, e grazie anche a te!
Gasato per la non trascurabile suggestione, proseguo poi sul crinale della collina, entrando finalmente nei confini di Oloron.
La vista in molti punti è bellissima e le abitazioni, sempre più frequenti, sono anche particolarmente eleganti. Ad un tratto, la via comincia a scendere e provo uno strano dejá-vu, perché mi sembra incredibilmnete simile a quella che mi ha condotto al centro di Bruges, ieri. Le villette sono disposte nella medesima maniera, anche se sono molte di più, di miglior aspetto e maggiore varietà: davvero caratteristico.
Arrivato in fondo, la via si spalanca a favore di una piazza tutta particolare, al centro di una rotonda molto inclinata. La terra battuta e una corona di alberi imponenti le danno un tocco di raffinatezza un po’ retrò.
Salgo poi verso la Eglise Sainte-Croix, costruita circa 1000 anni fa. La trovo aperta, ma la mia visita è brevissima, soprattutto perché succede una cosa mai vissuta prima, e non troppo piacevole. Una fotocellula rileva il mio ingresso e accende le luci, ma nel contempo fa partire anche la registrazione di una voce guida: una soluzione di certo utile, ma il timbro e il tono insopportabili infrangono quel silenzio che in certi luoghi dovrebbe essere d’obbligo, sia per rispetto di chi ne fa uso per la preghiera, sia per la semplice contemplazione.
Scendo poi oltre il prato che fronteggia l’edificio e arrivo a una terrazza da dove posso godermi una vista mozzafiato su tutta la città. Non me l’aspettavo minimamente, è un vero incanto. Mando una foto a Sara per condividere quella gioia e per farle un pizzico d’invidia, ricevendo in risposta un’infilata di cuori. Lei è incastrata in Italia, dove ancora non sono ripartiti i lockdown ma i contagi ormai da tempo hanno ricominciato drammaticamente a salire.
Star vivendo questo viaggio in maniera tutto sommato rilassata è un privilegio assoluto. Non ho praticamente mai l’impressione di trovarmi in situazioni di rischio evidenti, anche se so che basta molto poco.
In ogni caso, ora sono qui, col mio zaino in spalla, davanti a un panorama fantastico e a due giorni di cammino dall’inizio del famigerato Camino Francés. Quando ci penso, il cuore batte all’impazzata. Avanti tutta!
Come a Bagnérés-de-Bigorre, raggiungo innanzitutto l’ufficio turistico, sia per farmi timbrare la credenziale che per raccogliere qualche dritta su cosa visitare. Resto poi a spasso per un’ora e mezza almeno, perché potrò entrare in ostello solo per le 17. Raggiungo e visito la straordinaria Eglise Sainte-Marie, patrimonio dell’umanità, più giovane dell’Eglise Sainte-Croix di un solo secolo. Per il resto, mi godo una piacevolissimo passeggiata, senza sentire nemmeno troppo la fatica dei quasi 40 km percorsi, e sempre con lo zaino in spalla. Alleggerirlo è stato come vincere un terno al lotto!
Arrivato all’alloggio, mi accoglie un omone gentilissimo, Jean-Luc, con dei baffoni che me lo fanno sembrare appena uscito da un fumetto di Asterix. Mi mostra la camerata dove dormirò io soltanto. È un sottotetto, ma rimodernato in modo splendido, e ha anche una terrazza sul retro dalla vista unica.
Che dire? Ennesima tappa magnifica di questa esperienza indimenticabile.
PS: con oggi fanno 60 giorni di cammino!!
(Café Restaurant du Commerce)
28,5km
Jean-Louis si dev’essere dimenticato di mettere la sveglia stamattina. Non sarebbe un grosso problema, se non fosse che non riesco a trovare dove sono le cose per la colazione, così mi tocca aspettarlo. Per fortuna si sveglia comunque nel giro di un quarto d’ora, poco male.
Passiamo una ventina di minuti piacevolmente, mangiando e conversando, e prima di partire faccio in tempo anche a salutare i due amici polacchi. Tutti mi salutano calorosamente e finalmente arriva l’ora di cominciare l’ennesima giornata di cammino. Il tempo non è bello, purtroppo, e le previsioni dicono che comincerà presto a piovere. C’è poco da fare, non rimane che buttarsi.
Lascio La Ruche e scendo di nuovo alla grotta; ci tengo a passarci ancora una volta. Resto solo un attimo, dopodichè esco dal lato opposto del santuario e comincio a seguire la via che gli sale accanto. Incontro grandi ed eleganti edifici di proprietà di diverse congregazioni religiose. Rispetto a quello che ho visto ieri, questa zona risulta davvero sontuosa. La cosa incredibile, però, è il fatto che basti un solo chilometro perché il verde della valle prenda il sopravvento sul grigio della città. Gli scenari si fanno d’un tratto campestri, restituendomi grandissimo respiro.
Mentre inizia a piovere, io comincio la mia traversata del fitto Bois-de-Lourdes, un bosco di cui non conoscevo l’esistenza e che mi stupisce da subito per le sue piante, tutte alte almeno un ventina di metri. Scelgo di rimanere su un vialetto asfaltato, rinunciando al fangoso sentiero che gli corre parallelo. Ne esco 4 km dopo; mai avrei pensato fosse così grande.
A Bergamo, la scoperta di quanto fosse ampia la zona verde dei suoi Colli ha stravolto la mia percezione complessiva della città, e lo stesso sta accadendo qui. Includendo questo bosco, la mia immagine di Lourdes cambia radicalmente.
Una volta fuori, mi ritrovo davanti ai primi campi che occupano la valle.
Nei pressi del paese di Rieulhes, poco dopo una fattoria isolata e curiosamente attaccata ad un piccolo cimitero, svolto in un sentiero immerso nella macchia. Un chilometro dopo, finisco ancora tra i campi, ma stavolta molto più grandi: sembra davvero che la valle cominci a mostrare tutta la sua ampiezza.
