(Albergue Blanco)
21 km
È ancora presto per alzarsi, ma un grande lucernario fa sì che comunque la camerata sia già tutt’altro che buia. Forse è un intelligente escamotage per stimolare i pellegrini a non poltrire troppo a lungo, chissà. Fissarlo mi aiuta ad anestetizzare la cascata di pensieri che mi disordina la testa. Tutt’attorno c’è ancora un certo silenzio, a parte i piccoli rumori di chi ancora sonnecchia.
Pochi minuti e sento suonare la sveglia di Tiziano, che la strozza in un secondo. Immediatamente si mette seduto, i piedi sul pavimento: mi chiedo ancora come faccia ad essere sempre così squillante la mattina. Mi colpì per questo fin dal primo giorno a Saint-Jean-Pied-de-Port. Non sono mai riuscito a fare meglio, nemmeno lontanamente.
Ci salutiamo a bassa voce: “È il grande giorno”, “Sì”. Mi sorride in una maniera particolare, microscopici dettagli tradiscono tutta la sua trepidazione. Mentre va in bagno, mi metto seduto anch’io, ma per un paio di minuti casco come sempre in una nuova immobilità.
Al suo ritorno svegliamo anche Amedeo, che coi suoi mugugni sonnolenti comincia fin da subito a strapparci risate. Scambiamo prima qualche battuta a voce bassa, ma fatichiamo a contenere l’emozione che ci ribolle in petto e presto il volume delle nostre buffonate comincia ad alzarsi sempre più. È un modo istintivo di darsi morale; non che ci manchi proprio oggi, certo, ma in fondo è l’ultimo giorno di un sogno molto lungo, ed è normale che i sentimenti siano ambivalenti.
Il nostro baccano sveglia velocemente tutti quanti gli altri. Si inziano a sentire le zip dei sacco a pelo che vengono aperte, qualche frase biascicata in francese – probabilmente qualcuna per maledirci. Sagome improbabili con salviette sulla spalla e spazzolino nella mano cominciano a strisciare le ciabatte in direzione del bagno.
Vado anch’io a darmi una sciacquata fredda alla faccia, tra buongiorno in varie lingue e sorrisi assonnati.
Quando torno, Tiziano ha già quasi finito di prepararsi. A me, invece, tocca ancora rimettere tutto nello zaino: arrotolo i panni asciugati e li sistemo ordinatamente, ritiro la corda usata per stendere, infilo il sacco a pelo come ho imparato, metto il caricatore nella solita busta. Spremo poi dal tubetto un dito di arnica-gel e la spalmo sui piedi finché si asciuga, poi tolgo anche una punta di vaselina e ne tiro un velo nei punti di maggior attrito: un rito collaudatissimo, ormai.
Prendo infine le scorte per la colazione e salgo in cucina. Abbiamo un sacco di squisitezze stamattina: le metto in tavola come se lo facessi per la mia ragazza, mi piace apparecchiare per gli altri. Taglio il pane, apro il vasetto di marmellata, appoggio un coltello sul burro scartato, preparo le tazze e inizio a far scaldare latte e caffè. Tiziano arriva poco dopo, mentre per Amedeo ci vuole come sempre qualche minuto in più.
La cucina è una specie di veranda con una gran parete in vetro che si affaccia sulla terrazza in cima all’albergue. Il cielo è nuvoloso, peccato, ma va bene anche così. Non fa nemmeno troppo freddo. Mangiamo con gusto, ma non basta a finire tutto – evidentemente abbiamo esagerato con la spesa.
A un certo punto sale anche Manu, la svizzera coi dreadlock. Dopo averci salutati, curiosamente comincia a lavarsi i denti nel lavandino della cucina, lasciandoci molto perplessi perché ci sono parecchi bagni giù al piano. Una volta finito, ci chiede se avanza del latte. “Certo, te lo lasciamo nel pentolino, ok?”, “Grazie!”. Prima di scendere, raduniamo ordinatamente anche tutto il ben di Dio che non abbiamo saputo terminare: sicuramente sarà un regalo gradito per lei e gli altri.
Lavati anch’io i denti, è ora di mettersi gli scarponi. Torno a sedermi sul letto, ma quando li prendo in mano mi ritrovo di nuovo immobile, come all’alzata. Imbambolato, resto a guardarli: hanno resistito fin qui – non da Bergamo, quello è vero, ma comunque da Torino. Gli ho voluto bene da subito, da quando sono uscito dal negozio avendoli già indosso. Ancor prima dei Pirenei avevano già un angolo tutto consumato, e davo per scontato sarebbero durati al massimo altri duecento o trecento chilometri, invece eccoli qua.
Osservo le mani allacciarli secondo una procedura nata man mano lungo il cammino e ripetuta un’infinitá di volte: stringhe ben larghe sulla punta e strette alla caviglia. Nemmeno una vescica in migliaia di chilometri! Di questo dettagli vado orgoglioso. Dicono si sia predisposti, e forse io non lo sono, ma so che li ho trattati bene questi due piedoni piattissimi, proteggendoli e impomatandoli ogni giorno. Non ho mai curato nessun’altra parte del mio corpo con lo stesso amore per così lungo tempo, e credo che questo abbia pagato.
Bene, non resta che caricarmi lo zaino sulle spalle. Mi stupisce quanto sia diventato ormai da mesi un gesto estreamente eccitante: mi dà una vera scossa sentirne il peso cadere, stringerne i legacci ascoltandone gli inconfondibili rumori, accomodarlo, tastarne le superfici.
Sono feticismi sani, che era inevitabile diventassero protagonisti a pieno titolo di un’avventura come questa. Hanno riempito cuore e memoria tanto quanto i paesaggi da sogno attraversati o gli impagabili incontri vissuti. Ora direi che è davvero tutto pronto!
Avviandoci verso l’uscita, scopriamo che i ragazzi francesi e quelli svizzeri stanno facendo colazione ad un tavolo all’ingresso – ecco perché non li ho visti salire in cucina. Gli comunico sorridendo che abbiamo lasciato parecchia roba per loro, ma rispondono chi con sufficienza e chi quasi con imbarazzo. Proprio non capisco queste reazioni.
Con Tiziano usciamo a fumare una sigaretta in attesa di Amedeo. Prima che arrivi, però, mi accorgo di aver scordato un’ultima cosa, e rientro ancora. Incrocio così un ragazzo della comitiva francese che sta scendendo dalla cucina ed è carico di tutto quello che avevamo lasciato. Mi ringrazia stupefatto, e la stessa cosa fanno gli altri quando appoggia il bottino sul tavolo. Solamente una preferisce esibirsi in una smorfia di poco apprezzamento: simpatica.
Nonostante io proseguirò di certo il mio cammino oltre Santiago, questa è probabilmente l’ultima tranche in compagnia dei due amici liguri. La stanchezza accumulata in questi giorni è stata tantissima e non se la sentono di affrontare altre tappe. Il biondo veterano, d’altronde, le ha già percorse in passato e quest’anno si sente sazio così. Amedeo invece è semplicemente cotto fino al midollo. Ormai è quasi certo che si trasferiranno a Muxía con l’autobus; addirittura questo pomeriggio, da quello che ho capito.
Laggiù Tiziano ha un riferimento a cui è legatissimo, e che ci ha già nominato un’infinità di volte: parlo di Pepe, il proprietario di un albergue nel centro del paese. Negli anni passati pare si sia mostrato incredibilmente premuroso col biondo amico, facendogli anche scoprire con infinita disponibilità alcuni luoghi magici di quel tratto di costa. La sua idea è quella di godersi del meritatissimo riposo e farsi accompagnare di nuovo tra fari e calette in compagnia del fidato Amedeo, e quale coronamento migliore per questa straordinaria avventura!
Anche se probabilmente sarà proprio quello che succederà, nel chiaccherare fuori dall’albergue percepisco per un istante un ultimo margine per qualche inaspettato cambio di programma. Staremo a vedere. Cominciamo prima ad arrivare alla grande meta e farci inondare da tutta l’emozione che ci regalerà, poi sia quel che sia.
Prorpio tra una battuta e l’altra e sicuramente un po’ a sorpresa, mi si scatena all’improvviso l’irresistibile voglia di partire da solo anche oggi. È un impulso quasi irrazionale, ma ormai ho imparato più che bene quanto sia necessario che io lo segua quando si presenta. Sono un po’ rammaricato, ma non esito e glielo comunico, promettendo di farmi trovare lungo il percorso.
È chiaro non sia un gesto di particolare fratellanza, e non posso sapere quanto sia irritante per loro il colpo incassato. Nonostante ciò, anche questa volta lo accettano senza farmelo pesare, e dentro me gli sono profondamente grato.
Pieno d’entusiasmo, quindi, li saluto e mi tuffo nella strada deserta. È incredibile che non ci sia nessuno, e non è nemmeno troppo presto. Continuo a ripetermi di essere un vero privilegiato per poter gustarmi anche quest’ultima, fatidica tappa in totale intimità: solo io e questa terra che attraverso, che mi fa spazio e mi accompagna. Da non credere! In uno qualsiasi degli anni precedenti avrei dovuto accettare di condividerla con decine o centinaia di persone, molte delle quali sintonizzate su tutt’altra onda dalla mia, ma in futuro sarò curioso di provare anche quello.
Cammino lento, oggi più che mai. Ho solo una ventina di chilometri davanti, senza asprezze: un dolce tuffo tra le braccia della cattedrale, tutto da godere.
Ovviamente ho stampato in volto il sorriso ebete del bambino che esce per andare alla gita scolastica: era inevitabile, e me lo tengo stretto con gran gusto. Mi piace sentire che mi tira le guance e mi assottiglia gli occhi. Conosco la mia faccia quand’è spremuta così, come quando ti viene una battuta che sai già farà ridere solo te e allora cerchi di trattenerla – di solito senza mai riuscirci. Un amore lontano mi diceva sempre: “Hai la faccia da cazzata. Dai, sentiamola”. Ecco, proprio quella.
Un complesso scolastico e un campo sportivo sono le ultime cose che incontro prima dell’uscita dal paese. Proprio lì di fronte parte il sentiero che subito fa affondare i pellegrini tra le braccia dell’ennesimo bosco di eucalipti.
Il cielo sarebbe anche acquerellato d’azzurro, ma c’è ancora una spessa bruma appoggiata lì, in testa agli alberi, che spero se ne andrà presto. Ai loro piedi, invece, il primo mojon della giornata coi soliti decimali, ma stavolta non mi innervosiscono: oggi ho le farfalle nello stomaco. Ci siamo, ci siamo!
Anche stamattina è fatta di cose semplici: zaino, passi, bosco, case, prati, ancora bosco e ancora case. Guardo ogni particolare come se fossi ai Musei Vaticani, non vorrei perdermi nulla. Sento addirittura la voglia di salutare tutto e tutti, come fossi una celebrità che sfila sul red carpet di Cannes: ringrazio per gli applausi del muschio e la commozione delle foglie cadute; gli eucalipti mantengono il loro contegno, sempre sull’attenti, mentre gli altri alberi si protendono e si contorcono come groupies dietro le transenne. Che bella la fantasia!
Cammino ozioso come un perfetto flâneur. Sopra di me tutto è più limpido, ma niente alba oggi, peccato. Alcune case dal gran giardino non hanno nemmeno la staccionata; sembra una cosa insignificante, ma invece dá grandissimo respiro. Un pellegrino in tenuta super tecnica mi sfreccia a fianco e in pochi istanti sparisce davanti a me. Mi domando quante volte sia stato io quel corridore…
Al mio approccio svagato, però, tocca fare i conti con due cose: la prima è che da sempre mi stanco di più se cammino troppo lentamente, e la seconda è che cominciano due chilometri di salita. La combinazione mi affatica più del previsto, ma gioco tutto sulla gioia di queste ore speciali, e sembra una buona puntata. Anche il sole arriva a darmi manforte, non più nascosto dietro la bambagia che riempiva il cielo stamattina. Infila i suoi raggi tra i rami fitti e lascia sverniciate brillanti qua e là. I giovani eucalipti svettano come al solito tutti dritti e smilzi, alcuni con le bucce di corteccia che penzolano a mezz’aria, altri tutti nudi, pallidi e liscissimi. Non pensavo oggi di passare attraverso una natura così selvatica.
Tiziano ci aveva anticipato che le ultime due tappe non sarebbero state il massimo, ma fin qui non capisco come mai la pensi così.
Una parziale risposta la trovo in cima alla salita, quando si comincia a intravedere l’aeroporto di Santiago. Si finisce a camminare sì e no a 150 m dalla pista, e il sentiero che la costeggia sbuca addirittura a due passi da un’autovía molto trafficata. È vero, non è il massimo, ma poi basta incontrare un gran monolite scolpito con una conchiglia e il nome della città e tutto torna magico in un istante.
Di aerei non se ne vedono. L’aeroporto credo sia chiuso, così come la città, anche se a noi è concesso miracolosamente d’entrarci. D’altronde siamo un manipolo di qualche decina di persone sparse più o meno negli ultimi 150 km: una piccola carovana di scellerati che si sono messi a camminare per l’Europa nel bel mezzo di una pandemia. Fin dall’inizio, ovunque abbiamo alloggiato – o quasi – i nostri dati sono stati comunicati alle autorità, che quindi hanno potuto monitorare passo passo il nostro procedere. Forse per pietà o forse per reale cultura dell’accoglienza, hanno evidentemente valutato che farci arrivare qui non comportasse poi grossi rischi.
Io posso solo dire grazie. I grattacapi vissuti in qualche albergue, in fondo, credo siano stati riconducibili anche alla frustrazione di chi li gestiva di essere condannati a lavorare in perdita per causa del nostro numero estremamente esiguo – a parte qualche rara eccezione.
Lasciatomi la pista alle spalle, raggiungo la piccola località di San Paio, con edifici in pietra particolarmente curati, compresa la chiesa omonima. All’improvviso, però, esce da un cancello una signora in tenuta da fitness, pronta per la sua passeggiata in compagnia del microscopico cagnolino. Auricolare all’orecchio, è tutta impegnata in una telefonata con un’amica: una di quelle chiacchierate chiassose senza un tema preciso, in cui si parla tanto per parlare. I problemi sono due, però. Il primo è che va nella mia stessa direzione, e in un attimo mi sento condannato a sopportare il suo vociare chissà per quanto. Il secondo è che ha un passo molto veloce, e non c’è speranza che io riesca a superarla e a seminarla. Mannaggia! Sembra assurdo, ma è la prima volta che mi capita in questo viaggio. Ma proprio oggi, dico io!
Mentre già sto progettando piani assurdi e malefici per sabotare la chiamata, il destino o il suo sesto senso la salvano. Da un momento all’altro, infatti, imbocca una traversa e abbandona la via pellegrina, permettendo che tutto si impregni nuovamente di calma e pace. L’ho scampata bella!
Meno di mezz’ora e arrivo a Lavacolla, dove la traiettoria del Cammino si torce in maniera un po’ forzata, snodandosi attorno ad un isolato del paese per far passare i viandanti davanti a bar e albergues. Ovviamente decido con buona pace di seguire comunque la care vecchie frecce gialle, ma concluso il tornante vedo sbucare trenta metri davanti a me Tiziano e Amedeo, che invece lo avevano tagliato, probabilmente grazie all’esperienza del biondo capitano.
Loro non si accorgono di me, e per un istante resto immobile in balìa di sentimenti contrastanti: da una parte ho voglia di chiamarli e ridere del fatto di averli scoperti mentre “rubavano” sul percorso, dall’altra mi punge il rammarico per il sorpasso “clandestino”. Mi ferirebbe se lo avessero fatto di proposito per superarmi senza che me ne accorgessi, e non riesco a darlo per scontato. Decido però di rispondere con leggerezza a questo gesto equivoco, pienamente consapevole che lo è stato anche il mio partire solitario di quest’oggi – e non solo oggi. Eccomi allora ancora in moto per raggiungerli e riunirmi a loro con allegria, qualsiasi sia stata la verità.
Non mi risulta semplice come credevo, ma dopo qualche minuto, spingendo molto, riesco nel mio intento e continuiamo insieme senza nessuna tensione. Saliamo in mezzo a boschi, lungo strade asfaltate, attraversando anche Villamaior, con le sue belle case immerse nel verde straripante di questa terra.
Usciti dall’ennesima grande area boscata, ad attenderci in cima alla salita c’è il complesso della Televisión de Galicia, seguito poco dopo da quello di un’altra emittente locale. Nella piccola zona residenziale di San Marcos, poi, troviamo aperto un negozio di alimentari che offre anche servizio bar – rigorosamente da asporto a causa di questo periodo funesto. Ne approfittiamo: loro per un caffè, io – più vizioso – con un goccio di liquore, memore di quello squisito offertomi lungo la via l’altro giorno. La signora, però, me ne serve quasi il doppio della dose normale. Per goliardia lo tracanno senza timore, ma mi ci vuole poi qualche minuto per riprendermi dal lieve stordimento e torpore che mi scatena dalla testa ai piedi.
La passeggiata di oggi – perché così giustamente la stiamo vivendo – ci conduce subito dopo nei pressi di un gran parco posto in cima ad una collina, meglio nota a tutti i pellegrini come il famoso Monte do Gozo. Le indicazioni invitano a costeggiarlo solamente, ma riesco a convincere i ragazzi a farci un giro per scoprire com’è la vista dal punto più alto.
Per qualche strana ragione, però, ci fermiamo dopo pochi passi, come intimiditi, limitandoci a ispezionare il primo scorcio della città che si intravede in lontananza. Eccola finalemente, Santiago de Compostela!! È là, davanti a noi, per davvero! Chiaramente l’emozione è già smisurata, ma come è ovvio tutti e tre bramiamo una cosa in particolare: scovare gli inconfondibili campanili della cattedrale.
Mentre scannerizziamo senza successo lo skyline in lontananza, un vecchio signore che sta lì a potare una siepe nota la nostra titubanza. Semplice abitante del posto o forse emissario del premuroso San Giacomo, abbassa le cesoie e ci sprona a proseguire, perché ci mancano solo pochi metri per poter godere del primo sguardo in assoluto sulla meta tanto agognata. Sembra paradossale avessimo bisogno di lui per macinare quei dieci passi in più!
Seguito il consiglio, rivolgiamo un nuovo sguardo sulla grande città e ci basta una frazione di secondo per riconoscere i tre pinnacoli del maestoso santuario, ancora piccolo davanti ai nostri occhi, ma ormai più vicino che mai. A quella vista, restiamo imbambolati come vittime di un dolce incantesimo. Letteralmente a bocca aperta per qualche secondo, esplodiamo poi in urla di gioia. Mancano ancora diversi chilometri, ma…eccola lí! Che privilegio poterla già vedere, potersi gustare la vista di una meta tanto importante già prima di arrivarci.
Mentre la contempliamo estasiati, ci ricordiamo poi che non siamo ancora saliti in cima al colle. Lassù due grandi pellegrini in bronzo indicando proprio la chiesa dell’apostolo, esattamente come noi pochi secondi fa. Sono sculture imponenti, per me le più belle viste fin qui. Mi stupisce moltissimo il fatto che i tanto amati mojones non conducano qui i pellegrini.
Scopro che i due bronzi sono dell’artista José Maria Acuña, cioè lo stesso che ha creato quelli dell’Alto de San Roque e della piazza davanti al Parador di León, tutti incredibilmente iconici per il Camino Francés. Mi piace particolarmente il fatto che in questo caso siano due figure, e non una sola. Secondo me questo riesce a dar forma anche alla condivisione che si sperimenta lungo questa via, esattamente come è successo anche a noi. Non è più una questione solo personale, ma plurale.
E poi mi incantano anche quelle braccia protese verso la cattedrale: creano un ponte invisibile. Gli occhi lo riescono a vedere: lo si sente, sembra quasi di poterlo toccare. È qualcosa dalla forza espressiva inaudita.
Mentre sia io che Tiziano fatichiamo a staccarci da quello spettacolo, Amedeo tenta un’improbabile scalata sulle spalle di una delle due statue. Fallisce miseramente, ma ci regala come sempre un’iniezione di buon umore in più.
È ormai tempo però di darsi una mossa. Lasciamo il Monte do Gozo passando accanto alla brutta infilata di casermoni dell’ostello giacobeo e al grande Auditorio, per poi arrivare al ponte che ci fa superare l’autovía. Da qui la città prende il sopravvento e ci comincia a stringere nel suo abbraccio di cemento, ma l’incontro con la pur semplice siepe su cui è affisso il nome della città è sufficiente a farci esplodere di nuovo d’entusaismo ed emozione. Pur al bordo di una poco poetica rotonda, quella scritta diventa l’ennesima esclamazione dell’impresa ormai quasi conclusa. Scattarsi una fotografia lì davanti è un rito semplice, ma capace di regalare una nuova sferzata di gioia.
Togliermi la mascherina in un luogo abitato di questi tempi quasi mi imbarazza, ma il desiderio di imprimere per sempre queste nostre facce sorridenti ha la meglio. Il tempo di qualche scatto e ci riarmiamo per proseguire lungo lo stradone.
Incontriamo i primi bar e ristoranti, molti chiusi, altri aperti solo per l’asporto. L’atmosfera non è entusiasmante da questo punto di vista, ma siamo qui, sotto il sole, e a un passo da un sogno che si realizza. Tutto il resto rimane rumore di sottofondo.
Dopo qualche centinaio di metri, ci rendiamo conto che stiamo camminando in religioso silenzio. Sta nascendo in noi uno stato d’animo più sottile dell’eccitazione, traccia della sacralità di questi istanti: siamo sulla soglia di qualcosa che sta per compiersi, grazie a noi stessi ma anche grazie a mille circostanze che ci hanno permesso di essere qui. Sento nel cuore tutto quanto ricevuto, tutte le fatiche superate, i pensieri sfrecciati per la testa, le ore insonni, le risate, la sterminata bellezza che mi ha riempito l’anima, l’eco dei nomi di chi ho portato con me e di quelli conosciuti lungo la via.
Mi giro verso i ragazzi, e ancora una volta esprimo loro il desiderio di correre incontro a quella piazza da solo. Annuiscono sorridendomi. Sono certo che anche loro si divideranno, perché ci aspetta un momento incredibilmente personale che siamo tenuti a onorare. A dopo, amici miei!
Allungo i passi e sfreccio nelle prime vie interne di Santiago. È novembre e non ho altro che una maglietta, incredibile! Se non per i pantaloni lunghi, sono vestito esattamente come quando sono partito a metà agosto. Non l’avrei mei creduto possibile.
Vivo l’assurda esperienza di non trovare le freccie gialle, proprio qui! Mi vergogno a dirlo, ma mi fermo a chiedere ben tre volte. Tutto sommato, anche questo parla di me, di come mi sono tuffato in questa avventura: senza troppa testa, ma con riserve di entusiasmo e ostinazione interminabili.
La gente tutt’attorno cammina per i fatti suoi, nessuno mi regala un saluto, un cenno, un sorriso. Sono invisibile come lo sarei in tante altre città, ma anche questo non mi importa e non mi disturba. Accolgo tutto, niente può rovinare questi momenti.
D’un tratto i palazzi iniziano a farsi più eleganti, più bassi; ora non si vedono che intonaci chiari oppure in pietra, infissi bianchi, finestre a bovindo e balconi in ferro battuto: sono alle porte del centro storico.
Da qui in poi, per terra, comincio a vedere frecce gialle in continuazione. La cosa stranissima, però, è che sembra puntino in direzioni opposte. Capisco solo dopo qualche minuto che non c’entrano col Cammino, ma servono per indicare un senso di marcia diverso per ogni marciapiede: un’altro escamotage per favorire la distanza sociale. Ecco perché quelli che stavo incrociando mi guardavano tutti un po’ male, stavo andando al contrario! Ci rido su e mi sistemo sul binario giusto.
La strada si fa lastricata, ad ogni passo tutto diventa sempre più bello. Stranamente, non sono in trepidazione. Cammino sereno, a passo deciso; mi sento leggero, e al posto giusto.
Ad un tratto la via si restringe e subito dopo si riapre nella luce della preziosa Praza da Inmaculada. Sono proprio di fianco della cattedrale; anzi, si può dire sia già ai suoi piedi! Mi dispiaccio un po’ vedendo la porta nord nascosta da anonimi ponteggi bianchi, così come anche il passaggio sotto il quale si passa per accedere alla Praza do Obradoiro – il luogo magico dove questo pellegrinaggio culminerà. Ad ogni modo, va bene comunque anche così: il viaggio ha avuto migliaia di dettagli stonati (almeno apparentemente), ma nessuno ha saputo compromettere il valore inestimabile dell’insieme.
Avanti, Robi! Sono gli ultimi passi!
Rallento con decisione – ora sì. Alla soglia dalla meta più importante che io abbia mai raggiunto, calo i giri metro dopo metro. Ogni passo è un fiore che sboccia nel cuore, ogni petalo è un ricordo. Ho dentro me tutti i colori di questi tre mesi da nomade: è la mia offerta alla vita, è tutto quello che ho saputo fare, che ho saputo essere, tutto quanto ricevuto.
Sotto l’arco e la sua ombra, qualche istante di sospensione – l’universo intero sembra trattenere il fiato insieme a me per una frazione di secondo. Il piede alzato poi va oltre e si riuffa nella luce: resto abbagliato. Mi serve un lunghissimo secondo per riuscire a riaprire gli occhi. Gradualmente vedo apparire quel grande pavimento di pietra, vuoto e bellissimo: sono come un attore che, uscito dalle quinte, sta facendo il suo ingresso sul palco.
I passi non si interrompono, il corpo prende l’anima per mano e l’accompagna lí dove tutto l’aspetta. I palazzi attorno sono splendidi: una corte di nobili che attende con benevolenza il mio incontro con la regina. Lei è proprio lì, di fronte a loro, ma io ancora non la vedo. Il sole ha voluto esserci a tutti i costi: emozionato fino alla commozione, fiero di me, sta esplodendo ogni suo raggio per dirmi quanto mi ha amato. La sua luce è musica a festa.
Per un attimo ancora tengo lo sguardo basso. Il mio posto è il centro della piazza, è da lì che voglio alzare gli occhi. Pochi metri, ma sento la sua presenza sempre più imponente, eppure dolce. Eccomi! Sono arrivato alla meta: sono di fronte al Santuario di Santiago de Compostela!
Potrei descrivere un tumulto di emozioni, fiumi di lacrime a bagnare risate incontenibili e urla di gioia, ma direi una bugia. La verità di questo istante è invece sobria, composta. Non sono io che mi trattengo, ma i fuochi d’artificio non esplodono, né fuori né dentro di me. Questo però non significa che quello spazio venga occupato da malinconia o delusione, semplicemente tutto rimane quel che è.
Il volto, alzatosi, ha ora di fronte una bella chiesa con qualche ponteggio e una manciata di passanti indifferenti. Qui l’unica differenza rispetto a un minuto fa è la presenza di un uomo al centro della grande piazza, immobile, in piedi col suo zaino.
Ma allora il grande sogno? Sì, perché c’era un grande sogno: era quello di sbocciare nella forma più pura della mia essenza, quasi fosse una rinascita miracolosa. Ingenuo? Esagerato? Certamente, ma è stata comunque la scintilla che ha innescato tutto quanto, un nucleo di energia incontestabile, tutt’altro che immaginaria.
Nessuna muta evidente, quindi, eppure sono comunque calmissimo, profondamente in pace. Mi domando perché, e nello stesso istante ho come l’impressione che una mano nel mio cuore sveli una risposta. Il sogno non è svanito e non è stato frainteso, anzi, è proprio questo il suo apice, la verità, il messaggio per il pellegrino che ostinatamente sono voluto diventare:
“Roberto, ora più che mai tutto sembra stretto nell’abbraccio dell’apparenza materiale, ma non turbarti. La vera meta, infatti, non era una piazza, e ciò che ti aspettava non è mai stato tutto solo qui. Era custodito invece nella concretissima realtà di ogni passo fatto, in ogni scrigno che si è aperto nel tuo petto di fronte al mondo così come l’hai incontrato, e in fondo l’avevi capito molto presto.
Ciò che hai visto e hai sentito innumerevoli volte durante questo pellegrinaggio non è mai stato un semplice concerto di suggestioni fantasiose, ma l’anima viva, colorata e pulsante che sta dentro alla realtà. Quello che il cammino ti ha regalato sono un’infinità di occasioni in più di incontrarla, a volte di farci l’amore.
Questo è il dono che ti (a)spettava: non una trasformazione, ma un terreno più fertile dove far crescere il nuovo te stesso”.
Nessuna voce ha pronunciato queste frasi, sono solo il mio tentativo di dar forma a quello che ho sentito generarsi dentro lo spazio di tutto quanto il mio corpo. E in questo limbo di quiete che sembra estraneo al tempo, ho anche un’altra impressione, quella di avere tutto ciò di cui ho bisogno, di esser parte di un’unica materia, un amore sovrabbondante che anima l’esistere di ogni cosa e ne plasma la sostanza. Tenendo la mano alle mie fragilità, alle mie paure, percepisco il vibrare di una pienezza libera da ostacoli, e non mi rimane altro che iniziare a rifondarmi su questa consapevolezza, abbracciarla con tutta la responsabilità di cui sono capace.
Colmo di tenerezza e fiducia, arriva un altro tempo fondamentale, quello di ringraziare, e il modo in cui mi viene spontaneo farlo è inginocchiarmi, ancora una volta. È così che resto a guardare la cattedrale, che già ora altro non è che un simbolo, un’immagine che resterà impressa in me a ricordo della verità appena accolta.
Sto bene. Sento il peso dello zaino sulle spalle, le cinghie in tensione sui fianchi e sul petto, le ginocchia premute sul selciato. Mi ascolto respirare con grande calma, poi ripeto un rito che è stato protagonista silenzioso di ogni giorno di cammino: slaccio le fibbie, sento il peso liberare le anche e scaricarsi tutto sulle spalle, poi mi inclino quanto basta perché gli spallacci scivolino, e infine con forza afferro lo zaino prima che cada. Lo appoggio davanti a me, non ho più pesi.
Ora posso dire di essere davvero arrivato.
Passano soltanto pochi secondi e vedo con la coda dell’occhio entrare in piazza Amedeo. Il mio momento si è concluso. Piano, mi alzo e riprendo lo zaino, lasciando spazio all’amico, emozionato anche per lui.
Mi ritiro verso i portici del grande palazzo che fronteggia la cattedrale, il Pazo de Raxoi. Seduti sotto gli archi, alcuni pellegrini solitari: qualcuno scrive una pagina di diario, altri semplicemente fissano la cattedrale con uno sguardo beato. Credo di averne anch’io uno simile in volto.
Non ho versato nemmeno una lacrima, è una cosa molto strana: decine di volte sul percorso ho pianto per molto meno. Ad ogni modo, va bene comunque anche così.
Quando già pregusto lunghi minuti di pace assoluta, una vociona profonda e inconfondibile stravolge l’atmosfera dell’intera piazza: “My friend from Bergamo! Well done, peregrino! It’s been amazing!”. No, non può essere, non ora!
Mi volto di scatto: è proprio lui, Armando! Inconfondibile anche nel look – occhiali e mascherina neri, e in testa il cappello coperto dal cappuccio della felpa – mi viene incontro sorridente e sovraeccitato. Non ho nemmeno tempo per pensare e già mi è addosso con un grosso abbraccio non richiesto. Mi mantengo cortese e accomodante, ma dentro me spero si volatilizzi all’istante. Staccatosi, insiste a mostrarmi il suo telefono, ma come posso averne voglia ora, in un momento così importante?!
Alla fine però cedo, sconsolato, e provo a sintonizzarmi sullo schermo e su quel che sta cercando di dirmi. Ma… quello sono io!
Armando ride e salta, anche lui è incredulo. Indica il balcone del parador, l’hotel super lussuoso che si affaccia sulla piazza. Sta cercando di spiegarmi che era proprio lì mentre io sono arrivato e mi ha messo il cellulare tra le mani perché potessi vedere il video che è riuscito a girare. Incredibile! Ma può la vita essere più folle e inaspettata di così? Ovviamente guardo e riguardo il video senza riuscire a crederci. Mi ingoio tutte le maledizioni che avevo in gola e stavolta sono io ad abbracciarlo, senza ancora poterci credere.
Non volendo rischiare di perdermi un cimelio simile, lo convinco a spedirmelo subito via e-mail, e mentre dedico tempo a questo, mi perdo l’arrivo di entrambi i miei amici. Amedeo già sta dirigendosi in direzione dei portici proprio come me pochi istanti fa. Anche il sorriso credo sia proprio lo stesso. Tiziano, invece, si è fermato proprio in questo istante e si sta sdraiando a terra. Rimango per un secondo imbambolato a guardarlo, felicissimo per lui, ma Armando mi risveglia per la seconda volta con la sua agitazione e insiste perché accetti di riprenderlo mentre va da lui. Io tento di dissuaderlo, ma è un fiume in piena e in pochi secondi è già lá, sdraiato al suo fianco. Cerco di curare la ripresa meglio che posso, ma allo stesso tempo mi odio per non aver semplicemente rifiutato. Lascio passare solo qualche secondo e lo richiamo, per farlo venir via da lì il prima possibile. Riafferra entusiasta il suo telefono, sembra non star più nella pelle per la gioia di quella ripresa, scoprendo però che ho dimenticato di schiacciare il pulsante e non si è memorizzato un bel niente. Gli chiedo scusa, ma dentro me penso che ben gli sta e mi defilo, mentre lui già cerca qualcun’altro per replicare la sua performance.
Nel frattempo, sento una voglia incredibile di togliermi calze e scarponi e sentire sotto i piedi nudi la pelle di quella piazza, baciarla non solo con le labbra, ma anche con quei due affari laggiù che sono stati i protagonisti di questa traversata epica.
Felice come una Pasqua, mentre i piedi si raffreddano piacevolmente sulle lastre di pietra consumate dai secoli, mi guardo attorno in cerca di Amedeo e, trovatolo, ci stringiamo in un fortissimo abbraccio: “Ce l’abbiamo fatta, cazzo! Ce l’abbiamo fatta!”. Nemmeno lui riesce a rendersi conto, ha la luce negli occhi.
Mentre gli spiego l’assurda coincidenza riguardo al video del mio arrivo, ecco sopraggiungere anche Tiziano, con qualche traccia di nervosismo più che comprensibile per la stupida invadenza di Armando, che ancora sta registrando i commenti all’accaduto da dare in pasto ai suoi followers.
Ci abbracciamo tutti e tre, felici come non mai, e straripando in esclamazioni di gioia immensa. Non possiamo crederci! Siamo riusciti a portare a termine quest’impresa nonostante questi mesi assurdi e complicatissimi.
Iniziamo poi anche noi a regalarci qualche momento per delle irrinunciabili foto ricordo. La più bella della serie, quella che meglio riesce a catturare i nostri sentimenti e il legame che ci ha portato fin qui, ci vede in piedi, abbracciati davanti alla cattedrale, mentre ci perdiamo nella bellezza della sua facciata: un souvenir senza prezzo!
Poco dopo, una nuova sorpresa, ancor più stramba dell’arrivo di Armando. Ci si avvicina, infatti, una troupe di origini orientali, forse giapponesi: un intervistatore, una ragazza con un taccuino e un fotografo. Sono quasi più sorridenti di noi e ci convincono a rispondere ad alcune domande e a posare per qualche foto. Non danno l’impressione di essere dei grandi professionisti, ma danno un tocco di follia in più a questo momento.
Rimaniamo in Praza do Obradoiro meno di un’ora. La tappa successiva non può essere che l’Oficina del Peregrino, posta in una via poco sotto. Fuori ci sono un paio di stuart che ci danno indicazioni per l’accettazione, ma in realtà di altri pellegrini non c’è traccia. Io entro per primo, e mi dicono che sono il sesto arrivato a Santiago oggi. Una volta registrati, ci viene infine consegnata la famosa Compostela, l’elegante attestato che certifica i nostri pellegrinaggi. Come già fu con il Cammino Materano, stringere il foglio in sé non mi scatena chissà quale entusiasmo, ma di certo non manca l’orgoglio per essere riuscito ad ottenerlo.
I ragazzi hanno l’autobus fra un paio d’ore, ma dobbiamo ancora brindare e pranzare. All’Oficina ci hanno avvisato che l’interno della cattedrale è pieno di impalcature ed è stato ricavato uno spazio ridotto per la celebrazione. Ovviamente non sono tempi, questi, perché venga acceso il Botafumeiro e il sovvertimento degli spazi comunque non lo permetterebbe. L’accesso è possibile solo dalla porta sud, quindi non c’è modo di ammirare nemmeno il Portico della Gloria. Ci dicono resti accessibile la cripta con l’urna d’argento che contiene le spoglie del Santo e che ci sarà una messa alle 19:30.
