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cammino di santiago - roberto pesenti

11/10 Montsérié – Sarlabous

(Gîte Le Moulin des Baronnies)
21 km

Anche oggi seguirò il percorso della piccola guida di Radio Camino. La tappa sarà breve, quindi approfitto dell’opportunità e me la prendo comoda, partendo più tardi del solito.

Comincio col percorrere una strada asfaltata ai piedi di basse montagne, dietro le quali dominano i Pirenei veri e propri. Il tempo nuvoloso e cupo rende l’atmosfera severa, ma il verde dei prati sa distendere l’animo anche in queste condizioni.

Raggiungo e attraverso un paio di villaggi: Gazave e Mazouau. Un’anziana signora con una giacca da lavoro ben imbottita sta spingendo una carriola carica di materiale. Sono le otto e mezza di domenica mattina e fa un certo freddo: “Questa donna dev’essere proprio tosta”, penso tra me. Inaspettatatmente, proprio nel pieno dello sforzo, trova anche il modo di sorridermi e augurarmi buona giornata. Non saprà mai quanto piacere mi abbia fatto.

Dopo Mazouau, continuo lungo una valletta deliziosa, per poi salire una collina fino a Bazus-Neste. Le case grigie e con i tetti a lose mi ricordano tantissimo quelle viste nella tappa per Augirein. Alcune sono cottage davvero belli, altre solo vecchie e trasandate, moltissime sono affiancate da capanni che fanno da rimessa, fienile o stalla. L’altitudine di questi luoghi è minima, eppure continuano a darmi la sensazione di essere in qualche borgo di montagna.

Superata l’ennesima chiesa con cimitero annesso, scendo verso il fiume Neste – quello che dà il nome al territorio che sto attraversando.
Presso Lortet, mi imbatto in una giovane coppia tutta indaffarata a caricare una vecchia Panda 4×4. Mi salutano cortesemente e mi chiedono dove sia diretto. Si rallegrano per la risposta e mi chiedono se per caso io voglia accompagnarli: stanno per andare a funghi. È probabilmente l’invito più bello che mi sia stato fatto fin qui, ma spiego che non riuscirei a conciliare quella generosa opportunità con il mio programma di oggi. Li ringrazio di cuore e gli auguro buona “caccia”, dopodichè supero un ponte e comincio a salire per la via principale del paese.

Dieci minuti dopo, in un giardino privato noto uno degli alberi più grandi che io abbia mai visto. Il fusto ha un diametro alla base di almeno due metri. È uno spettacolo bellissimo. So bene che ce ne sono di molto più grandi, ma il mio sguardo è inesperto e resto incantato. Credo sia una sequoia, ma non ne sono sicuro.
Mentre lo osservo, penso al fatto che di certo è vivo da prima che io nascessi, e con buona probabilità mi sopravviverá. Ha visto il mondo cambiargli attorno, forse poco, o forse no. Sfiora il cielo costantemente, ha conosciuto ogni goccia di pioggia caduta nei paraggi da quando lui esiste, e non c’è stato un raggio di sole che gli sia sfuggito. Sperimenta la mutevolezza dell’aria aperta costantemente, ma allo stesso tempo vive per metà come un cieco, nel buio della terra. Probabilmente non ha la minima coscienza, ma tutto questo non significa sia meno vivo di me in questo strano universo.

Mi emozionano, gli alberi. Sembrano muti e immobili, ma sono sempre più convinto non sia così. In qualche modo comunicano, ne sono sicuro. Non so come, ma lo sento. Il pensiero forse più bizzarro, però, è soprattutto il percepirli tutt’altro che statici. Si muovono eccome, invece: sono solo infinitamente più lenti rispetto a noi.
Io dico che abbiamo in comune con gli alberi molto più di quanto saremo mai capaci di ammettere, e forse anche di scoprire.

Lascio quella creatura e cammino per un paio di chilometri lungo il GR78: sarà l’unico tratto che percorrerò oggi. In leggera discesa, arrivo quindi a Labastide. Vedo il villaggio fin da lontano, adagiato al centro di una piccola conca verde coronata di colline. Per quanto ci sia molto di diverso, davanti a questo scenario rivivo impressioni provate qualche giorno fa a Saint-Lary, o anche a Portet-d’Aspet. Forse è il concerto di mille tonalità di grigio e verde, chissà.

In mezzo ad un crocevia, un cane di passaggio si ferma, si gira verso di me, mi guarda per qualche secondo, poi si volta e se ne va. Nel frattempo una mucca osserva la scena ruminando. A volte questa può essere tutta la movida che anima la giornata di un pellegrino, altro che Navigli!

Attraverso l’abitato fino all’ennesimo crocifisso, ma in contesti simili diventa un segno che si fatica ad associare alla speranza e alla gioia. Certo, una bella giornata di sole permetterebbe a questo territorio, questa tipologia di abitazioni e perfino a questo stesso crocifisso di mostrarsi in tutt’altro modo, in tutto il loro meglio – magari in primavera, circondati da migliaia e migliaia di fiori. E chissà quanto devono essere belli albe e tramonti in cima a qualcuno di questi colli! Non rimane che sperare prima o poi di poterci tornare, e scoprire se ci ho visto giusto.

La strada ora sale un po’. In alcuni tratti è letteralmente scavata nel terreno, scendendo perfino due metri sotto il livello dei campi circostanti. Quella soglia terrosa che costeggio forma un’onda scura che parrebbe esser traccia di una melodia. Il ritmo, invece, è scandito dalle piante e dai paletti delle recinzioni.
Sono pensieri e rappresentazioni che nascono nella trance del cammino, soprattutto quando gli elementi attorno a me sono pochi: mi ci sento in armonia e la testa si scatena con le sue invenzioni.