Arrivo al villaggio di Bout-du-Pont, dove cerco qualche riparo decente, ma mi devo accontentare di sgranocchiare qualcosa in piedi, appoggiato a un albero che mi risparmia solo parzialmente dalla pioggia. La guida propone un passaggio a Saint-Pé-de-Bigorre, sull’altra sponda del fiume, ma scelgo di rinunciarci. Come sempre, camminare sotto l’acqua mi risulta molto più faticoso. Non per questo lo disprezzo – anzi – ma semplicemente ho meno energie del solito.
Proseguo ai piedi delle colline, tra grandi aree coltivate a granoturco, costeggiando qua e là il corso del Gave-de-Pau. Supero le Grotte di Betharram, dicendo addio agli Hautes-Pyrénées e all’Occitania, ed entrando nell’ultima regione francese di questo mio viaggio, la Nuova Aquitania, in corrispondenza dei Pyrénées-Atlantiques.
Il paesaggio, pur passando i chilometri, continua ad essere prettamente agricolo, con appezzamenti che sembrano addirittura sempre più estesi. Scorgo anche un residence e un hotel di lusso, curiosamente immersi nel pieno della campagna. Poco dopo, mentre percorro una stretta via pedonale delineata da muretti a secco, finalmente smette di piovere. Bello camminare sotto l’acqua, lo confermo, ma a giuste dosi.
Non lontano, arrivo di fianco ad un grande edificio: è un collegio. Lungo la strada, file di auto con i genitori dentro ad aspettare che i figli escano da scuola. Qualcuno mi guarda diffidente, ma i più sono ipnotizzati dai loro smartphone.
Immediatamente dopo, scopro la presenza di un santuario; siamo a Betharram. Pare sia un noto luogo mariano associato ad una lunga serie di miracoli. Si narra che il primo di questi si svolse presso il vecchio ponte qui accanto. Il grande arco di pietra che unisce le due sponde ha una data scolpita su una targa: 1687. Gioco a immaginarmi quell’evento, come se stesse avvenendo ora, davanti ai miei occhi, e contemporaneamente rifletto un po’ su questo genere di narrazioni. Per me è molto difficile accoglierle con serenità; provo forte titubanza, ma so anche che non ho nulla in mano che possa smentirne la veridicità. Non posso forzarmi a credere, ma mi piace venire a conoscenza di cosa tramanda la tradizione. Forse ho una fede debole, ma ho comunque grande rispetto di ciò che tante persone si sono impegnate a custodire e trasmettere per secoli. Storie, luoghi, oggetti, tutti scrigni delle più disparate memorie: questa visione acquieta sempre la mia ostinata diffidenza, e mi aiuta a pormi in ascolto, così come posso.
Il santuario, comunque, è aperto: un rifugio perfetto per riposare un po’. Una volta entrato, però, resto inaspettatamente affascinato. È abbastanza buio e non certo grande, ma è colorato in maniera molto originale. Le opere all’interno sembrano preziose ma non raffinatissime.
Quella che mi colpisce più di tutte sta immediatamente all’ingresso, in una nicchia nemmeno troppo illuminata. È un “Cristo alla colonna”, quindi coperto solo da un velo intorno al bacino e legato per essere flagellato. È scolpito nel legno a dimensione naturale e verniciato realisticamente, datato fine Settecento. Mi colpisce tantissimo la tristezza impressa sul volto del Gesù, attraverso un’espressione sobria ma più toccante di tante smorfie. Anche il corpo è modellato con la stessa logica: in torsione, ma senza manierismi. È una posa anonima, quasi goffa, e a me piace sempre moltissimo quando viene rappresentata la realtà in queste sue caratteristiche.
A un certo punto, dalla sagrestia arriva il sacerdote, che sembra stia per andarsene. Prima, però, mi si avvicina con discrezione, e con un sorriso bonario mi chiede dove io sia diretto. Sembra felice di darmi qualche indicazione, spiegandomi che la strada usuale – che sale dalla imponente e ripida via crucis fuori dal santuario – è chiusa per lavori in corso.
Mi chiede anche se voglio il timbro sulla credenziale, ma gli spiego che sto preferendo farne solo uno al giorno, presso la meta di ogni tappa. Inaspettatamente, sembra rimanerne indispettito e conclude in tono molto scocciato. Ma guarda te!
Senza essermi riposato granchè, torno sui miei passi e prendo la via dietro il collegio. Lascio subito l’asfalto che mi avrebbe portato a destinazione in un paio di tornanti, incuriosito invece da un sentierino che sale dritto e li attraversa. Purtroppo non è una buona idea, perché si rivela essere il letto di un riganolo di scolo. Finisco col salire tra acqua e fango e torno sulla strada quando ormai la cima del colle è raggiunta. Mi rammarico un po’ di non poter visitare la cappella del Calvario, chiusa per lavori. Più che altro avrei voluto vedere dal vivo l’imponente riproduzione dei tre messi in croce, ma non si può avere tutto.
Qui dove sono arrivato, comunque, non manca un altro gran crocifisso, come già ne ho incontrati lungo la tappa di oggi e in tanta parte di Francia. Di fianco c’è un tavolo da picnic affacciato su un grande prato, e i primi sprazzi di sole della giornata mi convincono di aver trovato il luogo ideale per una sosta.
Pranzo con comodo, poi riparto, restando estasiato dai panorami che incontro. Sono semplicissimi, ma incantevoli. La valle vera e propria me la sono lasciata alle spalle, ora proseguo su basse e dolci colline a perdita d’occhio, tra prati, pascoli e campi, con qualche case e fattoria sparsa qua e là.
Scendo poi nei pressi del fiume Ouzoum, finendo su una strada ampia ma poco battuta: corre sul fondo di un lungo avvallamento e si dirige al comune di Asson. Dovrei dirigermi là, ma scelgo di tagliare per la campagna.