Valutiamo alla svelta, decidendo di rinunciare a visitarla insieme. Porterò io dopo i loro saluti al buon Giacomo.
Non ci resta quindi che trovare un posto dove pranzare. L’orario è quello giusto, ma la maggior parte dei ristoranti è comunque chiusa. Con il lockdown è permesso solo l’asporto, ma evidentemente molti preferiscono non aprire nemmeno.
Girare a zonzo per le via del centro non mi dispiace, ma i tempi stringono e lo stomaco brontola. Alla fine, troviamo un ristorante perfetto proprio dietro la cattedrale. Ci offrono addirittura una giro di birre mentre aspettiamo, per brindare al nostro sogno realizzatosi.
Con tre interi menù del pellegrino in una sola borsa, andiamo a sederci appena fuori e in pieno sole, sulla lunga seduta in pietra di Praza da Quintana.
Il pranzo è squisito ed il secondo giro di birra rimarrà nella nostra memoria come uno dei più soddisfacenti di sempre. Sembrerebbe così naturale, ora, andare insieme in albergue, farci una bella doccia e tornare a uscire per continuare a goderci la città, aspettando magari altri pellegrini e brindando tutti fino allo sfinimento.
La realtà però è un’altra: l’orologio suona la fine del nostro tempo insieme e – a questo punto sì – ecco arrivare anche le lacrime. Tutto quello che non si è scatenato prima, sgorga adesso, insieme a parole di sconfinato affetto per questi due splendidi pazzi che mi hanno regalato il privilegio di poter vivere con loro tutto questo, sopportando le tante differenze e portando fiumi di inesauribile allegria.
Prima, in ginocchio, non avevo vissuto quest’eruzione di ricordi, ma sembrano aprirsi ora tutti quanti. È l’averli condivisi che li ha resi così inestimabili e memorabili, adesso capisco. La mescola delle nostre tre personalità ha dato ancora più profondità all’esperienza, facendola diventare un piccolo grande capolavoro. Non avevo mai vissuto niente di simile, nemmeno da questo punta di vista.
Anche Tiziano sembra sull’orlo di perdere qualche lacrima, ma riesce a trattenersi. Mi confessa che per un attimo è stato tentato di rimandare il trasferimento a Muxía, ma questa volta va così.
Ci auguriamo il meglio per i giorni a venire, confidando comunque di riuscire a ritrovarci di nuovo, non più tardi di una settimana, proprio in riva all’oceano.
Arrivederci, quindi, amici miei! È stato meraviglioso.
Li guardo mentre salgono le scale della piazza e spariscono girando l’angolo. Eccomi qui, a Santiago de Compostela, raggiunta dopo 86 giorni di cammino e 2400 km percorsi partendo dalla porta di casa. Siamo io, la cattedrale e il sole.
Bastano pochi secondi e di nuovo le dighe emotive crollano: scoppio in un pianto straripante. Le lacrime di prima erano solo un assaggio di tutte quelle che mi stanno scendendo ora. Non è tristezza, ma gioia grande. Rido e piango contemporaneamente, e non smetterò mai di dire che questa resta la condizione più bella che conosca. Pieno all’inverosimile, ora il cuore può spalancarsi liberamente, e non c’è scandalo se sentimenti apparentemente opposti si ritrovano a danzare follemente dentro e fuori di me.
Un uomo è seduto a leggere pochi metri più in là, siamo appoggiati alla stessa grande parete. Per un istante si volta a guardare che mi stia succedendo. Poco dopo anch’io lo spio: sembra star sorridendo benevolmente sotto alla mascherina. Anche una banalità simile mi rende contento.
Riaccompagno il respiro a diminuire e stabilizzarsi, mentre le guance e gli occhi lentamente si asciugano. Si sta bene in questo coriandolo di presente. Tornato in piedi, mi sento leggerissimo.
È arrivato il momento di andare in albergue! Sta qualche via sotto la cattedrale. Il proprietario, Xavier, mi accoglie molto gentilmente. Il posto è fantastico: l’hanno colorato partendo da un’idea che potrebbe sembrare infantile, ma il risultato è azzeccatissimo: soffitto azzurro come il cielo, pavimento verde come l’erba e lampade a forma di nuvola. Mai avrei pensato mi potesse piacere un abbinamento simile, e invece ecco anche stavolta una bella sorpresa. Facendo un facile calcolo, in meno di tre mesi ho dormito in ottantacinque posti diversi, pazzesco!
La mia condizione di pellegrino solitario termina quasi subito, visto che proprio qui dormono anche Alessandro e Luis, i due italiani conosciuti ieri arrivando a O Pedrouzo. La sorpresa è graditissima, non potevo trovare compagnia migliore. Insieme a loro, ho anche il piacere di conoscere altri tre spagnoli, tra i quali Pura, una donna minuta e vulcanica, dalla personalità creativa e dall’ironia inesauribile.
Il tempo di darmi una sistemata, e sono ancora per strada. Il centro storico e quel poco che ho visto in città me la fanno sembrare molto vivibile e domani sarà un piacere visitarla meglio, ma ora sento il bisogno di tornare alla cattedrale. Il magnetismo di quel luogo è stravolgente. Durante il viaggio ho potuto ammirare una quantità inverosimile di luoghi mozzafiato, ma alla gran parte di questi ho potuto dedicare giusto il tempo dei passi necessari a superarli o attraversarli. Per quanto a volte meraviglioso, tutto era sacrificabile: doveva esserlo, oppure oggi probabilmente non sarei qui.
In pochi minuti eccomi quindi ancora una volta in mezzo alla piazza, davanti a un edificio dove da secoli uomini e donne vengono a deporre le proprie incompletezze, a cercare un tassello mancante, qualsiasi esso sia. È davvero questa, quindi, la meta finale?
Nemmeno finisco di pensare la domanda: no, Santiago de Compostela non è il termine di nulla. Questa non è altro che una soglia, e che le tappe successive siano fatte di altri passi zaino-in-spalla o riconducano alla routine da cui si è evasi, non importa: quelli saranno comunque giorni nuovi del nostro cammino, tappe vere e proprie, intrise della memoria di tutto quanto sentito e successo.
Carico di questa convinzione, aggiro l’edificio e raggiungo l’ingresso temporaneo. Non poter accedere direttamente dalla piazza, da quel portico intriso di storia, indebolisce un po’ questo momento tanto atteso, ma senza comprometterne l’intensità.
Decisamente più incisivo, in questo senso, è l’impatto con l’interno della chiesa, parzialmente trasformato in cantiere proprio come mi avevano anticipato. La sottile pellicola opaca che vela i ponteggi, nasconde completamente tutto lo spazio dell’abside, mentre le tre navate restano visibili e percorribili quasi interamente. La particolarità meno prevedibile è che lo spazio della messa è invertito rispetto al normale orientamento. Alle spalle dell’entrata principale, infatti, è stato creato un vero e proprio palcoscenico di legno nudo. Per fortuna, il suo aspetto radicalmente minimale e neutro fa sì che non stoni troppo in questo ambiente tanto alterato. Nello stesso stile sono anche le sedie di legno per l’assemblea – non più di cinquanta, tutte ben distanti. In alto, le finestre bifore e quella circolare del rosone sembrerebbero tutte prive di vetri, permettendo così all’ultima luce del pomeriggio di entrare senza alcun filtro.
Sono volontariamente in anticipo per la messa, così da poter visitare il possibile e dedicare tutto il tempo che sarà necessario alla preghiera personale. Ovviamente, scendo per prima cosa nella cripta. Mi sorprende scoprire sia un luogo particolarmente piccolo e spoglio, un semplice corridoio semibuio, a metà del quale una vetro protegge l’urna con i resti di San Giacomo. Il pregiatissimo contenitore, però, è inaspettatamente distante all’interno del suo antro. L’impressione è di stare in un vero e proprio caveau, il che limita enormemente quasi ogni mia suggestione, sia emotiva che spirituale. A dirla tutta, devo ammettere che più o meno è la mia reazione abituale di fronte alle reliquie in generale. È un’insensibilità, però, che non rovina il senso e il valore del mio cammino, di questo sono sicuro.
Cerco comunque un posto dove metabolizzare un po’ queste cose, e lo trovo nella cappella del Pilar. Ci rimango parecchio, rievocando ogni mio affetto anche qui, come tantissime volte ho fatto durante il viaggio.
Mi trasferisco infine nella navata centrale per la messa. Seduti, trovo tanti protagonisti della giornata di ieri: i ragazzi svizzeri e quelli francesi, oltre che Ale e Luis. Pochi minuti e il sacerdote comincia la cerimonia, dando per prima cosa il benvenuto ai pur pochi pellegrini arrivati oggi. Così come mi era stato anticipato da qualcuno, lo fa citando i nostri luoghi di provenienza, rifacendosi sicuramente ai dati registrati all’Oficina. Sentire pronunciare anche il nome della mia città mi regala una punta di emozione che non mi aspettavo di provare.
La messa scorre in maniera armoniosa, e sono felice di avervi partecipato. All’uscita, poi, scopro che tutti quelli che avevo attorno già si conoscono, e a loro vedo aggiungersene una manciata d’altri. Alcuni mi salutano con piacere, ma nel complesso vivo un momento di leggero imbarazzo ai bordi del gruppo. Sento che stanno cercando di organizzare una cena comune, anche se non si potrebbe per via delle misure preventive legate alla pandemia. Siamo tutti divisi tra due albergues abbastanza vicini, e sembra si tenterà di radunarci abusivamente per una pizzata. Nemmeno un’ora dopo, però, mentre sto comprando del vino da condividere, sento parlare due dei partecipanti tra le corsie del piccolo negozio di fianco all’alloggio e scopro che il tutto è già saltato.
Per fortuna, prende forma comunque una serata splendida. La compagnia degli amici italiani e spagnoli si dimostra eccellente. Ale e Luis mi comunicano che partiranno già domani per Finisterre, ma in autobus, perché hanno tutto un programma per scendere in Portogallo e poi deviare di nuovo all’interno della Spagna, dalla ragazza di uno dei due. Molti altri valutano la possibilità di proseguire verso Porto, o ancora più giù, forti di una situazione pandemica ancora contenuta in quelle regioni e a regole non troppo compromettenti.
Per quanto mi riguarda, mi regalerò di certo almeno un altro giorno qui, poi l’unica cosa che resterà da decidere sarà se andare a incontrare l’oceano prima a Finisterre o a Muxía. Da lì in poi, davvero non so cosa mi aspetterà.
Vado a letto sazio e felice, ma una volta sotto le coperte sento arrivare un pizzico di malinconia. È qualcosa di mio, la conosco bene: è un parassita che tenta di inquinare qualunque gioia io provi, e pare che sia sopravvissuto anche a tutta la meraviglia e alla soddisfazione della mia piccola grande impresa.
Si nutre di molte cose, ma il cibo che preferisce è la paura. Ovviamente non parlo della fifa, ma di quel timore esistenziale che a qualcuno avvelena l’anima quando è di fronte a una scelta importante – spesso proprio quella decisiva per buttarsi in ciò che si è sempre desiderato fare. In quei momenti la malinconia arriva con la sua vocina subdola e tenta in tutti i modi di svilirmi di fronte ai rischi “che non saprei superare” o alle conseguenze “che non sarei in grado di affrontare”.
Verrebbe da pensare che non possa essere oggi il caso: d’altronde non sono davanti a una scelta, ma all’apice di un successo. Io però so cos’è capitato. Il fatto è che tutta quest’avventura non è nata da una sfrenata passione per il camminare, né da una fascinazione particolare per il mondo dei pellegrinaggi, e tanto meno da una rocciosa fede cristiana. La verità è che questo progetto è nato soprattutto come esperienza propedeutica, come opportunità di mettermi alla prova e sviluppare autostima, capacità, coraggio e slancio a sufficienza per affrontare scelte ben più audaci e radicali, ispirate ai miei sogni più grandi, quelli nati da ragazzo e mai inseguiti a sufficienza.
Purtropo le poche ore passate dal mio arrivo a Compostela sembrano essere state sufficienti a farmi perdere la connessione col presente. Questo dovrebbe essere il momento più rilassato della mia vita, un istante tutto da gustare, una soddisfazione da coccolare mentre mi addormento, e invece mi ritrovo già a far bilanci e a preoccuparmi di ciò che mi aspetta da domani. Mi sto facendo stordire dal futuro -dalle sue seduzioni ma anche dalle sue minacce – e proprio questo ha lasciato penetrare la paura che tanto fa gola alla mia vecchia malinconia.
Fortunatamente, però, il traguardo di oggi non è di quelli che si fanno mettere in secondo piano tanto facilmente. A differenza di tantissime occasioni vissute in passato, in questo momento ho riserve di vigore e gioia come mai mi era successo prima, ed è con queste armi che vado al contrattacco.
Respirando profondamente e rievocando tutta la gratitudine che ho allenato in questi mesi, riesco un po’ alla volta a far arretrare “la bestia”, ma è con un asso in particolare che vinco la partita – almeno per stasera. Parlo di una delle lezioni più grandi di questo pellegrinaggio, un messaggio nato dopo nemmeno una settimana e resistito a tutto, rafforzandosi giorno dopo giorno e mettendo radici profonde dentro me. Potrebbe risuonare più o meno così:
Il contrario della paura, Roberto,
non è il coraggio, ma l’amore.
Sembrerebbe un concetto incredibilmente mieloso alla fine di un così lungo percorso, ma in qualche modo dentro me ha ricomposto frammenti ai quali da anni tentavo di restituire robustezza. Come un seme, ha cominciato ad affondare le sue radici dentro la mia incompiutezza e mi ha reso più forte.
Probabilmente quelle poche parole non chiariscono realmente la verità delle cose, ma nel mio caso sono state una miscela alchemica perfetta. So di non aver dovuto fronteggiare paure colossali e che, più che coraggioso, sono riuscito ad essere appena un po’ temerario, ma l’amore! Di quello mi è fiorita l’anima fino a esplodere.
Quante volte mi sono sentito come un muro che si sgretola sotto la pressione di sentimenti strabordanti! Quante volte la natura ha saputo scatenarmi una meraviglia tale da non sentire più un briciolo di fatica né di timore! Quante volte ho avuto la certezza che le preghiere quotidiane per i miei affetti fossero tutt’altro che parole buttate al vento, ma forze reali, motrici!
Da sempre, poi, percepisco tracce di queste danze interiori – tra paura, amore e coraggio – in chiunque io abbia di fronte. A volte è un barlume, altre uno spettacolo pirotecnico che colora ogni cosa lo circondi, e anche questo ha saputo commuovermi e infondermi incredibile entusiasmo.
L’abbraccio della vita è stato così palpabile da farmi sentire benedetto nella mia fragilità, rassicurandomi ogni volta nei miei slanci un po’ azzardati.
Oltretutto la memoria di tutto questo si è fatta ormai talmente monumentale che nessuna perplessità fuori da me potrà più scalfirla. Le minacce più infime resteranno quelle interiori, ma adesso sento di poterle fronteggiare con nuova consapevolezza.
Ad ogni modo, eccomi qui, sotto le lenzuola a stringere al petto quella specie di mantra come a volerlo rimettere nel cuore – quasi fosse una molla uscita da qualche ingranaggio.
Ad un tratto, poi, tutto sembra acquietarsi. Mi addormento con la suggestione che forse sia successo: dopo un numero incalcolabile di passi sognanti, forse qualcosina in me è davvero cambiato. Giusto un pochino – d’altronde resterò sempre uno zuccone bergamasco, non ci piove. Però credo sia avvenuto a fondo, stavolta: chissà che questa lunga passeggiata abbia sortito il suo effetto…
Eccoci dunque alle ultime righe, quelle quasi sacre, in fondo alla sterminata serie di pagine che avete accettato di leggere; e direi che non potrebbe esserci momento migliore per spogliare i panni del narratore in presa diretta.
Batto queste parole l’otto marzo del 2022, a sedici mesi da quella serata. Non tutto quello che è accaduto nel mezzo si è impregnato della grande lezione appresa. Qualcosa varrebbe la pena raccontarvelo – a partire da quel tramonto a Muxìa che è stata la vera conclusione della mia avventura – ma la verità è che sono stanco di scrivere ora, incredibilmente stanco. Ho davvero dato tutto quello che potevo per raccontare questo viaggio, qualsiasi e unico allo stesso tempo. Ho scelto di farvi entrare fino in fondo a quei giorni nomadi, nei quali perfino il cigolìo di un albero riusciva a diventare importante, a farsi testimone della meraviglia dell’esistente. Ora però sento che è bene che io lasci quei ricordi scivolarmi un po’ alle spalle: è cosa sana, proprio come fu quell’imprudenza.
Grazie ancora, però.
Lasciate che vi stringa in un abbraccio caldo e sincero.
Siano buoni i vostri cammini, e possiate esser sempre capaci di goderne.
Roberto
(Albergue Porta de Santiago)
35 km
Due giorni da Santiago de Compostela: il conto alla rovescia sta per finire.
Il conto, già, perché ormai sì è capito molto bene: il pellegrino può anche diventare un gran calcolatore. Io non faccio certo eccezione: misuro il tempo, le distanze, la velocità media, il peso, le spese, tutto quanto. Stando così le cose, sembra quasi impossibile che sia comunque riuscito a sperimentare anche la perdita di controllo e l’affidamento (alla vita, al Cammino, forse un po’ anche a Dio), eppure è capitato, in un’infinità di occasioni piccole e grandi.
È stato divertente scoprire di covare anche una latente forma di agonismo, tendenzialmente qualcosa ritenuto poco compatibile con lo spirito di un pellegrinaggio. Nel mio caso, però, si è integrata molto bene alle pulsioni più interiori, senza stridori particolari.
Mi ha dato un enorme gusto sentirmi forte e resistente come mai mi era successo, io che fin da ragazzino mi trascino tra ortopedici, podologi e fisiatri. Ogni giorno mi è capitato almeno una volta di trovarmi a spingere il mio corpo al massimo, vuoi per scappar fuori da qualche regione che stava per essere confinata, vuoi per puro passatempo – non di rado giocando a raggiungere o superare qualcuno, quasi fosse una gara.
Questo vuol forse dire che ho corso troppo? Me lo sono chiesto quasi ad ogni accelerata, ma non credo. Mi sento felice di tutto, anche dei chilometri divorati, e non ho l’impressione di essermi perso qualcosa per strada. Mai come in questi mesi ho osservato e vissuto la natura, per esempio; e allo stesso tempo ho coltivato continue esperienze di scoperta, dedicando ogni giorno un enorme spazio alla meraviglia. Ho anche cercato appassionatamente l’incontro empatico con altri, alternandolo con gioia al cammino solitario nella natura.
Sì, non mi vergogno a dirlo: mi piace il Roberto che ho scoperto di essere e di poter essere, e spero proprio di non dimenticarmene.
I miei due compagni di viaggio hanno avuto modo di scoprire molta parte di tutto questo, comprese le contraddizioni. Non credo sia stato piacevole accettare che io mi separassi volontariamente da loro così spesso – a volte per qualche ora, altre per giorni interi. Nonostante ciò, sono comunuqe riusciti a lasciarmi vivere in piena libertà quest’esperienza profondamente condivisa, riaccogliendomi sempre. Credo non sia per nulla scontato, ed è qualcosa per cui provo sincera gratitudine.
Riflessioni simili sono pasta quotidiana di questo pellegrinaggio: la compagnia con cui spesso apro gli occhi la mattina, prima che la sveglia suoni, e così è anche quest’oggi. Come sempre, però, arriva poi il tempo di passare all’azione. Mi alzo e raduno tutto coi miei soliti rituali, concludendo con la mia ormai classica colazione fai-da-te. Tiziano e Amedeo, invece, preferiscono il tavolino di un bar, soprattutto dopo la tappa brutale di ieri. Penso che se lo meritino più di ogni altra cosa, ma questo significa che anche oggi partiremo separati.
L’uscita da Melide passa da una via storica del centro, particolarmente spoglia a quest’ora della mattina, anche se le insegne spente di bar e ristoranti mi fanno pensare che il quartiere sappia dare il suo meglio in altri orari della giornata.
Salgo fino alla Capela do Carme, posta abbastanza in alto da regalare una vista panoramica sulla cittadina. Purtroppo, se non fosse per il canonico cruceiro e la silhouette di una chiesa poco lontana, rimarrebbe gran poco di bello da vedere, ma forse come altre volte è un po’ colpa anche del brutto tempo.
Scendo poi in un barrio residenziale pieno di verde, e lascio Melide passando di fronte a un ultimo gruppo di case, dal sapore più antico, a lato della chiesa di Santa Maria. Immediatamente dopo tornano a farla da padrone i campi, almeno fino a quando la strada non si immerge direttamente in un bosco. È strano sentirsene abbracciati quando ancora le scarpe calpestano asfalto – mi ricorda un po’ l’uscita da Lourdes.
Qui in Spagna le giornate sono state dense di incontri e scambi con tante persone, e la mia connessione col mondo vegetale si è indebolita molto rispetto alle settimane solitarie in Francia.
La Galizia, però, sta riaccendendo in me la voglia di quel legame tanto forte, ricordandomi ancora una volta che – straordinariamente – passare ore da solo nella natura non mi produce la benché minima solitudine. A molti potrebbe sembrare una cosa da poco, ma sono certo di non esagerare dicendo che è una delle lezioni più grandi che la vita mi abbia donato.
Per una dozzina di chilometri, incontro alcuni elementi che si rimescolano in continuazione, disegnando paesaggi sempre diversi ma anche tanto simili. I boschi si alternano a tanti bei pascoli e campi arati, già verdissimi; la strada incrocia ripetutamente una costellazione di piccoli abitati gemelli, ricchi di albergues, bar e negozi dedicati ai pellegrini. Molte delle chiesette lungo la via stanno abbracciate al cimitero, e mi riportano alla memoria le splendide tappe francesi.
La scenografia poi si correda costantemente con gli ormai immancabili horreos, i cruceiros, i mojones e le amate frecce gialle. Si procede tra continui saliscendi, lievi ma sufficienti ad aumentare lo sforzo in maniera non indifferente, e me ne accorgo bene, probabilmente anche per via di tutte le energie spese ieri.
Arrivo ad Arzúa poco prima di mezzogiorno, sotto la pioggia. Nella prima metà della mattina sembrava il cielo potesse rasserenarsi, ma è stata una speranza delusa, ed ora eccomi qui, fradicio ed esausto. Ho bisogno assolutamente di una tregua. Non trovando panchine all’asciutto, mi riparo sotto il primo terrazzo, in piedi, appoggiato a una saracinesca chiusa. Anche durante la tappa che mi portò ad Arles, con tutta la pioggia che cadde, dovetti accontentarmi di riposare in questo stesso modo almeno un paio di volte, senza altra scelta.
Dai tavolini di un bar, qualcuno mi guarda perplesso, e in fondo ha ragione. Decido che anch’io mi merito una pausa decente, così mi siedo al caldo dentro il primo locale che trovo, ordinando l’inossidabile accoppiata caffè-cornetto.
Quando mi rimetto in moto, ritrovo un cielo completamente coperto, ma almeno ha smesso di piovere. Approfitto per comprare tutto il necessario per il pranzo.
Mentre poi passo di fronte alla chiesa, le campane si mettono a suonare e a me torna subito alla mente Serena – la delegata della Confraternita di San Giacomo a Bergamo. Inizialmente mi domando il perchè, ma poi d’un tratto il ricordo si fa più nitido. Dopo avermi consegnato la credenziale, infatti, insistette perché io facessi visita ad un sacerdote italiano che fa il parroco proprio in questa cittadina.
Di solito non ci penserei due volte, ma oggi non mi sento di fare nemmeno questo. Fermarmi ancora, dopo la lunga pausa appena fatta, rischierebbe di tagliarmi le gambe, e non voglio proprio rischiare. Possa il karma avere pietà di questo pellegrino.
Poco più in basso, imbocco una stradicella lastricata. Passa prima tra vecchissime case, poi d’un tratto mi riporta tra alberi e campi, affondando infine in una valletta molto suggestiva. Nel giro di poche decine di metri, Arzúa e i suoi palazzi svaniscono alle mie spalle, come d’incanto.
Nelle ore successive, la tappa insiste coi suoi piccoli e continui dislivelli e la successione di paesini rievoca quelle dei giorni precedenti. Supero il grande cantiere per l’Autovía che collegherà Santiago de Compostela a Lugo e attraverso poi un’area di boschi artificiali. Uno sembra lo scenario ideale di una fiaba, con l’edera che sale su ogni tronco per tre metri e ricopre tutto il suolo attorno alle radici. Ci rimango per qualche minuto, un po’ per ripararmi dalla pioggia che nel frattempo ha ripreso, e un po’ per gioco: è un altro modo per sbeffeggiare la stanchezza.
Quando il paesaggio torna ad aprirsi, anche nel cielo si ritaglia uno strappo d’azzurro, e proprio a quel punto incontro un’oasi inaspettata e surreale. Si tratta di una birreria con un cortile molto ampio, addobbato in un modo che non avevo mai visto prima. Si entra passando da un gran portale, ed intorno ai tavoli ci sono un horreo, una specie di casetta e tantissimi assi in legno posti nei modi più diversi. Ciascuna di queste cose è completamente puntellata di asticelle, in ognuna delle quali è infilata a testa in giù una bottiglia di birra. Il risultato sembra una vera infestazione, ma ovviamente non fa né paura né ribrezzo – al contrario!
Appena concluso un primo sguardo d’insieme, entro nell’insolito cortile. Il proprietario sta seduto ad un tavolo insieme alla moglie, e con loro c’è quello che sembrerebbe l’unico altro cliente oltre a me. Mi accolgono senza grandi cerimonie, ma con gentilezza. L’unica birra in vendita si chiama “Pellegrina”. Ovviamente ne ordino una bottiglia, e aggiungo pure un bel pezzo di formaggio.
Mentre sono ancora in piedi all’interno aspettando che mi vengano preparati, alle mie spalle tuona improvvisamente una voce profonda come mai ne avevo sentite. In lingua inglese dice che a O Pedrouzo è tutto chiuso, ma che lui (un uomo, evidentemente) è pronto a continuare fino a Santiago. Tutto così, dal nulla!
Mi giro un po’ spaventato, e vedo in controluce una sagoma ferma sulla soglia. Mascherina, occhiali neri, cappello da baseball e cappuccio della felpa sulla testa: sembra un black-block. Una frazione di secondo e già si mette a ripetere la stessa frase. Rimango incredulo per un attimo, poi balbetto qualcosa, tentando di spiegargli che la notizia a me non risulta. Insiste per qualche istante, poi d’un tratto sparisce, proprio come era apparso.
Resto decisamente stordito dalla strana incursione, ma nel frattempo birra e formaggio sono pronti e me li porto fuori per gustarmeli da seduto.
Il tizio, però, rispunta di nuovo come fosse un fantasma, ma stavolta mi chiede il permesso di sedersi. Per fortuna alla luce del sole il suo aspetto è simile a qualunque altro pellegrino, e togliendo anche gli occhiali diventa ancor più rassicurante.
InizInizia a parlarmi, ma purtroppo lo fa troppo velocemente, e fatico a seguirlo. Riesco comunque a interloquire in qualche maniera, tentando di sopportare meglio che posso la sua prorompenza. L’insolito commensale ordina un café con leche, ma fa soltanto un piccolo sorso e poi lo scosta. Mi spiega un sacco di cose riguardo a sé e me ne domanda altrettante. Capisco in maniera confusa che si occupa di qualcosa riguardante progetti di beneficienza e social network, che è partito dall’Olanda, che fa tappe incredibilmente lunghe e che – non so bene perché – alloggia solo in alberghi veri e propri. Mah!
D’improvviso poi, quando ancora sembrerebbe avere cose d’aggiungere, si alza in piedi e si rimette lo zaino, dichiarando che per lui è tempo di ripartire. Beh, ci credo: se vuole davvero arrivare a Santiago, gli mancano ancora la bellezza di 33 km! Tenendo conto che è partito da Arzúa, significa che oggi ne infilerá una bella quarantina. L’aspetto più eclatante, però, è che sono le due del pomeriggio passate, quindi credo non arriverà prima delle 20:30.
Che senso ha bruciare in questo modo proprio l’ultima tappa?! E soprattutto, perché dice che a O Pedrouzo tutto è chiuso? Non riesco a capire, ma non è finita.
Il proprietario nota che non ha bevuto il caffè e gli chiede se aveva qualcosa che non andasse. Lui risponde di no e tenta di pagare, ma l’altro rifiuta i soldi per principio. Entrambi insistono tanto che per un attimo non vanno alle mani.
Per fortuna tutto si risolve, ma manca ancora il colpo di scena finale. Lo strano pellegrino prima di partire alza una gamba e – serissimo come è restato tutto il tempo – esplode un gran peto, lasciandoci increduli e ammutoliti. Impassibile, ci chiede scusa con il suo vocione da sergente dell’esercito, ma dice anche che è normale, e se na va a passo lungo come nulla fosse. Ma guarda cosa mi deve capitare!
Ci rido sopra mentre concludo il mio spuntino, e finisco a chiacchierare con la coppia di proprietari. Purtroppo però si mettono a discutere pesantemente su quanto questa pandemia sia reale o meno, e degli effetti nefasti sull’economia nazionale. Io mi limito a condividere pacatamente la mia testimonianza di assistente in casa di riposo proprio nel focolaio bergamasco. La cosa sembra buttare un po’ di acqua sul fuoco, e menomale, perché non avrei resistito un minuto di più.
Chiamo infine i due compagni pellegrini per sapere come stia andando. Mi dicono di esser cotti e che se la stanno prendendo molto comoda. Sapendoli amanti della birra, gli consiglio vivamente di fare pausa qui e propongo loro di rimanere ad aspettarli, ma insistono perché io riparta, e così faccio.
Prima di andarmene, i proprietari mi chiedono se mi serva altro, perché fino a O Pedrouzo tutti i bar e i ristoranti saranno chiusi. Una volta lá, poi, troverò qualcosa, ma solo da asporto. Al momento prendo atto dell’informazione senza battere ciglio, probabilmente perché l’avere già con me il pranzo e qualche snack mi lascia tranquillo.
Dopo meno di mezz’ora vengo raggiunto incredibilmente proprio da Tiziano e Amedeo. Ma com’è possibile?! Semplicemente erano molto più vicini di quello che pensavo e hanno guadagnato terreno saltando stranamente la tappa in birreria. Sono visibilmente stanchi e con le pance che brontolano parecchio, ma la profezia del barista si è confermata: non troviamo nessun bar aperto, il che fa innervosire Amedeo come non mai.
Ora mi è tutto chiaro, le parole dello strano pellegrino in birreria e quelle dei proprietari: quegli ammonimenti erano legati al fatto che siamo già entrati nel concello di O Pino, cioè in una delle aree circostanti Santiago in cui si stanno applicando misure di restrizione più severe. Chissà perché ci eravamo messi in testa che ci saremmo entrati solo domani. Ma come abbiamo fatto a sbagliare?!
Un distributore automatico di bibite lungo la strada sembra un miraggio, e mentre ci avviciniamo vedo negli occhi esausti dei due amici tutta la speranza di potersi bere almeno una Coca Cola. Purtroppo però nemmeno quel piccolo desiderio riesce a realizzarsi, perché la macchinetta si fa beffa del buon Tiziano, rubandolgi l’euro che ci ha messo senza dare in cambio alcunché.
C’è un’aria tesa per questa situazione, e d’altronde sono già le tre passate. Io ho mangiucchiato qua e là lungo la via, ma loro no, e capisco bene la frustrazione. Propongo di dividere il panino e gli snack che ho con me, ma ricevo un inaspettato rifiuto. Intuisco che non siamo sulla stessa linea d’onda e decido che è meglio che io riparta pacificamente per conto mio.
Nonostante resti nei paraggi della statale e attraversi con più frequenza zone abitate, mi rifaccio comunque gli occhi: la vegetazione sembra riesca a spuntarla trionfalmente anche qui, tra boschi sparsi, campi, giardini, pascoli e orti. Le case spesso sono monofamiliari e ben segnate dai decenni trascorsi dalla loro edificazione, ma in mezzo a tutto questo verde si respira comunque un’aria di benessere, di genuina floridezza.
Durante la marcia, mentre mi accordo telefonicamente con Tiziano sulla prenotazione dell’albergue, realizziamo d’un tratto che l’olandese di prima altri non era che Armando, un tale che lo aveva già contattato sui social. Me ne aveva già parlato, in effetti, ma fino ad ora non avevo collegato. Oggi sono proprio tra le nuvole! Tra l’altro, ora che ci penso Tiziano non era nemmeno stato l’unico a nominarmelo: con le tappe lunghissime che percorre e la sua originalità, d’altronde, non passa di certo inosservato.
Sono solo le quattro del pomeriggio: il sole è calante e qualche nuvolona appoggiata all’orizzonte già lo nasconde. Io arrivo ad una bella area di descanso per pellegrini, posta tra la statale e un enorme pascolo di mucche bianche e nere. Sarà la luce, saranno le vacche, non lo so, ma mi invade un senso di serenità e di gioia straordinario. Scelgo di sedermi a godermelo, e assieme a quello anche il panino che da ore non vedevo l’ora di divorare.
Mentre sono in pace coi sensi e tutto sembra in un equilibrio pacato e radioso, una mucca vicino al recinto inizia improvvisamente a saltare e correre come una pazza, con gli occhi fuori dalle orbite, per poi fermarsi un minuto dopo come se niente fosse. Splendidi lampi di follia animale!
Un istante ancora e vengo raggiunto dai due amici, fortunatamente molto più tranquilli di come li avevo lasciati, e insieme riprendiamo il cammino.
Dopo meno di mezz’ora raggiungiamo e scambiamo due parole con un bel trio di giovani pellegrini svizzeri: una ragazzina sorridente e una giovane coppia, questi ultimi con dei dreadlocks lunghissimi. Hanno volti e atteggiamenti amichevoli ma, quando diciamo loro di essere italiani, la loro luminosità sembra attenuarsi. Nonostante il fatto accada effettivamente dopo quella precisa risposta, sappiamo che la nostra lettura è comunque viziata dalle antipatiche esperienze nelle mesetas. Ad ogni modo, nel dubbio ci limitiamo a salutarli e proseguiamo.
Nella piccola e ben curata frazione di A Rúa, ormai a due passi dalla meta, ci resterà impressa una bella musica registrata che inizia a suonare proprio al nostro passaggio. Non possiamo dirci certi ci siano delle fotocellule o altro, ma ci diverte molto pensarlo, perché non ci sembra per niente male come segno di accoglienza.
Proseguiamo per qualche decina di metri e raggiungiamo di nuovo la solita statale. O Pedrouzo è poco più su, ma un cartello ci indica di deviare per O Burgo. L’albergue dove abbiamo prenotato aveva lo stesso nome, quindi immaginiamo sia arroccato qui da qualche parte, in questa specie di frazione a cui sembra si acceda da una salita che non ci invoglia per niente. Il negozio di alimentari più vicino è in tutt’altra direzione, e ci sentiamo troppo cotti per immaginarci andare avanti e indietro.
Facciamo quindi un’ulteriore verifica, e scopriamo che c’è un’alternativa proprio in centro a O Pedrouzo. Cinicamente, quindi, annulliamo la prima prenotazione e blocchiamo tre letti nell’albergue appena scoperto.
Salendo lungo la via, però, ci imbattiamo quasi subito nello stesso alloggio che abbiamo appena disdetto: stava qui, e non dove pensavamo, ma ormai è fatta. Essendo esattamente l’ora d’arrivo che avevamo indicato ed essendoci solo noi con lo zaino in spalla, cerchiamo di camminare circospetti, sperando di evitarci così ulteriori antipatie dalla rete di albergatori del Cammino.
I nostri ridicoli sforzi si sgretolano però contro un fatto del tutto inaspettato: dalla porta dell’albergue esce d’improvviso un ragazzone che comincia a chiamarci per nome a gran voce. “Che figuraccia!”, penso tra me e me, e invece non è altro che un ospite, un pellegrino come noi. Tra l’altro è italiano: si chiama Alessandro ed è di Roma. Era stato avvisato dal gestore che sarebbero arrivati dei suoi connazionali e, seguendo anche lui Tiziano sul web, aveva capito che eravamo noi; per questo ci ha riconosciuti.