A un bivio mi aspetta un cartello di legno grezzo con una grossolana freccia gialla. Sopra ci campeggiano i nomi di Lourdes e Santiago scritti in blu, ovviamente con annesso chilometraggio mancante. “Incredibile”, mi dico, “Ancora due giorni e sarò a Lourdes!”.
Ammetto che non ho mai provato una venerazione spontanea nei confronti della Madonna, forse perché mi sono sempre sentito poco a mio agio nella moltiplicazione delle figure di riferimento nel mio percorso di fede, ma Lourdes resta comunque una località dalla fama internazionale, una meta di pellegrinaggio tra le più note al mondo, e io…la sto raggiungendo addirittura a piedi. Più pellegrinaggio di questo! Lo dico per scherzo, ma chi l’avrebbe mai detto che avrei vissuto un’esperienza simile.
Ad ogni modo, non ci voglio arrivare con arroganza o superficialità. È una città dove convergono da lungo tempo migliaia e migliaia di uomini e donne carichi dei loro dolori e delle loro speranze più profonde. Non può essere un luogo qualsiasi, questo lo credo con convinzione, e fin da quando ho pensato al viaggio per la prima volta l’ho sempre vista come una tappa intermedia molto importante. Ora però meglio darsi una mossa, o non ci arriverò più.

Dopo Prat – un’altro piccolo abitato – mi trovo a percorrere alcuni chilometri mozzafiato, a mezza costa su alcuni monticcioli tondeggianti. Quasi costantemente, posso godere di panorami ampi che degradano verso l’orizzonte, chiacciati da un cielo che continua a sembrare un’infinita massa di bambagia scura.
Cammino su asfalto e praticamente mai all’interno dei boschi, ma per la mia gioia incontro mucche e pecore in quantità.
Pioggia, verde e animali al pascolo mi sussurrano il nome di un Paese dove mai sono stato, l’Irlanda, e non è la prima volta durante questo viaggio. È una meta che sta aspettandomi da vent’anni, ma non ne farò passare altrettanti, promesso!

Mentre tra le nuvole filtra per un attimo un po’ di luce, raggiungo il villaggio di Lahitte. Con mia gran sorpresa, affacciata alla finestra della prima casa che incontro, una donna esplode in un saluto raggiante appena mi vede arrivare: “Buen camino!”. Ringrazio di cuore e ci salutiamo scuotendo la mano aperta. Mi piace questo gesto: è squillante e dà forma alla gioia dell’incontrarsi. Tra sconosciuti, poi, è ancora più gratificante. Quante volte avrei avuto bisogno di niente più che questo!

Devo essere sincero, però, e ammettere che da queste parti di segni gratuiti di accoglienza, allegria e generosità ne ho ricevuti tanti. Se poi provo a radunare nella memoria tutti quelli raccolti fin dalla partenza, il bicchiere diventa mezzo pieno. Anzi, straborda.
E poi diciamoci la vertà, se proprio tutto mi salutassero diventerebbe presto un’esperienza insopportabile, probabilmente addirittura inquietante. No?

Il paesino successivo è niente più di una breve via con qualche casa e un paio di capanni: si chiama Lasserre. Dei cani mi abbaiano contro. La padrona esce e resta perplessa nel vedermi imboccare la strada a passo deciso, e infatti scopro che è a fondo chiuso. Ristudio bene la mappa, torno indietro, poi riprovo. Eppure dev’essere qui da qualche parte! La signora rientra in casa senza pronunciare parola, ma alla fine scopro che la svolta è proprio dietro quella stessa ’abitazione. È un sentierino quasi invisibile che si tuffa a valle: un corridoio ombroso, ma affacciato su una bella radura in fondo alla quale sbuco su una strada dipartimentale tutta curve. Mi porta a destinazione in un paio di chilometri seguendo il fiume Aros, che scava questa valle stretta e stracolma di vegetazione.

Attraversato il corso d’acqua, costeggio un bel campo da rugby e altri impianti sportivi, poi comincio a vedere degli edifici più vecchi, qualche tavolo di legno e delle bandierine colorate tutte appese. Sono arrivato al Moulin-des-Baronnies, uno dei tantissimi mulini di questo dipartimento. Fa capo al paese di Sarlabous, ma il nome richiama invece quello dell’area storico-naturale dove ho camminato gran parte della giornata: le Baronnies, appunto.

C’è un negozio di prodotti locali e un campeggio, ma il primo è chiuso e il secondo sembra vuoto. Al telefono ero stato avvisato, però. Le chiavi del gîte mi aspettano nella cassetta della posta: ancora una volta una grande casa d’accoglienza tutta per me. Certo, c’è un aspetto negativo: stare in spazi così ampi accentua il senso di solitudine che a volte mi solletica, ma reggo sempre bene il colpo.
Sembrererbbe che lo star viaggiando basti di per sé a farmi stare bene. Per non parlare poi del piacere di concludere una tappa, che regala sempre un’ulteriore dose di gratificazione, ottimo antidoto ad ogni malumore.

La cosa folle, però, è che è solo mezzogiorno e mezzo. Oggi è stata veramente breve, non sono per niente abituato. Chilometraggi come questo equivalgono praticamente ai giorni di riposo che non mi sto prendendo. Perfetto così. Non resta che sistemarsi e prepararsi il pranzo.

Nel pomeriggio, mentre aspetto l’arrivo della signora con cui ho parlato per la riscossione dei soldi, approfitto del wi-fi per vedermi un film: “Dio esiste e vive a Bruxelles”, una simpatica perla. Consigliatissimo!

Proprio subito dopo il termine, arriva lei: Alida. È una basca francese molto giovanile, con la quale mi sento pienamente a mio agio fin dal primo secondo – davvero una sintonia singolare. Ne nascono una decina di minuti divertenti e leggeri. Una volta pagato e timbrata la credenziale, poi, mi permette anche di acquistare un paio di cose dal negozio nonostante sia chiuso.

Prima di salutarmi, si premura di un’ultima cosa: mi chiede se ho qualcosa per ripararmi il collo.
Wow, non ci posso credere! Avevo perso il mio scaldacollo proprio quattro giorni prima, a Augirein, ed era stato un bel cruccio perché sta avvicinandosi un altro abbassamento di temperatura. Un’altra sorpresa direttamente dal cammino: incredibile!
È successo proprio come con Fabian a Malegoude, quando mi porse un’intera scatola di conchiglie senza che gli avessi detto nulla. In tutti e due i casi mi ero rivolto al cammino stesso, come fosse un’entità a sé stante. Lo avevo fatto per gioco, sull’onda di alcuni racconti di amici e amiche pellegrini che già avevano passato esperienze simili, ma certamente viverle fa tutto un altro effetto.
Rispondo quindi alla domanda di Alida spiegandole anche questi dettagli. Lei sorride e mi invita ad aspettare, quindi esce per un minuto e torna con una fascia del tutto simile a quella che avevo perso, e poi addirittura una seconda, in pile. Che dire? I doni perfetti al momento giusto!