Stranamente, le indicazioni del mio navigatore segnalano che le vie percorribili passano tutte per delle grandi fattorie. Non di fronte, proprio attraverso! La cosa mi puzza, e inevitabilmente mi torna alla mente la volta in cui passai nel cortile di un’azienda agricola dopo Rieux-Minervois e fui minacciato da quel grande cane senza guinzaglio. Stiamo a vedere come andrà stavolta.
Il primo tentativo va esattamente come avevo previsto: arrivato all’ingresso della tenuta, un gran cagnone – non certo legato – comincia ad abbaiare e a venirmi incontro. Faccio dietro front all’istante e mi avvio verso la seconda strada suggeritami dalla mappa. Questa volta riesco a cavarmela, ma era comunque un luogo privato e fortunatamente nessuno mi ha visto. Soprattutto, ringrazio il cielo che non c’erano cani da guardia, perché me la sarei vista brutta.
Camminando per qualche altra strada immersa tra i campi, lascio Asson lontana alle mie spalle e proseguo verso i Pirenei, ormai vicinissimi.
A un certo punto, mi trovo davanti a un panorama anonimo, ma coloratissimo. Sotto di me si protendono campi verdi e gialli; di fronte ho le montagne, scure e velate di blu, e sopra la mia testa il cielo azzurrissimo, occupato da qualche grande nuvola candida: ancora una volta mi sembra di essere in un quadro!
Quando vivo questo genere di esperienza, mi viene sempre in mente una riflessione che lessi anni fa sul valore del termine “pittoresco”. L’autrice, analizzando questa parola, sottolineava il fatto che il nostro sguardo percepisce la bellezza della natura soprattutto quando ci si presenta disposta secondo un certo tipo di ordine. Quando rispetta, cioè, i criteri compositivi che abbiamo assorbito dalla pittura e dalla fotografia, oppure quando ha altre caratteristiche tipiche di queste arti. Al di fuori di quei modelli, fatica a cogliere bellezza, a provare stupore, a sentirsi soddisfatto. Mi è sempre parsa una tesi molto interessante, e forse oggi il termine “pittoresco” potrebbe essere sostituito dal meno elegante “instagrammabile”. Fine parentesi.
Manca poco meno di un’ora all’arrivo. Lungo il percorso scopro che da queste parti c’è anche uno zoo. Avessi tempo, ci andrei sicuramente. Sono luoghi di cattività discutibili, ma il bambino che è in me ne resta sempre incantato.
Continuando su colli meravigliosi, passo di fronte a una casa rurale con una grande aia davanti, dove sta giocando una bambina col suo cagnolino. La scena mi rallegra e la saluto senza smettere di camminare, ma tanto basta per convincere la madre a far rientrare alla svelta sia la piccola che il cane. Che scocciatura tutta questa diffidenza!
Arrivato infine a Bruges, mi godo un ingresso particolarmente grazioso: una via in discesa su cui si affacciano piccole villette a schiera senza cortili, ciascuna diversa. In fondo, poi, uno scorcio da cartolina, con un ponte molto ben tenuto e alle sue spalle la chiesa.
Superati entrambi, e ormai a un passo dalla piazza dove terminerà la tappa, mi accorgo che lontano alle mie spalle è in arrivo anche un altro pellegrino. Provo una sensazione molto strana: cammino da due mesi, ma non mi era ancora capitato di veder sopraggiungere un altro viandante nella mia stessa direzione. Con Fabian ad Arles era stato diverso, forse perché lo avevo incontrato in ostello la sera. Mi emoziono profondamente, addirittura per un istante quasi mi agito per l’eccitazione. Ad un tratto, però, vedo che imbocca una strada diversa dalla mia. Forse avrà trovato un altro posto dove dormire, peccato.
Arrivo infine al ristorante Café du Commerce, che sembra abbia anche delle stanze. Mi accoglie il proprietario, un uomo davvero caloroso ed accogliente, con un nome non da poco: Jesus! Mi fa sedere, avvisandomi che dobbiamo attendere l’arrivo anche di un secondo pellegrino. “Allora sicuramente è quello che ho appena visto!”, penso speranzoso tra me e me. Mi spiega che c’è bisogno di aspettare perchè le stanze sono presso una seconda casa, e ci accompagnerà lui in macchina.
Nessun problema, anzi, ne approfitto per prendere un caffè e chiedo qualcosa di sfizioso per accompagnarlo. Francoise, la moglie di Jesus, chiama allora il figlio – mio coetaneo ma grande il doppio di me – che esce dalla cucina e mi propone un dolce tradizionale francese, chiamato éclair. Accetto volentieri. Si rivela una squisitezza, con una crema al caffè deliziosa.
Mentre già sto pulendo il piatto, arriva Yann, l’altro ospite, ed è proprio la persona che ho visto poco prima. Ha qualche anno più di me e fortunatamente sembra molto solare. Una volta presentati e prima di partire, mi informo se si possa avere qualcosa per la cena. Ci propongono un bel piatto da asporto, cucinato in mattinata, che potremo scaldare poi là dove ci porteranno. Yann avrebbe preferito cenare con le poche cose che ha con sé, ma gli spiego che è proprio perché non sarò solo che mi piacerebbe condividere un pasto come si deve. Alla fine cede, accettando addirittura di prendere un paio di éclaires. Pone solo una condizione: che stasera possa vedere in tv il discorso alla nazione di Macron e poi la partita della Francia contro la Croazia. Affare fatto!
La casa è poco lontana, isolata in collina, con a fianco un capanno e un fienile. È vecchia e molto spaziosa, con una stufa a legna per riscaldarla. L’accendiamo dopo un paio d’ore, per asciugare i vestiti lavati e perché già comincia ad abbassarsi la temperatura.