Con lui c’è anche Luis, da Genova. Si rivelano una compagnia davvero piacevole, tanto che restiamo con loro una decina di minuti, dimenticando del tutto le paranoie dell’esser riconosciuti e rimproverati per la nostra disdetta last-minute. Saranno la lingua condivisa e il calore con cui ci hanno accolti, ma vivo quasi l’impressione di aver ritrovato due amici di vecchia data. Alla fine salutiamo anche loro, sperando di ritrovarli domani e festeggiare insieme il grande arrivo.
Giusto due passi più avanti, ecco finalmente il cartello di O Pedrouzo! Lo abbracciamo con enorme entusiasmo e ci scattiamo una foto d’obbligo, trionfante, dopodichè scarichiamo gli ultimi passi in direzione dell’albergue per cui abbiamo optato. Per fortuna si rivela particolarmente bello, con un proprietario gentilissimo.
Ritroviamo anche i tre svizzeri incrociati un’ora prima, oltre che una piccola comitiva di francesi. Per quanto possa sembrare assurdo, i primi contatti con queste altre persone sembrano innescare lo stesso sottile disagio vissuto coi primi: sarà forse già diventata una nostra ossessione, eppure ci sembra di rivivere in tanti piccoli aspetti quello che successe in camerata a Hontanas con Serge, Alexandre e l’altro ragazzo. D’altronde, avendo appena goduto a pieno – con Ale e Luis – di un primo approccio particolarmente caloroso, non possiamo non soffrire la freddezza dei cugini d’oltralpe, di fronte ai quali ci sembra quasi di essere invisibili.
È poco sano e rispettoso fare queste generalizzazioni, lo so. Dopo migliaia di chilometri e tanti incontri, però, la mia piccola personale statistica mostra indiscutibili corrispondenze tra provenienza e grado di socievolezza. Certo, per fortuna non sono assolutamente mancate le eccezioni, e infatti le tengo ben lustre nella memoria proprio per moderare conclusioni antipatiche. D’altronde è anche vero che l’espressione del proprio entusiasmo varia vistosamente da Paese a Paese, ma tant’è.
Sistemate le nostre cose e fatta una doccia, andiamo subito a spendere le ultime energie al minimarket. All’inizio abbiamo mille idee, ma poi scegliamo di limitarci ad una semplice pasta al pomodoro fatta come si deve, visto che non ne mangiamo da una vita. Aggiungiamo ovviamente del buon vino rosso e del jamón serrano per l’aperitivo, accompagnato da un formaggio locale. Come a Mansilla, acquistiamo anche tutto il necessario per la colazione di domani (che obbligatoriamente dovremo preparare noi essendo chiusi tutti i bar).
Con le nostre scorte, andiamo letteralmente a invadere la cucina sopra la camerata, giusto un attimo prima che arrivino tutti gli altri. Per fortuna, loro hanno da preparare prima degli involtini freddi, e questo evita scomode sovrapposizioni.
Nella sala c’è solo un grande tavolo da condividere, ma nemmeno la cena riesce a sciogliere i trattenimenti reciproci. Tutti si divertono enormemente, ma sembra esserci una cortina invisibile che ci divide.
Personalmente, pur godendomi con grande gioia il pasto e i brindisi con i miei due compagni, soffro molto questa tensione palpabile, e quando abbiamo terminato scelgo di attaccar bottone col gruppo franco-svizzero. La mossa risulta efficace, tanto che rimango con loro, arrivando anche a mostrare le fotografie scattate in Francia durante il mio passaggio. Non è sufficiente perché tutto fiorisca in gioiosa fratellanza, ma da un paio di persone ricevo segnali di buona empatia che mi permettono di lasciare la comitiva soddisfatto dello slancio avuto.
Quando torno in camerata, quasi mi sembra di dover giustificare il mio “tradimento” con Tiziano, ma non sono mai stato uno “da branco”, e loro ormai lo sanno bene. Gli confesso che qualche antipatico effettivamente c’era, ma resta titubante quando affermo che in fondo è sano buttarsi comunque perché non mancano mai anche belle persone.
Non mi pare di averlo convinto molto, ma cerco di trattenermi dal fare troppo il maestrino buonista: in fondo, Tiziano ha molta più esperienza di viaggio di me e di certo ha le sue ragioni per fidarsi del proprio fiuto.
La giornata è arrivata alla fine, domani Santiago! Non sembra vero. Direi una bugia, però, se dicessi di essere invaso da emozioni incredibili. La verità è che non provo né una esplosiva trepidazione, né tristezza per il concludersi di questa parte di viaggio. Ancora una volta – e ne sono felicissimo – provo soprattutto serenità e soddisfazione. Sicuramente tutto il vino che ha innaffiato l’aperitivo e la cena ha i propri meriti, ma npoco importa. Chiuso il sacco a pelo, mi lascio finalmente affondare nel sonno. A domani, caro Giacomo!
(Albergue Perreiro)
40km
Ultimo giorno della dodicesima settimana di viaggio. Piove a dirotto, e mentre facciamo colazione ci chiediamo fin dove vogliamo arrivare oggi. La meta più semplice da raggiungere è Palas del Rei, a circa 25 km da qui. Amedeo è disfatto ed è evidente che preferirebbe accontentarsi. Per motivi diversi, sia io che Tiziano siamo più ambiziosi e vorremmo fare uno sforzo fino a Melide, che però dista 40 km. La differenza è enorme, e per di più il tempo infausto ci rema contro. Troviamo un compromesso molto diplomatico scegliendo di rinviare la decisione alle prossime ore.
Non partiamo immediatamente, aspettiamo che la pioggia diminuisca almeno un po’. Ogni minuto che passa, però, mi convinco sempre più non sia poi una grande strategia. I ragazzi temporeggiano ulteriormente, e li capisco, ma io non ce la faccio proprio a stare un altro minuto qui fermo alla finestra. Scelgo quindi di tuffarmi, promettendo poi di aspettarli a Palas del Rei.
Eccomi quindi con la mia fidata mantella sotto l’incessante martellare dell’acqua. Durante le prime centinaia di metri vado un po’ in confusione, mi disoriento. Sembrerebbe impossibile vista la semplicità della rotta da prendere, eppure ultimamente sta capitandomi spesso. Ogni volta mi ritrovo a dover sostare un paio di minuti per chiarirmi le idee, e oggi – ahimè – non fa eccezione, nubifragio o meno.
Scendendo verso il fiume intravedo un paio di ponti: uno carrabile e un altro pedonale, ma inagibile. Sullo sfondo, invece, si staglia la sagoma di quello gigantesco superato ieri: il Puente Nuevo. La prospettiva di tutti e tre è talmente suggestiva da riuscire ad addolcire lo stress che mi provoca la pioggia battente.
Una volta raggiunta l’altra sponda, trovo finalmente un cippo che mi dà la certezza di aver scelto la strada giusta. La freccia gialla mi guida lungo un sentiero che inizia immediatamente a salire, e non poco. Per fortuna ora sono almeno riparato dagli alberi, perché l’acqua ha già riempito gli scarponi. Lo strato impermeabile, infatti, è messo male da un pezzo, e ne lascia filtrare parecchia all’interno, per di più ostacolandone l’uscita.
Il percorso regala una bella immersione nella natura per almeno mezz’ora. È una salita continua, faticosa in queste condizioni, ma allo stesso tempo perfetta per scaldarmi.
Inaspettatamente, incrocio altri due pellegrini: un uomo e una donna di mezza età. Portano zaini molto piccoli e mantelline trasparenti che sembrano davvero poco efficaci. Stanno fermi a consultare una guida al riparo di qualche albero, e rimangono un po’ straniti dal mio aspetto. Non posso dargli torto, visto che ho rispolverato la vecchia strategia che tanto ho usato in Francia: quella di tenere sotto la mantella una dry-bag gonfia quasi come un palloncino, appendendola alla cinghia pettorale dello zaino. I due vantaggi sono quelli che in quel punto cruciale il corpo non sta più a contatto diretto con la superficie fredda e umida della mantella, e al contempo sotto di essa si crea una cappa di aria calda molto piacevole. Il risultato è che io sto benissimo, ma per gli altri appaio come un grottesco incrocio tra il gobbo di Notre-Dame e Cappuccetto Rosso al nono mese di gravidanza – decisamente non un bello spettacolo.
Rispondo ai loro sguardi con un semplice sorriso e continuo il mio allungo, senza badar più nemmeno alle pozzanghere.
Il sentiero sfocia in una strada abbastanza larga, oggi comprensibilmente poco trafficata. Scende da O Cebreiro, ed è proprio quella accanto alla quale ho camminato con Martin quella mattina. L’ho ritrovata poi sia a Triacastela che a Sarria, ed è anche la stessa che include il Puente Nuevo di Portomarín.
Qui corre tra campi, boschi e stabilimenti industriali, tutti di grandissime dimensioni, il che mi dà la sensazione di star avanzando molto più lentamente, unendosi al disagio della pioggia incessante. Mi sento particolarmente messo alla prova – forse più psicologicamente che nel fisico.
Ai bordi di un incrocio perso nel nulla cosmico, trovo una pensilina benedetta. Finalmente al riparo, mi godo qualche minuto di tregua e scatto un paio di foto. Di solito non ci riesco mai quando piove troppo, ed è uno dei miei grandi rammarichi, perché a volte proprio sotto l’acqua ho attraversato paesaggi davvero suggestivi.
Torno sulla carrettera scatenando a ritmo serrato il mio personale passo di marcia. Ormai mi conosco alla perfezione: rallentare sotto questa pioggia e all’inizio della tappa vorrebbe dire per me rischiare di perdere metà delle forze.
La pista predisposta per i pellegrini sta a lato della carreggiata, ma è completamente inzuppata d’acqua. In alcuni punti si inoltrerebbe tra campi e boschi, ma oggi è totalmente impraticabile, così mi limito a rimanere sul bordo della lingua d’asfalto.
A quasi dieci chilometri dalla partenza, però, scelgo di fare un’eccezione: incuriosito dalle indicazioni per un sito archeologico che sembra importante, imbocco la svolta per Castromaior. Dopo il minuscolo paese, il sentiero sale verso un poggio quasi spoglio. Una volta in cima, la cosa che mi dà immediatamente sollievo è scorgere in lontananza qualche sprazzo di azzurro: forse c’è davvero speranza che quest’acquazzone finisca, prima o poi.
Infrangendo le stesse regole che mi ero autoimposto, resto minuti interi fermo sotto la pioggia, completamente ipnotizzato dal panorama. È uno di quei momenti in cui non è solo la bellezza a immobilizzarmi, ma un’inebriante sensazione di improvviso svuotamento da ogni cruccio, piccolo o grande. Sono attimi di calibratura talmente perfetti da sembrano irreali: ti senti leggero, libero e al posto giusto, tutto contemporaneamente.
Tra l’altro, basterebbero pochi metri per affacciarmi sui resti dell’antichissimo insediamento fortificato, ma mi sento già sazio e ci rinuncio senza rimpianti.
Torno alla carrettera e raggiungo l’Alto do Hospital, un crocevia che mi è parso di capire abbia da tempo immemore una grande importanza. Attendevo da un pezzo di arrivarci, ma senz’altra aspettativa che trovare ristoro in uno dei bar adocchiati su Google Maps. Purtroppo non mi era passata per la testa nemmeno per un secondo l’idea che li avrei trovati tutti chiusi. Pazienza, non resta che incassare il colpo e sperare in qualche imprevisto positivo.
Una prima consolazione arriva nel giro di pochi minuti, quando finalmente smette di piovere e il cielo, pian piano, inizia incredibilmente ad aprirsi. Ho la netta sensazione che la giornata stia per prendere tutt’altra piega: incrociamo le dita!
Passato il ponte sulla statale, la strada sale di nuovo e attorno a me noto boschi compatti di piante familiari, ma che non avevo mai visto fin qui. Sono eucalipti, tutti alti almeno una quindicina di metri. Osservando le loro cortecce tutte sbucciate e le foglie lunghe e affusolate, mi sembra di percepirne vagamente anche il profumo, forse per suggestione. La cosa più bella, comunque, è alzare il naso e potersi godere finalmente la bomba d’azzurro che ha fatto quasi del tutto piazza pulita di quei maledetti nuvoloni.
Qui finisce la grande salita di oggi. Se decidessimo di arrivare fino a Melide, so già che non mancheranno altri infiniti saliscendi, ma almeno il dislivello più duro so di essermelo lasciato alle spalle. Dopo qualche minuto, la vista di un arcobaleno incastonato tra colli poco lontani sembra sancire definitivamente la vittoria del bel tempo. Per fortuna, però, le belle notizie sembrano non finire qui. Basta un altro quarto d’ora, infatti, perché un’altra visione arrivi ad illuminare la giornata: un bar miracolosamente aperto e totalmente inatteso.
Sono da poco passate le 11 e finora sono riuscito a percorrere una quindicina di chilometri. Non c’è momento migliore per fare il pieno di carburante!
Dopo aver dato un’occhiata alla lista, decido di fare le cose in grande stamattina e ordino un hamburger con uovo fritto! Il barista è simpaticissimo, e lo stesso vale per la famigliola che sta uscendo poco dopo il mio arrivo. Prima di andarsene, infatti, decidono di ritagliarsi qualche minuto con il solitario pellegrino arrivato fin lì dallo Stivale. Tra loro, il più anziano supera i novant’anni, ed è l’unico a non portare la mascherina. Mi spiega che fa fatica a respirare e che non può fare altrimenti. Parla senza ombra di sconforto; al contrario, mi saluta con un gran sorriso. È una merce sempre più rara – vuoi per le mascherine stesse, vuoi per il pessimismo – ma per fortuna resta contagiosa quanto il maledetto virus.
Ricevo anche una dritta speciale su dove andare a mangiare il polpo a Melide. Arrivarci sarebbe un’altra impresa, ma comincio ad averne sempre più voglia.
Dopo mangiato, scrivo ai ragazzi chiedendogli dove siano rimasti. Purtroppo sono troppo indietro, e non me la sento di rimanere fermo ancora. Vorrà dire che ci riuniremo a Palas del Rei.
Li avviso anche del fatto che questo è l’unico posto aperto che ho trovato, e gli consiglio di mangiare qualcosa qui. Oggi infatti è domenica, ed molto improbabile trovino delle alternative.
Prima di tornare a camminare, mi faccio un ultimo piccolo regalo accettando il bicchierino di liquore al caffè che mi offre la casa. Una squisitezza! Straordinariamente tonificato in anima e corpo, adesso davvero non rimane altro che salutare e riprendere la via.
La strada riprende in piacevolissima discesa, immersa in una campagna calma e finalmente soleggiata. Lungo la via scopro anche un cruceiro costruito circa 350 anni fa! Ovviamente fin dall’Italia ho già incontrato cose ben più datate, ma resta curioso imbattersi in un manufatto così antico, soprattutto in mezzo a tutta questa natura, qui così dominante e rigogliosa.
Superata la croce di pietra, arrivo a Ligonde. Leggo che non è un paese a sé stante, ma frazione del comune di Monterroso. La cosa incredibile, però, è che quest’ultimo è formato da ben trenta piccoli nuclei diversi, e per soli 3000 abitanti! Sono dati che appunto perché mi paiono capaci di dare un’idea molto chiara di come sia strutturato questo territorio. Dovessi esprimerlo diversamente, direi che sembra una vera e propria costellazione di insediamenti, sparsi su un infinito tappeto verde.
Al mio ingresso in paese, vengo “accolto” da una docile mandria di mucche che arriva in senso contrario al mio e che, con mio gran piacere, mi ingloba per alcuni secondi. Più avanti, poi, trovo qualche altro segno di vita: c’è gente a passeggio, altra che pulisce il cortile, chi porta a spasso il cane. Sono tutti anziani, ma non mi stupisce troppo, e in fondo non stona in questa cornice.
Le case non sono accomunate da un unico stile, ma questo non rende il paese meno caratteristico. Rimangono ricorrenti i piccoli capanni, le stalle, alcune grandi aie, gli orti, gli horreos, i pollai. In mezzo a un campo c’è anche una pompa eolica, come quelle che si vedono nei film, fuori dai ranch texani, sempre arrugginite e cigolanti.
Finite le abitazioni, un mojon indica di imboccare un canale selciato che scende in una magnifica conca verde. È un passaggio minuscolo e anonimo, ma ancora una volta sembra intriso di una bellezza rara. Camminare per la Galizia mi sta piacendo immensamente!
Ricevo un messaggio da Tiziano: dice che hanno appena ordinato il mio stesso hamburger nel bar che gli ho consigliato. Grandi! Approfitto per avvisarli di una novità: spulciando la mia guida ho scoperto che ci vogliono ben 5 km in meno di quanto pensavamo per arrivare a Melide. Questo basta a convincere me e lui a fissarla come obiettivo definitivo di questa giornata, nonostante il buon Amedeo non sia per niente entusiasta.
Chiusa la chat, continuo imperterrito il mio affondo in questo paradiso terrestre. Bastano la fioritura di un campo, l’edera sui tronchi, la vista di un lavatoio ben tenuto, una staccionata da telefilm, o il riflesso del cielo sull’asfalto bagnato: ogni cosa sembra scalpiti per far sí che io mi accorga della sua esistenza, della dose di poesia che porta all’insieme.
Che dire? Ho una direzione e le forze per seguirla, e sembra davvero non abbia bisogno d’altro che questo. Mi sento un privilegiato: non vorrei essere altrove ora, o nei panni di qualcun’altro. Sto vivendo un’esperienza di centratura e di equilibrio che prometto a me stesso di non dimenticare mai.
Non è finita. Ecco davanti a me un uomo e una donna a passeggio, romanticamente mano nella mano. Camminano nella mia stessa direzione; sullo sfondo, una casa splendidamente colorata, isolata tra i campi.
Fantastico sulla possibilità che sia casa loro, e su quella di essere io un giorno nei panni di lui: immerso nella meraviglia, senza fretta, con la pace nel cuore e la mano stretta in quella di chi amo. Chissà.
Arrivo presto ad un grande bar aperto. Come quello dove ho mangiato – e già diversi altri visti in questi primi giorni galiziani – ha la particolarità di avere una grande tenda da sole nera, sulla quale si staglia la marca di birra Estrella Galicia. Dà quasi l’impressione sia il segno distintivo di una catena di locali, mentre invece è solo una sponsorizzazione: l’equivalente delle insopportabili sedie rosse con cui la Algida ha riempito il mondo, ma meno tamarro. Mi prendo una bella spremuta fresca e riparto, ormai vicinissimo a Palas del Rei.
Con mia grande sorpresa, non devo incanalarmi in strade sempre più dense di case e palazzine per entrare nei confini della cittadina. Scendo invece tra campi e piccoli boschi, fino a raggiungere un’area picnic racchiusa in una grande conca erbosa.
Sugli alberi resistono ancora molte foglie delle migliori tinte autunnali, mentre quelle cadute hanno intessuto un vero e proprio tappeto. C’è una gran quantità di tavoli e postazioni barbecue. Immediatamente immagino numerose comitive di pellegrini che si fermano qui, riposandosi all’ombra e a festeggiando a suon di grigliate. Speriamo proprio sia così, perché il posto lo meriterebbe.
Sono quasi le due, il mio stomaco brontola e ho davanti una panchina che sembra aspettare solo me. Spoglio lo zaino e appoggio i bastoncini. Sfilo pane, borraccia e l’ennesima confezione di affettato a lunga conservazione. Può suonar male, ma per me è una prelibatezza – soprattutto se ripenso alle peggio cose in scatola mangiate in Francia. Mi godo un quarto d’ora di puro godimento: è decisamente il posto migliore dove abbia pranzato in questi mesi.
Una volta finito e riattrezzatomi, riprendo la marcia ed entro in paese. Purtroppo noto un netto calo di bellezza rispetto alle ore appena passate, e davvero continuo a chiedermi come il flusso di migliaia di pellegrini – in costante aumento fino a quest’anno – non abbia permesso a questi centri urbani di rifarsi il trucco.
Trovo un mini-market aperto, ma ancora per poco. Chiamo gli altri per sapere se posso comprargli qualcosa, perché poi probabilmente non troveremo più nulla fino a Melide. A differenza mia, però, preferiscono non appesantire lo zaino.
Ci troviamo una mezz’ora dopo all’uscita da Palas del Rei, e ovviamente ci godiamo una meritata pausa tutti insieme. Io, però, sono costretto a rovinarla con una brutta notizia: mentre li aspettavo ho fatto qualche calcolo e ho scoperto che la guida è sbagliata. I chilometri ancora da fare sono davvero sedici, e non undici.
Siamo tutti abbastanza stanchi – chi più chi meno – ma sembra che la novità non muti le opinioni originarie: Tiziano ed io preferiamo proseguire comunque, mentre Amedeo sarebbe ben contento di fermarsi. Purtroppo per lui, ci lascia troppi spiragli per insistere e alla fine cede sconsolato.
Tra l’altro nel frattempo il cielo si è chiuso e ha iniziato pure a piovigginare. Questo peggioramento aumenta il malumore del nostro compagno, ma ormai la decisione è presa. Sfoderiamo all’unisono giacche impermeabili, mantelle e coprizaino: è ora di partire alla conquista di Melide!
Camminiamo una decina di chilometri per lo più su asfalto, attraversando o costeggiando boschi di piccole dimensioni, con alberi spettacolari o giovani colonie di eucalipti. I microscopici paesi non smettono di cadenzare il nostro procedere, assieme agli immancabili mojones e alle loro targhette piene di numeri.
Carballal, A Pallota, Casanova, Porto de Bois, O Coto, tutti nomi che diventano traguardi intermedi a cui affidarsi per sentir meno la stanchezza: il segreto è concentrarsi solo su quello successivo.
Per grazia divina, ad un certo punto il cielo si riapre e la Galizia ricomincia a regalarci piccoli scenari da sogno. L’unica pecca è la desolazione data da tutti i bar e gli albergues chiusi, ma ormai abbiamo imparato a conviverci.
Passate le cinque, arriviamo a O Leboreiro, particolarmente pittoresca. Qui incontriamo il nostro primo cabazo, esposto in bella vista davanti alla chiesetta di Santa Maria. Ha la stessa funzione degli horreos e a sua volta è rialzato da terra. Ha però tutt’altra forma, essendo una gran cesta in vimini coperta da un cono di paglia.
Per qualche motivo questo paesino mi mette in testa la sensazione che iniziamo ad esserci, ma la verità si fa presto scoprire: mancano ancora quattro chilometri per arrivare a destinazione, che alla fine di una tappa già sofferta sono davvero un’infinità.
Quando il cervello resuscita dai sempre più frequenti stand-by, proviamo anche a spenderci in improbabili grida motivazionali: un déjà-vu che mi ricorda tanto l’agognata Belorado. Purtroppo però scadono presto in un becero umorismo, poi in imprecazioni di ogni genere e si conclude infine in furiose promesse di non fare mai più una cazzata simile.
Come sempre è Tiziano quello che ha ben chiaro a che punto siamo, ed è lui a tentare di rincuorare Amedeo, ormai sfinito dalla fatica e già vagamente delirante.
Con gli ultimi sprazzi di lucidità, però, mi accorgo che i numeri del nostro capitano non tornano. D’un tratto capisco: sta rubando un po’ su quanto ancora ci manca, nella speranza che l’altro non se ne renda conto. Non posso crederci: è un’idea geniale e diabolica al tempo stesso! Ridotti come siamo, direi che una mossa simile può essere classificata come raffinata psicologia.
A parte gli scherzi, però, la verità è che stiamo raschiando davvero il fondo del barile. Riusciamo a trascinarci fino a Furelos – ultimissimo paese prima dell’arrivo – ma in più di un’occasione mi chiedo come il mio corpo ora sia lo stesso dei 90 km in 48h fatti solo qualche giorno fa.
Superato il Ponte de San Xoan, io e Tiziano spremiamo le forze rimaste e acceleriamo alla disperata, esaltati dall’aver letto un cartello col nome del nostro albergue. Purtroppo facciamo presto la tristissima scoperta che l’alloggio sta dall’altra parte di Melide, a più di un chilometro di distanza.
Potrebbe essere il coplo di grazia, ma all’improvviso nella nostra disperazione irrompe la voce di uno sconosciuto: saluta il nostro arrivo come se ci conoscesse, tanto da sembrare quasi un miraggio. In realtà non è altro che un ristoratore particolarmente originale che cerca di agguantare al volo qualsiasi pellegrino in transito. L’insegna Pulperia La Garrancha, però, riesce miracolosamente a risvegliarci forze inattese: è infatti proprio quella che mi ha consigliato la signora incontrata al bar stamattina, e sembra davvero invitante!
Raggiunti anche da Amedeo e divertiti dallo stile estroverso del personaggio, garantiamo senza tentennamenti la nostra presenza a cena.
Quando finalmente arrivviamo all’alloggio sono le sei del pomeriggio passate: questo vuol dire che oggi abbiamo camminato quaranta chilometri in dieci ore scarse. Ci ha ammazzato, ma la nostra virilità spolpata sembra trarne un minimo beneficio.
In camerata c’è solo un ragazzo francese. Ci scambio volentieri due chiacchiere: mi racconta che sta percorrendo il Cammino a modo suo, quasi del tutto in tenda e senza rispettare granché la traccia ufficiale. Gli piace andare a cercarsi escursioni montane ovunque possibile, il che mi apre all’ennesima variante creativa con la quale può essere affrontata questa avventura.
Sto avendo il privilegio di raccogliere una quantità di testimonianze davvero incredibile. Ogni voce ha scolpito una nuova sfaccettatura al concetto che avevo di viaggio, di libertà, di vita. Ogni persona è la prova incarnata di una possibilità in più, e probabilmente questa è la cosa più preziosa che questo pellegrinaggio sta regalandomi.
Siamo tentati dal collassare sulle brande, ma se lo facessimo sappiamo che non ci rialzeremmo più. Ci diamo quindi subito una lavata e, fingendocene ritemprati, torniamo per strada con non poco sforzo. In perfetto orario per la cena, non ci rimane che ripercorrere a ritroso la nostra via crucis fino al ristorante.
Il locale è grande e tutto in legno, ma siamo praticamente soli. Finalmente davanti ai menù, inizia a rigermogliare nuovo entusiasmo, e quando arrivano le birre ci sembrano la cosa più buona mai assaggiata. Per fortuna anche il pulpo a la gallega che prendiamo è all’altezza delle recensioni ricevute, e mai premio sarebbe stato più apprezzato.
Un’ora doUn’ora dopo, prima di uscire, troviamo il proprietario a cucinare in un’insolita postazione davanti alla porta d’ingresso. Sta infilando un gran forcone nell’altissimo pentolone davanti a sé e ne sfila un polpo intero, schiantandolo poi sul tagliere di fianco. Si diverte a vederci lì a bocca aperta, e ci invita a scegliere un ammazzacaffè per concludere la cena. Non ci tiriamo indietro, e cominciamo a scambiare due parole con lui e qualche cliente – ovviamente mentre il polpo finisce a pezzetti sotto il coltellaccio dell’oste.
Il momento è talmente piacevole che i giri diventano tre, due dei quali addirittura offerti. Al settimo cielo, ci congediamo e fumiamo una sigaretta prima di andare a morire nei nostri letti. Un ultimo selfie ci aiuta a capire come siamo ridotti male, ma ciò non toglie che questa serata resterà di certo e comunque tra le migliori del viaggio.
(Albergue Pons Minea)
31km
Ecco la sveglia: l’ennesima di questo viaggio. Ormai sono più di ottanta i letti in cui ho dormito: niente male come primo pensiero della mattina. Con la fantasia mi sollevo sopra l’Europa e dal mio vecchio appartamento vedo germogliare una linea colorata che li unisce tutti. Si allunga seguendo il tracciato che ho percorso, arrivando fino a qui, ai miei piedi. Ne raccolgo il capo e me lo lego in vita: anche oggi è tempo di alzarsi e portarla ancora più in là.
La casa è avvolta nel silenzio, non c’è anima viva. Si sente solo il russare di Lidy, soffocato dalle quattro o cinque coperte sotto cui si è sepolta. Comincio a sospettare che il mio progetto di partire presto non sarà così facile da realizzare. Certo, sono libero di incamminarmi quando voglio, ma c’è una cosa che manca e a cui non vorrei rinunciare. Ieri, infatti, ho chiesto al buon Armiche un timbro per la mia credenziale, ma lui ha rilanciato proponendomi un’alternativa: un piccolo disegno di proprio pugno. Essendo stanco, però, ha aggiunto che ci avrebbe pensato stamattina, ed ora eccomi qui a contare i minuti.
In cucina non trovo niente per fare colazione, se non delle bustine di tè. Mi scoccia curiosare troppo perché sono convinto che nelle stanze si senta tutto. Il fatto è che ieri non ho potuto far scorta di nulla e ora ho una fame incredibile.
Purtroppo passa mezz’ora prima che si svegli qualcuno, e almeno altri quindici minuti prima di veder arrivare anche Armiche. Nel frattempo, in tavola non viene messo nulla, nemmeno un biscotto. Ho capito che oggi dovrò rassegnarmi a partire a stomaco vuoto. Perlomeno, a differenza degli scarabocchi dell’hostalero di Fromista, l‘alchimista galiziano mi disegna un alberello niente male. È il mio semaforo verde: ora posso finalmente partire.
Saluto tutti con gran calore, felicissimo di averli conosciuti. Ieri ho pensato diverse volte alla possibilità di fermarmi, proprio come Laissa e Camille, ma tante cose mi hanno fatto scegliere di proseguire. Chissà che in futuro i miei passi non mi riportino da queste parti, non penso sia poi così improbabile.
Il sole oggi è padrone assoluto del cielo, e il suo tepore è quanto di meglio possa desiderare. Gli scenari collinari sono incantevoli, soprattutto quando la strada o il sentiero sfuggono dall’ombra della boscaglia. Sono immerso in un mare verde, in cui gli alberi e i muretti a secco dividono geometricamente i pascoli; qua e là, alcune fattorie sparse e rari paeselli.
Attraversata Furela, mi perdo a scattare decine di fotografie e vengo raggiunto per un attimo da Alexandre e Aurora. Li saluto cordialmente, ma poi gli torno subito davanti, ladciandomeli presto alle spalle. Il fatto è che ho un bisogno viscerale di attraversare in piena solitudine questo paradiso, illudermi che il suo abbraccio inebriante sia per me soltanto: voglio esserne inglobato, diventarne parte. È come se i miei passi, il mio sguardo e le mie emozioni si trasformassero in tasselli necessari perché quest’armonia arrivi al proprio culmine. Qui ho la sensazione di non rappresentare alcuna minaccia per ciò che mi circonda, e a mia volta mi sento totalmente al sicuro. Per qualche istante percepisco che questo potrebbe essere il posto giusto per me – ma quante volte mi è già successo?
Raggiante, continuo a lasciarmi cullare dai ripetuti saliscendi fino alla lunga discesa verso Sarria. Piccole villette sparse si fanno sempre più frequenti, finché le palazzine sanciscono l’entrata ufficiale in città.
Essendo nell’ultimo tratto del Cammino, quello più battuto, la densità di strutture ricettive per pellegrini è molto più alta che altrove. Il pensiero però è uno solo ora: mettere qualcosa sotto i denti. Scovo subito una panetteria particolarmente invitante e comincio comprando una grande empanada, un cornetto e del pane che terrò per domani. Più avanti faccio poi scorta di frutta, e infine mi fermo su una panchina a godermi i primi bocconi della giornata.
Di nuovo, vengo raggiunto da Aurora e Alexandre; hanno l’aria di essere molto più freschi di me. Ovviamente stavolta li lascio passare e riparto solo una decina di minuti dopo, attraversando il río Sarria – omonimo alla città – e salendo poi la suggestiva Escalinata Maior (la y sostituisce la i probabilmente per il prevalere del gallego sul castellano, che ormai sembrano competere nella nomenclatura di ogni luogo). La via successiva è il fulcro dell’accoglienza pellegrina locale, ma trovo tutto chiuso. La chiesa di San Salvadór segna il culmine della mia breve salita. Più in alto rimarrebbero da visitare i resti del castello, ma mi accontento.
Arrivato al Convento da Mercé e al cimitero, una ripida discesa mi fa tornare quindi in mezzo alla campagna, dove l’antico Ponte de Áspera sul río Pequeño sembra capace – nella sua semplicità – di far ripiombare il pellegrino indetro di qualche secolo.
Il sentiero torna poi a salire, attraversando un bosco e sbucando su un armonioso altipiano collinare: non c’è altro che il sentiero ghiaioso, qualche albero, alcune staccionate, dei muretti a secco ed erba ovunque.
Più avanti, un piccolo nucleo di case – Vilei – non rovina l’atmosfera; fa già parte di Barbadelo, un comune composto da una ventina di agglomerati simili.
Resto incuriosito da una strana costruzione di cui non capisco la funzione e che non ho mai visto prima: è come una palafitta in pietra e mattoni, ma stretta, lunga e tutta traforata. Si innalza all’interno di un cortile, occupando lo spazio in diagonale; una cosa davvero insolita. Mah!
Trovo l’indicazione per una chiesetta dedicata al buon Santiago, ma rinuncio alla deviazione. Dedico invece qualche minuto a perlustrare tutto il perimetro dell’albergue municipal che sta proprio di fronte al cartello. Ho assolutamente bisogno di una fontana o di un rubinetto, perché ho dimenticato di fare scorta d’acqua a Sarria. Ne trovo uno, ma purtroppo la tubatura è chiusa e non c’è acqua corrente. Non mi resta che proseguire.
La vista di una signora in un cortile poco sopra a dove sto camminando mi restituisce qualche speranza, ma appena inizio a chiamarla lei entra in casa. Insisto comunque, sperando che anche i latrati di tutti i suoi cani la attirino di nuovo fuori, ma nemmeno stavolta cavo un ragno dal buco. A rischio di farmi insultare, salgo la via che conduce all’entrata principale, ma non ho nemmeno bisogno di suonare perché di fronte alla casa trovo una fontanella che sembra aspettasse solo me. Ah, giubilo! Che fortuna!
Sono già un po’ stanco ma non sono nemmeno a metà strada, quindi per dissetarmi e riempire la borraccia mi concedo solo un paio di minuti. La meta di oggi è una certa Portomarín, ma il vero traguardo per cui ho già l’acquolina in bocca è il cippo che segna i 100 km esatti da Santiago de Compostela; dovrei incontrarlo tra un paio d’ore. Son sicuro che poi, con l’entusiasmo accumulato, mi berrò senza fatica quel che manca della tappa.
Tra l’altro, il meteo dice che comincerà a piovere proprio tra due ore. È difficile da credere guardando ora il cielo, eppure le previsioni qui in Spagna sono sempre state piuttosto affidabili.
Un chilometro dopo, incontro inaspettatatmente un minuscolo bar aperto e non so resistere alla tentazione di un caffè; è già l’una passata, ma ancora non mi va di pranzare. La signora che mi serve sembra quasi stupita di vedere un pellegrino. L’unico altro cliente è un vecchio signore; sta seduto al tavolo e mi guarda sorridente, così abbozzo un saluto. Inaspettatamente mi risponde all’istante, presentandosi con nome, cognome e luogo di nascita. Non contento, aggiunge a ruota anche parrocchia, comune, comarca e provincia, e concluso l’elenco torna a sorridere soddisfatto. Io fatico a trattenere una risata, ma ringrazio e a mia volta mi presento: non vado oltre al mio nome e al Paese da cui vengo, anche se la tentazione di replicare l’intera lista di coordinate è stata forte.
Questi primi piccoli scambi mi danno anche un assaggio dell’accento del posto, scoprendolo molto diverso da qualsiasi altro mi sia capitato di sentire dai Pirenei a quaggiù.
La via continua poi totalmente in piano, tra scenari agresti tutti diversi eppure al contempo tanto simili. Incontro vacche e pecore bellissime, passando anche per qualche boschetto non male. Qua e là, il sentiero é addirittura selciato – qualcosa di inaspettatamente elegante.
Ogni elemento sembra riesca ad impreziosire lo stesso infinito paesaggio, ma senza mai stravolgerlo. Possono essere mucche bianche e nere anziché rosse, muretti coperti da un muschio verdissimo come qui non ne avevo mai visto, una serie di alberi ramificati in maniera stramba, e così via: semplici dettagli, insomma, ma tutti capaci di tenere ben viva la brace dello stupore.
Sicuramente alcuni momenti sono più memorabili di altri, per esempio quando mi sono trovato di fronte a certi alberi secolari o salendo un paio di bellissimi sentieri lastricati in mezzo alla campagna; o ancora il momento in cui ho capito cosa fosse un horreo.