La saluto con gratitudine e gioia. Aldilà del regalo, è certamente stata la persona con cui sono stato più naturalmente bene in queste settimane: una sensazione fiorita nella leggerezza, ma non per questo è qualcosa di poco conto. Vivere la sensazione di conoscersi già, di essere in sintonia senza fatica, sono convinto sia una delle cose più belle che si possono vivere. Dico sul serio, e non penso di esagerare.

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Francia, Hautes-Pyrénées, Occitania
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10/10 Saint-Bertrand-de-Comminges – Montsérié

(Gîte communal)
23km

La giornata comincia molto bene grazie a Nami, che prepara una buona colazione e la impreziosice con tutte le sue premure. Prima di lasciarci, ci tiene a mostrarmi un libro a lei molto caro, un testo che l’ha aiutata moltissimo per sostenere i dolori più grandi della sua vita e ad avere la forza di continuare in ciò che lei ritiene giusto. Mi aspetto sia un testo religioso, e invece mi stupisce porgendomi il Bushido, il codice dei samurai. Non può donarmelo, è troppo prezioso per lei, ma resterà nella mia memoria, e sono certo che quando lo leggerò porterà qualcosa di importante anche nella mia vita.
Ci salutiamo con l’intensità che ormai non è più eccezione lungo questo mio pellegrinaggio.

Il borgo a quest’ora è molto più affascinante. Mentre ne esco il cielo è gonfio di nuvole, e all’orizzonte le vedo inghiottire le sommità di qualche alta montagna.
A partire da oggi, ho scelto di utilizzare una piccolissima guida ricevuta da Brigitte a Mirepoix. C’è scritto sia edita da una certa Radio Camino e propone “Il cammino più corto da Saint-Bertrand-de-Comminges a Lourdes”. Facendo il calcolo della distanza, mi fa risparmiare quasi 15 km rispetto al percorso originale del GR78 – che di certo è anche più impervio.
L’itinerario di oggi corrisponde a quello fatto da Sara sei anni fa; quello delle prossime tre tappe, invece, sembra nettamente diverso. Mi piace molto l’idea di camminare lungo una traccia di cui nessuno mi ha dato testimonianza prima, me la fa sentire più mia. Speriamo vada tutto bene.

Abbandono Saint-Bertrand scendendo dalla parte opposta a quella da cui sono arrivato ieri. Mentre attraverso brevi tratti di bosco, poi campi e pascoli, mi rendo conto che ogni segno di modernità sembra assente. Quando poi mi volto e rivedo anche la cattedrale, mi sento più che mai in un’altra epoca. Me la rido tra me e me quando mi viene in mente il film Non ci resta che piangere, quando Benigni e Troisi si ritrovano magicamente in pieno medioevo, nell’immaginario paese di Frittole.

In bella vista in mezzo a una strada, incontro finalmente due salamandre vive. Fin qui ne ho già viste molte, con la loro straordinaria pelle gialla e nera, ma purtroppo tutte appiattite da qualche automezzo. Sono momenti sempre un po’ speciali per me che non ho mai avuto grande relazione con il mondo animale. Mentre avvicino il mio faccione restano immobili, guardando in direzioni differenti. Se questa è la loro unica autodifesa, capisco perché ne ho trovate già tante schiacciate. Le punzecchio un po’ con uno stelo d’erba, ma non si scompongono. Sono bellissime di per sè, ma tese in quella posa scultorea lo sono ancora di più.
Smetto di infastidirle e me ne vado via sorridendo, ripromettendomi di studiare qualcosa di più su questi animali dai colori tanto appariscenti.

Aggirato un piccolo colle, arrivo al paesino di Tibiran-Jaunac, lasciandomi alle spalle l’Alta Garonna ed entrando nel dipartimento degli Alti Pirenei. Ormai è più di un mese che sono in Francia, e manca sempre meno al mio arrivo a Saint-Jean-Pied-de-Port.

Finisco su una strada dipartimentale. Il cielo si è aperto e non c’è traffico. il paesaggio è bello, pianeggiante, con grandi campi, una lunga fila di colline e dei monti alle loro spalle che si fanno pian piano sempre più alti.
Superato un fiumicello dal nome inevitabilmente buffo, Le Merdan, mi vedo arrivare incontro un gruppo di cinque signore a passo deciso. È sabato mattina, e magari è la loro camminata settimanale. Siamo tutti su asfalto, ma a nessuno mancano racchette e scarponi da trekking. Certo, ci divide la grandezza dello zaino, che per loro serve solo a portare uno snack e al massimo una bottiglietta d’acqua.
Con la mia conchiglia bene in vista, le saluto allegramente. Loro si fermano per un attimo, chiedendomi se io sia sulla via per Compostela. È sempre una gioia per me quando qualche francese mostra interesse per questo mio pellegrinaggio, quindi rispondo con gioia che sì, è proprio quella la mia meta. Purtroppo però non ricevo incitamenti o battute per rallegrare l’animo e stemperare la fatica, bensì un’acida e severa annotazione sul fatto che il GR non passa di lì, ma dalle colline. La metto sul ridere e, rivolgendomi alle amiche della signora che ha parlato, chiedo loro se sia sempre così bacchettona. Qualcuna prova a trattenersi dal ridere, ma altre non si sforzano nemmeno, mentre lei rimane del tutto spiazzata. Credo di aver colto nel segno.

Un chilometro dopo, cambio totalmente rotta. Oggi, infatti, è un grande giorno per due motivi: il primo è che fra poco raggiungerò quota 1500 km. Ma il secondo non è da meno, perché avrà sicuramente un’incidenza molto forte sul proseguimento della mia esperienza: come premio per i tanti chilometri percorsi, ho deciso che spedirò a casa la tenda e il materassino!
In realtà maturavo questa decisione già da settimane, a partire dal fatto che le volte in cui li ho utilizzati sono state tutte più o meno complicate. Sapevo fin dall’inizio che avrei avuto bisogno di abituarmi, ma non ci sono mai riuscito davvero. Alcuni dettagli che hanno rovinato quelle notti non li ho descritti tra queste righe, perché sarebbero sembrati banali, ma la verità è che hanno contribuito ogni volta a rovinarmi il sonno, e riposare male ha sempre significato camminare poi con tanta stanchezza fin dalla prima mattina. Un motivo particolarmente decisivo, però, è stata un’inaspettata diminuzione delle temperature e il fatto che si aspettano anche peggioramenti. La mia attrezzatura ha già dimostrato di non essere adatta con questo clima. Qualcuno avrebbe continuato comunque, non ho dubbi; io invece ho scelto così.
Sono curiosissimo di scoprire come sarà camminare senza tutto quel peso.