Prima di cena ci conosciamo un po’. Yann vive e lavora a La Rochelle, e sta facendo un piccolo viaggio a piedi in queste zone. È un gran viaggiatore, e a volte parte da solo perché la moglie ha qualche guaio fisico. Conosce anche un po’ di spagnolo, imparato dopo un lungo trekking in Perù, e così usiamo spesso quello per parlare, anche se adesso il mio francese è diventato minimamente accettabile.
Arrivata l’ora di mangiare, ci gustiamo i deliziosi piatti del ristorante e poi, come promesso, ascoltiamo le nuove disposizione che la Francia adotterà per limitare la diffusione del virus. Fortunatamente posso tirare un sospiro di sollievo, perché non mi coinvolgono; purtroppo, però, già so che nemmeno la Spagna è messa bene riguardo a infetti e morti per l’epidemia. Non posso che incrociare le dita e che Dio me la mandi buona!
Scanso ogni preoccupazione godendomi la leggerezza della partita in tv e continuando a chiacchierare. Passiamo davvero una bella serata e ci scambiamo i contatti, augurandoci di poterci rivedere, prima o poi.
Domani mattina infatti me ne andrò prima di lui. Jesus, infatti, ci ha dato solo due possibilità per venirci a riprendere: alle 6:15 quando salirà per occuparsi delle galline, altrimenti alle 8. Yann se la prenderà con calma, ma io ho programmato una tappa lunghissima. Non avevo in programma di alzarmi tanto presto, ma non avrò altra scelta.
(La Ruche)
25km
Roberto, oggi tu andrai a Lourdes. A Lourdes! Mi viene un po’ da ridere a pensarci. Quando ero ragazzo, si veniva invitati ad andarci perché si era stati sfortunati come non mai in qualcosa, di solito addirittura più volte. Era un modo goliardico di compatire qualcuno.
Negli ultimi sei anni, però, ho scoperto meglio le implicazioni reali della sofferenza umana e ho esplorato piuttosto a fondo cosa significhi l’esperienza devozionale profonda. Almeno un po’ sono maturato, e non sono più portato a deridere sarcasticamente tutto questo, eppure una parte di me resta ancora un po’…grulla, diciamo. E così, eccomi qui a sghingnazzare da solo sul fatto che non solo sto andando a Lourdes, ma addirittura ci sto arrivando a piedi, e da casa! Meravigliosa imprevedibilità della vita!
Ad ogni modo, sono genuinamente felice: questo è importante ora.
Mi gusto quattro chiacchiere e una piacevole colazione col buon Yoris, poi mi infilo la solita mantella e mi butto. Si parte!
Il tempo purtroppo fa abbastanza schifo. Non piove ancora, ma le previsioni dicono sia questione di momenti. Alternative non ne ho, però – e nemmeno ne voglio.
Esco da Bagnères-de-Bigorre affidandomi per l’ultima volta al solito opuscolo. Un po’ mi spiace, perché mi ci ero affezionato: tanto essenziale, ma incredibilmente utile, facile da consultare e pure leggerissimo. Dovrebbero pubblicarne uno per ogni pezzetto di cammino e renderlo facilmente reperibile per la via. Non sarebbe una cattiva idea.
Nella mattina ancora buia, la traversata del centro cittadino non è memorabile. C’è un gran traffico, che forse è la cosa che ultimamente riesco a sopportare meno. L’unico momento di distrazione è quando incrocio una comitiva di bambini che stanno andando a scuola. Vedendomi conciato come al solito da Babbo Natale gobbo e “incinto”, mi guardano con tutte le varianti di una faccia perplessa. Che dire? Almeno avranno qualcosa su cui ridere prima dell’intervallo.
Mentre inizia a piovere, lascio la strada principale nei pressi della cittadina di Pouzac, e da lì entro in una valletta laterale simile a tante altre viste in questi giorni.
Sarà la pioggia, ma tutto attorno sa un po’ di già visto, e comincio presto ad annoiarmi. Non è un problema, però. Quando è così, ho qualche carta da giocare per sopperire alla monotonia. Da una parte mi gusto la parte prettamente fisica del camminare: il ritmo, la coordinazione, la progressione, ascolto il corpo e ci dialogo. L’altro escamotage è passare in rassegna tutte le persone a cui tengo, …ma proprio tutte! A ciascuna, in quel microscopico istante in cui pronuncio il suo nome, dedico una goccia d’amore, di speranza che stia bene, che i suoi guai possano risolversi e che possano arrivare novità interessanti.
Faccio così fin dalla partenza, in realtà. D’altronde, in ore e ore di cammino ci sono sempre momenti più vuoti degli altri, e in questo modo riesco a riempirli con qualcosa di significativo e a farli scorrere con molta meno fatica.
Dopo quasi un’ora, faccio una pausa in corrispondenza di un netto cambio di pendenza, ma fortunatamente lo strappo non si protrae troppo. Salendo un po’ di quota vengo anche ricompensato con un panorama niente male e smette pure di piovere.
Una cosa precisa e insolita, però, riesce a catturare la mia attenzione: la vista di una grande costruzione isolata nel bel mezzo di una montagna vicina. Non sembra niente che io abbia mai visto in una posizione simile, e infatti, cercando sul web, scopro che è un ospedale, un ospedale in mezzo ai boschi. La cosa ancora più strana, però, è il pensiero che mi nasce in testa e che mi strappa l’ennesima risata: “Chissà che bestemmie i fornitori che devono arrivare ogni volta fin lassù!”. E, tutto sommato, non credo nemmeno di aver torto.
Poco dopo raggiungo il piccolo villaggio di Neuilh, posto sulla cima della collina. Arrivato in fondo, mi trovo davanti il Comune e noto che alle sue spalle c’è un discreto panorama sulla valle dove scenderó nelle prossime ore. Non essendoci recinzioni, mi avvicino meglio e scopro che sul retro dell’edificio non c’è che una sottile striscia di terreno che subito scivola verso la strada sottostante. È proprio su quel margine che mi posiziono per godere della vista migliore, giusto qualche secondo.