Horreos, già, perché così si chiamano le strutture in pietra e mattoni che sto trovando sempre più frequentemente lungo la via. Sono dei semplici granai, ecco svelato il mistero. Si presentano in infinite varianti e, non so bene come, hanno un fascino magnetico. Di certo contano l’elevazione e la disposizione frequentemente obliqua. Spiccano su ogni altro elemento architettonico, quasi fossero vere e proprie sculture, e la loro diffusione connota il territorio in maniera straordinaria.
Avanzando senza sosta, attraverso una decina di piccole frazioni e su ogni cippo il conto alla rovescia dei chilometri prosegue inesorabilmente (sempre con quei maledetti decimali). Ora, però, ci siamo! Ho davanti a me una lunga discesa che subito dopo torna ad impennarsi. Nel mezzo c’è un ristorante, con parecchie macchine parcheggiate fuori. Secondo i miei calcoli, il mojon dei 100 km sta in cima alla salita. Sono emozionato e ho voglia di gustarmi questo momento, di dedicargli tempo, di sentirne il profumo. Scelgo di temporeggiare e di prendermi un altro caffè, un po’ come i ciclisti in fuga che smettono di pedalare pochi metri prima del traguardo.
Nel ristorante sembra ci sia parecchia gente. Mentre aspetto, noto una piccola lavagna – lì evidentemente per intrattenere i bambini dei clienti. Istintivamente mi inginocchio e comincio con cura a scriverci sopra “Bergamo – Santiago, 2400 km”, come se fossi già lá.
Quando la proprietaria torna dalla sala, legge la scritta e me ne domanda conferma. È stupita, anche se di certo avrà incontrato chissà quanti pellegrini da tutta Europa arrivare dalle proprie case fino a lì. Io sorrido e annuisco, poi scambiamo due battute e ordino il caffè. Curioso, le chiedo anche se per caso quest’oggi siano passati di qua altri due italiani, uno alto e biondo e l’altro più basso e moro. Si sono fermati attorno a mezzogiorno, mi dice; li ricorda bene. Sono contento; a questo punto è molto probabile che li ritrovi stasera. Proverò a mandargli un messaggio una volta arrivato al mojon; penso che anche loro saranno contenti per me.
Non perdo altro tempo, ringrazio la signora e vado incontro a quel pezzo di pietra che saprà ricordarmi quanta strada hanno fatto queste gambe per arrivare ad abbracciarlo.
Come previsto, bastano pochi minuti. Eccolo là, sta all’ombra di una pianta, senza fronzoli particolari. Stavolta non sento il bisogno di esplodere in urla di gioia come al mio arrivo in Galizia. Con le mani sorrette dai bastoni e col sorriso sulla faccia, rimango solo a guardare quei numeri, stavolta incisi nella pietra e non in una targhetta di ottone: cento, virgola, zero, zero, zero. Mi piacerebbe conoscere il tizio che ha deciso si usasse una numerazione tanto inutilmente dettagliata.
Le prime gocce iniziano esattamente mentre tolgo il telefono per farmi un selfie. Non potevo essere più sincronizzato di così. Mantella al volo, quindi, e si riparte!
Fortunatamente non sembra scendere a secchiate, e devo dire che rende la camminata addirittura più piacevole.
Ai due amici scrivo di essere entrato anch’io nel club dei “centenari”. Loro sono già a Portomarín e mi propongono di condividere una tripla, come già tante altre volte abbiamo fatto: accetto volentieri. Forse non ci siamo ancora ripresi del tutto dalla separazione di qualche giorno fa, ma evitare di riunirci per stanotte sarebbe stata una forzatura. D’altronde il Cammino ti accompagna a capire che va bene così, che le cose belle fuori programma vanno assecondate senza tante storie, e se fai il crapone sarà solo più forte la zuccata che darai. Ad ogni modo sono contento mi abbiano riaccolto.
La giornata va un po’ rabbuiandosi per il maltempo. L’asfalto e i tratti pavimentati brillano bagnati dall’acqua. Sono opache e inghiottono luce, invece, le pietre dei muretti che incanalano i sentieri, o quelle dei muri di chiese e vecchie case. Le foglie già cadute e rinsecchite – ora inzuppate e arrese – fan da tappeto per il viandante, mentre quelle gialle ancora sugli alberi sembrano l’eco sospeso delle frecce che mi guidano.
D’un tratto, in lontananza, il belare di un gregge viene squarciato da un pianto fortissimo, come di un neonato senza pace. Ma com’è possibile ci sia un bimbo disperato sotto questa pioggia?! Aguzzando bene la vista, però, scopro che è solo un agnello raccolto dal pastore. Addirittura per un istante si innesca nella mia mente una specie di sogno, come se quell’uomo che sembra uscito da un presepe sia il me futuro. Resto incantato e scosso contemporaneamente, senza capire nella visione se quel Roberto stringa un bambino o un animale. È uno dei momenti più enigmatici vissuti da quando sono partito.
Seguono As Rozas, Moimentos, Mercaidorio, A Parrocha, Villachá: pugni di case a cadenza costante che ritmano il mio procedere. I loro nomi hanno un suono tutto diverso da quelli incontrati nelle altre regioni spagnole, ad eccezione dei Paesi Baschi. Curioso: quelli erano i primi che attraversavo qui sul Francese, mentre ora sono ormai alla sua conclusione.
Patria del Santo e fine anche della terra, la Galizia è sperone verde a tuffo nell’oceano. C’è magia da queste parti, l’alquimista ha ragione, e io sono da solo in mezzo a tutto questo: è un miracolo riservato ai pochissimi che hanno sfidato quest’annata folle. Benedetto il giorno in cui ho deciso di partire!
Sta su un fiume, Portomarín, e i fiumi stanno in basso; infatti ora si scende, e cambia tutto nel camminare. Il peso va trattenuto, si contraggono altri muscoli, chi ha bastoni e sa come usarli prepara un’altra danza. I miei due sono diversi tra loro: uno era rimasto orfano nella Rioja e l’altro è il fratello adottivo rimediato ad Astorga; uno si muove silenzioso e leggero, l’altro l’esatto contrario, però mi divertono insieme. Li scambio ogni due, tre chilometri, o come viene. Roba da pellegrini: riti e abitudini che strappano un sorriso, ma salvano da dolori e squilibri. La voce del corpo si fa sentire, quella della testa riesce ad addormentarsi un po’, quella del cuore canticchia in continuazione e saluta ogni cosa io incontri – sembra quasi sia già stata qui.
Ad un tratto, davanti a me, scorgo altri due camminatori: una mantella rossa e una verde. Stavolta, però, non faccio corse per raggiungerli. Gli resto alle spalle per un po’, notando una cosa buffa: lui porta un grande zaino che lo fa gobbo come e più di me, mentre lei non ne porta nessuno e trotterella sculettando, parlando in continuazione mentre il compagno annuisce soltanto. Non è una bella scena, ma almeno contribuisce a farmi apprezzare ancor di più il mio viaggiare libero e solitario.
Quando la pioggia finisce, rallento fino a fermarmi, così da lasciarli proseguire e godere di qualche minuto di presenza profonda in questo fazzoletto di mondo. Fermo semplicemente a respirare, mi cade l’occhio sul braccialetto che Laura mi ha voluto dare in prestito prima che partissi. Amica unica e insostituibile, è pellegrina verso Santiago da diversi anni. Vittima di ferie troppo brevi, infatti, ha dovuto frazionare il percorso e non ha ancora raggiunto la meta.
Ma proprio mentre abbraccio il ricordo di lei, ecco all’improvviso un ricordo fulmineo: quando mi legò il braccialetto al polso mi disse che l’ultimo luogo in cui ha interrotto il suo cammino è proprio Portomarín!
*
Ricordo perfettamente quel momento e mi si riempie il petto di emozione. Ti chiesi: “Sei sicura di volere che sia io a portarlo oltre, fino a Santiago, senza di te?”. Con gli occhi lucidi, mi rispondesti subito di sì.
Ti confesso che non so ancora se riuscirò a raggiungere il campo delle stelle, amica mia, ma almeno fino a qui sono riuscito ad arrivare, hai visto? E tutta d’un fiato!
Che bello sarebbe se tutto il mio viaggio rimanesse impresso in questa striscia di tessuto blu; ti farebbe un po’ da cicerone quando verrà il tuo turno di tornare qui e completare quello che hai iniziato. L’importante, comunque, è che ti restituisca la sensazione di essere vicini, come ha fatto con me per tutti questi giorni.
La tecnologia è meno poetica di questa mia fantasia, ma di certo più efficace, così ti mando un vocale per condividere qualcuno tra questi pensieri appena nati. Mi rispondi con una faccina commossa, ma sono sicuro che sul tuo sorriso è scesa anche una lacrima vera: ho fatto centro. Ti voglio bene!
*
Una ventina di minuti dopo sono di fronte all’altissimo ponte che conduce a Portomarín. La vallata scavata dal fiume Miño è incredibilmente larga e profonda. L’acqua è abbastanza bassa e svela la presenza di un secondo ponte, molto più basso e datato.
Le rive sono ricoperte di erba smeraldina, da cui stranamente spuntano resti di antiche case. Prima di attraversare, passo qualche minuto in una pensilina che fa da punto panoramico. All’interno sono affissi dei cartelli che raccontano con testi e immagini la storia di questo luogo. Pare che la cittadina, in origine, stesse proprio lì sotto, ma nei primi anni Sessanta sia stata riedificata più in alto – nella posizione attuale – a causa della costruzione di un bacino artificiale che ha stravolto il normale flusso del fiume. Da allora, infatti, il livello dell’acqua può salire enormemente, sommergendo ogni volta i resti del paese originario.
Un’ultima cosa particolarmente toccante è che gli edifici più importanti – tra cui l’antica chiesa – furono smontati pietra dopo pietra, numerandone ognuna e ricomponendo il tutto nel mezzo del nuovo abitato. Incredibile!
Felicemente sazio di questa originalissima dose di storia locale, lascio la postazione e mi avvio verso l’altra sponda. Le vertigini mi fanno salire qualche brivido per la schiena, ma fortunatamente più che immobilizzarmi mi diverte. Il cielo è diviso a metà proprio sulla mia testa – nero da un lato e azzurro dall’altro – proprio come a un certo punto era già stato ieri. Le acque del fiume lo riflettono, tanto che sembra di vivere a cavallo di due istanti opposti.
Conclusa la traversata, mi imbatto subito in una rotonda da cui stranamente parte una ripida scalinata in granito, l’ultima fatica di questa tappa. In cima sta una una torretta con una cappella, passando sotto la quale si accede finalmente alle prime vie di Portomarín. Scopro solo più tardi che quello che ho salito non è altro che un pezzo dell’antico ponte.
L’albergue dove mi aspettano Tiziano e Amedeo è a due passi, tanto che scorgo quasi subito le loro sagome inconfondibili, vagamente simili a quelle di due moderni Don Chisciotte e Sancho Panza. Sono fuori dall’ingresso a fumare una sigaretta e quando mi vedono sembra sia una bella emozione per tutti e tre. Celebriamo subito con un brindisi a base dell’immancabile cerveza, iniziando immediatamente a condividere qualche cronaca dei due giorni di cammino separati.
Dopo non molto, però, la pioggia ci obbliga a ripararci all’interno, e io ne approfitto per darmi finalmente una sistemata. Ci regaliamo poi qualche ora di sano riposo, ma appena smette di piovere confermo di essere rimasto il solito, andando a farmi un giro da solo in paese. Devo rifornire le mie scorte, ma come sempre sono anche curioso di scoprire il luogo dove mi trovo. Soprattutto, m’interessa visitare la famosa chiesa ricostruita, che ho scoperto essere una vera icona per il Cammino. Purtroppo la trovo avvolta dalle impalcature, e nemmeno l’interno si rivela particolarmente entusiasmante: peccato.
La sera ceniamo in una semplice trattoria, dove ritrovo a sorpresa Lidy, che però resta seduta in un tavolo separato. Mentre mangiamo e beviamo, ragioniamo sul fatto che mancano solamente tre o quattro tappe per concludere questo viaggio tanto avvincente, e ormai ha davvero poco senso che io mi divida ancora dai due amici. Il Cammino sembra aver insistito perché ci ritrovassimo ed è un invito che scegliamo di accogliere con un entusiasmo tutto nuovo.
I passi di ritorno dal ristorante, brilli e nel buio della sera, si colorano di una confidenza già tornata a pieno regime. Pur nella goliardìa del momento, la consapevolezza di quanto vissuto tocca il suo apice: i passi condivisi e quelli no sembrano diventati pieni e vuoti di una collana che sta per prendere la sua forma definitiva, ma che ormai già mostra la sua straordinarietà. Non resta che aspettare il gioiello che la renderà unica: quegli ultimi passi lenti ai piedi del grande santuario, quell’incontro verso cui ogni cosa si è orientata fino a qui.
(La casa del Alquimista)
30km
Stamattina O Cebreiro è invasa da un nebbione che la fa sembrare ancora più grigia di ieri, ma incredibilmente anche così conserva un fascino indiscutibile. La sensazione è che qui sia concentrata un’energia unica e fortissima. Chissà se il mio sesto senso dice la verità o se il mood pellegrino ormai mi ha dato alla testa.
Mentre una parte del cervello ancora si gongola tra riflessioni simili, l’altra è tutta concentrata a guidare il soldatino Roberto in quella sequenza di gesti che più o meno è sempre la stessa da quasi tre mesi. Preparata ogni cosa, non resta che far scorta di energie con una buona colazione. L’unico posto aperto è lo stesso dove abbiamo cenato e, come d’accordo, si unisce a noi anche Martin.
Così come dopo la Cruz de Hierro, anche qui ci sono due opzioni per scendere il primo tratto: per sentieri o seguendo la strada asfaltata. Tiziano convince Amedeo che quest’ultima sia la soluzione migliore. Conosce già il sentiero e sostiene abbia una gran quantità di inutili saliscendi. Mi fido della sua esperienza, ma l’idea di calpestare terra e sassi mi piace comunque di più.
Con una sorta di amara naturalezza, quindi, capiamo che ci stiamo di nuovo dividendo. Non avevo dato per scontato nulla, anzi, una parte di me è felice di mantenersi coerente alla scelta fatta prima di Astorga, ma dopo queste tappe folli non ci stava poi così male una reunion fuori programma. Niente può rovinare la ricchezza di tutto quanto di bello abbiamo vissuto, ma la realtà è che, pur condividendo una meta, siamo animati da spinte differenti. È giusto che ciascuno segua la via che reputa più adatta a sé, e va accettato. La speranza che custodisco è quella di ritrovarci ancora, presto o tardi, e scoprire che l’inatteso tira e molla che stiamo vivendo non avrà compromesso questa amicizia appena nata ma, al contrario, ne avrà rese solide le fondamenta.
Prima di partire, avevo letto spesso di quanto sia normale perdersi e ritrovarsi sulla via di Santiago, ma non ho mai trovato molto riguardo alle implicazioni emotive che ciò porta con sé. Ora che le sto vivendo in prima persona, capisco meglio quanto ampia e profonda possa diventare quest’esperienza. Il Cammino è soprattutto un laboratorio di vita straordinario; l’ho già detto e ne sono sempre più convinto.
Sono riflessioni che condivido anche con Martin, mentre spalla a spalla cominciamo questa tappa che ancora non so fin dove ci porterà. Sotto di noi, oltre qualche fila d’alberi, scorgo gli altri due amici. Guardo l’orologio: sono già le nove, siamo partiti tardi. Meglio lasciare volare via i pensieri troppo astratti; torneranno, ma ora c’è un presente da vivere.
Noto che il mio nuovo compagno di viaggio anche oggi porta i pantaloncini nonostante la temperatura non sia delle migliori. Mi spiega che ha solo un paio di pantaloni e non vuole rischiare di bagnarli. Se piovesse, infatti, poi non avrebbe di che coprirsi la notte. Non sarebbe un problema se trovasse il denaro per pagarsi un albergue, ma al momento non ha nessuna certezza.
Ancora una volta, i risvolti pratici della sua scelta mi toccano a fondo e mi interpellano. Ho una nitida attrazione dentro me verso il tuffo che lui e Gregory hanno deciso di fare, ma contemporaneamente soffro la paura di uno slancio simile al solo pensarci. Mi è costato già molto trovare il coraggio di lasciare tutto e partire per quest’avventura, nella quale sto mantenendo sì un regime di spesa ridotto, ma niente a che vedere con quello che loro stanno vivendo.
Mi limito quindi a immaginare il mio pellegrinaggio come e quanto sarebbe stato diverso, e lascio questo seme in un angolo del cuore. Sarò curioso di scoprire se darà frutto oppure no.
Il bosco fa compagnia alle nostre parole e ai nostri passi, accogliendoli col suo abbraccio solenne e silenzioso. Camminarci è garanzia di benessere, perché la sua bellezza e il suo respiro aiutano il tumulto interiore ad assestarsi.
Di quando in quando, il sentiero ne esce e ci fa assaggiare nuovi scenari di questa terra. Le cime attorno a noi, basse ed alte, non trasmettono mai un senso di minaccia, non sembrano ostacoli da superare, ma semplicemente terra viva e da vivere. Boschi e pascoli si spartiscono quasi ogni superficie, e i segni della presenza umana si limitano quasi del tutto al silenzio delle strade e ad alcuni piccoli paesi sparsi qua e là. Per fortuna la nebbia sembra non averci seguiti, anche se il cielo è comunque un gran lenzuolo bianco.
Il passo di Martin è lento, ma la conversazione è un piacere e un continuo arricchimento. Scopro che tatua in maniera itinerante in giro per l’Europa. Mi parla di come è arrivato a fare questo mestiere, dell’eredità che gli hanno lasciato gli studi che ha fatto e di alcuni desideri che custodisce per il suo futuro.
Dopo nemmeno tre chilometri, il sentiero con cui abbiamo scelto di partire è già terminato. Finiamo quindi anche noi per incanalarci sulla strada asfaltata percorsa da Amedeo e Tiziano, ma di loro non c’è traccia.
Attraversiamo le poche case e capanni di Liñares, arrivando poi al primo punto significativo della tappa di oggi, l’Alto di San Roque, con la famosa statua del pellegrino controvento. Fa parte dei luoghi simbolo del Cammino, eppure non sento scatenarsi dentro me nemmeno un germe d’entusiasmo. Qualcosa sta frenandolo, e purtroppo credo sia lo stesso Martin.
Sembra io sia riuscito a metterlo a suo agio, e così ora sta aprendosi molto generosamente. Ha davvero tanto da condividere per l’età che ha. Ad ogni nuova finestra che apre su di sè, però, sento rafforzarsi l’impressione che custodisca un malessere molto acuto e radicato. Non è facile coglierne i confini, perché il ragazzo si esprime con un candore innato, ma il contenuto e il sapore di ciò che mi comunica sono carichi di dolore.
Quello che però mi spaventa davvero è qualcos’altro: contrariamente al suo essere lungo questa via e al modo stesso in cui sta vivendo il Cammino, ho come la sensazione che Martin sia attratto da ciò che lo logora. Non è qualcosa di disumano, il contrario, ma è una forza vera e propria di cui percepisco la pressione. Ad esser sincero, quello che provo è ancora più inquietante: è come se, pur non volendolo, sia in qualche modo velenoso, come se quello che ha dentro tenda a voler espandersi fuori da quell’abisso, inoculandosi anche in chi gli sta di fronte.
Potrebbero essere percezioni sbagliate, ma è quello che sto provando. Aldilà di tutto, comunque, è un’energia talmente intima, multiforme e controversa, che ogni giudizio sarebbe totalmente inadeguato. C’è solo una cosa che posso fare: accettarne la presenza o allontanarmene.
Non è la prima volta che vivo un’esperienza simile, d’altronde da sempre quello che più mi spinge a conoscere una persona sono le sue emanazioni profonde, e non è raro che calandosi in immersioni simili si rischi qualcosa. Questo però non annulla la mia attrazione: continuo comunque a sentire il bisogno e la chiamata a vivere questo tipo di incontri, attraverso il dialogo e la prossimità.
Certo, si corre sempre il rischio di addentrarsi troppo, soprattutto quando si tratta di anime dolenti. Quando la fragilità è tanta e già si percepiscono energie controverse, bisogna mantenersi cauti e prudenti, sia per sé stessi che per la persona che si ha di fronte. L’opportunità di donare qualcosa – dell’ascolto, per esempio – può trasformarsi rapidamente in un’arma a doppio taglio, magari lasciando anche ferite che non ci si sarebbe mai aspettati, o infezioni dello spirito tutt’altro che innnocue.
In verità, credo che anche dentro di me vivano le stesse spore che percepisco in Martin; con tenacia, però, sto imparando a conoscerle e a gestirle. A volte ci riesco straordinariamente bene ed esplodo di una luce che non avrei mai immaginato, mentre in altre occcasioni inciampo ancora come un principiante, e non è stato raro che qualcuno ne abbia pagato le conseguenze.
Sarei tentato di parlarne col mio compagno di strada e raccogliere la sua opinione, ma scelgo invece di trattenere tutto quanto, e semplicemente proseguire ancora un po’. Dentro me ho già capito che il nostro tempo insieme è agli sgoccioli, ma lo vedo sorridente, e vorrei che ricordasse questo del nostro incontro.
Mentre le nuvole per un attimo lasciano spazio a qualche sprazzo di sole, attraversiamo il paesello di Hospital e ci dividiamo tra bordo strada e sentieri fino alla microscopica Padornelo.
Saliamo poi fino all’Alto do Poio: nient’altro che un incrocio su di un crinale a 1330 m d’altitudine, con un hostal e un albergue che sembrerebbero chiusi. Qui, d’un tratto, un cagnone dal pelo lungo ci si avvicina, lentamente e senza abbaiare; è evidentemente del posto. Ha l’aria tranquillissima e affettuosa, così gli porgo la mano aperta, dimenticando totalmente l’episodio vissuto ieri da Martin. Quando me ne ricordo è già tardi: alzando lo sguardo, lo trovo con gli occhi sbarrati e come immobilizzato, tremolante tanto per il freddo che per la paura.
Il cane continua a starmi attaccato per farsi beatamente accarezzare. Ne approfitto per trattenerlo e dico al giovane pellegrino di proseguire. Annuisce, ma prima vuole domandare in albergue se hanno qualche oggetto dimenticato da altri pellegrini. È uno dei modi con cui procurarsi attrezzatura quando non si hanno soldi, e credo che nella sua semplicità sia molto ingegnoso. Se ne esce poco dopo con un materassino isolante: non il bottino che avrebbe voluto, ma pur sempre qualcosa di molto utile per lui. Lo lascio passare, poi saluto l’amico a quattro zampe e lo raggiungo.
Mentre tenta di infilare nello zaino il materassino, mi accorgo di quante poche cose abbia con sé e capisco ancora meglio la sua temerarietà. Tra l’altro, ogni volta che smette di camminare, ricomincia a tremare, è incredibile. Decido allora di prestargli la mia mantella: quando si è in moto, crea un “effetto serra” perfetto che ho sperimentato con sollievo in moltissime occasioni.
Accetta più che volentieri, ma mi chiede comunque di fermarsi qualche minuto. Queste soste frequenti, però, stanno già mettendo a dura prova la normale propulsione che mi muove da quasi tre mesi: è come se sentissi le mie gambe urlarmi contro per ripartire. Parlando col corpo così come con la natura da svariate settimane, mi ritrovo così a tranquillizzarle quasi fossero due figlie, promettendo loro che non faremo altre pause per un po’.
Dopo lo scollinamento, restiamo a mezza costa, proseguiamo per piste e sentieri molto ariosi e raggiungiamo beatamente la piccola Fonfría. Spero che grazie alla mantella e alla discesa appena cominciata, Martin ritrovi un po’ di vigore. Verso le 12:30, però, ha bisogno di fermarsi ancora. Questa volta perlomeno c’è un po’ di sole e di fronte a noi un gran pascolo in pendenza, con solo una dozzina di vacche a godersi l’erba verdissima – praticamente una cartolina!
I discorsi vertono ormai da un po’ sul suo lavoro. Mi spiega con quale filosofia lo affronta, come si relaziona coi clienti, ma soprattutto qual è il suo rapporto con il disegno. Parla del fatto che non si interessa minimamente di imparare uno stile, perché per lui disegnare è soprattutto uno strumento per dar sollievo a ciò che prova profondamente dentro di sé. Senza che il suo viso si rattristi, mi tratteggia l’incidenza di certe angosce sulla sua vita e mi racconta di come le riversi nell’arte.
Non sono certo temi facili, ma anch’io ho vissuto in passato delle stagioni del tutto simili e ascoltarlo condividere così intimamente la sua esperienza, anche se dura, non aumenta troppo il mio disagio.
A O Biduedo, poco dopo essere ripartiti, ci fermiamo ancora un minuto a godere del passaggio di una piccola mandria. Entrambi abbiamo un’attrazione istintiva per le bestie che ci sfiorano: come bambini, restiamo incantati anche solo dalla possibilità di accarezzarle.
Una larga curva del percorso, poi, inaugura un netto accentuarsi della discesa e scopre una visuale tutta nuova: i rilievi si fanno sempre più bassi e le valli si aprono. Il verde rimane dominante, soprattutto quello dei pascoli a perdita d’occhio. La bellezza di questi paesaggi mi riempie occhi e anima.
Martin comincia a parlarmi con entusiasmo di un’altra sua passione: i graffiti abusivi. Mi spiega nello specifico quale genere intenda e, anche se ammetto di reputarli veri imbrattamenti, non so nulla dell’adrenalina che sta alla base di quel genere di esperienza e lo ascolto con sincero interesse. Purtroppo però, nonostante la sua verve nel dialogo sia aumentata, sembra che dal punto di vista fisico le sue condizioni stiano costantemente peggiorandoe. Anche la semplice discesa che ci ha portati a Filobal lo costringe a fermarsi per l’ennesima volta. Malauguratamente la cosa dà il colpo di grazia alla pazienza del mio fisico, e con dispiacere gli confesso di non poter riuscire a proseguire oltre in quel modo. È un po’ amareggiato, ma capisce.
Mi propone però un’ultima cosa, di mostrarmi il diario dove ogni giorno scrive e disegna. Accetto, ma intuendo che sta per aprirsi la finestra più grande, e non mi sbaglio. In quei disegni trovo la rappresentazione di tutto quello che avevo percepito e a cui mi aveva accennato, e ne resto inevitabilmente molto turbato. Contravvenendo al proprsito che mi ero dato, questa volta gli restituisco parte di queste emozioni, cercando di garantire comunque il massimo rispetto per il suo percorso coraggioso e affatto semplice. Infine lo saluto, davvero col cuore in mano; aprendosi così intimamente, mi ha donato moltissimo. Gli lascio qualcosa perché possa dormire al caldo stanotte a Triacastela, e prima di dividerci ci abbracciamo forte e a lungo.
Quando riprendo a scendere, il mio corpo sembra voler esplodere tutta l’energia trattenuta. In pochissimo tempo arrivo tra le case di Ramil, e qui resto letteralmente a bocca aperta. A scatenarmi questo stupore improvviso è la vista di un albero incredibile. Si tratta di un castagno dal fusto tozzo, larghissimo e straordinariamente nodoso – sembra uscito da una fiaba, molto più di quello incontrato scendendo verso Molinaseca. Sono letteralmente incantato, gli giro attorno, lo tocco come se fosse un’apparizione. Noto poi un pannello informativo, lì a due passi, e scopro che l’età di questa pianta si aggira intorno…agli ottocento anni! È una misura di tempo che mi rendo conto di non riuscire nemmeno ad associare ad un essere vivente, e credo sia la prima volta che mi capita.
Mentre sono in balìa dell’immaginazione che mi fa viaggiare tra i secoli, regalandomi visioni di cavalieri e pellegrini che sono passati sotto i suoi rami, spuntano da non so dove Alexandre e Aurora. La scena sembra una replica del nostro primo incontro: Alexandre, infatti, oltre che il mio medesimo stupore per quel luogo, esprime tutto il suo piacere per esserci ritrovati. Aurora, invece, nuovamente fatica nuovamente a nascondere quanto poco gradisca la mia compagnia. Esattamente come la volta scorsa, però, restiamo comunque insieme fino a raggiungere il paese più vicino – in questo caso Triacastela – dopodiché ci separiamo.
È bene io decida presto cosa fare. Una cosa è certa: ho voglia di camminare. Il problema, però, è che sono già le due e mezza del pomeriggio e la prossima cittadina che potrebbe offrirmi possibilità di alloggio è Sarria, ma sta a 18 km da qui. Ben lungi dall’essere un’impresa impossibile, faccio bene i miei conti. Ho bisogno di mangiare qualcosa, ma so che non devo fermarmi troppo o salirà anche la stanchezza, e soprattutto ritarderei esageratamente il mio arrivo.
Ci sarebbe anche una via alternativa, più lunga, ma che fa tappa a Samos, a soli 9 km. So che lì c’è un monastero bellissimo e famoso, e l’idea di pernottarci non mi dispiacerebbe. Provo a chiamare la manciata di albergues di quel paese, ma uno solo risponde. È il proprietario, dice che purtroppo sono chiusi, ma sostiene che dovrebbe comunque esserci qualcuno che ha tenuto aperto e mi invita a raggiungere Samos anche senza prenotazione. Ringrazio per il consiglio, ma scelgo di no. Se non trovassi alloggio, la variante risulterebbe ben sei chilometri più lunga della prima via che ho considerato.
È deciso, quindi! Si va dritti a Sarria.
Cerco un negozio di alimentari sia per il pranzo che la cena, ma anche questi sono tutti chiusi. Non mi resta che mangiare nell’unico ristorante aperto, e per stasera si vedrà. All’interno ritrovo la coppia lasciata poco prima. Si stanno gustando un pranzo succulento e abbondante, mentre io ordino solo una tortilla.
La sosta fa affiorare fatiche e tensioni: la mattinata sui generis mi ha davvero frastornato. Cerco comunque di non pensarci troppo e, una volta divorato il mio pasto povero e ipercalorico, riparto in quarta.
La scelta di non esagerare a tavola e rimettersi subito in marcia pare ripaghi: mi sento rinvigorito, addirittura eccitato per i chilometri che ancora mi aspettano.
Purtroppo, sfortuna vuole che io perda una svolta dopo nemmeno mezz’ora di cammino. Quando me ne accorgo, escludo immediatamente l’idea di tornare indietro; mi farebbe perdere ancora più tempo. Sono su una strada asfaltata piuttosto isolata tra alcune colline e sono convintissimo che il sentiero corretto non sia poi troppo distante. A dispetto delle mie previsioni, però, resto incagliato per minuti e minuti a zoomare mappe microscopiche sullo schermo del mio smartphone, riuscendo a ritrovare la rotta solo con gran ritardo.
Arrivato finalmente in cima alla collina, nei pressi di San Xil, la vista del paesaggio tutt’attorno riesce a rilassarmi un po’. Peccato solo che sopra la mia testa il cielo si divida nettamente a metà: alle mie spalle un manto azzurro con qualche nuvola graziosa, mentre davanti a me non c’è altro che un fronte compatto, grigio e spesso, che minaccia pioggia imminente. Poco importa, va bene anche così. D’altronde non ho scelta, e comunque certe manifestazioni della natura sono talmente affascinanti da farmi passare ogni preoccupazione.
Le prime gocce cominciano a scendere poco dopo, ma riescono addirittura a mettermi allegria. Un piccolo scollinamento, e poi il sentiero scende a tuffo nel bosco.
Un mojon segna -125,631 km da Santiago. Quelli galiziani sembra siano tutti così: hanno una targhetta in ottone con la distanza restante espressa con tre decimali. Non capisco questa inutile minuzia, il cui maggior risultato è quello di sentirsi letteralmente assillati. In questo modo, proprio quando siamo più vicini alla meta, i chilometri sembrano non passare mai. La cosa mi disturba a tal punto che inizio a girar lo sguardo ad ogni cippo che incontro. È fastidiosissimo anche così, ma almeno mi risparmio il brusio incessante della mia calcolatrice interiore.
Costeggiando pascoli che non hanno nulla da invidiare a quelli visti in Francia, arrivo infine alla frazioncina di Montán, dove mi imbatto in una graditissima visione: un portone spalancato svela un ex-fienile adibito magnificamente a grande salotto, e sotto il mio naso campeggia una tavola imbandita di ogni ben di Dio. Tra frutta, succhi e biscotti, noto un cartello con scritta una parola che quest’anno sul Cammino è una vera rarità: DONATIVO. Il messaggio, così come l’atmosfera marcatamente hippie, fanno naturalmente riaffiorare in me tutte le belle emozioni legate alla Casa de los Dioses. Sono passati solo quattro giorni, ma con tutto quello che è successo sembra passato un mese. Felice per l’inattesa rievocazione di quei ricordi e incantato dal posto che ho scoperto, addento una mela ed entro per guardare più da vicino ogni cosa.
Il salotto è colmo di mille decorazioni, e si affaccia su un cortile che non gli è da meno. Su una parete sta appeso una grande insegna dipinta a mano: c’è scritto Terra de Luz, probabilmente il nome con cui è stato battezzato questo posto. Alla fine del cortile c’è un’abitazione a due piani con porta e finestre aperte. Nonostante non mi trovi in un negozio e sia evidente l’invito a sentirsi come a casa propria, provo comunque un po’ di disagio e decido di comunicare ad alta voce la mia presenza. Tanto basta perché dalla porta spalancata esca un ragazzo alto, dai capelli lunghi e con un gran sorriso che gli spunta tra la barba. Si chiama Simon, ed è australiano. Gli faccio grandi complimenti e finiamo col fare due parole.
D’improvviso, poi, da una porta secondaria spunta anche una pellegrina francese che avevo già visto, ma non ricordo dove. Arriva dal giardino, dove Simon mi ha detto esserci un labirinto costruito da loro. La ragazza ha evidentemente appena smesso di piangere, ma si capisce che sono state lacrime sane, di commozione. Probabilmente gliele ha scatenate il luogo, e un po’ la capisco.
Da come mi saluta, anche lei sembra riconoscermi, ma entrambi abbiamo bisogno di presentarci ancora. Si chiama Lidy, e la cosa che tiene fin da subito a comunicare è che ha intenzione di andare a Samos. Mi stupisce, non sapevo ci fosse una strada che ci arrivi da qui. Ad ogni modo, le spiego qual è stato l’esito delle mie telefonate poche ore prima, ma proviamo comunque a ripeterle. Il risultato, però, non cambia.
Dopo un primo disorientamento, decide che io sono “un segno del Cammino” e, anche se Sarria è lontana, vuol dire che lei deve arrivare fin là con me. Lo dice con una serietà che mi lascia un po’ perplesso, ma la cosa mi pare simpatica e accetto divertito il nuovo ruolo di inconsapevole messaggero mistico.
E così, dopo una piacevole merenda e altre chiacchiere con Simon, arriva il momento di ripartire. Non passano nemmeno dieci minuti, però, che ci imbattiamo in un cartello colorato che richiama molto il luogo che abbiamo appena lasciato. È l’indicazione per una certa Casa del Alquimista. Si trova a poche centinaia di metri e sembra offrano la possibilità di pernottare.
Gli occhi di Lidy si spalancano. Subito mi dice che già una volta aveva incontrato un luogo che si presentava in maniera simile ed era stata la sua salvezza, così insiste perché deviamo per andare almeno a chiedere informazioni. Vorrei dirle che non c’è bisogno per ogni cosa di metterci tutta questa enfasi, ma accetto in silenzio, perché in fondo in fondo questo suo stile mi diverte.
Quando arriviamo, ci troviamo davanti a un cortile e una grande veranda del tutto simili a quelli di Terra de Luz. Ci vengono ad accogliere Laissa e Camille, due giovani pellegrine che hanno scelto di fermarsi qui anziché proseguire fino a Santiago: la prima da un paio di settimane, la seconda molte di più. Sono incredibilmente calme e solari, ciascuna a modo proprio. Ci dicono subito che è un piacere se restiamo, e per noi è più che sufficiente per accettare. Beviamo insieme una tisana, dopodiché visitiamo con loro la casa.
È un luogo è magico e ammaliante. Il proprietario si chiama Armiche: è un artista e le opere che riempiono la casa sono fatte da lui e da suo padre. Fu questi il primo Alquimista, ma è morto qualche tempo fa.