A quest’ora, l’ufficio postale più vicino al percorso è quello di Saint-Laurent-de-Neste: è lì che mi sto dirigendo. Tra andata e ritorno, saranno 3 km in più rispetto all’itinerario descritto sull’opuscolo, ma oggi la tappa prevista era talmente breve che mi è sembrato non ci potesse essere occasione migliore.
Una volta lá, devo aspettare molto, ma la signora allo sportello si rivela gentilissima, paziente e perfettamente competente. Rispedisco a casa più di due chili, spendendo poco più di venti euro. Non pochi, ma potrebbe essere una delle spese più azzeccate di tutto il viaggio.

Rimesso lo zaino in spalla, esplodo subito di gioia grazie al fatto che la sensazione di maggior leggerezza è già molto percepibile. È certo che questa mossa farà una differenza cruciale per il proseguo del cammino. Saluto ogni persona che incontro, probabilmente con uno sguardo euforico irresistibile, tanto che proprio tutti rispondono sorridendo.

Attraverso di nuovo il paese per tornare sulla rotta originale, ma prima mi fermo in un minimarket che fa anche da bar. È gestito da una coppia giovanissima e ha la particolarità di avere un arredamento insolitamente moderno per il tipo di negozio che è.
Aspetto un‘infinità, ma loro sono talmente cortesi con tutti che sopporto serenamente. Lei fa sia cassa sia banco bar, il che fa capire perché ci sia tanta coda. Quando è il mio turno scelgo di prendermi anche un bel caffè, nonostante percepisca le silenziose maledizioni di quelli che stanno in fila alle mie spalle; probabilmente mi vorrebbero uccidere.
Come se non bastasse, la povera ragazza lo rovescia mentre me lo sta porgendo. Le dico che non fa nulla e che sarà per la prossima anche se l’ho già pagato, ma lei fa aspettare tutti per farmene un altro e addirittura mi offre anche un croissant per scusarsi. Wow! Che montagne russe mi stanno facendo vivere questi francesi!
Di Saint-Laurent-de-Neste, di certo, mi rimarrà un piccolo ricordo prezioso.

La leggerezza dello zaino me la sono goduta solo per 500 m, però: quelli tra la posta e il minimarket. Infatti, ho dovuto fare la spesa doppia oggi, perché domani sarà domenica, che in Francia è giorno di rigorosa chiusura delle attività commerciali, almeno per quello che ho potuto constatare io. Gli unici a fare eccezione sono i supermarket, ma restano aperti comunque solo fino alle 12:30. In ogni caso sulla strada che percorrerò non ce ne saranno, e quindi eccomi di nuovo a mettere nello zaino quei 2 kg che avevo appena tolto. Mi consolo pensando a quanto sarebbe stato insopportabile il peso dello zaino se non avessi nemmeno rispedito la tenda. Prima regola: vedere sempre il bicchiere mezzo pieno!

Mentre inizia a piovere, raggiungo il paesino di Nester. Qui mi riaggancio per qualche chilometro al GR78. Salgo senza fatica tra alcune piccole frazioni di Hautaget e, arrivato in cima a un passo collinare, torno a imboccare una scorciatoia, concludendo la tappa tra facili curve asfaltate. Arrivo alla vicina Montsérié costeggiando tutta la conca erbosa su cui il villaggio si affaccia.

Chiamo quindi Jean-Claude, il gentile referente per l’alloggio comunale. Arriva poco dopo e mi mostra il gîte, che scopro inaspettatamente grande e ben attrezzato. Non mi aspettavo tanto in un paesino come questo. Mi viene fatto anche il grande favore di poter usare un’asciugatrice che sta in un secondo gîte comunale, poco sotto.

Una volta rimasto solo, fuori ancora piove e il cielo è scuro. Io però sono felice, sia per la tappa che per la spedizione del pacco. Il peso dello zaino è una cosa che influisce tantissimo su questo genere di avventura e sono sicuro: da qui comincia un cammino nuovo.

Faccio subito partire la lavatrice con un ciclo rapido, e appena ha finito scendo all’altro alloggio per asciugare il tutto. Nel frattempo smette di piovere e si apre uno squarcio tra le nuvole. Un fascio di luce ci passa attraverso e finisce ad illuminare una cittadina a qualche chilometro. È uno scena che ha un che di magico – la cartolina ideale per questa giornata semplice e speciale.

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Francia, Hautes-Pyrénées, Occitania
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09/10 Juzet d’Izaut – Saint-Bertrand-de-Comminges

(Casa parrocchiale)
29km

La colazione era inclusa nel prezzo, così ho modo di salutare Michel, che si alza alla mia stessa ora per prepararla.
Non si può certo dire che abbiamo ingranato molto. Ad ogni modo, l’esperienza di cammino ha la particolarità evidente di dire addio ogni giorno a luoghi e persone. Può sembrare una cosa difficile, ma  confesso che – nel mio caso –  la gioia degli incontri e le scoperte quotidiane ha sempre prevalso sul rammarico dei continui commiati. In alcuni casi, è stato anche un sollievo lasciarsi alle spalle qualcosa o qualcuno, e ammetto che l’esperienza qui a Juzet-d’Izaut rientra in questa categoria.

Il clima e il cielo non sono affatto male. I chilometri iniziali sono lungo un sentiero ondulato immerso tra campi, prati e pascoli recintati. I versi degli animali e i suoni della natura mi regalano una pace preziosissima, colorata dalle tenui sfumature dell’aurora.