Quando torno sui miei passi e comincio ad allontanarmi, mi accorgo poi con la coda dell’occhio che attaccati alle finestre degli uffici ci sono due impiegati che mi fissano stupiti e sospettosi. Eppure mi pareva di essere riuscito a non far rumore.
Il piccolo episodio non mi turba, ma rinvigorisce il mio sospetto che ogni volta che attraverso un paesino che sembra perfettamente disabitato (la maggior parte) c’è comunque sempre qualcuno che si accorge di me.
Sospeso in questi pensieri, noto che sull’ultimo palo elettrico del paese c’è disegnata una freccia e, di fianco – pennellate in un corsivo elementare – la scritta “St. Jacques”. Da qui parte un’altra strada poco entusiasmante, tutta all’ombra degli alberi che la costeggiano e che impediscono ogni vista sulla valle. Ci vuole quasi un’ora di cammino per raggiungere il villaggio di Arrodets-ez-Angles, e finalmente vedere aprirsi il paesaggio. Peccato solo che nel frattempo ricominci ancora a piovere.
Sono oltre metà tappa, ma mi manca ancora il passaggio sugli ultimi colli – questa volta solo su terra, niente asfalto. Con tutta quest’acqua, spero il terreno sia in condizioni decenti. Purtroppo basta un quarto d’ora per scoprire che invece è tutto esposto e spesso fangoso. Oltre alla pioggia, poi, tira un forte vento e alcuni tratti sono piuttosto pericolosi. Il pendio sotto di me scende per 500 metri fino a fondovalle ed è quasi completamente spoglio, tanto da darmi l’impressione di essere in cima ad un enorme scivolo. E ciliegina sulla torta, c’è anche un po’ di nebbia a rendere lo scenario ancora più selvatico.
Sorprendentemente, però, mi rendo conto che proprio tutto questo mi inietta una grande eccitazione, trainata da un fortissimo senso di libertà e avventura che sto provando. Il risultato è una mezz’ora di gioia, sforzo e adrenalina che mi ci voleva proprio.
Superato il tratto più complesso, il sentiero comincia a scendere all’interno di due file d’alberi, anche se alcuni li trovo tristemente sradicati, altri ai lati del percorso e altri ancora nel mezzo.
Poco prima di arrivare a valle, passo da una radura concava dominata da una suggestiva fortezza a forma di torre, bassa e tozza. Una tavola informativa ne narra le vicende più significative, e pare che ora sia di proprietà privata.
Appena sotto, trovo un melo con qualche frutto appeso, in una zona non recintata. Stacco una piccola mela gialla bitorzoluta. Mentre me la gusto, immerso in quel paesaggio ancestrale, mi immagino teletrasportato in un passato lontano, con qualche guardia del conte di turno pronta ad arrestarmi per aver rubato dai giardini di sua altezza. Che dire? Meravigliose fantasie da pellegrino.
Lasciato alle spalle l’ultimo poggio del giorno, arrivo a Les Angles, dal nome della stessa famiglia che possedeva il forte e comandava in passato questi territori.
La pioggia insistente rende i paesini come questo scenari ideali per un film sui vampiri o sui lupi mannari, quelli “vecchia scuola” però. L’unica nota frivola sono i soliti vasi di fiori appesi alle balaustre di un ponticello.
C’è anche un antico lavatoio coperto, che sfrutto per mettermi al riparo almeno per qualche minuto e mangiare qualcosa. È quasi ora di pranzo e manca ancora un’ora e mezza di cammino. Potrebbe sembrare poco per uno che cammina da settimane, ma la pioggia porta sempre fatica in più.
Mentre esco dal villaggio, però, finalmente smette. Immerso tra campi e pascoli, mi fanno dono della loro compagnia diversi grandi rapaci che danzano e giocano nell’aria. Pensando alla classica scena in cui gli avvoltoi ruotano sulla testa della vittima che hanno scelto, per un attimo mi viene un nodo alla gola. “Non mi pare di esser messo così male, però”, mi dico per riderci su.
Affrontata l’ultima salitella, inizio finalmente a poter scorgere Lourdes in lontananza. Ci siamo!
Una volta sceso, cammino costeggiando campi di granturco e pascoli, godendo addirittura di qualche inatteso squarcio d’azzurro. In corrispondenza della prima periferia incontro alcune persone, ma tutti sembrano accigliati e nessuno mi restituisce il saluto. Certo, io posso attingere a tutto l’entusiasmo per quello che sto vivendo, mentre capisco che gli altri possano essere schiacciati dallo stress quotidiano. Nonostante ciò, mi stupisco sempre di come un gesto così semplice possa costare tanta fatica. Il fatto che questo sia un luogo fondato sull’accoglienza di pellegrini, poi, mi lascia ancora più perplesso.
Inaspettatamente, gli unici a regalarmi consolazione sono due bellissimi asini. Pur chiusi in un cortile, lo attraversano tutto per venire a curiosare dalle mie parti mentre io mi fermo ad aspettarli. Si dice che ognuno abbia quello che si merita, d’altronde.
Man mano che proseguo, sempre più dettagli mi ricordano che la città è profondamente plasmata sull’accoglienza di gruppi numerosissimi. Lo dicono le infinite indicazioni di strutture ricettive, i tanti parcheggi per i bus, i cartelli dedicati a innumerevoli luoghi spirituali.
L’assenza radicale di visitatori, però, rende tutto questo estremamente desolante, tanto che comincio a provare dispiacere per gli abitanti, immaginando i danni economici a cui stanno andando incontro.