Tutti i quadri sono coloratissimi e particolarmente evocativi, costruiti attorno a simbologie fondamentali. La superficie opaca e granulare fa capire che sono fatti con polveri minerali, in perfetta sintonia con lo spirito che li pervade e ciò che sembrano rappresentare. La casa ne è piena; è un luogo spartano, ma quelle opere e molti altri dettagli le donano eleganza e la rendono molto calorosa. C’è anche una sala per la meditazione, tutta in penombra, allestita con tappeti e campane tibetane.
La visita si conclude con un rapido passaggio nel laboratorio di Armiche. È uno spettacolo d’altri tempi: ordinati minuziosamente, ci sono raccolti tantissimi bicchierini tutti uguali, contenenti ciascuno della polvere minerale di colore diverso. È chiaro, quella che abbiamo davanti non è altro che la sua tavolozza. Wow!
“L’alchimista” ci raggiunge poco dopo. È un ragazzone simpatico e garbato, mezzo gallego e mezzo canario, come dice lui. Ci chiede se siamo noi la coppia che gli ha scritto, ma gli spieghiamo che siamo capitati qui quasi per caso. Quelli del messaggio, invece, arrivano poco dopo, e a sorpresa sono Alexandre e Aurora. Ancora una volta il Cammino fa incrociare le strade dei suoi pellegrini in maniera imprevedibile. Anche loro vengono accompagnati a fare un giro della casa, mentre a me e Lidy viene mostrata la stanza. C’è un letto a castello, un armadio e tanti quadri, niente più: è perfetta. La finestra si affaccia su un orto, dopo il quale la vista può proseguire tra colline e vallate a perdita d’occhio.
Scopro che non c’è il riscaldamento. Me lo aspettavo, ma sono tranquillo: per fortuna ho tutto quello che mi serve. Lidy, invece, non ha con sé il sacco a pelo e così lascio che prenda lei tutte le coperte di lana che sono nell’armadio. Spero questa notte di non pentirmene.
La doccia oggi scelgo di non farla, e si rivela una scelta a suo modo utile, perché l’acqua calda non arriva comunque a bastare per tutti.
Lidy si mette a disegnare in veranda, ispirata da tutta l’arte che ha attorno. Io invece mi regalo un momento nella sala della meditazione. Mi raggiungono poi anche Aurora e Alexandre, e iniziano a suonare le campane tibetane – lei con gran padronanza, lui molta meno. Mi unisco anch’io, ma mi dimostro a mia volta un vero imbranato. Diventa un momento divertente e pacificante allo stesso tempo.
Riesco poi a scambiare due parole anche con Laissa. È brasiliana, ha studiato architettura e recita per passione. Camille invece sta in cucina a preparare la cena. Sforna un piatto vegetariano gustoso e molto ben presentato, anche se la quantità è un po’ misera per i miei bisogni, ma la gioia di questo momento mi aiuta a non pensarci.
Alla fine del pasto Armiche proporne un gioco divertente per decidere chi laverà i piatti. Ridiamo di gusto per un quarto d’ora e io ne esco pure vincente, ma avevo capito che sarebbe passato al lavello il perdente, non il contrario. La cosa comunque non mi dispiace, e diventa un buon motivo per farsi altre risate.
Purtroppo l’unica sorpresa negativa è che, appena ho finito di lavare, tutti si alzano e cominciano ad andare a letto. Non ci posso credere, davvero non me l’aspettavo. E io che mi immaginavo di passare almeno un altro paio d’ore con loro, ascoltando storie, giocando e bevendo tisane. Spero almeno che la ragione sia dormire a sufficienza per riuscire ad alzarsi presto domani mattina. In quel caso sarei molto contento: prima si parte, prima si arriva.
Nel silenzio della casa, imbacuccato nel sacco a pelo, mi domando come sarebbe fermarsi qui come Laissa e Camile, oppura alla Tierra de Luz. È curioso anche che due realtà così originali e vagamente simili tra loro abbiano messo radici nello stesso fazzoletto di terra.
A dir la verità, per quanto ci sia appena entrato, ho come l’impressione che sia la stessa Galizia ad emanare un prorpio magnetismo, forse per via di questa armoniosa dominanza di verde, chissà. In ogni caso, non c’è modo migliore per abbandonarsi al sonno che lasciarsi abbracciare da queste suggestioni, e dalla certezza luminosa che partire è stata davvero un’idea grandiosa.
(Albergue Municipal)
37km
Prima sveglia in solitaria da tempo immemore. Sorprendentemente, nonostante la maratona di ieri, i piedi sembrano stare abbastanza bene. A questo punto mi domando quanto riuscirei a camminare con uno zaino più leggero. Addirittura, per un istante mi immagino già a esplorare spicchi di mondo con questo passo. Alcuni ho scoperto che già lo fanno. Chissà!
Nella calma della stanza, mi regalo la mia colazione abituale, poi preparo tutto e mi metto in viaggio. Sono le 8 e in cielo non mancano delle grandi nuvole, ma qualche ritaglio di azzurro mi è sufficiente per partire pieno di slancio e ottimismo.
Uscito dal centro, attraverso il río Cúa e passo di fronte al Santuario de Quinta Angustia. Qualche guida lo cita e ieri avrei potuto visitarlo, ma non mi pento di aver dato un po’ di tregua ai piedi.
Lungo una strada in leggera salita, mi godo i paraggi stracolmi di vigne e uliveti. Raggiunta Pieros, constato quanto fosse vicino l’albergue a cui ho rinunciato ieri. Chissà se Alexandre e Aurora sono già partiti stamattina.
Poco dopo mi faccio ingolosire dalla variante su asfalto che mi risparmia la visita a Valtuille de Arriba. Sono consapevole che mi perderò un’immersione tra vigneti magnifici, ma ridurrò un po’ il chilometraggio, e oggi va bene così.
Incrocio un ragazzone con i dreadlocks che sta camminando in ciabatte nella direzione opposta alla mia. Non ha nulla con sé, quindi suppongo non sia un pellegrino. Quando mi vede, però, senza prima salutare né domandare nulla, mi rimprovera per essere rimasto lungo la strada e non aver seguito il percorso indicato. Ma guarda te! Ad ogni modo, io mi sento talmente a posto con la coscienza che gli rispondo solo con un sorriso sincero, lasciandolo piuttosto stranito.
La lingua d’asfalto prosegue assecondando le morbide onde delle colline. Forse come in nessun altro posto fin qui, i toni caldi dell’autunno si scatenano sulle foglie di ogni singola pianta. È un paesaggio capace di attrarre incredibilmente a sé, e attraversarlo regala grande gioia. Molto in lontananza, alla base di un pendío, vedo anche un agglomerato di case più grande di altri e mi convinco sia Villafranca del Bierzo, seppur con molti dubbi.
È già passata un’ora da quando ho iniziato a camminare in questo paradiso, e devo dire che aver scelto il percorso alternativo non è stata poi un’idea così malsana. Ad un tratto, però, un cippo mi indica che è tempo di ricollegarmi alla via originale. Ancora una volta ha stampata la distanza mancante a raggiungere Santiago, e credo che d’ora in poi sarà sempre così. Si potrebbe pensare sia piacevole restare aggiornati sui chilometri ancora da percorrere, ma per me ha anche un risvolto fastidioso: leggere in continuazione questi numeri, infatti, aumenta la tendenza a badare al chilometraggio – come se non bastasse quella che già ho per mio conto!
Per fortuna, però, il sentiero mi culla tra i pendii sinuosi di queste colline e ogni preoccupazione si dissolve alla svelta. La coloratissima parentesi tra i vigneti del Bierzo si conclude con la discesa d’asfalto che conduce alla tanto attesa Villafranca. Posta da tutt’altra parte rispetto a dove mi ero immaginato, è incastonata ai piedi dei alcuni monti oltre i quali comincia la Galizia, l’ultima regione che incontrerò nel mio pellegrinaggio.
L’impatto è davvero suggestivo: in cima ad un colle centrale, svetta la chiesa dedicata a San Francesco. Sembra una sentinella che vigila su tutto quanto le sta intorno, ed è il perno visivo del magnifico scenario che ho di fronte. Ne incontro subito un’altra, dall’aria molto antica: è dedicata al buon Santiago, ma sfortunatamente si accoda all’infinito elenco di portoni serrati incontrati finora.
Poco dopo ecco il Castello, tozzo e senza fronzoli. Da qui un inaspettato saliscendi mi conduce prima in Plaza Mayor e poi in un’altra area dall’aspetto più maestoso, con la chiesa di San Nicolas El Real, il giardino dell’Alameda e la collegiata di Santa Maria. È incredibile che una cittadina così piccola accolga una concentrazione tale di luoghi tanto sorprendenti! Sarebbe stata una meta di tappa perfetta, ma pazienza. Questa volta è andata così.
Prima del ponte medievale sul río Burbia, l’ennesima statua del pellegrino mi porge il saluto di Villafranca. Superate le ultime case sulla sponda opposta, infatti, il mio attraversamento mio malgrado già si conclude. La strada asfaltata va quindi immergendosi in una stretta valle verdeggiante, scavata dal río Valcarce, affluente del primo.
Purtroppo, però, l’armonia del paesaggio impatta presto in un ospite molto ingombrante: la sopraelevata Autovia Noroeste, che collega Madrid a La Coruña, un serpentone d’asfalto di cui dovrò iniziare a sopportare la presenza.
Il percorso per il camminatore consiste in una pista ben protetta che corre parallela alla statale. Quest’ultima si snoda in larghe curve, come se giocasse tra i piloni della sorella maggiore che incombe sopra la mia testa. Entrambe hanno gli stessi punti di partenza e di arrivo, ma per fortuna quella al mio fianco non è molto trafficata.
A un certo punto, supero una coppia di pellegrini francesi che ancora non avevo conosciuto. Mi salutano cordialmente, e io faccio altrettanto, ma stavolta non tento nemmeno di attaccar bottone; sto bene così.
La svolta per Pereje diventa una gradita interruzione alla monotonia. È un piccolo paesino senza troppi fronzoli, ma con il pregio di avere una preziosissima fontanella pubblica. Il tubo da cui dovrebbe sgorgare l’acqua, però, spunta direttamente da una parete di roccia, senza che si vedano rubinetti o pulsanti. Eppure la vasca di pietra dove va a riversarsi ha le pareti umide, il che conferma sia funzionante. Proprio non riesco a capire come attivarla: dopo qualche tentativo, ho l’impressione di essermi rincretinito. Com è possibile che non ci riesca? Intuisco di dover smantellare la forma mentis per cui una fontana pubblica funzioni sempre e solo con meccanismi tradizionali, e così mi viene il dubbio che forse qui si siano ingegnati con una soluzione innovativa. Così è, infatti: il pulsante per attivare il flusso d’acqua è di quelli da premere coi piedi, ma è mimetizzato a terra in maniera geniale, quasi perversa. L’idea è bizzarra, ma riesce a strapparmi un sorriso mentre riempio la borraccia.
Nel frattempo vengo raggiunto dalla coppia di prima. Stavolta mi presento, e regalo loro anche le brioche al cioccolato che mi sono avanzate. Ieri, infatti, avevo comprato una confezione famiglia ad un prezzo stracciato, ma stamattina ne ho già mangiate cinque, tra colazione e spuntini, e suppongo sia meglio non andare oltre. Con malcelato orgoglio, gli mostro anche l’ingegnoso meccanismo della fontana, ma senza riuscire a produrre la mia stessa sorpresa.
Può sembrar strano, ma per un attimo ho l’intuizione che questo microscopico episodio racconti qualcosa di molto ricorrente nella mia vita. Ad ogni modo, bevo un ultimo sorso d’acqua fresca e ritorno sulla pista di fianco alla statale.
Fin quasi dall’inizio del mio pellegrinaggio, spezzoni noiosi come questo mi spingono a trovar qualcosa per occupare il tempo, nella speranza di farlo scorrere un po’ più velocemente. Solitamente le soluzioni sono due.
Una è cominciare a camminare con una certa cadenza inventata da me: è un ritmo fatto di passi e mezzi passi che potrebbe sembrare assurdo, ma che in realtà nasce dalla necessità di variare il più possibile i punti di appoggio del piede, e ormai posso dire per certo che funziona ottimamente.
L’altra occupazione la coltivo quotidianamente, e risulta perfetta anche per questi momenti: si tratta di un pregare secondo un modo tutto mio, molto intimo. Eterno scettico, ma anche testardo credente nel profondo, negli anni passati ho scelto di approfondire almeno un po’ quale sia il senso e la forza della preghiera ripetitiva. Il risultato è che ho finito con l’abbracciare la struttura del rosario, ma ristrutturandolo profondamente.
Senza stare ad approfondire, quello che conta è che sia la strategia atletica sia quella spirituale riescono sempre nel loro obiettivo, rendendomi gratificanti anche le percorrenze più monotone.
Mentre sono immerso in queste pratiche, davanti a me spunta la sagoma di un nuovo pellegrino. Anche stavolta lo zaino e l’andatura non mi ricordano nessuno che io abbia già visto, e ormai si sa cosa mi piace fare in questi casi.
Cambiata la marcia, riesco a raggiungerlo in una decina di minuti. Arrivatogli a fianco, scopro sul suo volto un’espressione estremamente amichevole. Basta questo per convincermi a non superarlo e, al contrario, attaccarci bottone.
Si chiama Gregory, ed è francese. Dimostra circa 25-27 anni. Gli chiedo se gli possa far piacere camminare un po’ insieme, e accetta volentieri.
Mi racconta che ha iniziato il suo viaggio a piedi da qualche parte all’interno della Francia, e sorprendentemente scopriamo di aver condiviso alcune tappe. Addirittura a Pamiers ha soggiornato nello stesso posto dov’ero stato io. Ci scambiamo e confrontiamo alcuni ricordi di tratte comuni, e si emoziona molto vedendo le mie fotografie.
La vera straordinarietà di Gregory, però, sta nella scelta di vivere questa esperienza senza denaro. Non significa non ne usi, ma non ne ha portato con sé. È qualcosa che farà solo temporaneamente, un esperimento con un inizio e una fine, ma fin da subito mi convinco sia un gesto dal potenziale incredibile, sotto molti punti di vista.
Basa la sua sussistenza sulle offerte spontanee che riceve e sui ricavi della vendita di semplici braccialetti o portachiavi che produce egli stesso. La cosa più interessante, però, è che non li propone in maniera tradizionalmente commerciale – la mentalità è tutt’altra. Il suo non è un artigianato di valore; quello che lui cerca di innescare è il valore simbolico dello scambio. Alla maggioranza dei suoi acquirenti non interessa l’oggetto, ma il piacere stesso di sostenerlo nel suo sogno tanto azzardato, questa scommessa con la vita fatta basata su un estremo affidamento: “Molte persone, così facendo, sentono di entrare a far parte della mia avventura, e a quanto pare è qualcosa che li fa felici. Credo sia questo che comprino realmente”.
Ero già a conoscenza del fatto che qualcuno adottasse quest’approccio per vivere in maniera più radicale l’esperienza di pellegrinaggio, ma lui è il primo che incontro che lo sta effettivamente concretizzando.
Gli chiedo di farmi qualche esempio di come sia riuscito a barcamenarsi in questo modo durante i mesi passati. Molte storie che mi racconta sono ricche di solidarietà, di generosità e di accoglienza, ma non sono certo mancati i contrattempi, i rifiuti, i sacrifici, i momenti di sconforto: tutte difficoltà legate al vestire i panni di chi può quasi solo ricevere, ponendosi in dialogo con la vita a mani vuote.
Sta sperimentando sulla sua pelle un sovvertimento delle maggiori logiche che strutturano la nostra società, e mi dà la sensazione lo stia facendo con grande umiltà e sensibilità, cercando di accogliere a cuore aperto ogni lezione possibile.
Parla di tutto con un’enfasi misurata, e trasuda una gioia pacata; non si lamenta mai della fatica che gli sta costando, e mentre ripercorre quello che gli è capitato finora sembra che continui a trovarci cose nuove di cui essere grato. È di certo uno degli incontri più toccanti avuti fin qui.
C’è anche dell’altro. Gregory mi racconta che prima di partire non era credente, ma gli è successo qualcosa che lo ha stravolto. Vittima di un problema al ginocchio che stava sempre più compromettendo il suo viaggio, accettò di seguire alcune inaspettate indicazioni da parte di una sorta di guaritore, andando ad inginocchiarsi in una particolare chiesa. Con quel semplicissimo rito, mi confessa, il dolore che i farmaci non erano riusciti a curare passò rapidamente, già a partire dalle ore successive.
Accogliendo quell’esperienza come stava facendo con tutto il resto, iniziò ad aprirsi enormemente alla fede in Dio. “Signore, cosa posso fare per te oggi?”, questo è come Gregory comincia le sue giornate da allora. Alcune volte, senza intimorirsi e con totale affidamento, chiede invece qualcosa per sé, qualcosa di elementare, di cui però sente particolarmente bisogno, “…e ogni volta in qualche forma lo ottengo!”.
Ci tiene a farmi capire che non è il favore in sé che lo entusiasma, ma la sensazione di un dialogo reale. Tra gli esempi, fa rientrare addirittura anche me. Mi confessa, infatti, che proprio stamattina aveva chiesto qualcuno che gli facesse compagnia, una persona con cui oggi potesse confrontarsi.
So bene che queste parole, da sole, potrebbero non essere altro che una semplice dimostrazione di ingenua suggestione, o adirittura presupposti per un grossolano raggiro. Non posso avere la certezza di nulla, è vero, ma analizzo con cura tutti i dettagli non verbali che riesco a notare in lui e mi convinco definitivamente che sia una persona onesta e lucida.
Sconosciuti fino a poche ore prima, eccoci a condividere cose incredibilmente intime come se nulla fosse: una magia che si sta ripetendo incessantemente fin dalla mia partenza.
Arriviati a Trabadelo – il secondo paesino lungo questa statale – troviamo aperto il bar di un albergue. È già mezzogiorno, ma non abbiamo ancora così fame. Ci limitiamo a una pausa caffè, arricchita da qualche mio snack e dai fichi che lui ha raccolto il giorno prima. Ce la prendiamo con calma, guardando ancora qualche fotografia e ridendo parecchio.
Tornati in cammino, raggiungiamo dopo un’ora altri due piccoli nuclei abitati: prima La Portela de Valcarce, e poi Ambasmestas. Fuori da un bar, c’è la coppia incontrata stamattina che sta pranzando seduta a un tavolo, e in quelli vicini altre facce già viste; da come saluta, Gregory sembra conoscere tutti.
Lo avviso che ho fame anch’io, ma mi fermerò più avanti. Ho già con me il pranzo e non posso sedermi a consumarlo qui; cercherò il primo posto tranquillo lungo la strada. Mi risponde che anche lui ha del pane con sé, e gli fa piacere farmi compagnia. Troviamo un angolino perfetto pochi minuti dopo, tra un bar chiuso e un albergue dismesso.
Una volta accomodati in qualche modo, scopro che il mio compagno di viaggio ha sì del pane con sé, ma è un semplice tozzo non farcito. Dice che a lui può bastare, mostrandomi di nuovo il sacchetto di fichi trovati ieri, ma proprio non mi convince. Io ho ancora la seconda empanada gigante comprata a Cacabelos, e devo insistere perché lui accetti di condividerla. Cede solo quando gli assicuro che mangerò anche un po’ dei suoi fichi. Prima, però, va a rovistare tra qualche cespuglio. Dopo un paio di minuti torna inaspettatamente con un mazzo di menta fresca, che finiamo per abbinare in maniera un po’ bizzarra al nostro pasto.
Man mano che passano i minuti, nonostante la compagnia di questa splendida persona sia stata anche per me un dono enorme, mi accorgo che ancora una volta sta tornandomi il bisogno di proseguire da solo.
I motivi sono sempre diversi, ma so bene che in parte conta il passo dell’amico appena conosciuto. Le energie che ha a disposizione sono molte meno delle mie, e lo costringono a viaggiare più lentamente. Fra non molto, poi, inizierà la salita vera e propria e tutto si accentuerà.
Come se non bastasse, mi confessa anche di essere della stessa idea dei ragazzi visti prima, che preferirebbero non raggiungere per forza O Cebreiro quest’oggi. Le chiusure imposte dalla Castilla si attiveranno da qui a qualche ora, ma loro sembrano tutti convinti di riuscire comunque a trovare dove mangiare e dormire.
Quando comunico a Gregory la mia scelta, conferma tutto quello che mi ha trasmesso nelle ore prima e non mostra altro che benevolenza. Ci abbracciamo forte e ci lasciamo augurandoci l’un l’altro il meglio possibile
Tornato a confrontarmi da solo con la natura e la via da seguire, supero Vega de Valcarce e passo per l’ultima volta sotto l’autovía. Dopo tanti chilometri in sua compagnia, mi fa quasi effetto vederla allontanarsi fino a sparire.
Probabilmente è anche per questo che, a partire dal paesino dopo – Ruitelán – il letto della valle mi appare più largo. È anche occupato da pascoli verdissimi, in mezzo ai quali scorre il río Valcarce, il quale però è talmente esile che fatico molto a chiamarlo fiume.
In lontananza, sull’altra sponda, c’è un accrocchio di case: è Las Herrerías. Lo raggiungo e proseguo godendomi il resto della valle, che ora regala una bellezza ben più apprezzabile rispetto al principio.
La strada comincia a salire, e finalmente una freccia gialla mi fa imboccare un sentiero che va ad immergersi nel bosco. Qui faccio ben presto uno strano incontro: un ragazzo giovanissimo, dal viso e dai capelli d’angelo, sta fermo e tremolante in disparte. È vestito quasi fosse estate e non capisco se abbia freddo o sia spaventato per qualcosa. A quanto pare l’intuizione corretta è la seconda: mi spiega di avere appena vissuto un bruttissimo incontro con un cane slegato, che lo ha seguito e minacciato più volte; addirittura pare lo abbia anche morso, ma per fortuna in maniera lieve.
Gli chiedo come potrei essergli utile, se vuole che mi fermi con lui per un po’ fintanto che si tranquillizza, ma mi risponde che non c’è bisogno e che è sicuro gli basteranno pochi minuti per riprendersi. Lo penso anch’io, ma fatico a lasciarlo in queste condizioni. Non mi era mai capitato di incontrare qualcuno così spaventato, così gli ribadisco la mia offerta. Lui capisce l’onestà della mia premura, ma a sua volta replica la propria risposta, stavolta sorridendo un po’.
Non restandomi altro da fare, gli faccio quindi i miei auguri e torno subito a concentrarmi sul percorso. Il sentiero si impenna, portandomi presto 150 m più in su, in corrispondenza di una località chiamata La Faba. Una volta oltrepassata, le piante vanno via via diradandosi, lasciando la pista sempre più spoglia. Il panorama si spalanca e la cosa che mi colpisce ogni ora di più è la straordinaria dominanza di verde – solo il bianco del cielo gli si contrappone.
Sono immerso tra i monti, a un passo dal confine con la Galizia. Non riesco a vedere da dove sono arrivato di preciso, e nemmeno a capire dove diavolo sia O Cebreiro: sono in un nuovo pezzo di mondo diverso da qualsiasi altro incontrato fin qui, ed è bellissimo. Esserci da solo, poi, in contatto intimo con tutta questa natura, mi scatena riso e commozione contemporaneamente.
Sfioro infine Laguna, l’ultima località della Castilla y León, dopodichè il sentiero va appianandosi, rimanendo esposto sempre più. Incredibilmente, non mi sento nemmeno affaticato. Com’è possibile dopo tutti i chilometri che ho camminato?! Sto volando sulle ali di un entsiasmo incontenibile.
Proprio in questo stato d’animo, con mia grande sorpresa ecco anche spuntare il grande e coloratissimo mojon che sancisce il passaggio in Galizia! Non possono essere che urla di gioia, ormai. Le scateno senza alcun trattenimento nel grembo di queste fantastiche montagne, con la speranza che qualcuno da qualche parte mi senta e ci faccia una risata. Chissà quante migliaia di altre urla folli come queste hanno già riecheggiato in questa conca!
È un’emozione gigantesca, che non si fonda solo su questo traguardo, ma su tutti quelli che ho raggiunto per arrivare fin qui. Mi sento esplodere dentro un turbine di ricordi, un frullatore pieno di tutto quello che è successo tra quel 17 agosto e oggi. C’è anche un sottile e vivace senso di leggerezza, un sollievo fresco, vera allegria. Bravo Robi, e grazie Vita, mi stai donando privilegi grandissimi!
Figlio del mio tempo, infine, non rinuncio alle foto di rito. Le pubblicherò stasera per quel centinaio di amici e conoscenti che ci hanno preso gusto a seguirmi – e mai questa parola fu più appropriata.
E ora avanti, non è finita!
Il sentiero prosegue come una piacevolissima passeggiata, ed in meno di quindici minuti eccomi arrivato a O Cebreiro. Ora che sono qui, rido di me stesso e del mio senso dell’orientamento che oggi era proprio sottosopra per quante volte mi ha illuso di vedere in lontananza questo luogo.
Le costruzioni sono su un piano più alto rispetto a quello della strada e non capisco immediatamente che aspetto abbiano. Noto però che c’è una cima tondeggiante alla mia destra, coperta solo d’erba, e istintivamente la salgo per vedere da lì il mio primo panorama galiziano. Ancora una volta mi trovo davanti uno sterminato alternarsi di montagne completamente ricoperte di vegetazione.
Quasi come non avessi camminato, scendo poi sorridente e rilassato verso il paesino, che ora comincio a vedere meglio. Stavolta il colore in assoluto dominante è il grigio, che sembra davvero accomunare ogni cosa: dalle pietre usate per i muri, fino alle tegole e al selciato – non c’è molto altro, d’altronde.
Conto più o meno una ventina di edifici. I pochi alberi sono completamente spogli e, anche se tutto è curatissimo e molto caratteristico, il risultato è comunque piuttosto tetro. Per fortuna la mia immaginazione si diverte a riempirlo di un gran via vai di pellegrini contemporanei, proverbialmente coloratissimi, salvando l’euforia che già iniziava lievemente a smorzarsi.
Passando di fianco alla chiesa e trovandola aperta, ne approfitto immediatamente. L’interno è molto sobrio, il che mi fa sentire perfettamente a mio agio. Nonostante la presenza di una persona ad una sorta di reception, mi inginocchio e bacio il pavimento, come segno spontaneo ed universale di gratitudine. Il gesto colpisce molto l’involontario spettatore, che subito esce dalla sua postazione per accogliermi.
È un religioso, e mi propone un rito di benedizione che è autorizzato a svolgere anche senza essere sacerdote. Accetto con piacere, ripensando a quella ricevuta nella mia città il giorno della partenza.
Concluso il tutto, mi regala un piccolo sasso nero e lucido con verniciata sopra una freccia gialla. D’istinto penso sia un semplice souvenir del Cammino, ma in realtà c’è un motivo più grande percui proprio qui vengono offerti questi omaggi. Per spiegarmelo mi indica una tomba a pochi metri da noi: mi spiega che lì sta sepolto il sacerdote Elia Valiñas e che questa fu la sua parrocchia per lunghissimo tempo. Purtroppo però io non ho mai sentito quel nome prima d’ora, e resto a guardarlo con un’espressione interrogativa. Un po’ deluso, comincia quindi a raccontarmi che fu grazie all’iniziativa di questo prete che venne operata una prima fondamentale tracciatura di tutto il Camino Francés, e fu sempre sua l’idea di utilizzare le famose frecce gialle che poi ne sono diventate il simbolo. Scopro anche che svolse quel suo grandissimo lavoro proprio l’anno della mia nascita, giusto per elettrizzare ancora un po’ questa giornata già memorabile.
Percependomi attento e grato per benedizione, regalo e spiegazioni, mi porta anche davanti alla reliquia che dovrebbe testimoniare un miracolo eucaristico avvenuto in questa stessa chiesa nell’anno 1300. La storia è essenziale ed affascinante, e per un attimo provo ad immaginarmela totalmente reale. Chiaramente, se così fosse quel piccolo resto conservato gelosamente sarebbe intriso di potenza assoluta, ma purtroppo non riesco mai a credere davvero alle narrazioni associate alle reliquie. Ad ogni modo, mi trattengo dal manifestare la mia opinione e, dopo aver ascoltato tutto, non faccio altro che ritirarmi ringraziando.
A meno di duecento metri il paese già termina, e lo fa proprio con il grande albergue municipal. Vista la chiusura della Castilla y León, spero di trovare qualche comitiva di pellegrini, anche se sono al corrente che molti di quelli che mi sono lasciato alle spalle hanno deciso di non cedere all’allarmismo e continuare il loro Cammino quasi come se nulla fosse.
Se devo proprio essere sincero, però, la cosa che aspetto con ansia è scoprire se con il mio sprint ho raggiunto ancora Tiziano e Amedeo. Sorrido nel pensarci, tanto che anche alla reception la mia faccia stenta a tornar seria. La donna al banco, però, sembra sintonizzata su tutt’altra frequenza: trasmette talmente poca voglia di stare lì, che mi fa quasi sentir di troppo.
Mentre sbrigo le solite cose, sento qualcuno salire le scale di fianco. Mi giro e, d’improvviso, mi trovo davanti Amedeo. Lo sapevo!
Inutile negare che la situazione, inevitabilmente, porta con sé un sottile imbarazzo, ma prevale comunque il piacere di ritrovarsi. Qualunque sia la verita, mi godo con gusto abbracci e risate. Lo seguo poi al piano di sopra e, dopo pochi passi, riconosco in una delle brande il buon Tiziano. Senza pensarci un secondo, mi ci fiondo sopra e per un attimo lo scuoto con tutta la forza che ho, urlando qualche parola di gioia e sorpresa. Quando infine lo guardo meglio in volto, mi dà l’impressione di star vivendo emozioni contrastanti, ma d’altronde è più che comprensibile. Mi dice che anche a questo giro se l’era sentita che sarei arrivato fin qui per via della chiusura, e per la seconda volta ci ha azzeccato.
Con i due amici scambiamo qualche considerazione sulla situazione complessiva, regalandoci anche qualche risata al pensiero della gran corsa che ho fatto per arrivare qui stasera. I primi minuti dell’inaspettata rimpatriata sembrano scorrersene via lisci, e ringrazio il cielo anche di questo. Tenendo conto che siamo quasi solo noi nella camerata, non sarebbe stato il massimo se il nostro incontro fosse andato storto.
Quando scendo a farmi una doccia, ritrovo il ragazzo tremolante che ho incontrato prima della salita. È appena arrivato, e ne approfittiamo per presentarci, visto che oggi avevamo dimenticato di farlo. Il suo nome è Martin e deve avere poco più di vent’anni. Ora sta meglio, anche se si è preso davvero un bello spavento.
Entrambi in mutande, restiamo reciprocamente incuriositi dai tatuaggi dell’altro. Mi racconta che il suo se l’è fatto da sé perché quello è il suo lavoro. Ha uno stile assolutamente di nicchia: usa forme astratte e tetre, seppur con colori sgargianti. Trasmette una strana inquietudine, stridente se paragonata al suo viso angelico e al corpo glabro. Per vedere di più del suo lavoro, gli chiedo come si faccia chiamare su Instagram, trovando una prima conferma alle mie sensazioni: “Tendresse in Tenebris”, mi risponde.
Le sorprese però non sono finite. Facendo cenno alla tappa di oggi, scopro che Martin un paio di settimane addietro ha conosciuto Gregory, ma la cosa più stupefacente è che da allora anche lui sta sforzandosi di percorrere il Cammino senza denaro. Quello che aveva racimolato negli ultimi giorni l’ha usato per l’albergue, ma per la cena dice che si arrangerà con qualche avanzo rimastogli. L’impressione, però, è che abbia meno slancio rispetto al suo mentore, oltre al fatto di sembrare fisicamente più indebolito. Chiaramente sono curioso e anche un po’ in apprensione per lui. Forse da questi presupposti, mi nasce all’improvviso un’idea: gli propongo per domani di partire insieme, dopo una buona colazione offerta da me. Accetta di buon grado, cosa che non davo così per scontata. Rispetto alla cena, invece, mi dice che preferisce rimanere in camerata e addormentarsi il prima possibile.ossibile.
Per quanto mi riguarda, avrei ancora qualche scorta per stasera, ma l’entrata in Galizia merita una più degna celebrazione. Tra l’altro, non c’è nemmeno il rischio di perder tempo a decidere dove andare, infatti oggi a O Cebreiro è solo uno il ristorante aperto. Addirittura so già cosa mangiare, perché da qualche giorno ormai ho un’unica cosa in testa: assaggiare per la prima volta il pulpo a la gallega. Per la mia pancia pare non contare nulla il fatto che siamo vistosamente lontani dal mare e a 1300 m d’altitudine: ha cieca fiducia che lo troverò comunque sul menù. Tiziano e Amedeo sono assolutamente d’accordo, anche se mi svelano che loro si sono gà tolti la voglia l’altro ieri a pranzo, e proprio a Cacabelos, tra l’altro!
E così, ci copriamo per bene e scendiamo al ristorante. Consumato un ultrameritato aperitivo, ordiniamo quindi un’abbondante porzione di pulpo, che per fortuna nostra è pure squisito!
Le chiacchierate durante la cena sono a tratti meno sciolte che in passato, ma non abbastanza per impedirci di goderci al meglio il momento. Tutto si conclude poi con gli irrinunciabili brindisi di orujo, strozzati un po’ dal conto finale – a nostro dire troppo alto, ma purtroppo inappellabile. Nessun problema, comunque, non basta certo qualche spiccio per rovinare la gioia del grandissimo traguardo di oggi.
La Castilla y León è finalmente alle nostre spalle, e ora ci aspetta un’immersione nel verde strabordante della Galizia. Il sogno di arrivare a Santiago è ancora in balìa degli eventi, ma ogni giorno lo sentiamo sempre più vicino a realizzarsi.
(Hostal La Gallega)
52km
È certo, questo viaggio lo ricorderò per mille cose ma non per le belle dormite.
Sono le cinque passate, ed eccomi qui: sveglissimo e già mezzo malandato. La cosa più saggia sarebbe accettare le pessima nottata e alzarsi, ma come al solito rimango sotto le lenzuola a rigirarmi a oltranza, con la patetica illusione di potermi riaddormentare.
Nel frattempo si sveglia anche il professore francese e inizia a prepararsi nella penombra della camerata. È silenzioso come un ladro, incredibile quanto poco rumore riesca a fare! Lo saluto con un bisbiglio mentre passa di fianco al mio letto prima di uscire.
Mi ci vuole più di un’ora per trovare la forza di volontà, ma alla fine anch’io apro la zip del sacco a pelo. Grazie al cielo la stufa ha fatto il suo dovere e la stanza non è poi troppo fredda. Tento di prepararmi con la stessa grazia felina del prof, ma con risultati imbarazzanti e rumori da incubo; per fortuna gli altri sembrano dormire forte. Praticamente al buio, riesco addirittura a preparare il mio solito caffellatte freddo con pane, burro e marmellata: soddisfazioni da principiante della vita nomade.
Fuori, alla mia partenza, trovo un gran buio e due gradi sotto zero, tanto che solo indossando tre quarti dei vestiti che mi ero portato riesco a combattere la prima botta di freddo.
Torno davanti al ristorante, ultimo edificio del paese, e cammino per una buona mezz’ora tra strade e sentieri molto accessibili, proprio mentre la notte inizia a lasciar spazio all’aurora. Il buon passo e la salita mi aiutano a scaldarmi.
Alle mie spalle, lo spazio tra l’orizzonte e una striscia di nuvole lontane comincia a riempirsi di fuoco. Mi fermo per godermi la magia di quest’istante nei pressi di un lungo abbeveratoio. Da qui si riesce a vedere anche il campanile di Rabanal, in un perfetto controluce tra gli alberi. Tutto è calato in una calma eccezionale e resterei qui per un’altra mezz’ora, ma meglio mi metta in testa fin d’ora che oggi non posso concedermi lussi simili.
Appena ripartito, incontro anche il buon Salvadór mentre esce dalla selva. È raggiante, ma in verità la prima cosa che noto sono le borse sotto gli occhi. Come avevo intuito, ha passato la notte in tenda proprio qui dietro. Non oso immaginare il freddo che ha patito, ma dice che se l’è cavata bene. Mi invita a proseguire, però, perché ha notato il mio passo e mi confessa che in questo momento non potrebbe starmi a fianco nemmeno volendo. Temperature e ambienti come questi, in effetti, sono quelli in cui mi sento più a mio agio, e la fatica sembra accumularsi molto meno. Ci salutiamo augurandoci ogni bene.