Giunto al villaggio di Cazaunous, attraverso un ponticello in pietra che dà inizio alla prima salita del giorno. Tagliando alcuni tornanti, raggiungo piani diversi del paese. Seppur su asfalto, mi godo una traversata di tre chilometri nel bosco, fino al Col de Ares. Da lì poi scendo fino a Saint-Pé-d’Ardet: un paesino particolarmente bello, con diverse ville sontuose circondate da grandissimi giardini. Mi colpisce talmente che tradisco il percorso per esplorare un po’ i dintorni. Facessi sempre così, non arriverei più alla meta, ma ogni tanto alcuni luoghi riescono a sedurmi e faccio eccezione. Ne sto incontrando moltissimi, devo ammetterlo.

Ormai ho percorso circa tre quarti delle tappe tra Alpi e Pirenei. La Francia se non mi ha ancora conquistato, poco ci manca. Prima di partire non sapevo nulla di ciò che avrei incontrato. Arrivato qui, però, sento che ormai tutta questa bellezza è riuscita ad entrarmi sottopelle, e che anche tutte le difficoltà incontrate abbiano contribuito a questo risultato. Certo, forse è anche una lettura ottimistica per superare gli strascichi della disavventura di ieri, ma scelgo di tenermela stretta comunque.

Torno sulla rotta del GR, arrivando a un laghetto niente male appena fuori dalla cittadina. L’area attorno è attrezzata con tavoli, e a uno di questi c’è un gruppo di giovanissimi viaggiatori che sta facendo colazione. Mentre mi perdo nelle fantasie di un viaggio in un furgone come il loro, un asino che sta dietro una rete a pochi passi da me comincia a ragliare fortissimo, per un tempo che mi pare non finire mai.
Con le orecchie che mi fischiano, e tra le risate sommesse dei ragazzi, mi allontano fino ai piedi di una bella falesia, per poi scendere lungo un sentiero dietro al lago.

Mi ritrovo per un centinaio di metri in un piccolo bosco umido in cui tutto è avvolto dal muschio, in maniera molto simile a qualcosa già visto ieri.
Appena ne esco, sento il verso fortissimo di un rapace. Passa una ventina di metri sopra la mia testa e la particolarità è che, appena termina il suo stridere, il campanile suona dieci rintocchi. Non vorrà dire nulla, ma la sincronia mi lascia incantato per qualche secondo.
In pochi minuti, ben due fortissimi versi di animali hanno fatto irruzione nella calma del mio camminare. Mi è quasi impossibile considerarli semplici eventi fortuiti. Il pellegrinaggio, ormai, mi spinge a raccogliere e custodire, e non posso ignorare una simile concordanza di eventi. Forse non sveleranno nessun significato, non si legheranno a nient’altro, ma di certo resteranno lì, nella memoria, non meno di un sorriso inatteso o del sapore del mio primo mauresque.

Alla fine della radura, entro a Génos, un’altra graziosa cittadina. Nonostante ci siano giusto quattro vie, riesco a perdere la svolta giusta a causa di una telefonata. Per fortuna incrocio diverse persone, e una di queste mi avvisa che sto sbagliando strada, indicandomi quella corretta.
È l’inizio della seconda salita della giornata. Saranno circa 500 metri di dislivello spalmati su 4 km. Il primo tratto, tutto sviluppato in un bosco con alberi molto grandi, si rivela particolarmente duro, ma le gambe si sono rafforzate ed ora mi è più facile gustare anche questo genere di fatiche.
A un certo punto scelgo di deviare di qualche centinaio di metri verso i resti un’antica chiesetta, dove sembra ci sia un belvedere non male. L’edificio si chiama Notre-Dame-du-Bien e, in effetti, si dimostra un luogo suggestivo, perfetto anche per un piccolo break.

Tornato poi sul sentiero, continuo la salita, fattasi molto più accessibile. Il bosco regala pochi scorci sul paesaggio attorno, ma quando capita è un godimento, soprattutto per la presenza di altre montagne già tutte colorate di giallo e di arancione.

L’arrivo al punto più alto del mio percorso (nemmeno 1000 m, in realtà) non è per niente entusiasmante. Alte conifere impediscono ogni visuale sulla valle e la terra è incredibilmente fangosa a causa del passaggio di grandi mezzi per il disboscamento. Sembra di stare in un cantiere, peccato. Inizia però la discesa, e dopo quaranta minuti mi riappacifico con la montagna sbucando in un’ampia radura erbosa che il sentiero taglia esattamente a metà. Proprio al centro, succede per la seconda volta che un rapace passi sopra di me esplodendo il suo verso, e di nuovo mi sale un brivido d’emozione lungo la schiena.

Parte da lì, poi, una discesa asfaltata lungo la quale è disposta qualche panchina, in corrispondenza di splendidi punti panoramici sulla piana sottostante. Questa è tagliata dal corso sinuoso della Garonna e delimitata da montagne i cui pendii salgono con dolcezza dal fondovalle. Proprio ai piedi di uno di questi c’è il piccolo colle su cui svetta nitidamente la cattedrale di Saint-Bertrand-de-Comminges. È là che sono diretto. In linea d’aria saranno cinque chilometri, ma la strada che dovrò seguire per arrivarci è lunga più o meno il doppio. Difficilmente troverò un posto migliore di questo per fare pausa, quindi anticipo quella che avevo in mente e mi godo la vista per una decina di minuti.

Una volta ripreso il cammino, arrivo a valle in un attimo, in corrispondenza del comune di Barbazan. Per me è solo un luogo di passaggio, ma rimango molto stupito attraversando l’area delle vecchie terme, in disuso da una ventina d’anni. C’è un grande parco non recintato con viali costellati da numerosi platani molto alti. Ad evocare i fasti di un tempo ci pensano un lungo ed elegantissimo porticato, uno splendido chiosco art-nouveau e i resti di una chiesetta lasciata incompiuta. Con spunti simili, è facile perdersi a immaginare quel luogo nei suoi anni migliori.

Attraversata poi la Garonna, eccomi nella cittadina di Loures-Barousse. Non è memorabile, a dire il vero, ma mica ogni paese può esserlo. Forse però la ricorderò per un curioso dettaglio: la statua di un soldato dedicata ai morti in guerra. Il motivo è che anche questa è stata verniciata in maniera davvero discutibile, come anche un’altra vista ieri a Juzet-d’Izaut, o come tanti crocifissi che sto incontrando ultimamente. Dev’essere forse la moda del momento, perché sono interventi evidentemente recenti.