Ad un certo punto, metto da parte la guida cartacea e comincio a seguire i cartelli per la grotta. Capisco troppo tardi, però, che è stato un errore ingenuo: quelle indicazioni erano per gli autoveicoli, non per i pedoni, e a quanto pare alle auto viene fatto fare un gran giro, perché mi ritrovo totalmente fuori rotta. Come se non bastasse, poi, il cielo torna a chiudersi e scurirsi, minacciando pioggia a breve. Devo sbrigarmi.
Mentre mi dirigo a passo spedito verso il centro, però, la densità di hotel, di negozi e ristoranti, pur vuoti o chiusi, si fa man mano più asfissiante. La città è oggettivamente imbruttita da una presenza pubblicitaria sovrabbondante e dal luccichio di un infinità di paccottiglia esposta ad ogni angolo.
Dentro me sapevo che avrei trovato tutto questo, ma non immaginavo in questa misura.
Tappandomi il naso, arrivo infine al vero cuore di Lourdes: il santuario costruito sopra la famosa grotta.
Appena superati i cancelli, però, la vista di quegli immensi spazi vuoti mi dà il colpo di grazia. Progettata per afflussi enormi, la piazza principale è attraversata da non più di dieci persone, e il senso di desolazione raggiunge il suo apice. Anche il grande ponteggio che copre completamente la torre più alta non aiuta ad apprezzare la sontuosa facciata. Ovunque si poggi lo sguardo c’è una impressionante prevalenza di grigio, e come se non bastasse comincia anche a piovere.
Se non voglio deprimermi troppo, non mi resta altro da fare che raggiungere quel piccolo luogo da dove è partito tutto quanto: la grotta.
Una volta laggiù, dopo la tempesta di messaggi e simboli appena superata, prevale inevitabilmente un senso fortissimo di sobria povertà. Non è solo una constatazione razionale, un commento all’evidenza: ho addirittura l’impressione che la grotta emani davvero un senso profondo di umiltà, che la effonda. Questo è esattamente quello che sento, e mi pacifica.
Toccato nel profondo, arrivo a capire che ho giudicato troppo accanitamente quello che ho visto qui intorno, ma al contempo raggiungo la certezza interiore che la mia spiritualità potrebbe trovare un solo rifugio accogliente da queste parti: quella roccia.
Rimango sotto la pioggia per un buon quarto d’ora, fermo: il tempo per acquietarmi definitivamente e ritrovare il mio centro. Prima di andarmene entro anche nel santuario, lasciando in sospeso ogni altra riflessione ma uscendone dopo pochi minuti.
Carico di tutto quanto vissuto, mi avvio poi verso la pensione presso cui ho prenotato. Si chiama La Ruche, e amici pellegrini mi hanno anticipato che è un luogo estremamente speciale per chi-come-me è in cammino verso Santiago.
Il proprietario, Jean-Louis, ha fama di essere un vero hospitalero intriso di spirito giacobeo, e ho la fortuna di farne effettivamente esperienza. Mi accoglie con premura e cortesia.
La casa è calda e ricca di segni e simboli legati a Compostela, ai cammini che là convergono e alle storie di chi, come me, ha voluto cimentarsi in questo genere di avventura. Parlando con lui, scopro quanta passione l’abbia spinto a portare avanti questo suo impegno negli anni, e quella stessa brace mi scalda definitivamente lo spirito dopo i “geloni” del primo impatto con la città.
La sera, durante la cena cucinata amorevolmente da Jean-Louis stesso, condividiamo la tavola con altri due ospiti, due uomini polacchi. Presentandoci, mi confessano subito che non parlano francese. Tra me e me provo inizialmente sollievo, ma poi il padrone esclama llegramente che invece lui non parla inglese. A quelle parole il discorso viene improvvisamente lasciato in sospeso e gli occhi dei tre si fissano su di me: vogliono che io faccia da traduttore. Vorrei farmi invisibile. Come mai potrò riuscirci – mi domando – se ancora balbetto a malapena le solite quattro frasi per prenotare un letto e comprarmi un panino? In ogni caso non ho scelta.
Sarà il vino, la stanchezza o la loro gentilezza, ma succede il miracolo: contro ogni pronostico riesco nell’impresa, scoprendo io stesso di aver fatto dei progressi che non sospettavo. È una bella sensazione, anche se so bene che non ce l’avrei fatta senza la pazienza che tutti hanno speso perché l’impresa riuscisse. Pazienza: merce rara di questi tempi.
Conclusa splendidamente la cena e tornato in stanza, penso alla giornata e al fatto che tra soli quattro giorni supererò i Pirenei, inaugurando una stagione tutta nuova di questo viaggio. L’impatto con Lourdes non è stato come speravo, ma non ha meno valore. So che domani – come ogni giorno – ripartirò comunque molto arricchito, non ho dubbi.
(Au chat ronfleur)
21 Km
Eccomi alla nona settimana di cammino, quasi non ci credo.
Stamattina dico addio al Mulino delle Baronnies e mi avvio verso un’altra zona storica di questo distretto: la Haute-Bigorre. Per il tragitto, resto fedele alle dritte di Radio Camino sul prezioso libretto regalatomi da Brigitte. Questo significa ancora una volta che la tappa sarà breve e quasi del tutto fuori dal normale tracciato del GR78. Non ho nessun rimorso a riguardo; questi percorsi più corti sono comunque splendidi, e risparmiare energie in questo momento è un vero privilegio.
Se tutto andrà bene, potrò anche soddisfare un piccolo capriccio che mi riempirebbe di gioia: arrivare a Saint-Jean-Pied-de-Port esattamente due mesi dopo la mia partenza. È solo un vezzo legato ad un gusto inutile per le cifre tonde, ma in fondo è impossibile nasconderlo: i numeri fanno parte enormemente di questo genere di esperienza. Ricordo che Sara una volta l’aveva chiamata “la matematica del pellegrino”. Mi fece sorridere, ma non c’è cosa più vera. D’altronde siamo stracolmi di strumenti che possono permetterci di misurare tempo, spazio, velocità, peso, tempo meteorologico, e credo che non sia realistico immaginare di esserne del tutto indifferenti.