Poco dopo trovo davanti a me anche due escursionisti spagnoli di mezza età; ci scambio giusto due battute, e poi anche loro si lasciano superare. Prometto a me stesso che adesso tirerò dritto almeno per un’ora, ma dopo qualche minuto eccomi di nuovo impalato a fissare alcune piante che si stanno colorando di una luce rossa, quasi fluorescente. Ho già vissuto una scena simile in Provenza, la mattina in cui partii dall’abbazia di Ganagobie. Fu una delle albe più belle di questo viaggio, e oggi sembra non essere da meno.
Non sto più nella pelle, sono come un bambino la mattina di Natale, faccio ancora due passi e mi volto a ricevere tutto quello che il sole sa dare al mondo in questi momenti sacri. Non la smetterò mai di dirlo: non c’è niente di più simile a un bacio! Peccato solo che la vista non sia ancora delle migliori. In questi momenti vorrei sempre la perfezione, ma qualche volta devo ammettere di averla trovata. Continuo la mia salita voltandomi un istante ogni decina di metri. Anche il sole continua la sua, ed è come una divertente rincorsa reciproca.
Già prima di arrivare a Foncebadon, la vallata comincia a mostrare la sua ampiezza e la sua profondità. Raggiunto questo secondo paesino tutto dedicato al Cammino, resto un po’ deluso perché avevo ascoltato bei racconti e ottime impressioni a riguardo. Nonostante qualcosa di molto caratteristico e il panorama mozzafiato, c’è tanta desolazione e molte piccole aree lievemente degradate che stridono molto alla vista. Uscendone, supero anche il professore francese, che in effetti ha un passo davvero affaticato e decide anche di fermarsi a fare uno spuntino.
Poco oltre, la vista di alcune mucche al pascolo mi tocca il cuore. Sono giovani e rosse, sparse in un recinto ampissimo. Per un attimo mi fanno tornare in Francia, proprio come i tetti a lose appena visti nel piccolo villaggio.
Lungo il versante spoglio e verde, la strada non smette di salire e la vista della vallata migliora ad ogni passo. In cielo si è creato uno strano gioco di controluce, con il sole che ora sta nascosto dietro la sottile striscia di nuvole parallela all’orizzonte.
Dopo qualche minuto di contemplazione e fotografie, giro le spalle a tanta maestosità e mi concentro sul capire dove si trovi la tanto attesa Cruz de Hierro.
Strano a dirsi, ma la raggiungo senza troppa suspense. La conformazione della via e le proporzioni del luogo, infatti, non alimentano particolarmente l’attesa. Tra l’altro è anche piccolissima! Sta in cima ad un palo di legno molto alto, piantato nel grande cono di pietre lasciate da chissà quanti pellegrini. L’asta è carica di piccoli oggetti o immagini, affissi per testimonianza del proprio passaggio o in sostituzione di un più tradizionale sassolino.
Mi tolgo lo zaino e salgo sulla pila. Non c’è nessun’altro, e mi sento a mio agio. È sempre bello che in cima a una salita ci sia qualcosa che renda unico quel punto. Per i lunghi cammini come questo, in fondo, vale un po’ lo stesso: i luoghi memorabili sono fondamentali, scandiscono l’esperienza, sia fisicamente che simbolicamente.
Non so quanto tempo sia passato da quando ho iniziato a stringere il mio sasso nella mano, ma ora è venuto il momento di lasciarlo. Lo appoggio in disparte, in una posizione anonima. Non riesco a vivere come avrei bisogno questo gesto. I pesi che porto sul cuore sono tanti, e anche se sono arrivato fino a qui, anche se è sempre più vicina la realizzazione di questo sogno pieno di fatica e meraviglia, qualcosa mi impedisce ancora di sentirmi sgravato.
Affido tutto alla semplicità di questo rito e al potere simbolico che trattiene e sprigiona; è il meglio che possa fare. Per un attimo accarezzo la speranza che un soffio di liberazione venga a farmi rinascere, ma allo stesso tempo mi sorge anche un dubbio: e se quel soffio mi avesse già fatto visita il giorno in cui mi sono convinto a partire? Accompagno questo pensiero a sedersi sulla mia spalla, e gli chiedo di restare a farmi compagnia.
È arrivato il momento di lasciare anche le altre pietre che ho raccolto. Dietro a ognuna ci sono persone e legami che sento vivi e pulsanti dentro di me, ci sono le loro croci più grandi. È un gesto a cui do forma con lentezza, ma senza ostentazione. Lo vivo con serena sincerità: per ogni piccolo sasso lascio che un volto si faccia nitido davanti a me.
Ovviamente non accade nulla di strano. L’unica eccezionalità sta in questo tempo dedicato a desiderare così intensamente il bene di qualcun altro. Forse anche averlo fatto all’interno di un lunghissimo pellegrinaggio conta qualcosa, chissà. Io ci spero.
Rimane solo un’ultima cosa da fare ora. Dalla tasca sfilo un braccialetto, lo apro e lo chiudo attorno a una cordicella già appesa al palo. È il ricordo di Stefano, una delle anime luminose a cui sto dedicando i miei passi e alle quali chiedo tutte le mattine il dono che loro avevano in vita, quello della gioia e della gratitudine. Avevo promesso a qualcuno che lo avrei portato con me; così ho fatto, e sento che questo è il posto giusto per salutarlo.
Quando scendo, la sagoma del professore spunta dalla curva alle mie spalle. Gli sorrido e riprendo il cammino, lasciandolo godere di quell’altare come ho appena potuto fare io.
Ogni cosa è cosparsa di brina. È la prima volta che la incontro in questi mesi, e come ogni novità ricevuta in dono dal Cammino, mi gusto la piccola bugia esclusivamente per me. Tutt’intorno vedo solo altre montagne: alcuni versanti sono ricoperti di bosco – qualcosa di simile a una gran pelliccia marrone – altri invece sono nudi e imbiancati, con qualche bestia a pascolare.
Presso la minuscola Manjarin, mi imbatto in un grumo di cartelli colorati, posto fuori da una specie di anacronistico presidio templare. Ognuno ha inciso il nome di un luogo del mondo e la distanza che lo separa da qui. Il borgo sembra composto semplicemente da una manciata di casette, mentre dal lato opposto della strada restano alcuni ruderi di abitazioni più antiche. Supero tutto sbrigativamente, come sempre poco attratto dalle rievocazioni dell’ordine templare, e spesso perfino dalle tracce che ha lasciato. Può suonare strano e insapettato, ma capire di essere istintivamente disinteressato a qualcosa mi reagala un senso di leggerezza che provo molto raramente, un sollievo straordinario.
Continuo lungo un tratto quasi in cresta, senza alberi attorno. Arrivato al culmine, mi godo per un attimo il panorama sulla valle. Mi aspettano ancora un’infinità di chilometri, ma mi sento pronto. La visuale si fa più ampia man mano avanzo, e mi sforzo di capire dove stia Molinaseca – la metà esatta del mio percorso di oggi.
A quasi tre ore dalla partenza, arriva quindi il momento di scendere. Seguo le indicazioni e imbocco il sentiero che si snoda poco distante dalla carreggiata tutta tornanti. Purtroppo è ripido e sassoso: rischio in continuazione di slogarmi le caviglie, ma mi ostino a non cedere al richiamo dell’asfalto.
Con l’arrivo a El Acebo, dovrei essere ormai entrato nel Bierzo, l’ultima comarca della Castilla y León. Fuori da un piccolo albergo con cucina, il proprietario e il cuoco stanno fumando una sigaretta. Il primo mi saluta con sospetta euforia, mentre l’altro resta zitto, con un’espressione gelida e inquietante. Mi sento nei panni di Pinocchio quando incontra il gatto e la volpe, ma ho una voglia matta di bere un caffè. Lascio quindi che il proprietario esaurisca i suoi saluti esageratamente effervescenti e poi tento di entrare, ma lui mi trattiene con fare sornione e comincia a chiedermi informazioni: da dove vengo, quanti pellegrini c’erano a Rabanal, quanti altri stavano dietro di noi, e così via. Credo voglia solo capire quanto gli convenga stare aperto in quest’ultimo giorno prima del confinamento, non lo posso biasimare. In nome di un po’ di caffeina, cerco di rispondere con garbo alla mitragliata di quesiti, fino a che finalmente riesco a chiedere se sia possibile…
”Pranzare? Certo, abbiamo un buonissimo menù del Pellegrino!”
“No, grazie…è ancora troppo presto per mangiare, e comunque ho già un panino con me. Vorrei solo un caffè”.
A questa risposta, la sua espressione di ostentata allegria tradisce un po’ di frustrazione. Credo mi manderebbe volentieri a quel paese, ma riesce a fare uno sforzo e invitarmi comunque ad entrare – sempre sotto gli occhi da killer del cuoco muto.
Mentre fa scaldare la macchina, mi stordisce con mille chiacchiere riguardo alla bassa qualità degli espressi in Spagna – “Soprattutto per voi italiani!” – ma si dice certo che il suo mi piacerà moltissimo, e bla bla bla. Io sorrido con qualche sforzo, perché ormai non ho altra voglia che berlo in un sol sorso e andarmene. Prima che ci riesca, però, mi offre zucchero e, scoprendo che non ne uso, riparte con altre mille considerazioni di cui avrei fatto volentieri a meno.
Chiedo quanto gli debba, ma non mi dà subito risposta. Devo ancora sopportare gli inviti a guardarmi intorno, se per caso ci sia altro che mi possa servire: “Una banana? Un mandarino? Delle patatine?”. Non vedo l’ora di andarmene, ma cedo all’acquisto di una busta di frutta secca; non tanto perché mi abbia convinto lui, né la fame, ma sempre per la presenza silenziosa del cuoco ancora di fianco alla porta, con le braccia conserte e con lo sguardo fisso su di me. Finalmente posso salutare e filarmela a passo spedito. Che situazione!
Il resto del paesino – piccolo e sviluppato lungo un’unica via – mi aiuta a ritrovare la giusta pace. Non è niente male, infatti: tutto pietre e balconi in legno.
Dopo altri tre quarti d’ora di discesa, incontro quello successivo – Riego de Ambros -altrettanto pittoresco. Stavolta però non vengo calamitato da nessuno, e lo attraverso dritto per dritto. Il prossimo sarà Molinaseca, a valle, ma prima ci sono ancora una manciata di chilometri lungo sentieri sempre più lontani dalla strada.
Ritrovo anche parecchi alberi, tra i quali ne scovo uno in particolare, in fondo a un praticello laterale. Ha una forma molto insolita e mi colpisce come provenisse da una fiaba: sembra tanto il gobbo di Notre-Dame degli alberi, non scherzo. Alla base è tozzo in maniera impressionante: sono certo che sia l’albero dal tronco più largo che ho incontrato in Spaga. Compete per diametro con quelli visti a Bagnères-de-Bigorre, ma per forma è l’esatto opposto.
Mi ci avvicino. Ha una specie di aura propria. Per qualche momento mi appogio a braccia aperte sulla sua corteccia. Era tanto che non mi capitava; d’altronde son cose che vengono spontanee, ed essere tornato da solo ha certamente influito.
Il sentiero sbuca infine sull’ultimo tratto di strada immediatamente prima di Molinaseca. Su e giù per questi monti, ho già camminato quasi 25 km oggi. Per molti – me compreso, se potessi – sarebbe già di per sé una tappa.
Il cielo è limpido e il sole spacca le pietre. L’orologio dice che è ora di pranzo: ogni cosa sta andando come avevo programmato. Tutto gongolante, passeggio lungo il marciapiede lastricato, godendomi lo spettacolo da cartolina: agli alberi colorati d’autunno, Molinaseca risponde coi suoi tetti grigi, con la gran chiesa che svetta su tutto quanto. Bellissimo l’antico ponte sul río Meruelo, anche se il fiume quest’oggi è ridotto a poca cosa. L’acqua però è limpida, e c’è tutta una sponda in selciato che scende dolcemente fino alla riva. Sembra una spiaggia, peraltro perfettamente soleggiata. In un istante mi è tutto chiaro: mi fermerò a pranzare qui.
Il posto è ideale anche per lasciare i piedi a mollo. L’acqua ovviamente è gelata, ma perfetta per togliere la fatica dei chilometri già percorsi e rinvigorire per quelli mancanti. Spero solo non mi crei problemi con la digestione.
Dopo mezz’ora il risultato è miracoloso! È stata la pausa migliore che potessi desiderare. È l’una quando ricomincio a camminare. Passo per la via centrale del paese, apprezzandone la bellezza ma senza soffermarmi. Supero l’ennesima statua dedicata al pellegrino e l’immancabile cruceiro, dopodiché mi lascio alle spalle anche questo storico borgo.
Mi ci vogliono circa quaranta minuti per raggiungere l’apice dell’ultima collina prima della discesa. Qui resto sorpreso davanti ai primi famosi vigneti del Bierzo: i colori delle foglie sulle viti sono letteralmente fiammeggianti e mi riportano indietro nel tempo di quasi due settimane, quando camminavo nel bel mezzo de La Rioja. In lontananza si riesce a veder il nucleo centrale di Ponferrada. Salta subito all’occhio la sua posizione strategica particolarmente favorevole: è posto tra due alture, rappresentando un’inevitabile via di passaggio per accedere alla grande conca che le sta oltre.
Il percorso che mi condurrà alla città non si sviluppa su una linea retta, ma seguendo una larga curva periferica, così come già fu per l’arrivo a Vercelli e quello a Mont-Dauphin. Superati i vigneti, gli scenari non si posson più dire superbi, ma vedere coi propri occhi una terra diversa dalla propria è comunque sempre un regalo della vita.
In terre anonime e meno memorabili come questa non va cercata la bellezza, sarebbe frustrante. Molto meglio lasciar prevalere la curiosità: così facendo ho scoperto che tutto può diventare in qualche misura interessante. Per riuscirci, rilasso lo sguardo e la mente, limitandomi a guardare e a stare in compagnia di ciò che vedo. Non sempre questo mi gratifica, ma è comunque il miglior approccio che ho sperimentato in situazioni come questa.
Per accedere al corpo più compatto della città devo superare il ponte Mascarón, sul río Boeza. Non so dire bene perché, ma mi aspettavo che da qui iniziasse una sorta di red carpet verso il centro storico di Ponferrada. Purtroppo scopro che non è così. Il percorso passa tra orti e case diroccate, per poi sbucare – finalmente – in una prima via improvvisamente curatissima: lastricato, case e palazzine tutte ben verniciate, balconi fioriti, lampioni a lanterna e così via. Immediatamente dopo, ci si affaccia su una prima bella chiesa, seguita dal simbolo più rappresentativo di questa città: il grande castello dei Templari.
Il progetto titanico di oggi non prevede soste turistiche. Chissà, forse sarebbe stata la volta buona perché mi ricredessi nei confronti del famoso ordine cavalleresco, ma non garantisco. Il bambino che c’è in me, infatti, sembra quasi indifferente anche a un luogo così grande e ben conservato.
Proseguo quindi la mia marcia, salendo fino a Plaza Virgen de la Encina. Da lì intravedo la torre dell’orologio, oltre la quale so esserci una seconda grande piazza, ma niente riesce ad attrarmi abbastanza. È insolito per me, ma questo approccio sta anche un po’ divertendomi.
Lasciato il nucleo storico, è tempo di scendere verso il secondo fiume di Ponferrada, il río Sil. Da qui, già non c’è più traccia di altre antichità – almeno così mi pare – e prevalgono scenari comunemente commerciali. Peccato, la città si estende ancora per chilometri e lo spicchio più prezioso è già alle mie spalle. Cerco almeno di approfittare del fatto di essere attorniato da negozi e mi compro una confezione di antinfiammatori – li acquisto solo per prudenza, perché quelli che avevo li ho lasciati tutti a Linda. In un supermercato faccio anche un po’ scorta di cibo e, già che ci sono, mi prendo pure un caffè al bar.
Mentre lo sta preparando, la signora al banco mi chiede da dove io provenga. Saputo che sono italiano, comincia a cantare a gran voce la più famosa canzone di Toto Cutugno. Noncurante del mio imbarazzo, continua senza sosta fin quando ho terminato il mio caffè. Che dire, anche questo è viaggiare.
Una volta ripreso il cammino, la strada mi conduce di fronte al Museo Nacional de la Energía, per poi risalire nel quartiere residenziale di Compostilla. È meno congestionato dei precedenti e più a misura d’uomo, ma molto datato – eccezion fatta per alcune ville particolarmente lussuose.
Il percorso ufficiale tra i confini di Ponferrada forse è stato studiato per offrire ai pellegrini una traversata quanto più gradevole possibile, ma confesso che c’è un po’ da preoccuparsi se questo è il meglio che possa dare la città.
Superata la periferia urbanizzata, il ritorno della campagna regala un po’ di sollievo alla vista. Il mio passaggio si alterna tra appezzamenti agricoli e piccole frazioni, iniziando da quella di Columbrianos, con la caratteristica iglesia de San Blas.
Proseguo così per diversi chilometri – ormai oggi ne ho già percorsi quasi quaranta! La stanchezza non manca, ma pensavo avrei sofferto di più. Sono le quattro del pomeriggio e sono passate otto ore e mezza dalla mia partenza: non potevo fare di meglio. Un mojon ha stampata la distanza mancante a Santiago: mi rimangono 203,9 km (anche i decimali adesso!).
Fuentesnuevas è l’ultima località sul mio percorso appartenente al municipio di Ponferrada. Anche qui è evidente che gli edifici sono tendenzialmente vecchi; l’impressione è che risalgano ad almeno tre, quattro decenni fa, in alcuni anche mezzo secolo. Sono rarissime quelle nuove o ristrutturate, me ne sto rendendo conto fin da quando ho lasciato Molinaseca. Mi domando cosa abbia rallentato lo sviluppo e il rinnovamento urbano in quest’area, ma non ho la risposta. Il bagaglio che porto via con me è composto proprio da queste impressioni e dalle domande che ne sono nate. Rimarranno ricordi “aperti”, diciamo così.
Ad un tratto, due adolescenti escono da un cortile poco avanti a me e cominciamo a camminare nella mia stessa direzione, così mi ritrovo involontariamente a seguirli. Siamo solo noi e mi sento davvero uno stalker. Mi metto in testa di superarli, ma è più dura del previsto e ci riesco solo dopo un chilometro. Tra l’altro, per non cascare in una fastidiosa alternanza, faccio di tutto per mantenere un passo molto sostenuto.
Non so proprio dire dove stia trovando l’energia anche per questo inutile allungo, eppure riesco a sostenerlo. Sono convinto che l’aver immerso i piedi nel fiume durante il pranzo sia stata una scelta perfetta, ma non può essere solo quello. Dopo undici settimane di cammino, sono certo che stia influendo anche il clima, l’assetto mentale con cui ho affrontato la tappa e come sto gestendo idratazione e alimentazione. Mi sento fiero di quello che sto riuscendo a fare, e le buone condizioni fisiche mi stanno permettendo anche di divertirmi mentre lo faccio.
Il percorso prosegue per ore nella sterminata campagna, tagliata dalla strada asfaltata su cui sto camminando. Terminate le varie frazioncine, arrivo al primo comune autonomo, Camponaraya, che non si discosta troppo dai nuclei abitati che l’hanno preceduto. Pensare di essermi lasciato definitivamente alle spalle Ponferrada mi dà un gran sollievo.
Faccio una meritatissima pausa su una panchina nei pressi della chiesa. La coppia di ragazzini che avevo seminato mi raggiunge, e il caso vuole che la loro destinazione sia una casa di amici proprio di fianco a dove mi sono seduto.
I minuti passano. Mancano ancora sei chilometri, non posso rischiare di raffreddarmi troppo. Gambe in spalla!
Appena fuori dal paese, supero una grande azienda vinicola con all’esterno un’improbabile grappolo scolpito. Da lì parte una salitella alberata che culmina in un cavalcavia autostradale. Giunto dall’altro lato, scopro con gioia che finalmente sto per tornare a immergermi tra meravigliose colline stracolme di vigneti. Alcuni splendono dei colori sgargianti dell’autunno e infuocano il paesaggio in maniera mozzafiato. Ho la sensazione di essere riemerso dopo una lunga apnea. Camminare in contesti simili è una benedizione per chiunque.
Dopo i primi saliscendi, un’altra sorpresa: in lontananza scorgo due viandanti coi loro grossi zaini colorati. Mi sforzo di capire se siano persone che già conosco, ma senza successo. Ancora una volta, incapace di sopportare il dubbio e il camminargli alle spalle, comincio una nuova rincorsa – non riesco a credere di avere ancora tutte queste energie in corpo!
Li raggiungo a ridosso di un boschetto di pioppi e – sorpresa! – uno dei due già l’avevo incontrato. Si chiama Alexandre, ed è uno dei ragazzi francesi che accompagnavano il vecchio Serge nelle mesetas. Aveva dormito di fianco a me a Hontanas, poi ci si era rivisti a Fromista, a Carrión de los Condes e forse anche a San Juan de Ortega.
Al vedermi, per fortuna, si mostra molto più solare ed estroverso rispetto alle volte passate. Con lui c’è una ragazza che invece non ho mai incontrato prima. Ci presentiamo: si chiama Aurora, ed è belga. Ahimè, l’impressione è che proprio non abbia voglia di intrusioni – il motivo non so dirlo. Forte dell’apertura del compagno, però, resto comunque a camminare al loro fianco. In fondo mancano solo tre chilometri al mio arrivo; mal che vada mi dovrà sopportare per una mezz’oretta o poco più.
Alexandre mi racconta a grandi linee come si sia diviso dall’amico che avevo visto con lui, e di come poi abbia incontrato Aurora. Riguardo a Serge, invece, mi spiega che ha preferito interrompere il cammino e tornare in Francia.
Stasera loro alloggeranno a Pieros, la località immediatamente dopo Cacabelos – quella dove invece ho prenotato. Staranno in un piccolo albergue che anch’io inizialemente avevo preso in considerazione, attratto dalla parvenza un po’ hippie. D’istinto, abbozzo l’idea di disdire la mia prenotazione e unirmi a loro, ma Aurora interviene subito e, pur in maniera molto discreta, fa capire che non ha piacere ad avermi tra i piedi.
Non me ne faccio un cruccio e ritiro io stesso l’idea. In ogni caso mi gusto la loro compagnia fino a destinazione, lasciandoli poi con i canonici auguri di buen camino.
Per oggi ho scelto un posto che si pubblicizza anche come pulperia, cioè come ristorante specializzato nel pulpo a la gallega, piatto tipico galiziano. Siamo ancora in Castilla y León, è vero, ma evidentemente questa tradizione gastronomica include anche il Bierzo. Certo, visto che il polpo è uno dei piatti più ambiti per i pellegrini sulla via di Santiago, potrebbe anche darsi sia solo una questione di mercato. Poco importa, qualcunque sia la verità io ho già l’acquolina in bocca pensando a quel premio succulento, coronamento ideale della riuscitissima maratona di oggi.
Purtroppo però qualcosa va storto: l’impatto con la proprietaria, infatti, spegne immediatamente i miei sogni gastronomici. Con aria cinica e irremovibile mi comunica che la cucina è chiusa, quindi niente polpo. Se è mia intenzione mangiare qui stasera, posso scegliere solo tra pasta precotta e bruschette.
Alle sue spalle, il locale ha metà della luci spente e due vecchi stanno seduti a un tavolo, stringendo il loro calice e borbottando su ogni cosa. Insomma, il clima è veramente triste, quindi decido che andrò a mangiar fuori.
Le domando se aspetta qualche altro pellegrino, con la speranza di poter condividere un po’ della mia gioia per la grande impresa. Fattasi ancora più scura in volto, mi risponde che no, sono solo io, e aggiunge pure che lei non ci guadagna praticamente niente ad avermi qui stanotte. Caspita, che accoglienza calororsa! Mi piacerebbe dirle che, se volesse, potrei sempre proseguire fino all’albergue di Pieros, ma evito di complicare ulteriormente le cose.
Mi mostra dove dormirò: una stanza da quattro tutta per me. Avrei preferito una camerata in compagnia, ma anche un po’ di pace non guasta. A memoria, questa è la prima notte che passo da solo da quando arrivai a Saint-Jean-Pied-de-Port. Che dire? Se così doveva essere, che così sia!
Mi sistemo con molta calma e regalo ai miei poveri piedi un meritatissimo massaggio fai-da-te. Per farlo uso un oggetto insolito, trovato per puro caso ai bordi della strada il terzo giorno di Francia. Ricordo esattamente anche il luogo: fu lungo una curva prima di Champcella. Si tratta di una pallina da golf e, per quanto forse possa parere strano, quando la vidi pensai subito che sarebbe stata ideale proprio per sciogliere la muscolatura dei piedi a fine tappa. Dopo la manipolazione, invece, uso dell’arnica gel, mia fedele compagnia fin dall’inizio del cammino. Arrivo a metterla anche due volte al giorno, giusto lá dove so di averne più bisogno, e sono convinto abbia sempre fatto il suo dovere – forse anche perché non mi sono mai aspettato miracoli.
Arrivata l’ora di uscire, comincio innanzitutto con una passeggiata improvvisata per il paesino. Non mi fa una buonissima impressione a dire il vero, e purtroppo non trovo nemmeno granché di aperto per la cena che tanto bramo.
Decido che non c’è momento migliore per affidarmi al Cammino, e così mi metto in testa di chiedere consiglio per strada al primo che passa. Il destino mi fa incrociare un tizio che sembra essere mio coetaneo. Gli domando per un posto dove si mangi bene e si spenda poco, ma prima mi chiede dove abbia scelto di alloggiare. Con una smorfia mi confessa che non potevo fare scelta peggiore, e che sono stato fortunato se stasera non hanno aperto la cucina. Mi consiglia poi un paio di alternative, e ci salutiamo cordialmente. Che dire? È proprio vero che basta chiedere.
Prima di andare a cena, scelgo di fare la mia solita tappa al supermercato, ma qui succede l’inaspettato: trovo in offerta alcuni prodotti da forno ad un prezzo stracciato e, anche se so che la qualità sarà scadente e che mi ero promesso un succoso pulpo per stasera, cedo alla golosità del momento e ripiego su un paio di gigantesche empanadas.
Una volta per strada, poi, contratto con me stesso sul da farsi (sono matto, lo so) e arrivo a un compromesso: una me la mangio subito – perché davvero non ce la faccio più – dopodiché mi trovo comunque un ristorantino e mi prendo un solo piatto, giusto per premiarmi.
Mentre sto sbranando lo snack in un vicolo, però, il destino fa sì che l’unica persona che passi sia proprio il tizio di prima. Rimane comprensibilmente un po’ perplesso nel vedere che ho rinunciato al ristorante e mi sono imboscato in quell’angolo buio. Spiegatogli il mio piano malandato, mi prende ancor più in simpatia e decide che stasera cenerò al locale del suo amico Santi. Il posto si chiama “El mono del camino” – “La scimmia del cammino” – e incredibilmente è proprio di fronte a dove alloggio.
Si rivela essere un luogo come non ne avevo mai visti prima: praticamente è un alto garage riadattato a fast food, molto grezzo ma originale. La cucina è ridotta al minimo e la dispensa non è nient’altro che una scaffalatura di metallo piena di prodotti precotti orientali. In cima, inaspettatamente, ci sono appese un sacco di magliette e felpe. Sono in vendita, ma posso solo immaginare quanto siano impregnate dei fumi – pur buoni – delle mille cotture. Al di là di tutto, però, mi ci sento a mio agio fin da subito.
Santi si rivela un po’ brusco all’inizio, ma poi si scioglie. Avrà almeno una decina d’anni più di me, porta un cappellino da baseball e una felpa col cappuccio. La ciliegina sulla torta è che il suo diminutivo sta per Santiago, una piccola coincidenza che mi fa sentire al posto giusto.
Come era chiaro, ama sperimentare ispirandosi alla cucina asiatica, che mi sembra di aver capito abbia conosciuto in un’esperienza in Korea. Mentre cucina, mi racconta un po’ di aneddoti curiosi riguardo alla sua vita e al Cammino. Alla fine mi serve un pasticcio che sa di piccante e poco più, ma non importa. Mi piace comunque la piega che ha preso la serata, e insieme ai due inediti compagni, brindo finalmente ai miei cinquanta chilometri.
Questa cifra altisonante, però, non è la sola da celebrare: oggi, infatti, ho raggiunto 80 giorni di cammino e ora sono a meno di 200 km dalla meta! Sono numeri che mi gonfiano di emozione, ma allo stesso tempo introducono anche qualche prima traccia di rammarico per un’avventura che, pur avendo ancora molto da regalarmi, sta avvicinandosi inevitabilmente alla sua conclusione.
Domani mi aspettano molti meno chilometri, ma da affrontare ci sarà l’ultima grande salita, quella che mi porterà a superare le porte della Galizia e arrivare alla famosa O Cebreiro.
(Albergue Municipal)
24km
Primo giorno spagnolo senza i due amici di Laigueglia. È una sensazione tutta particolare. Sono eccitato, certo, ma al contempo molto tranquillo. C’è della poesia in questo snodarsi della vita.
La cosa bella è che su questo Cammino ogni scelta sembra positiva. La ricchezza in cui si è calati è talmente abbondante che si ha sempre l’impressione di andare incontro a qualcosa che ci arricchirà e ci aprirà uno sguardo nuovo, mai ad un vicolo cieco. Spero che anche Tiziano e Amedeo sentano lo stesso respiro dentro di sé.
Mi preparo ed esco in perfetta sicronia con Martin. Dopo averlo fatto con la cena, scegliamo di condividere anche la colazione. Entrati in un piccolo bar, lui si fa ingolosire dalla proposta della giovane cameriera e prende caffè con churros a parte. Inizialmente mi chiedo come si faccia a mangiare roba fritta a quest’ora, ma subito dopo mi torna in mente che a Logroño avevo fatto anch’io lo stesso – e senza una ragazza a convincermi. Scambiamo ancora due chiacchiere e poi lo lascio partire, mentre io vado ad aspettare che apra il supermercato.
Incontrarsi e lasciarsi andare, e magari trovarsi ancora più avanti, chissà. Non sappiamo se ci rivedremo, ma va bene così. La cosa straordinaria è che qualcosa in tutto questo riesce a mettermi inaspettatamente a mio agio.
Trovo una panetteria aperta con delle golose empanadas esposte, così ne prendo un paio per il pranzo. Mi resta da comprare un po’ di frutta e il necessario per colazione e pranzo di domani.
Ogni volta che mi carico in questo modo una parte di me urla al sacrilegio: “Devi fidarti del Cammino!”, “Sei posseduto dalla paura e dalle preoccupazioni!”, o qualcosa del genere, insomma. Non nego sia un piccolo grande eccesso, ma sembra che io non abbia mai superato la traumatica esperienza francese, quando la scarsità di punti di rifornimento (a buon mercato) rendeva tutto molto complicato. Credo che sia diventata un’ossessione, ma ormai la vivo con serenità; forse perché dopotutto anche in Spagna questo approccio mi ha dato un paio di benefici preziosi: la possibilità di gestire in tutta libertà le pause per i pasti e quella di risparmiare non pochi soldi. A ognuno il suo stile.
Fatto tutto, lascio il centro di Astorga che sono ormai le 9 inoltrate. Mi dispiace non aver visto l’alba nel mio primo giorno “da single” dopo tanto tempo, ma perlomeno il tempo è straordinario.
L’inizio non è male: una discesa di circa un chilometro a bordo strada con pochi alberi, tanta luce e una discreta vista panoramica. Appianatasi nei pressi dell’Eremita del Ecce Homo, la strada riprende poi a salire in maniera impercettibile. Me lo dice la cartina della guida, rispolverata per via del fatto che non ho più il buon Tiziano ora a far da navigatore – anche se l’abbondante segnaletica rende il Cammino molto facile da percorrere. Come al biondo ligure, però, anche a me piace usare mappe e conoscere pendenze e chilometraggi, spendersi in qualche calcolo su tempi e velocità, conoscere la via anche sulla cartina, e così via. Prima dei Pirenei sono diventato matto più volte per questo, e non per gioco, ma per necessità. Mi era venuta la nausea a forza di consultare siti e guide tutti sul piccolo schermo del cellulare, anche se son stato parecchie volte fiero di me stesso per come son riuscito a barcamenarmi.
Ad ogni modo, il percorso per ora corre rettilineo e non si può sbagliare nemmeno a volerlo, così rimetto il telefono in tasca e torno a camminare con lo sguardo rivolto in avanti.
Lungo la via ritrovo Salvador, conosciuto nel refettorio dell’albergue di León, e ci regaliamo un tratto di strada assieme. Si dimostra un ragazzo genuino e vitale, una splendida compagnia. Lo lascio proseguire una volta arrivati al primo paese, Murias de Rechivaldo, dove sta l’amica italiana presso cui hanno pernottato Amedeo e Tiziano. Ieri le avevo promesso che sarei passato per prendere un caffè insieme, così da conoscerci dal vivo, fare due parole e poi proseguire.
L’albergue che gestisce è poco distante dalla rotta principale e lo raggiungo in pochi minuti. Fraintendo quale sia l’accesso esatto e mi ritrovo ad entrare dal retro come un ladro. Mi “scopre” il suo compagno, un tedesco solare con cui scambio giusto due battute. Dopo pochi minuti ci raggiunge Miriam, e con lei rimango a tu per tu quasi un’ora. Sicuramente anche grazie al fatto di condividere lingua e cultura, la pausa insieme vola via velocissima, e la sensazione è quella di conoscerci già da tempo.
I temi, inevitabilmente, sono le reciproche esperienze di cammino: ciò che ci ha portato a sognarle ed affrontarle, che cosa hanno regalato e stanno regalando alle nostre vite e, non ultimo, cosa mi ha mosso per arrivare al cambio di rotta di ieri. Ne nasce un momento squisito e, con quelli già vissuti con Martin e Salvador, già mi fa benedire questa giornata appena cominciata.
Prima di andarmene, mi consiglia di non tornare subito sul percorso originale, ma di deviare ulteriormente verso Castilla de los Polvazares – davvero a un tiro di schioppo. Da lì, poi, dice che sarà facile ricollegarsi, che saranno un paio di chilometri in più ma ne varrà la pena, e questo basta per convincermi.
Mi accompagnano per il primo tratto, facendomi anche scoprire qualche viuzza di Murias davvero bellissima. Ci dividiamo in corrispondenza di un bivio pedecollinare: loro proseguono la loro passeggiata verso Astorga e io esattamente dalla parte opposta.
A lato del sentiero ci sono vecchi terreni abbandonati, cinti con muri a secco un po’ malandati. Sotto i piedi terra rossa, sopra la testa il cielo azzurro come non mai e sul viso un sorriso ebete che non se ne vuole andare.
Dopo mezz’ora raggiungo il paese che mi ha indicato Miriam, e subito ne resto incantato. Gli edifici hanno per lo più un solo piano, muri in pietra a vista e tetti spioventi con tegole perfette. Qualsiasi facciata sembra splendidamente curata; gli infissi sono dipinti di blu o di verde, mentre le cornici in pietra di bianco: sembra tutto restaurato di recente.
Le strade sono selciate elegantemente e impreziosite da lampioni a lanterna; si aprono qua e là in piccole piazze vuote, senza fontane né monumenti. Non c’è traccia di negozi o vetrine, ma nel mezzo trovo una chiesa con l’ormai immancabile nido di cicogna sul campanile.
Cammino con calma, perdendomi volontariamente e godendo di ogni cosa. Girato un angolo, scorgo un paio di pellegrini in bicicletta che ascoltano sorridenti un anziano del posto far loro da cicerone. Fuori da una casa c’è un vecchio furgoncino Volkswagen. Sul finire dell’abitato, un uomo mi saluta sorridente dall’alto di una scala; sta riverniciando le ante delle finestre.
Posso dire per certo di trovarmi nel paese più delizioso visto fin qui in Spagna, e non mi stupisce scoprire faccia parte di una rete che ne unisce altri altrettanto belli, sotto il nome eloquente di “Los pueblos mas bonitos de España”.
Torno infine a camminare tra terreni incolti dal fascino inaspettato: sono l’emblema della bellezza che la natura sa regalare anche nella più radicale povertà.
Le indicazioni per ricongiungermi al tracciato ufficiale non sono così visibili come mi aveva detto Miriam. Può anche darsi io abbia preso una svolta sbagliata, ma la vivo con gran rilassatezza. Do un’occhiata alla cartina e mi oriento un po’ a naso, ritrovando la giusta rotta senza grandi difficoltà.