Dopo aver fatto scorta di cibo al supermercato, riprendo il GR78 e cammino in mezzo ai larghi appezzamenti pianeggianti per una trentina di minuti, fino a raggiungere la parte bassa di Saint-Bertrand-de-Comminges. Il tragitto mi fa costeggiare un piccolo canale che – curiosamente – corre anche all’interno della piazza del paese, tra l’altro deliziosa nella sua rusticità.

Poco dopo, algo la scalinata che mi porta all’ingresso della cittadella fortificata, le cui vie mi proiettano suggestivamente indietro nei secoli molto più di quanto non mi sia successo a Carcassonne. La vista dell’antica cattedrale mi affascina moltissimo, con quella strana torre che domina la facciata. L’interno non è da meno. In mezzo alla navata sta un alto coro ligneo, la cui particolarità è quella di sembrare una specie di chiesa nella chiesa. Le sue pareti, infatti, vanno a chiudersi a ridosso del presbiterio, lá dove si celebra il rito. Riesco a vedere l’altare e i preziosi stalli che stanno all’interno spiando da un minuscolo spiraglio, perché purtroppo non ho tempo per la visita guidata. Uscendo, poi, ho occasione di apprezzare anche uno straordinario organo, posto in una posizione rialzata molto originale, simile a quella che di solito è riservata ai vecchi pulpiti.

Una volta fuori, contatto la signora che si occuperà della mia sistemazione presso l’ostello pellegrino dentro la casa parrocchiale, e resto ad aspettarla in piazza. Arriva poco dopo, molto sorridente e gentile; mi dice di chiamarsi Maïté.
Il luogo dove mi accompagna è affascinante e spazioso, si percepisce sia di un’altra epoca. Ha un giardino interno che posso scorgere attraverso le vetrate di un lungo corridoio che forse una volta era un chiostro. Le stanze, poi, hanno grandi finestre affacciate sulla vallata, ed essendo in alto, la vista è spettacolare.

Come da accordi telefonici, oggi accetto volentieri un pasto cucinato dalle premurose mani della signora. Prepara un originale piatto di sua invenzione, che oggi si direbbe “fusion”, per la combinazione tra elementi orientali e occidentali. Condividiamo la tavola e le nostre esperienze. Scopro che il suo nome originale è Nami, e che è franco-giapponese. Per due terzi della vita ha lavorato nell’ambito della moda, ma da molto tempo ha fatto la scelta radicale di dedicarsi al servizio della Chiesa. L’esistenza non le ha risparmiato profonde sofferenze, ma dice di trarre enorme forza dalla fede che ha dentro.

Vado a dormire molto felice di averla conosciuta, anche se non è stato facile accogliere l’intensità degli eventi di cui mi ha parlato e dei sentimenti che mi ha descritto. È un’anima molto preziosa.

Sono tante le persone che si sono aperte con me finora senza mai avermi visto prima. Mi rendo conto più che mai che le loro storie rimarranno dentro di me; non so quanto e non so come, ma sarà così. Chissà cosa rappresenterà per la mia vita futura tutto questo? Non lo posso sapere, ma è la cosa che più si avvicina a quello che sognavo fin da ragazzo: girare il mondo e ascoltare le storie delle persone più diverse, faccia a faccia, a cuore aperto.
Da questa prospettiva più di ogni altra, ho l’impressione di cogliere l’incalcolabile valore dell’essere umano all’interno di questo mondo pieno di bellezza.

No, non voglio dimenticare mai.

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08/10 Augirein – Juzet d’Izaut

(Mémé de Juzet)
23km

Oggi camminerò meno chilometri del solito ma, viste le altimetrie, sarà una vera e propria tappa di montagna. C’è bel tempo, e questa è una grande notizia, perché non vedo l’ora di scoprire questo territorio nel pieno della sua bellezza. Parto verso le otto, abbastanza tardi rispetto al mio solito, con un freddo quasi piacevole.

Il GR riparte da un sentiero al limite del paese, il quale subito si immerge in un bel bosco; non avrei chiesto di meglio. Durante il tragitto, sfioro il torrente che seguo fin da ieri, la Bouigane. Lo attraverso a Saint-Lar, in corrispondenza del primo ponte che incontro.
La cittadina gode di una posizione tutt’altro che anonima, esattamente all’incrocio di tre valli. Lo stile delle case è del tutto simile a quello già visto ieri, ma stavolta senza quei colori tanto originali. La giornata splendida, però, neutralizza la tetraggine dei tetti scuri, lasciando prevalere il fascino di un caratteristico paesino montano.
Il sole finora non ha baciato che qualche alto versante in lontananza, ma le montagne vicine impreziosiscono comunque la scena, regalando ciascuna una tonalità di verde diversa.

Una volta raggiunta la chiesa, svolto per un sentiero che so già sarà il più impervio della giornata. La parte più aspra, lunga qualche centinaio di metri, ha una pendenza che mi mette davvero a dura prova. La mattina ha l’oro in bocca, però, e anche il sole sembra accelerare la sua venuta proprio per sostenermi.
Arrivato a un rustico altarino con un crocifisso e delle bandierine tibetane, capisco che il grosso è fatto e tiro un po’ il fiato. La salita non è finita, ma ora sembra continuare molto più morbidamente.


In dieci minuti, infatti, già scollino, in corrispondenza di una manciata di case immerse nella vegetazione. Gli abitanti sono fuori che chiacchierano: mi pare stiano confrontandosi su qualche sistemazione da fare alle proprie abitazioni. Il sentiero è stretto e passo proprio in mezzo a loro, ma a stento ricevo risposta al mio saluto sorridente. Per il morale sono piccole pugnalate, ma bisogna saperci convivere.

Raggiungo un abitato leggermente più grande del precedente: Escarchein. Sta a mezza costa e si affaccia su un pascolo gigantesco, occupato da una mandria di mucche rosse che prendono il sole beatamente accucciate. La sensazione che trasmettono è che abbiano assolutamente tutto quello di cui hanno bisogno e che se la stiano spassando nel loro dolcissimo far niente. Non le invidio, ma mi piace sempre dedicare un minuto ad osservarle; sembra quasi di poter assorbire un po’ della loro placiditá.