Il rischio maggiore, probabilmente, è diventare troppo calcolatori, e io di certo ne so qualcosa: sto attento a chilometri, ore, giorni, ma anche ai nutrienti di ciò che mangio, ai chili persi o acquistati, a quelli dello zaino e di ogni singola cosa che lo riempie, ai soldi che spendo e a quelli che risparmio. Insomma, non mi stupirei se a qualcuno tutto questo sembrasse un po’ ossessivo. Nonostante ciò, questo approccio mi ha anche permesso di gestire efficacemente il mio corpo in queste settimane non proprio semplici, scoprendo limiti e punti di forza che nemmeno immaginavo.
Un altro rischio, invece, è la foga prestazionale, e anche di questo parlo con cognizione di causa. Senza spenderci troppe parole, credo sia qualcosa da saper domare, nonostante resti legittimo che ognuno abbracci lo stile che preferisce, o che più gli appartiene.
La mia ambizione più alta sarebbe saper vivere l’esperienza di pellegrinaggio con il maggiore affidamento possibile, ma dopo quasi due mesi di cammino mi sto rendendo conto di avere molti trattenimenti a riguardo. Resto comunque dell’idea che sia l’approccio più prezioso per vivere pienamente questo genere di avventura, anche se richiede di fare scelte davvero poco comuni.
Nel mio piccolo, ogni volta che ho saputo evitare di controllare, di calcolare, di preoccuparmi, ho goduto poi di eventi inattesi e sorprendenti. Certo, non è sempre facile accogliere qualcosa di diverso da ciò che esattamente vorremmo, ma allena una sana flessibilità d’animo. Sotto questo punto di vista, il cammino diventa un laboratorio esistenziale impagabile, nel quale poter sperimentare meraviglia e gratitudine con una frequenza del tutto inusuale.
Una volta in Spagna, spero di cominciare ad incontrare più pellegrini possibili, e scoprire come loro vivano tutto questo. Non vedo l’ora!
Tanto per contraddirmi subito, però, oggi più che mai smanio per qualcosa di fortemente numerico, infatti inizierò la mia prima tappa senza il peso di tenda e materassino. Quella di ieri non vale perché avevo ancora un sacco di peso per il cibo comprato subito dopo la spedizione. Mi ero potuto fare un’idea solo dopo aver consumato il pranzo, ma poi da lì alla meta ho camminato un solo chilometro. credo ci vogliano almeno un paio di tappe per capire effettivamente l’incidenza di questo risparmio di peso. Staremo a vedere, sono davvero eccitato e speranzoso. Ora però cominciamo!
Riprendo la dipartimentale e mi avvio verso il primo paese: Bourg-de-Bigorre. La valle è verdissima, ma c’è un po’ di foschia. Attorno a me una strada vuota, due colline verdi, qualche prato, un fiume, della nebbiolina e il cielo.
Può sembrare banale dire che queste settimane tutte all’aria aperta – e spesso in mezzo alla natura – mi stanno pacificando e arricchendo, ma sono meno scontati i dubbi che iniziano a nascermi dentro: come sceglierò di vivere in futuro? Saprò onorare quello che sto vivendo e imparando? Saprò seminarlo nella mia vita per far sì che si rinnovi e dia nuovi frutti?
Non sono certo domande nate solo oggi, è ovvio, ma stanno facendosi sempre più concrete.
Attraverso il fiume Aros e il villaggio, imboccando poi la strada che segue il torrente Esqueda, mentre la nebbia va via via ispessendosi.
I nomi di fiumi e paesi stanno cambiando molto, ultimamente, allontanandosi dalla sonorità francese e abbracciando la spigolosità del basco, con qualche velatura di castigliano e chissà quante altre influenze ancora.
Mi ritrovo ancora in una vallata, quindi, ma molto più stretta di quella che ho lasciato. Seguo una strada tutta curve, senza guard-rail. La vegetazione continua ad essere abbondante e rigogliosa, ma resta annegata nella nebbia. In quest’atmosfera lattiginosa e onirica, si sentono i campanacci dai tanti pascoli sparsi lungo il percorso, e sagome bovine spuntano a volte come spettri inespressivi.
Quando il sole fa capolino sopra le colline, si crea un’atmosfera unica: il disco bianco riesce a mostrarsi anche tra la densa foschia, ma i suoi contorni ci si sciolgono dentro. Sembra di essere immersi in un acquerello.
Con quel calore sempre più intenso, in meno di mezz’ora ogni traccia di foschia svanisce e tutto si fa limpido.
Presso una biforcazione, resto felicemente sorpreso di fronte ad una casa dalla collocazione unica. Sta proprio in corrispondenza del bivio, ma non a livello della strada, bensì a quello del torrente – circa cinque metri sotto. Guardando meglio, poi, capisco anche il perché: è un mulino. Dal camino esce del fumo e tutt’attorno ha un giardino quasi esotico. Non oso immaginare che umidità si soffra abitandoci, ma al contempo devo ammettere che va oltre il pittoresco.
Mentre penso queste cose, spunta un’anziana signora che spinge una carriola su per la rampa ripida, e senza nemmeno mostrare grande sforzo. Ho un deja-vu: è la stessa scena che ho visto ieri mattina! E il bello è che anche la signora di oggi trova il modo di salutarmi sorridendo, proprio nel bel mezzo della fatica. Usa un’espressione che ho già sentito in diverse occasioni e che mi piace tantissimo: “Bon courage!”. La ringrazio e proseguo raggiante.