Mentre sto per raggiungere Santa Catalina de Somoza mi accorgo di una cosa curiosa: qui i mojones includono l’elenco di tutti i paesini che si susseguono in questi chilometri. Forse sono solo un’invenzione di qualche assessore creativo, ma a me trasmettono un’idea molto forte: che questa catena di luoghi non sia solo una successione anonima, ma che invece si sentano legati l’un l’altro in modo particolare.
Non so se sia vero o meno, ma mi piace questo fantasticare. È un’esperienza che il Cammino alimenta moltissimo, e non è la stessa cosa di quando sul divano guardiamo il soffitto e ci culliamo tra mille visioni; sulla via le immagini nascono dai sensi, da quello che si incontra e si supera in continuazione. Basta uno sguardo, un contatto, il verso di un animale, e da quella particella di realtà la fantasia comincia le sue piroette.
Un’altra particolarità che ho notato, è che questi voli immaginari non durano mai troppo a lungo. Arriva sempre un nuovo frammento di vita presente a stuzzicarci, a riportarci tra passi e sudore, per poi lasciarci di nuovo prendere il volo.
Stando così le cose, è facile immaginare che i cari mojones – compagni fedeli del pellegrino – siano spesso trampolini di lancio per qualche pensiero acrobata, ma al medesimo tempo anche arpioni capaci di riportare il camminatore alla sua amatissima fatica.
Finora credo di averne già incontrate almeno cinque o sei varianti. Alcuni mi si sono impressi nella memoria, addirittura diventando cardini di ricordi inestimabili – penso a quello che segna l’entrata tanto sudata in Castilla o a quello sormontato da uno scarpone rotto nelle mesetas.
Non solo, grazie a loro ho provato spesso anche qualcosa che sembrerebbe paradossale per una persona che si sposta incessantemente da settimane: la strana sensazione di sentirmi a casa. Mi muovo ogni giorno attraverso luoghi sempre nuovi che calpesto per la prima e forse unica volta, sforzandomi di parlare lingue che non sono la mia, eppure lungo questa arteria spagnola lunga quasi mille chilometri non mi sto sentendo mai del tutto forestiero, mai davvero estraneo.
Certo, questa atmosfera è sostenuta innanzitutto da chi abita queste terre, persone che sposano la cultura dell’accoglienza in una maniera assolutamente non scontata. Eppure sono convinto che anche elementi inanimati come i cippi in pietra, i cartelli o le frecce gialle verniciate nei luoghi più improbabili rappresentino a loro volta testimonianza “viva” di quella stessa accoglienza. Per me non sono solo segni e oggetti, sono elementi amici, una presenza rassicurante e fondamentale.
Quando non ne trovo me ne accorgo alla svelta, mi mancano, e non solo perché non so più che svolta prendere, ma perché i luoghi che sto attraversando diventano d’improvviso meno miei. Quell’impressione di sentirmi “a casa” svanisce.
A casa… “Quale casa?”, mi domando. Ne ho cambiate tante negli anni. Cos’è casa ora? Il viaggio sembra riuscito a stravolgere in me anche quel concetto così radicato, facendo sì che in questo momento casa per me non sia più qualche metro quadro chiuso da mura e soffitti, ma la via stessa.
Non tutti siamo fatti per vivere “on the road”, ma cammini come questo offrono a chiunque la possibilità di fare una certa esperienza di nomadismo, di viandanza, nella quale alcune certezze delle nostre vite abituali mutano radicalmente, magari arrivando a metterci in discussione a fondo, ma senza minacciarci mai.
Il Cammino sa essere rassicurante e allo stesso tempo inquietante – nel senso che è capace di scuoterci, di destabilizzarci – ma sempre in una misura sostenibile e producente. Sta a ciascuno sfruttare come meglio può questo laboratorio esistenziale.
Ecco qua: un esempio lampante di come un semplice dettaglio possa proiettare spirito e pensiero in voli straordinari. Dopo questo doppio salto carpiato, però, l’avvicinarsi di Santa Catalina de Somoza mi riporta subito coi piedi per terra. Per entrare in paese c’è un bel vialetto pedonale delimitato da un muretto a secco. All’imbocco è stato posto un gran blocco di pietra, immagino per impedire l’ingresso delle auto. Sopra c’è inciso “Mateo 19: 16-30”, nient’altro: una manciata di lettere e numeri che forse viene snobbata dai più, ma mi piace pensare che tanti altri accettino la sfida e vadano a cercarsi online quei versetti. Il messaggio che credo centrale di quel brano di Vangelo è “Lascia tutto e seguimi”. Sono parole quasi elementari, ma che hanno la forza di un gran pugno nello stomaco. Mi fanno vibrare come una campana, e riprendo a camminare solo dopo averne lasciato esaurire l’effetto.
L’attraversamento del paese è rapido e non troppo entusiasmante, ma all’uscita trovo una piccola area verde ideale per fare una sosta. C’è qualche panchina e una croce di pietra con una conchiglia scolpita nel mezzo. Il sole splende su tutta la larghissima vallata sottostante, dove alcuni paesini sparsi punteggiano un’infinità di terreni incolti e verdeggianti. Non potevo trovare posto migliore, quindi mi scarico finalmente dello zaino, mi accomodo e sfodero la mia schiscèta, godendomi una pausa di pace beata.
Ricevo in dono anche un piacevole scambio di battute con un’anziana signora. Curva e smilza, col bastone da una parte e la badante dall’altra, sta tornando dalla sua passeggiata e sembra felice di salutare l’unico pellegrino nei paraggi. Mi chiede qualche informazione, poi mi augura buon viaggio e se ne va sorridente.
Ancora una volta, mi rimetto in moto con una gioia maggiore di quando mi ero fermato: potere terapeutico del Cammino!
La via segue tutta dritta, o poco ci manca, e allo sguardo continua ad essere concesso di spaziare per chilometri, esorcizzando totalmente noia e stanchezza.
Attraverso anche El Ganso, collezionando la vista dell’ennesimo campanile coronato da un nido di cicogna. Prima o poi giuro che mi informerò sul perché di questa cosa tanto bizzarra e pittoresca. Ma io dico, ma non saranno fastidiose quelle scampanate?! Mah!
Nonostante il percorso sembri svilupparsi tanto in piano, scopro che ho raggiunto i 1000 m di altitudine. L’ultima volta fu sui Montes de Oca, durante la tappa precedente a Burgos, e prima ancora solo sui Pirenei. Domani mattina arriverò alla famosa Cruz de Hierro, a circa 1500 m, poi l’ultima salita significativa resterà quella per O Cebreiro, che corrisponderà anche all’entrata in Galizia.
Wow! Che vertigini ogni volta che si sposta il pensiero dai cinquanta centimetri del proprio passo alle centinaia di chilometri percorsi o da percorrere! E quando si realizza di esserci riusciti con le proprie gambe, lo stupore letteralmente esplode. Sono emozioni spettacolari!
Tornando per un attimo ai mojones, quelli che sto incontrando ora hanno tutti un sacco di sassolini e pietruzze poggiati sopra. Chissà che qualche pellegrino non stia allenandosi al gran rito che aspetta anche me domani: quello di posare una pietra ai piedi della Croce di ferro. È un gesto che mi par di aver compreso simboleggi l’abbandono del proprio carico esistenziale, delle proprie pesantezze, in previsione della redenzione che si compirà di fronte all’Apostolo, inaugurazione di una nuova vita e di un nuovo sé.
Non so se queste pile di pietruzze siano qui per questo, ma sicuramente riescono a ricordarmi che siamo in tanti a seguir la stessa rotta, e il pensiero di esser parte di un flusso vitale così gremito mi lascia sempre un buon sapore.
Superato un breve tratto di boscaglia, si comincia poi a camminare lungo i bordi di una grandissima pineta. All’incrocio stradale che ne segna il termine, noto due cartelli: uno indica finalmente Rabanal del Camino, la meta che mi sono scelto per oggi, mentre l’altro accenna a un mirador – un punto panoramico – e a delle antiche miniere d’oro. Non mi è mai capitato di visitarne una, è qualcosa che associo solamente a qualche vecchia storia ambientata nel Far West. Sembra siano distanti solo 700 m, quindi ho tutto il tempo di togliermi anche questo sfizio fuori programma. Una volta sul posto, però, io coi miei occhi non vedo proprio nulla, né miniere né punti panoramici degni di esser chiamati tali. Per fortuna trovo almeno dei pannelli informativi ben fatti e mi lascio suggestionare dalle spiegazioni di come i Romani estraessero in quest’area grandissime quantità di oro, ovviamente con la loro immancabile ingegnosità.
Tornando sui miei passi, comincio a raccogliere alcuni sassolini da terra. Ne scelgo di un tipo particolare, perlacei, che trovo solo di quando in quando. Mi piacciono, e saranno quelli che lascerò domani. Non sono un amante dei riti collettivi, ma questa volta mi fa piacere poterlo vivere. Il motivo è che fin dalla partenza so che non depositerò lassù solo quello che pesa sul mio cuore, ma anche ciò che sta schiacciando anima e corpo di tante persone per me importanti. Le ho portate tutte fin qui giorno per giorno, e non solo con questo sasso oggi. Ovviamente non mi aspetto cieli squarciati o guarigioni improvvise, ma come sempre resto convinto che qualsiasi modo con cui si coltivano benevolenza ed empatia porterà al mondo un briciolo di cambiamento positivo, perlomeno attraverso un piccolo o grande rinnovamento dentro la persona che ha fatto quel tentativo.
Ritornato all’incrocio, l’ennesimo cippo indica che mancano poco più di 250 km a Santiago de Compostela. Ci siamo quasi: avanti tutta!
Seguo la via pellegrina che si allontana dalla strada asfaltata. Salgo per un sentiero godibilissimo, circondato da piante giovani. Snelle e pocho frondose, regalano il piacere di una camminata nel bosco ma senza privarmi dell’azzurro del cielo.
Alla mia destra, una rete segna il confine con un terreno privato, e tra le sue maglie sono incastrate moltissime coppie di ramoscelli assemblati a mò di mo’ croce, come già fu prima di León. Il ricordo di quella scena lugubre mi fa rabbrividire, ma devo ammettere che oggi il contesto e il clima completamente opposti rendono questi segni decisamente più gradevoli.
Il percorso mi riporta presto sulla carreggiata, ma il paesaggio mantiene almeno un suo fascino bucolico, grazie ad alcuni pascoli e un paio di fattorie. Lungo la salita incontro l’Ermita de la Vera Cruz, una piccola chiesa dall’aspetto sobrio ed elegante. Ci giro un po’ attorno per rifarmi gli occhi: sono incantano da tutte quelle pietre a vista perfettamente incastrate tra loro, e così anche dal panorama che si gode dalla terrazza naturale su cui è posta.
Rabanal del Camino è a un passo, ormai: posso già vedere il campanile che spunta aldilà delle ultime piante. Raggiante in volto, in pochi minuti arrivo nel cuore del piccolo borgo. Guardando le insegne, sembra che un po’ tutto qui ruoti intorno all’accoglienza pellegrina, peccato solo sia chiusa quasi ogni attività – inutile dire il perché, ormai.
Di fronte a una seconda chiesa – non ancora quella del campanile – noto un particolare mai visto prima: nell’unica piccola nicchia in mezzo alla facciata sta in bella mostra una statua con un uomo barbuto che porta in braccio un neonato. La mia sorpresa nasce dal riconoscere spontaneamente in quell’uomo la tipica rappresentazione di Gesù, e vederlo con in braccio sé stesso è davvero qualcosa di spiazzante. Chissà se c’ho visto giusto.
Promettendomi di scoprirlo più avanti, proseguo lungo la bella via centrale, raggiungendo l’ultima chiesa e svoltando poi tra le strade strette e nodose. Giungo infine a un grande piazzale sul quale si affacciano addirittura tre albergues – anche se oggi l’unico aperto è quello municipale.
Non trovo un vero ingresso per la registrazione, così apro la porta che mi pare con più probabilità essere quella giusta e….wow! È l’accesso di una camerata molto suggestiva e calorosa, con travi a vista e una stufa a legna accesa a pieno regime. Dentro c’è già qualche altro pellegrino, alcuni li conosco: c’è la coppietta vista l’ultima volta ad Hospital de Órbigo e il signore fiammingo incontrato a colazione a León. A questi si aggiunge un professore francese che si dimostra fin da subito molto gentile. Mi avvisano che per la registrazione arriverà una ragazza, ma se voglio sul tavolo c’è già il timbro per la credenziale.
Con calma, mi faccio una doccia e poi scambio due chiacchiere con gli altri ospiti davanti alla stufa. In questa splendida atmosfera, però, arriva come un fulmine a ciel sereno la comunicazione che la Castilla y León inasprirà i provvedimenti per il contenimento della pandemia. La notizia peggiore per noi è che sembra prevista anche la chiusura della hosteleria – esattamente quel settore che ci dá da dormire, per intenderci.
Negli articoli e nei documenti che troviamo sul web non si fa cenno al caso specifico del Cammino e di chi lo sta percorrendo, ma l’impressione è che questo nuovo provvedimento faccia decadere la nota ufficiale precedente, quella che garantiva ai pellegrini rimasti in questa regione di poter proseguire normalmente fino a uscirne.
La notizia ci destabilizza molto, ovviamente. Dove andremo a dormire?! Davvero finirà tutto così?
Tiriamo un sospiro di solievo quando ci rendiamo conto che i giorni concessi per l’uscita dalla Castilla y León saranno tre, cioè esattamente quelli che tutti avevamo già in programma per superare il confine. Una volta in Galizia, poi, pare ci siano margini maggiori per riuscire a proseguire i nostri rocamboleschi pellegrinaggi, anche se l’arrivo a Santiago è ancora appeso a un filo.
Malauguratamente però, una seconda lettura ci fa capire di esserci sbagliati: in realtà i giorni a disposizione saranno solo due! La notizia dà un colpo durissimo al nostro morale. Ci sentiamo inermi, incapaci di generare soluzioni se non quella di prendere ancora una volta un mezzo di trasporto – idea che ancora una volta mi produce una repulsione profonda. Teniamo le dita incrociate e continuiamo a sperare in qualche novità che ci permetta fortunosamente di continuare.
Per quanto mi riguarda, ho come la sensazione che una valanga mi sia tornata alle calcagna, e in effetti un po’ è così. È quella delle infezioni di Covid che aumentano incessantemente, e con quelle anche le chiusure, i confinamenti, le restrizioni.
Mi sento profondamente lucido su cosa conti davvero in questo momento storico: i mesi lavorati in casa di riposo durante la prima ondata – proprio lá dove il virus aveva attaccato con maggior violenza – non sono ricordi che possono essere messi da parte. Nonostante ciò, l’estate scorsa ho scelto comunque di fare una grande follia e realizzare questo sogno nomade.
Ora sono a pochi passi dalla meta, sono già fuggito diverse volte e da pochissimo ho riabbracciato questo viaggio con uno stile più pacificato e personale. Sentirmi travolto ancora da questa nube di terrore mi ferisce e mi agita.
L’immagine che già da settimane mi rimbomba in testa è quella del grande Nulla della Storia Infinita: una forza devastante, proprio sotto forma di un’immensa nube grigia che al suo passaggio fa sparire letteralmente ogni cosa. Non ho mai letto il libro, ma nel film il paladino ne fugge per compiere la sua missione.
Io non mi sento il paladino di nulla, ma in effetti sì, l’immagine calza alla perfezione con quello che sento.
Mentre mi adopero per fare tutte le valutazioni necessarie, consultare le mie fonti più affidabili e chiamare i primi albergues, noto che il signore più anziano – olandese se non ricordo male – si mette a cenare beatamente seduto al sole nel piazzale, seppur sia solo tardo pomeriggio. Essendo io uscito in cerca di rete, ci troviamo uno di fianco all’altro a dialogare su quello che sta succedendo.
Fin da subito è evidente che in questo momento abbiamo due stati d’animo opposti. Ad uno sguardo poco attento il mio interlocutore sembrerebbe totalmente sereno, tant’è che comincia ad invitarmi ripetutamente alla calma e a tentare di rassicurarmi. È un messaggio ragionevole il suo, non lo nego, eppure ho l’impressione che me lo stia dicendo soprattutto per rassicurare sé stesso, per convincersi che il disguido non esista.
Sospendo per un attimo questa mia sensazione e continuo il dialogo. Gli confesso senza vergogna la tensione che ho addosso, ma gli chiarisco anche che non sono fuorio controllo e sono molto lucido sulle alternative a mia disposizione. Ho solo bisogno di una ventina di minuti in cui lasciar vivere e sfogare il mio rammarico – questo, infatti, è quello che provo maggiormente, perché speravo proprio di godermi più a lungo e più serenamente la mia recuperata condizione solitaria.
Purtroppo, il messaggio sembra proprio non andare a segno, a tal punto che addirittura aumenta la sua insistenza: secondo lui io non dovrei essere minimamente nervoso. Come è facile immaginare, però, così facendo riesce a farmi esattamente l’effetto opposto. Oltretutto, la cosa che reputo ancor più paradossale è che cerchi di rassicurarmi senza informarsi di nulla, e glielo comunico, sperando che sia sufficiente a sancire le diverse esigenze e spegnere la sua vena redentrice.
La mia strategia si rivela fallimentare e, come una perversa partita a poker, subisco l’ennesimo rilancio: con un sorriso per niente convincente, mi spiega che lui è pronto ad accettare con pace interiore la possibilità che il suo cammino si interrompa.
Ancora una volta lo comprendo – o almeno così mi pare – ma se questo è il suo punto d’equilibrio non per questo dev’essere lo stesso anche per gli altri. Gli ribadisco che ho solo bisogno di dare respiro a questi miei sentimenti, e ripetermi banalmente di non provarli non è né necessario né gradito. Severamente, quindi, tento di chiudere il discorso invitandolo a non preoccuparsi ulteriormente per me.
È tutto inutile. Anzi, la situazione si fa addirittura più grottesca, perché ribatte nuovamente. Questa volta ci tiene ad informarmi di essere esperto nella gestione di persone fortemente agitate, in quanto per tutta la vita ha fatto il poliziotto ed era proprio lui che chiamavano nei casi più delicati.
La pressione inopportuna che mi sta facendo mi fa immaginare per un attimo quali casini abbia potuto combinare, ma mi impongo di essere ottimista. Ciò comunque non mi trattiene dal mantenere la mia linea dura e schietta: gli comunico che, fosse anche stato mio padre, non lo ascolterei comunque oltre, e concludo garantendogli che mi basterà meno di mezz’ora per metabolizzare la cosa. Una mezz’ora di pace, però, senza tutte le sue pressioni!
Rimane molto ferito dalle mie parole e si ritira con grande tristezza, dicendo che alla mia età è davvero un peccato che io mi innervosisca in quel modo.
Non sono fiero né dell’agitazione che mi è nata dentro né di avergli procurato questi sentimenti, ma al contempo sento come se ci sia stato qualcosa di inevitabile in quello che è successo. Se farmi calmare non era un modo per esorcizzare l’agitazione che lui stesso covava, forse era qualcosa che sentiva come un dovere, e aver fallito lo ha abbattuto. Ovviamente è solo una riflessione, so bene di non poterlo dire per certo.
Ad ogni modo la mia predizione si avvera e, digerita la cosa, torno perfettamente sereno. Ho partorito un piano folle, ma molto eccitante: camminerò 84 km in due giorni!
La gran parte del mio nervosismo era dovuta al fatto che ero felice di aver appena cambiato approccio con questo cammino tutto di corsa, di fuga. Nella mia testa io mi vedevo arrivare a Santiago con calma, lasciandomi trasportare da ogni nuova conoscenza o esperienza interessante che mi sarebbe capitata. E invece…boom! Ecco la realtà che vede e rilancia! Ma io non mi sono sentito fuorigioco nemmeno per un attimo, e mi sono solo legittimamente incazzato. Avevo chiaro fin dal primo minuto che una possibilità sarebbe stata quella della super tappa da quasi 50 km, e mentre il povero poliziotto spendeva tutte le sue buone intenzioni per cercare a tutti i costi di iniettarmi la pace dei sensi, io già stavo ragionando sulla fattibilità della cosa.
Non ho mai camminato tanto in un sol colpo in vita mia, anche se ci sono andato vicino con la tappa di Belorado. È anche vero, però, che sono in viaggio sulle mie gambe da due mesi e mezzo e sono molto più consapevole di quanto la mia mente e il mio corpo possano sopportare.
Il nervosismo era solo la materia grezza che stava lentamente tramutandosi in eccitazione per questa ennesima sfida, ora mi è davvero chiaro. Direi che la lezione è evidente: se mi ricapita di trovare un consolatore seriale, l’unica soluzione è mettermi a correre fino a seminarlo, o alla peggio fingere di svenire.
Risolto finalmente tutto quanto e presa la mia decisione, mi accorgo che il sole già non illumina più il piazzale e si comincia a sentir freddo. Decido quindi di tornare in camerata e – altra sorpresa – ecco arrivare Fred, il chitarrista francese.
Una volta sistematosi, ci spiega che purtroppo i suoi dolori sono peggiorati, ma questo non riesce comunque a togliergli il buon umore. Alla chiusura degli albergues quasi non ci pensa: “Sia quel che sia”, fa intendere sornione. È indubbiamente un personaggio dalle molte sfaccettature: il veleno non gli manca, ma è anche acuto e piacevolmente buffone quando vuole.
È ormai ora di cena, e per qualche motivo mi metto in testa di andare a mangiar fuori anche stasera, trovando buona compagnia nel professore francese.
Lungo il breve tragitto, facciamo una capatina in un minuscolo negozietto di alimentari dove non c’è solo del cibo, ma tutto quello che potrebbe mai servire a un pellegrino. Cosa mai scontata, oltretutto, la signora è anche incredibilmente gentile; sembra proprio che ami la cultura del Cammino. Usciamo quindi carichi di tutto il necessario, unito a un pizzico di allegria inaspettata.
Passando poi di fronte alla chiesa del Asunción – quella del campanile – la troviamo aperta e ci entriamo per dare un’occhiata. È molto più piccola di quello che pensavo. Ha il soffitto a botte e si presenta particolarmente spoglia, senza stucchi né vernici – solo pietra viva. C’è un unico semplicissimo crocifisso di legno, e sta appeso dietro all’altare. Nel complesso, questo luogo mi ricorda la versione tascabile della chiesa di Boscodon, visitata ormai quasi due mesi fa lungo la Via Domitia. Sembra passata una vita, che ricordi!
Ci intratteniamo solo un paio di minuti e poi entriamo nel ristorante dietro l’angolo. Ci siamo solo noi, e chi ci serve è piuttosto triste – cosa più che comprensibile visto che saranno costretti ancora una volta a chiudere i battenti.
Il professore mi spiega che domani mattina partirà molto presto – alle 6:30 – e non certo perché ha il mio stesso programma. In realtà lui è solo molto lento a camminare, mi confessa, ma allo stesso tempo non ama arrivare troppo tardi a fine tappa. È proprio vero che ogni Cammino è diverso.
La cena fila via liscia: abbiamo mangiato discretamente e sono riuscito anche a strappare un mezzo sorriso alla proprietaria, insistendo un po’ con i complimenti.
Quando torniamo in albergue è ancora presto. Il povero poliziotto dorme già, ma gli altri sono svegli vicino al bel fuoco della stufa. Fred finisce di mangiare i suoi noodles in scatola, proprio come la sera di Astorga, ma poi cede alle nostre insistenze e prende la chitarra. Suona e canta meravigliosamente, e ci sorprende tutti con canzoni bellissime e famose, perfette per una serata come questa. Con l’ultima riesce davvero a incantarmi: ci regala una bellissima rivisitazione di Hallelujah, ispirandosi alla famosa cover di Jeff Buckley ma mettendoci molto del suo. Quanto può fare la musica!
Prima di addormentarmi, purtroppo, ho ancora tempo per ricevere un’altra notizia inattesa, stavolta un po’ triste perché senza soluzione: Valerio, il pellegrino partito dall’Italia qualche settimana dopo di me – quello che aveva tentato di affrontare il Camino del Norte nonostante le restrizioni già scatenatisi – è stato bloccato insieme ai suoi compagni di viaggio e ora dovrà obbligatoriamente tornare in Italia. La sua voce nel messaggio che mi manda, però, è ancora ricca di energia e voglia di riprovarci quando le cose si saranno sistemate. Quanta forza scatenano questo percorso, quella meta! Sto collezionando una quantità di testimonianze davvero incredibile.
E finisce così anche questa giornata tanto speciale, anche se in fondo mi domando: ce n’è stata una che davvero non lo sia stata da quando sono partito?
(Albergue Siervas de Maria)
17km
La luce che filtra dalle tende parla chiaro: di sole stamattina non ce n’è, e quando le apriamo scopriamo che ad aspettarci c’è anche la cara amica nebbia. Seppur lunedì, oggi è ancora festa: il giorno dei morti, per la precisione, e mai condizioni meteorologica poteva essere più azzeccata.
L’idea di immergerci ancora nell’abbraccio freddo di quel muro lattigionoso non è esattamente lo stimolo migliore per uscire dal letto, ma è comunque tutt’altra cosa di quando capita a casa propria, col cartellino che ti aspetta per essere timbrato o cose simili. In cammino, per quanto le condizioni avverse riescano a sconfortare, possono comunque essere trasformate in piccole o grandi sfide capaci di animare la giornata. Insomma, siamo degli inguaribili borbottoni ma oramai sappiamo di avere nella tasca la carta più preziosa: la consapevolezza di star vivendo un sogno ad occhi aperti, in piena libertà. Basta solo non dimenticarselo.
Mentre facciamo colazione, vediamo uscire di buona lena la pellegrina sculettante conosciuta ieri a cena. Noi stiamo quasi finendo, e c’è buona probabilità che la raggiungeremo già durante le prime ore di cammino.
Una volta lasciato l’albergue, torniamo sulla strada del ponte e attraversiamo il centro del paese. Al primo incorcio, inaspettatamente, scorgiamo già l’amica pellegrina partita prima di noi, ma la sorpresa più grande è trovarla seduta alla fermata dell’autobus. Chiaramente è difficile non riderne almeno un po’, ma in fondo ognuno è giusto che si viva l’esperienza come può o come preferisce.
D’altronde, per motivi nostri, anche noi abbiamo saltato a piè pari ben 80 km del Cammino: 70 in Navarra e 10 l’altro giorno dopo Moratinos.
Anche quando camminavo da solo in Francia avevo già “tradito” il mio proposito altre due volte. La prima nacque da un fraintendimento, e mi risparmiò una dozzina di chilometri; la seconda qualcuno di meno, tra Vendargues e Montpellier, cedendo agli eventi e al piacere di concludere la giornata con il buon vecchio Fabian.
Tornando alla signora, Tiziano ci racconta come situazioni simili diventino dilaganti durante gli ultimi 100 km. Questa, infatti, è la distanza minima da percorrere per ottenere la Compostela, il certificato di avvenuto pellegrinaggio consegnato presso gli uffici del pellegrino a Santiago.
In quelle ultime tappe si riversano migliaia di persone contemporaneamente, ovviamente portando zaini leggerissimi, ma spesso pagando perché gli vengano trasportati con qualche mezzo. Pare però che non sia raro che qualcuno si faccia accompagnare con maligno ingegno tra un albergue e l’altro, per collezionare timbri uitli all’ottenimento del certificato senza nemmeno camminare. Sono i casi in cui il turismo prettamente consumistico del Cammino arriva a livelli inquietanti.
Che fare? D’altronde la scala di radicalità con cui si affronta quest’esperienza non ci vede di certo ai primi posti. La cosa giusta credo sia rilassarsi e godersi fatiche, gioie e debolezze, senza giudicare troppo gli altri. Non solo, però: credo anche sia essenziale non sentirsi la coscienza sporca quando si capisce di non essere all’altezza di un integralismo pellegrino che, inevitabilmente, può essere croce e delizia solo per pochi.
Lasciando Hospital de Órbigo ed entrando tra i primi campi, la nebbia ci impedisce di vedere oltre la trentina di metri in tutte le direzioni. L’assenza di brutti edifici e di strade asfaltate per questo tratto mi dá comunque un sollievo così grande che, per quanto tetro, lo scenario mi appare soprattutto poetico.
Ne resto convinto: la natura non fa niente di brutto, quella è una delle esclusive dell’uomo. Anche cose raccapriccianti come una carcassa a lato strada o qualsiasi altra cosa capace di produrre un iniziale ribrezzo in natura, ho scoperto che non la percepisco mai brutta, ma sempre almeno affascinante.
Restiamo tra i campi per una mezz’ora, per poi fare capolino a Villares de Órbigo, un piccolo paese non certo valorizzato da questo clima crudele. Ne usciamo salendo una collinetta piuttosto spoglia, dalla quale ci godiamo il saluto del sole mattutino che oggi pare il fantasma di sé stesso dietro questa coltre opaca. Io mi fermo per godermi il momento, e nel contempo osservo le sagome di Amedeo e Tiziano sparire lentamente nella nebbia, quasi fosse il finale di un film.
Tornato al loro fianco, arriviamo ad un parco giochi che sembra la versione più poetica di quello visto un paio di giorni fa ad Arcahueja. Il paese che sta immediatamente dopo, invece, si chiama Santibañez de Valdeiglesias. Sembra povero e deserto, ma invece troviamo un cartello di fianco a una porta aperta che indica la vendita di bibite e snack. È l’albergue parrocchiale, al quale però non è consentito accedere. Chiamiamo per capire se ci sia qualcuno, ed esce un vecchio signore piuttosto mogio a cui chiediamo se servano caffè. Purtroppo no, ma approfittiamo comunque per fare una breve sosta e scambiare con lui due parole.
È nato e ha sempre vissuto qui, e condivide con noi i ricordi di tempi ben più floridi per il villaggio, dove ormai vivono pochissime persone. D’altronde da queste parti ci si guadagna da vivere tanto con l’agricoltura che col passaggio dei pellegrini, e quindi quest’anno è diventata particolarmente dura tirare avanti.
Ci racconta che quando era bambino era un luogo molto più popolato, e c’erano addirittura due scuole ben colme, una maschile e una femminile. Ora invece non nascono bambini da diversi anni e qui tutto sembra a un passo dallo scomparire.
Grati della testimonianza ma già piuttosto sazi dell’iniezione depressiva, decidiamo di congedarci con tutto il rispetto dovuto e proseguiamo oltre. Imboccando una lieve salita fra i campi, ci godiamo il diradarsi rapido e del tutto inaspettato della nebbia. Camminiamo su larghe piste di terra rossa e in men che non si dica si spalanca davanti a noi un cielo straordinario, impossibile da immaginare fino a un quarto d’ora prima.
Continuiamo la salitella fino a scollinare e trovarci di fronte un proseguimento pianeggiante di qualche chilometro: sembrano scenari prettamente agricoli, largamente spogli per via della stagione. Attorno a noi, una combinazione inedita e minimale di terra, alberi e arbusti. Sono pochi anche i colori: il rosso, l’ocra e il verde scurissimo delle piante, ma soprattutto l’azzurro di un cielo fattosi totalmente limpido. Siamo letteralmente incantati, sia dalla transizione stupefacente, sia dal paesaggio in sé. Baciati dal sole e raggianti nello spirito, ci godiamo la lunga pista serpeggiante che seguiamo con gran gusto.
Tiziano questo tratto l’ha già percorso un paio di anni fa, ed è visibilmente entusiasta di poter esser di nuovo qui oggi. Allora raggiunse Santiago partendo da casa, come me, ma non era la sua prima volta. Compostela l’aveva già “conquistata” l’anno precedente insieme a un amico, partendo però da Astorga, la città che incontreremo tra una decina di chilometri. E sempre da lì partì anche l’anno scorso per il suo terzo Cammino, accompagnato eccezionalmente dal padre e dal fratello.
La sua esperienza di viaggi per il mondo va ben oltre, ma ha la particolarità di essere tutta concentrata negli ultimi quattro anni. Tutto scattò da quel primo Cammino, da quel primo passo mosso proprio tra le vie di Astorga.
Questo aiuta a comprendere la sua eccitazione, ma nonostante ciò non è lì che abbiamo in programma di fermarci oggi. Da giorni, infatti, abbiamo notizia di un’italiana che con il suo compagno ha preso in gestione un albergue qualche chilometro più avanti, a Murias de Rechivaldo. Si chiama Miriam, e ovviamente ci siamo già messi in contatto con lei. È entusiasta per il nostro arrivo, e ci ha promesso un’altra cena all’insegna del Bel Paese.
Carichi e allegri, proseguiamo per qualche chilometro tra leggeri dislivelli. Il paesaggio attorno a noi non cambia di molto, perlomeno finchè non incontriamo a lato della strada quello che a prima vista ci sembra un piccolo bazar. Curiosissimi, ci avviciniamo lentamente per scoprirne i dettagli, intuendo man mano sempre meglio di cosa si tratti.
Innanzitutto c’è un chioschetto pieno di cose buone da mangiare e da bere, con affissi diversi cartelli che dicono essere tutto a offerta libera per i pellegrini di passaggio. Per terra, una spirale di sassi. Tutt’attorno sono raccolti oggetti utili di ogni tipo, lasciati probabilmente da altri viandanti.
Alle spalle di questo buffet di cibo e attrezzatura, c’è una lunga parete con delle tettoie. Il muro è decorato con teli coloratissimi, che ricordano quelli indiani, e si alternano a bandierine di preghiera tibetane. C’è anche una veranda piena di scritte, strumenti musicali, tisane e disegni – tra i quali spicca un volto di Gesù molto colorato e rasserenante.
Esattamente di fianco, poi, c’è l’accesso a una grande aia quadrata, chiusa da una seconda parete simile alla prima, ma con una tettoia più grande e solida, sotto la quale intravediamo una tenda e un letto.
Come chiamare tutto questo? Un’oasi hippie, forse. Oppure semplicemente un’oasi, niente più. Io è la prima volta che vedo un posto simile, e alcune cose mi colpiscono da subito visceralmente: lo spazio circoscritto ma completamente aperto, il suo esplodere di colori proprio in quest’area spoglia già tanto affascinante, e tutte quelle cose buone e ben disposte lasciate evidentemente proprio per noi pellegrini, senza chiedere nulla, lasciando solo un contenitore per chi ha piacere a donar qualcosa.
Sono cose elementari nel loro essere, e di certo sto provando emozioni dovute anche alla sorpresa, al primo impatto, ma dentro me hanno toccato corde profonde.
La cosa che mi stupisce di più, però, è il fatto che non sembra esserci nessuno nei paraggi. Conclusa una timida esplorazione, appoggiamo gli zaini e facciamo una piccola pausa, approfittando del ben di Dio che ci viene offerto.
Poco dopo spunta una ragazza, con lunghi dreadlocks legati sul capo. Sta sistemando della legna appena raccolta. La avvicino e le domando cosa sia esattamente questo luogo. Mi risponde con grande gentilezza, accettando di raccontarmi anche un po’ di sé.
Pur giovanissima, è fuggita anni prima dal contesto tradizionalmente occidentale in cui era cresciuta, sperimentando nel corso del tempo diversi stili di vita alternativa fino a pochi mesi fa, quando è approdata qui. Mi spiega che questo posto si chiama La Casa de los Dioses ed è stata creata una decina d’anni fa. Il fondatore è uno spagnolo di nome David, che non vi abita più stabilmente, ma che proprio in questi giorni è tornato per passarci del tempo.
Per mio gran piacere, lo vediamo sopraggiungere pochi istanti dopo. Trasporta a mano due grandi taniche piene d’acqua. Ci passa vicino con sguardo severo e rispondendo appena al mio saluto. La mia lettura istintiva è che sia stanco di vedere facce incantate e interrogative come quella che sicuramente ora ho anch’io. Non mi incupisco, però, né demordo. Bevo il mio tè e aspetto che mi ritorni vicino.
Dopo un paio di minuti, mentre anche qualche altro abitante dell’oasi fa capolino dalla sua “stanza”, David si siede nella verandina e inizia a preparare un’insalata. Il suo restar serio non mi mette a disagio, piuttosto mi spinge a scegliere con più cura cosa chiedergli. Non voglio fare domande stupide o scontate, così ci penso un po’ e poi rompo il ghiaccio. Sembra funzionare: all’inizio resta chiuso, ma pian piano capisce che non sono così molesto come forse gli ero sembrato. Si apre così a qualche minuto di dialogo rilassato, quanto basta per accennarmi ai suoi lunghi e innumerevoli viaggi a piedi per la Spagna. Non sarebbe niente di troppo speciale di questi tempi, se non fosse per il fatto di averne percorsi una parte significativa completamente scalzo. Generosamente, mi racconta alcune altre cose interessanti, sia su queste esperienze, sia sulla Casa de los Dioses.