In fondo al paesino mi imbatto in una casa ricca di simboli pellegrini affissi qua e là. Non posso farci niente: ogni volta che incontro qualcosa che riguarda il mio viaggio mi ravvivo e nasce in me – spontanea e ingenua – la voglia di incontrare un volto solidale, il sorriso di qualcuno che mi auguri “Buen camino”, magari con il quale scambiare gioiosamente qualche aneddoto. Noto che c’è la porta-finestra aperta. L’interno è in penombra, ma c’è una televisione accesa. Pensando che possa far loro piacere, provo a chiamare, ad avvisare del mio passaggio, usando un tono di voce cordiale. In fondo, non credo siano molti, quest’anno, i pellegrini passati di qua. Purtroppo, tutto questo mio entusiasmo resta deluso. Non ricevo nessuna risposta, nessuno si affaccia. Pazienza, si prende quel che viene. Magari erano semplicemente occupati in altro o non mi hanno sentito, anche se la verità è che mi mi resta un po’ di amaro in bocca.

Poco dopo, supero il confine tra il dipartimento dell’Ariège e quello dell’Alta Garonna, nel quale camminerò solo per un paio di giorni.
L’Ariège è stata una terra che mi ha regalato tantissimo, sia dal punto di vista naturale, sia tenendo conto di come l’uomo ha “disegnato” il proprio insediarcisi. Penso alle piccole e magnifiche città incontrate, così come i tanti paesini splendidi, ma devo includere anche tutte le terre coltivate e dedicate al pascolo, che mi hanno riempito occhi e anima di meraviglia.

Carico di gioia e gratitudine, scendo ancora fino a raggiungere il comune di Portet-d’Aspet. Mi ricorda incredibilmente Saint-Lary, il primo che ho incontrato oggi. Anche qui devo superare una grande salita appena uscito dal villaggio, ma per fortuna meno dura di quella affrontata all’alba.
Lungo il sentiero passo davanti a una cappella dal nome simpatico: Notre-Dame-du Pomès. Io penso che si riferisca alle mele anche se la parola è scritta diversamente, perché dentro c’è una recente statua di una donna che ne tiene una in mano. Inoltre, non è questa la sua unica originalità: la figura, infatti, stringe a sé un bambino, ma ha ben poco di una Maria – per lo meno per come siamo abituati a vederla raffigurata. È molto scollata, dalle gambe scoperte, e il seno ben pronunciato sotto la veste, modellato con poca maestria. Se è vero che non emana la consueta pietà mariana, ammetto però che trasmette una vampata di femminilità che di solito viene totalmente omessa dalle rappresentazioni canoniche. Me ne ricorderò. Ma ora, bando alle ciance e camminare!

Ahimè, incappo subito in un bel tratto fangoso come quello di ieri e, viste le tante cacchette ovine sparse ovunque, sospetto ci sia passato lo stesso gregge incontrato ad Argein. Superarlo è davvero una pena, tanto che alla fine gli scarponi sono letteralmente raddoppiati di peso per tutto quello che gli è rimasto attaccato. Inizia poi un ultimo sentiero che, tagliando i tornanti stradali, mi porterà fino ad un passo chiamato Col de Portet-d’Aspet.
A metà salita, incontro un vecchio con una gran barba bianca che mi regala un gentile saluto. Immediatamente dopo di lui c’è una casa e, passando di fronte alla cassetta della posta, leggo quasi per caso un cognome che attira inevitabilmente la mia attenzione: Garibaldi. Per un centinaio di metri rido tra me e me per la simpatica abbinata tra il ben noto cognome e il volto irsuto dell’anziano appena incrociato. Fosse davvero lui il signor Garibaldi – come probabile – sarebbe una coincidenza molto divertente.

Poco dopo arrivo in cima al passo, dove posso godermi un meraviglioso panorama e una grande soddisfazione. Non è stata certo una scalata memorabile e in fondo sono solo a poco più di mille metri d’altitudine, ma tutto conta relativamente. Di fatica ne ho fatta, quindi mi merito sia la gioia che una pausa. È il punto più alto della giornata; da qui in poi non resterà che scendere.

Me la prendo comoda e riparto verso le undici. Rimanendo a mezza costa, la via segue le varie nervature del versante. Il sentiero, visto in pianta, procede quindi per larghi zig zag, e su ciascun segmento incontro ambienti dalle caratteristiche a volte radicalmente diverse. Solo una cosa hanno in comune: sono tutti scenari splendidi.

Per un primo tratto cammino su un morbido sentiero di foglie secche e gli alberi intorno a me – dalla corteccia argentea – hanno la particolarità di avere le basi ricoperte da un muschio molto abbondante, vellutato, di un verde smeraldo intenso come mai ne ho visti prima. Man mano che procedo, vedo quello stesso muschio prendere sempre più il sopravvento su piante e rocce, tanto che a un certo punto ogni cosa sembra avvolta da quella pelliccia verde. È stupefacente. Per qualche minuto mi sento dentro ad una fiaba.

Il secondo tratto è lungo e luminoso. Alla mia sinistra, verso la valle, non ho più il bosco a nascondermi il panorama, ma solo una fila di piccole piante frondose e arbusti, e lo stesso alla mia destra. Sembrano siepi, e l’effetto è quello di un labirinto a cielo aperto.
Il sentiero continua in leggera salita, fino a solcare la nervatura della montagna più protesa verso l’interno della valle. Qui c’è una roccia sulla quale riesco a salire senza rischi. Sembra di stare sulla prua di una nave!

Mi godo per un attimo il panorama e poi comincio la lenta discesa attraverso un bosco ombroso, simile a quello iniziale. Qui faccio un incontro davvero inusuale: un’intera famiglia sta percorrendo lo stretto sentiero in direzione opposta alla mia. La curiosità è che lo stanno facendo con ben due asini! Devono star affrontando un viaggio non da poco, perché le bestie sono incredibilmente cariche. Quella in coda ha anche un piccolo peso aggiuntivo: una dolcissima bambina la cavalca, con in testa un caschetto da fantina. Gli altri sembrano essere i suoi due giovani nonni, seguiti da quella che credo sia la madre. Mi arrampico per un metro abbondante tra gli alberi per permettere loro di passare. Dentro me, come al solito, spero di poter scambiare almeno due battute con questa favolosa carovana e rivolgo loro un saluto allegro per rompere il ghiaccio. Purtroppo ricevo solo una risposta inaspettatamente dura, e a malapena uno sguardo. In compenso, almeno la bambina ricambia con irresistibile simpatia. Tra l’altro, ho usato senza pensarci un italianissimo “Ciao!”, e solo in un secondo momento realizzo che la piccola mi ha fatto eco con la stessa espressione. È un dettaglio minimo, ma è un sacco di tempo che scambio saluti in francese, e questo frivolo imprevisto mi stampa per qualche minuto un bel sorriso in volto.
Mentre si allontanano rubo una foto ricordo, conquistato dal buffo ondeggiare della bimba sopra il suo asino. Inaspettatamente, si volta per un istante anche la madre e mi sorride in silenzio. Un’altra poetica piccolezza.