La valle inizia ad aprirsi, lasciando il mio sguardo riempirsi di tutto l’azzurro del cielo; non pensavo che stamattina il tempo sarebbe cambiato tanto velocemente. Abbandono il torrente Esqueda e do il buongiorno al paesello di Banios. Come altri che ho già incontrato, è attorniato da colline e montagne, ma in questo caso un lembo dell’abitato si prolunga su una di esse.
Inizia proprio da quella strada la salita serpeggiante verso il Col-des-Palomières: circa 300 m di dislivello distribuiti su poco più di 5 km.
Man mano che la percorro, il panorama diventa sempre più ampio, tranne che in corrispondenza di una rientranza profonda della montagna. È proprio uscendo da quella quinta ombrosa, però, che posso gustare in pienezza l’arrivo alla grande terrazza naturale in cima al colle.
L’altitudine ancora una volta è minima – poco più di 800 m – ma il panorama è stupefacente. Da lì posso vedere a distanza di decine di chilometri, aiutato da questa giornata splendida. Il cielo è gigantesco e solcato da nuvole bianche e sparse, che si inseguono e cambiano forma velocemente.
C’è un bel tavolo di legno con due panche attaccate. Entusiasta, scelgo di fare qui la mia pausa anche se non è ancora mezzogiorno. Sul piano del tavolo c’è qualche scritta in pennarello nero, ma nessuna è volgare o banale. La migliore recita: “Mes cicatrices valent le poids de mes erreurs”. Non male.
Dietro di me, c’è un viavai di cacciatori coi loro cani; hanno vestiti mimetici e arancioni fosforescenti. Salgono e scendono dall’area più alta del colle, ma stranamente non sento alcuno sparo.
Sulla mia testa volano una dozzina di rapaci a diverse altezze, tra i quali ogni tanto se ne intravedono di molto grandi, come non ne avevo mai visti prima. Resto ipnotizzato a guardare i cerchi che disegnano senza nemmeno sbattere le ali. Questo genere di volatili mi affascinano visceralmente.
Riparto con estrema calma, salendo lá da dove prima vedevo scendere i cacciatori. Sono solo cinquanta metri in più, ma la visuale si allarga incredibilmente. Tornando sulle tracce del GR per gli ultimi chilometri, inizio a scendere verso la larga valle del fiume Adour, dove si trova la mia destinazione: Bagnères-de-Bigorre.
Prima di arrivare in fondo, attraverso il bel paesino di Gerde, a mezza costa.
Mentre sto camminando per una stretta viuzza osservando i dettagli delle abitazioni, sento un profumo intenso e inconfondibile entrarmi nelle narici. Senza nemmeno pensare, ruoto la testa tutt’intorno per capire da dove venga e, affacciato ad una finestrella al primo piano, vedo un ragazzo sorridente che mi saluta con in mano quello che sospettavo. Restituisco il saluto e mi complimento per la qualitá, strappandogli una risata. Mai mi sarei immaginato di trovarmi ad associare un luogo simile al profumo di marijuana. Questo cammino non smette mai di regalare sorprese.
A due passi dal fiume, camminando placido tra campi di granoturco, contemplo i monti in cima alla valle. I primi sono completamente verdi, ma dietro di loro ne spunta uno molto più alto e già parecchio innevato; credo sia il Pic-du-Midi-de-Bigorre, alto quasi tremila metri: uno spettacolo straordinario. Da queste parti chi ama la natura ha davvero di che divertirsi.
Dopo l’ultimo chilometro, eccomi a destinazione.
Suono alla porta della chambre d’hôte “Au chat ronfleur” (letteralmente: Il gatto che russa) poco dopo l’una, e mi accoglie con gran garbo il signor Yoris. La stanza è bellissima e spaziosa, e infatti è per tre, ma la stagione è bassa e le restrizioni legate al Covid fanno anche qui la loro parte.
Poche ore dopo sono a spasso per la bellissima cittadina. Scelgo di partire dall’ufficio turistico: di certo lì hanno una una mappa turistica. Nella maggior parte dei casi amo affidarmi all’istinto quando visito una nuova città, ma a volte la vocazione turistica di un luogo va assecondata, soprattutto quando si capisce che c’è un patrimonio particolarmente speciale e tanta attenzione da parte della comunità nel volerlo valorizzare. Il secondo aspetto che mi spinge a muovermi in questo modo è sempre l’ampiezza dell’abitato: se è troppo grande perché io lo possa visitare in poche ore, allora preferisco perdermici; se invece è di dimensioni ridotte come in questo caso, ne approfitto per fare un tour mirato. È un approccio come un altro, ma a me dá sempre soddisfazione.
Prima meta è quella che più pare contraddistinguere la città: le grandi terme. La cura estetica dei luoghi pubblici e degli edifici è davvero ammirevole. Ci sono architetture di epoche diverse, spesso molto colorate e comunque sempre eleganti. Scopro un museo non male e anche la presenza di un casinò. Non manca un’antica chiesa e una bellissima torre proprio in mezzo alla città. Mi ricorda quella di Apt, anche se lo stile è differente.
La sorpresa più grande, però, arriva all’interno di un paio di parchi contigui, dove incontro degli alberi ancora più grandi di quello visto ieri a Lortet. Leggo che si tratta di sequoie giganti, che in questo caso superano i 35 metri. Quando mi metto a fotografarle come mio solito, noto di essere tenuto d’occhio sospettosamente da una mamma i cui figli piccoli stanno giocando proprio ai piedi di quei colossi. “Forse mi vede come un malintenzionato”, penso tra me. Rendendomi conto che sarebbe complicato spiegarle, scelgo di rinunciare. Il mio francese non è sufficiente per uscire facilmente da un fraintendimento tanto grave nel bel mezzo di un luogo pubblico.
Concludo il mio tour in un supermercato molto fuori dal centro, ma come sempre tutta questa bellezza riesce a non farmi sentire la fatica dei chilometri supplementari. Ormai non resta che tornare nella tana del “Gatto russatore” e godermi in pieno relax le ultime ore della giornata.