D’un tratto mi accorgo che altre due persone, nel frattempo, si sono aggiunte a far merenda: una di queste è la pellegrina che aveva preso l’autobus. Sta parlando allegramente alla ragazza coi dreadlock, poi si avvicina a David e gli chiede quanto gli debba. Lui le spiega che non è obbligata a lasciar nulla, ma se vuole c’è una cassettina per le offerte alle sue spalle. Le sue parole sono state cortesi, ma il tono di voce e le sue espressioni fanno capire quanto sia stanco di chiarire queste cose, stanco di tutto quanto già vissuto, delle cose che non cambiano nonostante ci si è investito tantissimo. Potrebbe essere qualsiasi altra cosa ad averlo fatto tornare così accigliato, ma questa è la mia interpretazione.
Scelgo di non approfittare oltre del suo tempo. Ringraziamo e salutiamo, lasciando quello che possiamo con gran piacere.
I passi che facciamo allontanandoci, il modo in cui ci disponiamo, le battute e i silenzi di ciascuno comunicano che siamo in stati d’animo molto differenti.
Tiziano è eccitato e lo manifesta. Il luogo che abbiamo appena lasciato è alle spalle, non sembra interessato a elaborare quanto visto, ricevuto e ascoltato. Al centro dei suoi pensieri ora c’è solo Astorga, una città che per il suo cuore ha talmente tanto significato da competere addirittura con la meta finale. Cammina da solo davanti a noi, esplodendo in piccole esclamazioni euforiche senza mai girarsi.
Di per sé non c’è nulla di male in questo. Generosamente, ci ha anche promesso di offrirci il pranzo per celebrare insieme questo passaggio, eppure qualcosa dentro me comincia a fermentare, come già era successo molte volte fin dai Pirenei.
Certamente anche per via della mia stessa sensibilità e di chissà quale mio vissuto, la sensazione che vivo è quella di essere trattato da semplice cassa di risonanza, un paggio chiamato a onorare il suo ennesimo traguardo senza porre inutili complicazioni.
C’è evidentemente un’esagerazione inadeguata in queste interpretazioni, me ne rendo conto, ma non riesco ad arginarle. Sto ancora elaborando tutti gli stimoli raccolti alla Casa de los Dioses, e qualcosa dentro me si ribella a tutto ciò che vorrebbe impedirmelo. Mi chiedo incessantemente come sia possibile liquidare così sbrigativamente un incontro con qualcosa di tanto radicalmente diverso dalle nostre esperienze. Provo a coinvolgere Amedeo, ma è tutto sintonizzato sulla stessa lunghezza d’onda di Tiziano. Propongo un paio di riflessioni, ma vengo liquidato con goliardia.
Ho un irrefrenabile bisogno di soffiare per un altro po’ sulla brace viva della testimonianza di David, della ragazza e su tutto quello che mi hanno smosso dentro. Il disinteresse dei miei compagni di viaggio è legittimo, ma mi ferisce. Capisco che non posso pretendere nulla. Tutto ciò che mi è concesso è accogliere ciò che è, e fare le mie scelte di conseguenza.
Hanno bisogno di vivere con vitalità differente dalla mia questo momento. Che fare, quindi? Sembra abbiano piacere che io stia con loro, ma in questo momento per continuare dovrei fare da parte tutta l’energia che mi è nata dentro perchè ora non saprebbero accoglierla.
La cosa che mi punge di più è che tutto questo è già successo altre volte, e a León io lo avevo detto chiaramente a Tiziano, avevamo stretto un patto, e sono passati meno di due giorni… So bene quanto importante sia per lui questo istante; lo sta vivendo come può e come vuole, è giusto e naturale. E allora? Non resta che una cosa da fare: rispettare il suo bisogno, ma senza rinunciare ad onorare anche il mio.
Importa solo una cosa ora, Roberto: di quanto respiro ha bisogno il tuo cuore in questo esatto istante?
*
Un filo di vento sulle guance tese. Sto sorridendo.
Sento caldo, quello del sole e quello della stufa che mi pare di aver in corpo ora.
Bella questa tensione per tutto il corpo, non è di quelle che ti succhiano tutta l’energia, non è nervosismo.
Sembro un asino, qui in mezzo. Dicono gli asini si fermino così, di punto in bianco, inespressivi e silenziosi, e nessuno li muove più.
Questa tensione sai cosa mi sembra? Come quel miscuglio di forze e di resistenze di quando qualcuno ti abbraccia fortissimo di proposito, che sembra voglia stritolarti ma è perché ti vuole bene. È un gioco, una lotta immobile, e si ride sempre tanto perché fa sparire le rigidità brutte.
E quando la stretta finisce e finisce il tuo resisterle, resti leggero, tutto un senso di rilassatezza che è muscolare ma non solo, ti vien da ridere ancor di più, il corpo si trova libero, aperto, e qualcosa esce. A volte le risa continuano e si trasformano, dentro e fuori dall’abbraccio, a volte si finisce piangendo. Capita. Quello che esce è quello che hai dentro, qualcosa almeno.
“Abbiamo dovuto contenerlo”, questa frase non mi è mai uscita dalla testa. La pronunciava spesso la mia ex storica. Faceva l’educatrice in una comunità di ragazzini complicati, che roba dentro ne avevano tanta e spesso capitava che uscisse come non doveva. In certi momenti poteva solo una cosa: stringerli, finché l’esplosione finiva, e cominciava il crollo, poco o tanto. A quel punto la stretta finiva, con calma, e all’amore e al sostegno veniva data un’altra forma, quella della voce e dell’ascolto.
Cosa mi sta stringendo ora se sono da solo, qui?
Anzi…ora non c’è già più quella tensione.
Che bello questo stare. È bello anche il posto, è perfetto forse, con questo campo attorno, e quegli alberi davanti che lasciano passare il mio sentiero, che subito dopo svolta perché la terra finisce. Scende, probabilmente, e poi risale, però lontano, perché lá in fondo si vedono dei monti.
C’è tantissimo cielo, oggi.
Da quanto sono qui?
*
È successo. Che sensazione strana.
Ha vinto il cuore prepotentemente, la testa si è fatta da parte, lo ha fatto docilmente.
Non sono abituato a questa sinergia tra i due, è bellissimo.
Camminavamo in silenzio, pochi minuti dopo aver lasciato l’oasi, a pochi metri l’uno dall’altro ma distanti anni luce. Energie buone ma diverse, chiamate a esser distinte, in armonie libere l’una dall’altra.
“È questo il momento”, ha detto il cuore tranquillo.
“Ok. Fermo il corpo, allora”, ha risposto la testa.
E io in quell’istante era come se fossi semplice testimone. Mi sentivo a mezz’aria, leggerissimo. Assistevo al loro agire per me, al loro prendersi cura.
Il tempo non ha avuto bisogno di fermarsi, ma ha smesso di essere incombente. Il luogo ha protetto quel momento, perché nessuno arrivasse a invaderlo, perché nessuno nemmeno tornasse.
Qualcosa doveva essere sospesa quanto bastava e qualcos’altro doveva scorrere. Tutto si è mosso con grazia e padronanza perché la forma potesse cambiare senza traumi.
La piccola tartaruga esce dall’uovo e poi dalla sabbia, il fiore apre i suoi petali, la crisalide le sue ali nuove. Io sono più goffo e pesante, ma è lostesso, non c’è dissonanza.
Il respiro si regolarizza, calibrando il tutto e accompagnandomi a riprendere possesso del corpo. Ascolto e attendo il momento, come un attore dietro le quinte, ma senza ansie.
La lancetta dei secondi riprende il suo conto.
Torno a sentire il vento sulle guance. Sto ancora sorridendo.
*
Non è stato tutto silenzio, in realtà. Nel mezzo di tutto quanto c’è stata una piccola grande buffonata, forse però utile a ciò che è avvenuto dopo, chissà.
Prima la timidezza mi ha fatto trovare una scusa per giustificare ai due amici il mio fermarmi: “Sto qui un attimo a fare qualche foto, andate pure avanti voi”.
Poi i cigolii e il vibrare ovattato del corpo che iniziava a predisporsi a quello che doveva succedere. È lì però che nasce un ultimo trattenimento: era come se avessi bisogno di qualcuno, un testimone di quello che stava succedendo.
Il tempo già era inciampato e finito sottosopra, e ci sono voluti la bellezza di dodici minuti di flusso di coscienza impressi in un messaggio vocale per svuotare ogni mio tentativo di controllo ulteriore. E solo una persona al mondo poteva sopportare quella tortura: Zoe.
Povera amica! Ne rido, vergognandomi un po’ ma soprattutto ridendone. Non di lei, del fatto. C’era tanta enfasi in me da sembrar che l’universo stesse tutto lì e io che non so far altro che registrare il messaggio più smisurato di sempre. Resterò sempre un po’ infantile, inutile nasconderlo. Meno male che poi testa e cuore hanno anestetizzato la mia volontà e si sono occupati del resto per i fatti loro. Grazie al cielo, Zoe ha poi saputo sorridere sotto quella slavina di parole. Non potevo essere più fortunato.
Ed ecco come è andata.
E mo?
Mi sa che è ora di schiodarsi.
Un bel respiro e….primo passo, secondo, terzo. Le braccia rispondono, perfetto. Respiro, avanti così.
Il sorriso dalla faccia, però, sembra non volersene andare. Che strane sensazioni.
Mi guardo attorno, respiro. Cammino pianissimo: sorrido. Insipiro, espiro, passo.
Sto bene. Va tutto bene.
Sto camminando e va tutto bene.
Alzo gli occhi: ho un rapace che mi vola sopra, in tondo. Era parecchio che non capitava. In Francia successe diverse volte. Anche sui Pirenei ne incontrammo un sacco, e diversi, e per qualche altra tappa un uccello molto simile a questo ci ha girato spesso sopra la testa. La cosa appassionava molto tutti e tre, ne parlavamo e fu un piccolo dispiacere quando l’amico pennuto smise di accompagnarci. Lo so che non è mai stato uno solo, ma è bello pensarla così ed essere contento d’averlo rivisto proprio oggi.
Mi domando se gli altri mi stiano aspettando dopo la curva. Sarebbe strano, è passato molto tempo, almeno così mi sembra. Comunque no, non ci sono. C’è uno spiazzo, e al centro una croce di pietra alta più o meno tre metri. Subito dopo la strada scende. Ecco Astorga, laggiù.
Mi fermo ancora, c’è brezza. Sento tutto distintamente ma sono ancora rintontito. La solita pellegrina mi supera sculettando. È molto buffa. La lascio allontanarsi, giusto un po’, poi comincio anch’io la discesa.
Incontro l’ennesima statua in bronzo di un pellegrino: questa volta sta bevendo, così da segnalare anche la fontana al suo fianco. Di fronte c’è un piccolo parco ben curato, aperto, con dei salici. Non c’è più fretta oggi. Mi siedo: ho da scrivere un paio di messaggi, riorganizzare un po’ i miei piani per oggi. Innanzitutto chiamo l’albergue di Astorga e prenoto un letto per stanotte, poi cerco sul web il numero di Miriam e l’avviso che arriverà un italiano in meno oggi. Accoglie la notizia con grande gentilezza. Per ultima cosa, poi, invio un messaggio ad Amedeo e Tiziano:
“Ciao ragazzi…
È stato un attimo e…ho deciso.
Mi fermo ad Astorga oggi e riprendo questo mio cammino da solo.
Sono felice e grato di avervi incontrati e aver potuto vivere la strada fin qui con voi.
Ho già chiamato Miriam, dice che non c’è problema.
Io sono ancora qui sulla collina.
Buen camino.
Ci si rivedrà magari davanti a un piatto caldo e un bicchiere di vino dalle vostre parti, o dove il Cammino o la vita vorranno.
Magari semplicemente a Santiago fra non molto, chissà.
Un abbraccio forte. R.”
Tiziano risponde subito. Dice che lo sapeva già, che ad Amedeo l’aveva detto dieci minuti prima. Usa faccine sorridenti e di buon augurio, “Ci vediamo sul cammino o dove ci porta il vento”.
Così è proprio bello.
Fine. È ora di darsi una mossa, ricominciare di nuovo. Non credo che siano cambiati i loro programmi, quindi mangeranno ad Astorga. Meglio evitare ora accavallamenti ridicoli. Continuo a scendere, entrando a San Justo de la Vega. Supero qualche negozietto che non mi convince, poi un cartello: c’è un piccolo bar in una corte interna. Sembra non ci siano altri clienti, va bene così. Una zuppa di ceci e una birra. Arriva un nuovo messaggio, è di Amedeo. Gran belle parole, non mi strappa una lacrima ma ci va molto vicino. Ora non manca proprio niente.
Sono sul cammino, senza nessun’altro. Ancora da solo. È veramente unico provare tutto questo. Ho camminato senza compagnia per più di 1500 km, eppure…
Ripensandoci, anche quando finirono i tre giorni con Fabian provai qualcosa di simile, ma molto più lieve. D’altronde è ovvio, con gli altri ho camminato molto di più: contando dalla partenza del 18 ottobre, oggi era esattamente il sedicesimo giorno uno di fianco all’altro. Mica poco.
Quanta vita, questo cammino! Tutta insieme, tutta bella. Sono davvero felice.
Scambio due chiacchiere col barista, bevo un caffè e riparto ancora una volta.
Si è fatto nuvolo, ma non dovrebbe piovere. Mancano solo pochi chilometri. Il primo è tutto in discesa, e va adagiandosi tra campi pianeggianti. Astorga sta poco più avanti, arroccata su una bassa collina. Per raggiungerla, attraverso un fiume e una ferrovia, sfruttando l’ennesimo sovrapassaggio dall’aspetto abominevole. Comincio a pensare che queste strutture siano frutto di un’unica mente malefica.
Meno di un quarto d’ora e sto davanti all’albergue. Entro e mi metto in coda. All’accettazione, davanti a me, c’è nientepopodimeno che il francese con cui Tiziano aveva discusso. Ma guarda te chi mi ripresenta il Cammino!
Quando arriva il mio turno, la receptionist oltre il vetro non si limita a chiedermi quanto serve, ma si mostra particolarmente curiosa riguardo a un’infinità di dettagli del mio viaggio. Inizia con domande cortesi e discrete, ma in pochi minuti diventano sempre più inopportune e invadenti. Le condisce con fastidiose considerazioni da bar su questo e quello, ma lo fa in un modo talmente calibrato che fatico a troncare il discorso senza sembrare io quello scortese.
Per un attimo rischio di perdere totalmente tutta la leggerezza interiore nata dalla grande scelta fatta prima. Non posso accettare di farmela sfuggire per colpa di una maleducata simile!
Mi ci vogliono diversi minuti, quasi fosse una partita a scacchi, ma alla fine riesco ad approfittare di una piccola distrazione, alzandomi con decisione e orientandomi verso le camerate. Purtroppo però, frastornato dal tutto quel chiacchiericcio insinuante, dimentico la cosa più importante: i soldi. Ovviamente non posso far altro che scusarmi a testa bassa, e incassare in silenzio le sue ultime battutine acide.
Quando finalmente me la lascio alle spalle ed entro in camerata, ecco una doppia sorpresa! Oltre al francese di mezza età, ci sono anche quel ragazzo che avevamo lasciato a fotografare gattini a Reliegos e Martin, lo svizzero di Mansilla.
Ovviamente ci conosciamo tutti quasi solamente di vista, così approfittiamo per presentarci come si deve. Scopro che il nemico giurato di Tiziano si chiama Fred, e sorprendentemente si rivela una persona molto piacevole. È un chitarrista di professione, e ci racconta che ha già avuto diversi guai fisici lungo il cammino. Finché stava col gruppo, ha potuto usare la bici che gli avevano prestato, ma ora sta prendendo seriamente in considerazione di acquistarne una usata.
Con lui parliamo di tante cose, e spende anche qualche parola sull’episodio dei giorni scorsi al Burgo Ranero, permettendomi di collezionare entrambe le versioni. Diciamo che pare reggere di più quella di Tiziano, ma tutto comunque sembra già talmente lontano e di poco conto che per fortuna prevalgono ben altri temi.
Dopo questi primi aneddoti, anche Martin si inserisce nel dialogo, arricchendolo con il suo delicato umorismo. Scopro che è artista ed arteterapeuta, il che me lo fa piacere ancora di più.
In meno di un’ora scopriamo molto l’uno dell’altro, stando tutti seduti comodamente sui nostri letti. Manca solo un bel bicchiere di vino a render perfetto questo momento.
Quando cominciano ad aumentare le pause, capisco che è il momento giusto per congedarmi e andare a fare un piccolo tour del centro storico.
Fuori dall’albergue incontro subito un’altra grande statua di bronzo: ovviamente è l’ennesima variante del nostro pellegrino d’altri tempi, stavolta corredata da una valigia a spalla, alla maniera di un emigrante.
Sono riuscito a elemosinare una cartina alla signora della reception ma, col fatto che oggi è giornata festiva, trovo aperto ben pochi luoghi tra quelli di maggior attrattiva. L’unico posto che mi sarebbe davvero piaciuto visitare era la cattedrale, ma è quasi inutile dire che porte e cancelli sono sbarrati. Un vero peccato, perché dall’esterno è particolarmente affascinante, con quell’architettura dalle forme che non ho mai visto prima.
Una chiesetta aperta, in realtà, la trovo. Dentro non c’è nessuno: è un luogo piuttosto anonimo, ma diventa il rifugio migliore per dire grazie di quanto ho vissuto oggi.
Non ho lo sguardo di un ateo e nemmeno lo spirito di un fervente cattolico, ma resto indissolubilmente legato alla figura di un interlocutore amorevole e super partes, conscio delle fatiche dei nostri cuori, e forse anche del proprio. Piuttosto che custode di quel senso assoluto che abbiamo sempre troppa fretta di definire, è forse la rappresentazione dell’ascolto accogliente di cui tutti abbiamo bisogno. Lascio tutti i miei sentimenti, i miei dubbi e la mia gratitudine in quelle mani invisibili ed esco leggero come non mai.
Passeggio un po’ ovunque. Sotto le mura scopro l’esistenza di un supermercato, ma anche quello è chiuso. Vuol dire che dovrò per forza mangiar fuori anche stasera.
Nel complesso, nonostante l’abbia incontrata nella sua forma più spenta, Astorga riesce comunque a farmi una buona impressione.
Torno in albergue e scambio ancora due parole coi miei compagni di camerata. Per la cena, Fred ha già con sé un barattolo di noodles. Peccato, sarebbe stato bello uscire tutti insieme, ma pazienza: saremo solo io e Martin. Prima però riesco a elemosinare un bastone da trekking abbandonato, gentilmente offertomi dal collega subentrato allo sportello. Gran bel colpo! Pesa il triplo dell’altro che mi era rimasto, ma ha un ammortizzatore a molla. Sono proprio curioso di provarlo.
Con Martin scegliamo un posto economico dal nome caraibico, anche se ricorda più il bar di una bocciofila. Poco importa, mangiamo discretamente e lui mi regala parecchie perle di fine umorismo e intelligenza. Tra queste, ce n’è una in particolare che sono convinto mi ricorderò a lungo: dice che secondo lui l’unica cosa che differenzia gli uomini dagli animali è…la domenica! Sembra follia, ma a lui piace sintetizzare così l’idea per cui non siamo poi così evoluti rispetto alle altre specie, e i nostri progressi reali non vanno molto oltre la divisione ordinata del tempo e l’istituzione del giorno di riposo. Ne ho sentite tante in vita mia, ma questa la reputo una vera chicca.
Messe da parte le battute, mi regala anche una preziosa testimonianza sul proprio lavoro da arteterapeuta, materia nella quale da anni valuto di formarmi.
La cena non dura a lungo, e nemmeno stiamo troppo a zonzo una volta fuori dal ristorante. Finisce quindi così questa giornata fatta di pochi chilometri e grandi decisioni. Emotivamente sto provando un miscuglio di sentimenti diversi. I pensieri, poi, sembrano veri e propri stormi che mi disegnano vortici nella testa. Nonostante tutto questo, però, sento di aver fatto la cosa giusta. È stata davvero un’esperienza magica. Vivere con così tanta consapevolezza certe svolte è sempre qualcosa di impagabile. Domandarsi di cosa si abbia veramente bisogno, prendere posizione, tuffarsi, accettare di lasciare qualcosa o qualcuno per abbracciare ciò che sta oltre quella soglia: sono momenti memorabili e importantissimi.
(Albergue La Encina)
33km
Domenica di Ognissanti, eccola arrivata. Settimo giorno della settimana, settima settimana di viaggio. Se fossi davvero appassionato di numeri ci sarebbe da divertirsi.
Pur essendo in pellegrinaggio, ammetto che questa festività non infiamma il mio entusiasmo. Anzi, a dirla proprio tutta, come ogni fine weekend riaffiora in me qualcosa tutt’altro che spirituale: parlo del trauma delle domeniche di cammino in Francia, quando tutti i negozi erano chiusi. Nel migliore dei casi, dovevo deviare verso qualche supermercato aperto fino all’ora di pranzo, oppure farmi pesanti scorte di cibo il giorno prima, da portare in spalla per decine di chilometri. Per fortuna qui in Spagna sta risultando tutto molto più semplice, nonostante la situazione sanitaria e tutte le sue conseguenze.
Facciamo colazione per pochi euro nella grandissima mensa dell’albergue. Lo spazio sembra ancora più grande perché siamo qui solo in cinque. Oltre a noi ci sono un signore olandese di circa settant’anni, alto ed atletico, e un simpatico ragazzo spagnolo, Salvadór. La signora che ci serve sembra intenerirsi di fronte a questo minuscolo gruppo di viandanti in partenza, a tal punto che ci invita ad approfittare di tutto quanto a buffet.
Scesi in strada, scopriamo purtroppo che il cielo non è migliore di ieri, ma poco importa (o almeno questo è quello che pensiamo). Ci dirigiamo innanzitutto in direzione della cattedrale, e da lì iniziamo a seguire conchiglie e frecce gialle. Attraversiamo diversi luoghi del centro storico che avevo già visitato ieri da solo, ma chiaramente li superiamo.
Oltrepassato quel che resta delle antiche mura, lo scenario perde molto del proprio fascino. Lo recupera solo per qualche centinaio di metri, in corrispondenza di un quartiere che raduna alcuni edifici appariscenti, come l’Auditorio cittadino e la Junta di Castilla y León. A imporre più di tutti la sua bellezza, però, è il complesso che unisce la chiesa di San Marco e un antico ospedale per pellegrini, ora Parador della città (uno dei lussuosi alberghi statali sparsi per tutta la nazione). Di fronte a questi si apre una grandissima piazza lastricata, con al centro l’ennesimo cruceiro. Alla sua base riposa un antico pellegrino scolpito nella pietra. Ha gli occhi chiusi, la testa poggiata alla colonna e i calzari spogliati.
È l’ultimo luogo “da cartolina” prima di lasciare la città. Subito dopo, si attraversa il ponte sul rìo Bernesga e si comincia a scivolare verso le periferie, in certi tratti un po’ degradate.
Lo so: è piuttosto ingenuo – e pure arrogante – che una parte di me si aspetti centinaia di chilometri di percorso tutti abbelliti per impreziosire la mia esperienza, fosse anche per questioni turistiche. Purtroppo, però, ho anche questo difetto.
Nella maggioranza dei casi ho abbastanza pudore per tenere a bada quella vocina, ma spesso non è così facile contenerla, soprattutto davanti a tutti quei paesaggi edificati senza nessuna sensibilità estetica, senza la ricerca di una minima armonia. Spostandomi incessantemente da settimane, è normale che io ne incontri qualcuno qua e là, ma è sempre una pugnalata al cuore.
A riguardo, però, devo ammettere che la Francia è stata una stupefacente eccezione – durata oltretutto ben quaranta giorni! Quella tra Alpi e Pirenei è stata un’immersione innaturale in una terra in cui il cattivo gusto e il degrado sono stati solo rare e brevissime parentesi, tanto che più di una volta ho avuto l’impressione di trovarmi in un enorme parco a tema.
Proprio mentre nella testa mi frullano questi pensieri, come se il Cammino si divertisse a torturarmi, ci imbattiamo in un sovrappassaggio pedonale di rara bruttezza. È già il secondo, dopo quello già incontrato ieri prima di arrivare in città. Non discuto l’utilità di realizzazioni simili, ma sono convinto che fatte in questo modo siano un pugno nello stomaco quotidiano per tutta la gente che vive da queste parti.
Il numero di piani dei palazzi diminuisce man mano ci avviciniamo ai confini di León, oltrepassati i quali ci aspetta senza soluzione di continuità la periferia di Trobajo del Camino. La compatta massa urbana si frammenta in case sempre più piccole, fino a farci sbucare in un quartiere residenziale composto da villette e – straordinariamente – da alcune bodegas, come quelle viste a Moratinos o a Reliegos. Passiamo poi da un quartiere industriale dove la fa da padrone il grigio, in cielo e tutt’attorno.
Ad ogni angolo spero e confido di lasciarmi tutto questo alle spalle e poter tornare a camminare tra i campi, non importa se belli o brutti. Purtroppo però il mio desiderio è ancora lontano dal realizzarsi, e infatti sbuchiamo sulla trafficata Avenida de Astorga, con le sue due corsie per senso di marcia e altri antiestetici capannoni commerciali.
L’esercizio del camminare e quello del ricordarsi tutto il bello già incontrato ci aiutano a inghiottire come una medicina necessaria questi chilometri.
Arrivati a La Virgen del Camino, troviamo un bel bar aperto, ma scegliamo di sederci comunque all’esterno per fumare una sigaretta e perché siamo convinti che sarà una pausa sbrigativa. Entro a ordinare i tre caffè che dovrebbero darci un po’ di spinta, ma dopo una decina di minuti ci rendiamo conto che il simpatico proprietario ci sta declassando continuamente a favore dei clienti che occupano i posti all’interno. Entro per domandare se si sia dimenticato – giusto per non essere scortese – ma questo non lo convince a cambiare atteggiamento. Per sorseggiare i nostri caffè, aspettiamo ancora diversi minuti e siamo costretti a sopportare ancora un paio di sorpassi spudorati.
Nell’attesa, Tiziano registra qualche stories per il suo account Instagram, ed è una fortuna. Per farlo, infatti, sfrutta come al solito le innate doti comiche di Amedeo, regalando grasse risate alla ciurma e stemperando il nervosismo.
Bevuti i nostri caffè tanto attesi, finalmente ripartitamo, ma uscendo dal paese arriva anche la nebbia a portare il suo carico d’allegria. Imbocchiamo una pista pedonale che corre a pochi metri dallo stradone, al quale comincio a capire resteremo vicini a lungo.
L’unica consolazione per il nostro sguardo restano i cartelli blu che ci conducono in questa ennesima tappa tutta lineare. Su di essi campeggia una sagoma umana stilizzata, tipica di ogni cartello stradale, ma in questo caso è accessoriata con il bordone del viandante giacobeo. Fa una certa simpatia il modo buffo in cui l’alfabeto segnico della nostra epoca sintetizza graficamente una condizione dell’essere che per alcuni ha ancora una significanza straordinaria e trascendente.
Poche centinaia di metri e arriviamo in corrispondenza del bivio cruciale di questa giornata, quello che ci impone la scelta tra il proseguire secondo il percorso originale o imboccare la deviazione che passa da Villaregia de Mazarife. La seconda ha la fama di dare un po’ di consolazione agli occhi e allo spirito, perché si sviluppa su tracciati più piacevoli, ma è anche più lunga. Pur con grande rammarico, non ce la sentiamo di allungare la tappa di oggi, perchè già supera comunque i 30 km. Proseguiamo quindi lungo il nostro ameno rettilineo, rassegnandoci anche alla nebbia, che oggi sembra proprio non volerci abbandonare.
Superiamo un raccordo autostradale e i paesi deserti di Valverde de la Virgen e San Miguel del camino. Io accelero un po’, seminando i due amici e sperando che il passo sostenuto mi regali un po’ di sana serotonina a risollevare l’umore.
Avvicinandosi l’ora di pranzo e trovando tutto chiuso come previsto, avviso per telefono Amedeo e Tiziano di guardarsi in giro meglio di me, perché comincio a pensare rischino di rimanere senza nulla da mangiare. Al contrario, io non ho di questi problemi visto che ho mantenuto l’abitudine di comprare sempre il pranzo il giorno prima, badando particolarmente ai fine settimana. Ho provato più volte a consigliare ai due amici di fare lo stesso, ma tendono a preferire l’affidamento al Cammino, diciamo così. Probabilmente in un anno normale avrebbero avuto ragione loro, ma in questo rocambolesco 2020 i pellegrini sono pochissimi e di conseguenza le attività aperte sono una minima parte, ancor di più durante una domenica – perdipiù festiva. Vorrà dire che alla peggio divideremo divideremo il mio panino e ci faremo due risate, confidando in un’abbuffata serale.
Ad un tratto, il percorso ci regala una parentesi campestre particolarmente lugubre, con scheletrici tralicci che fanno capolino nella nebbia, una natura postatomica e un paio di cavalli bianchi a brucare nel vuoto cosmico. Nonostante questo, però, mi sento molto più a mio agio in scenari simili che in quelli attraversati stamattina. Addirittura trovo un paio di pianticelle che difendono timidamente qualche foglia dagli accesi colori autunnali, unica prova in questo momento che non siamo stati catapultati in un film in bianco e nero.
Il Cammino ci riconduce poi a fianco dello stradone, e io comincio a sperare con tutto me stesso di trovare presto un descanso qualsiasi dove poter fermarmi a mangiare. Contro ogni aspettativa, la mia preghiera viene presto esaudita e, come un miraggio, ecco apparire dal nulla un isolatissimo hostal con bar e tavola calda.
In cima alle scale che portano all’ingresso vedo un manichino addobbato alla maniera pellegrina, unico segno che siamo ancora sulla rotta giusta. Avviso telefonicamente i due compagni di viaggio, che nel frattempo avevano cominciato a preoccuparsi seriamente. Il tempo è davvero brutto e avrei la tentazione di entrare subito e ordinare qualcosa, ma riesco a resistere e resto fuori a mangiare il mio panino aspettando l’arrivo degli altri.
Meno di una decina di minuti ed ecco arrivare Tiziano. Lo lascio entrare, mentre finisco il mio pranzo e prometto di raggiungerlo appena finito. Poco dopo arriva anche Amedeo, a sua volta un po’ atterrito dai panorami di oggi e in parte anche dal posto stesso. In effetti, non si distingue per grazia da nessun punto di vista, ma almeno resta la nostra oasi di oggi, e dobbiamo dirci fortunati.
Consumato il pasto e riposato un po’, ci rimettiamo in cammino tutti insieme, cercando di tenere alto il buon umore nonostante la giornata e il paesaggio non accennino a migliorare.
A Villadangos del Páramo l‘unica forma di vita animale oltre a noi sembra essere un enorme stormo di cornacchie. Seppur a suo modo affascinante, corona alla perfeziona la nostra mattinata degli orrori. Il numero di grigi uccelli gracchianti è talmente abbondante che per un attimo restiamo addirittura incantati ad osservarli. A lungo girano sulle nostre teste, appollaiandosi infine su dei cavi della corrente elettrica, in file lunghe anche una dozzina di metri.
Al paesino successivo, San Martín del Camino, troviamo sorprendentemente un piccolo albergue aperto con bar e cucina. Ne approfittiamo per regalarci un bicchiere di birra seduti fuori. Ci viene a far compagnia un gatto che scatena un’inaspettata tenerezza in Amedeo, tanto che sembra faccia fatica a separarsene quando ripartiamo.
Da lì in poi, la rotta ci guida finalmente tra enormi campi, per chilometri e chilometri. Decido di tuffarmici, partendo per una delle mie “fughe” ormai proverbiali. Lo slancio mi fa addirittura perdere nel reticolato di sentieri che divide gli appezzamenti, ma riesco ad accorgermene in tempo e a tornare in qualche modo in carreggiata.
Ad un tratto scorgo un nuovo pellegrino in lontananza, e decido di approfittarne per divertirmi un po’, sfidando me stesso a raggiungerlo. Affrontare il Cammino inseguendo altri viandanti non è certo una prassi su questa lunga via per Santiago, ma per fortuna ognuno può viverla a modo prorio.
Con non poco sforzo, riesco ad affiancarmi al caminante nei pressi di una raffinata torre dell’acqua in mattoni rossi e stucco bianco, proprio alle porte della meta del giorno, Hospital de Órbigo.
Entrambi siamo molto stanchi, e approfittiamo per fermarci un minuto presentandoci. Attraversiamo poi insieme il primo breve tratto di paese, giungendo infine al lunghissimo ponte che connota sopra ogni altra cosa questo luogo. Ha addirittura 19 arcate e sembra davvero sproporzionato rispetto al piccolo fiume Órbigo, ridottosi negli anni ’50 a causa della costruzione di un bacino artificiale.
Ben più interessante, però, è la leggenda che ha portato a chiamare questo posto “Paso hornoso”, cioè passaggio d’onore. Sono tantissime quelle associate agli infiniti luoghi del Cammino, ma finora non me ne sono mai interessato veramente. Questo sito, però, è talmente originale da incuriosirmi irresistibilmente.
Sembra che nel XV sec. un cavaliere rifiutato da una dama, ingaggiò una decina d’amici in armi per recuperare in modo originale il proprio onor ferito, giurando di non lasciar passare da qui nessun uomo armato per un mese intero. La storia racconta di grandi duelli, terminati tutti a favore del coraggioso innamorato e dei suoi compari, da cui il nome tanto affascinante del ponte stesso.
Scopro anche che il letto in gran parte asciutto del fiume ospita da più di vent’anni uns festosa rievocazione dei fatti leggendari, e tutto questo mi incanta, liberandomi dal senso di fatica.
Saluto il pellegrino appena conosciuto che prosegue ragionevolmente alla ricerca del proprio alloggio, mentre io decido di fermarmi ad aspettare gli altri due amici.
Una volta arrivati, superiamo il ponte e scendiamo in un quartiere residenziale composto quasi tutto da piccole villette popolari piuttosto datate, oltre le quali intravediamo finalmente il nostro albergue. Scopriamo che per fortuna fa anche da ristorante, sgravandoci da ogni preoccupazione per la cena.
Dopo esserci sistemati e aver riposato un po’, decidiamo di unirci a dei vecchi del paese che stanno nella sala bar a guardare un paio di partite di calcio locale su altrettanti maxi schermi. Birra alla mano, aspettiamo la cena, che si rivela poi squisita e abbondante – e fortunatamente sempre a prezzo pellegrino.
Condividiamo la piccola sala con altri viandanti, con i quali riusciamo a scambiare due parole nonostante i tavoli distanziati. Una di loro è una svedese di mezza età e ci pare particolarmente tosta fisicamente, oltre che molto gioviale. La sua commensale l’avevamo già incontrata di sfuggita prima di Mansilla. Ce ne ricordiamo perché aveva un’apparenza molto naïf rispetto a tutti gli altri, con uno zainetto insolitamente piccolo e un’andatura sculettante quasi caricaturale. Anche a lei, però, non manca il sorriso e la cortesia, e solo questo importa davvero.
Oltre alle due signore, c’è poi una giovane coppia di pellegrini spagnoli, già vista in albergue a Mansilla. Stiamo tenendo un ritmo molto sostenuto, e la gran parte dei camminatori che abbiamo incrociato nei giorni passati ormai stanno dietro di noi. Ne incontriamo in continuazione di nuovi, ma nella maggioranza dei casi poi li ritroviamo ancora almeno una volta o due, come in questo caso.
Torniamo in stanza sazi e soddisfatti. L’uscita da León è stata un pugno nello stomaco, ma in qualche modo è sano che questo pellegrinaggio non si snodi solo tra paesaggi incantevoli. Quelli meno poetici aggiungono fatica, ma contemporaneamente spingono a focalizzarsi sulla meta.
Il mio ultimo pensiero della giornata va ai pellegrini di epoche remote: con le mie poche conoscenze provo a immaginare le proporzioni delle fatiche e delle incognite con cui dovevano fare i conti. La mente, però, pone presto un limite; sa che devo riposare e questi confronti dell’ultimo minuto non sono utili allo scopo. Gli abbondono quindi come fossero palloncini, col sospetto che stanotte qualcuno di loro tornerà a farmi visita.