Poco dopo, passo attraverso un bosco di betulle talmente perfetto da convincermi definitivamente di essere davvero in una fiaba – o almeno nello scenario ideale per qualche storia della Tavola Rotonda. Mi guardo attorno di continuo, con lo sguardo meravigliato di un bambino a Disneyland.
Resomi conto che si è già fatto mezzogiorno, scelgo di approfittare di quest’angolo di paradiso per fermarmi a pranzare. Il sole mi fa compagnia con qualche suo raggio tra le fronde, e io mi godo in silenzio l’ampissima gamma di colori di questi luoghi, dilatata dal fatto d’essere a cavallo tra due stagioni.

Riparto dopo una ventina di minuti, lasciandomi alle spalle questi boschi magici e tornando su asfalto. Incontro prima le poche case di Escabires e poi – qualche tornante sotto – quelle di Razecueillé. Da lì, la strada scende dolcemente fino ad accostarsi al fiume Le Ger, giungendo quindi al ponte che lo attraversa. Eccomi a valle, finalmente. È stata dura, ma che posti ho potuto vedere!

Per concludere l’itinerario di oggi non mi resta che superare la collina che sta sull’altra sponde del fiume. Mentre salgo per una larga strada, posso godermi la vista di quasi tutto il versante percorso nelle ore precedenti, gongolando ancora per le meraviglie incontrate.
La fatica si fa sentire, ma per fortuna torno presto a scendere, raggiungendo una larga conca che ospita la destinazione di questa giornata – Juzet d’Izaut – dove ho prenotato un letto in camerata presso un gîte.

Stavolta si tratta di una villa agricola di tre piani, con un bel giardino e quello che una volta era di certo un fienile. Le finestre sono aperte e si sente musica ad alto volume. Suono il campanello, ma nessuno risponde. Succede lo stesso chiamando il numero di telefono, nonostante dalla strada io possa sentire squillare entrambi. Passano i minuti e psicologicamente la situazione si fa un po’ frustrante, anche perché sono arrivato proprio all’orario concordato. Grazie al cielo, infine, il proprietario si accorge di me e mi accoglie. Mi spiega che stava imbiancando una stanza all’ultimo piano e aveva lasciato il cellulare a quello inferiore.

Il posto è molto bello anche all’interno, ma Michel – la persona che mi ha aperto e che credo essere l’unica in casa – sembra inspiegabilmente teso, e io non riesco a sentirmi del tutto a mio agio. Cercando di non pensarci troppo, mi occupo di sistemare tutte le mie cose e farmi una bella doccia rigenerante. Scendo poi in paese, dove gli unici negozi aperti sono una macelleria e un piccolo panettiere.
Entro nella prima, che ha le pareti costellate di scatole coloratissime di patè fatti in casa. L’impatto visivo è accattivante, ma il prezzo è troppo alto per le mie tasche. Mi dedico quindi a i pochi altri prodotti sugli scaffali e alla lunga vetrina frigo, ma fin dal primo istante sento durissimo su di me lo sguardo della commessa dietro il banco. È esattamente ciò che amo meno dei piccoli negozi, dove l’indecisione del cliente – di solito – non è ben accolta dal personale, e spesso ci si trova ad essere osservati con malcelata insofferenza. Certo, questo succede anche per prevenire eventuali furti, ma per me resta ogni volta un’esperienza spiacevole.

Tento di distendere l’atmosfera stabilendo un minimo dialogo e dando spiegazioni del mio tentennamento. Spiego con gioia di essere un pellegrino venuto dall’Italia e in cammino verso Santiago, ma non batte ciglio. Proseguo comunque fiducioso, confessando serenamente di star cercando prodotti adatti al mio budget.
D’improvviso, la sua reazione è sconcertante. Sbuffando e con sguardo astioso, pronuncia nella sua lingua la frase: “Tutti uguali voi italiani!”.
Rimango scioccato. Per quanto sia un episodio minuscolo, non mi era mai capitato di essere disprezzato per la mia provenienza. Balbetto una risposta col mio misero francese, tentando di moderare la situazione: spiego che gli italiani che arrivano da lei probabilmente sono spesso pellegrini che stanno affrontando un lungo viaggio proprio come me, ed è normale che debbano fare economia. Non è quindi la nazionalità, ma le proporzioni del viaggio che potrebbero essere la ragione di questo fatto.
Non riesco nemmeno a finire le frasi, che la signora rilancia subito aspramente, coinvolgendo addirittura un cliente appena entrato. Indicando me, gli comunica sprezzante che sono italiano, sbuffando una seconda volta per sottolineare il concetto già più che chiaro.
La situazione è insostenibile, ma concentro le mie forze e, senza più darle retta, riesco velocemente a trovare quello che mi serve al prezzo che volevo spendere.
In cassa, la maleducata non molla, e quando le dico che ho solo il bancomat si mostra esasperata e ricomincia a lamentarsi. In realtà ho con me anche contanti, ma è la mia misera vendetta nei confronti di quell’arpia. Le strappo lo scontrino di mano e me ne vado, mentre ancora sta insistendo col suo brontolio ostile.
Nel negozio accanto mi fermo a prendere un solo panino ma, nonostante la mia spesa irrilevante, vengo trattato comunque con la normale cortesia che si addice a circostanze tanto elementari di vita civile.

Quando torno all’alloggio sono emotivamente stravolto. Michel è in salotto. Sono incapace di spiegare in francese quello che è successo, ma ne ho bisogno, così uso Google Translate. Legge il racconto e reagisce abbozzando un minimo d’empatia, ma…nei confronti della negoziante! Per fortuna si ferma subito, forse perché vede esplodere il fuoco nei miei occhi. Capita l’antifona, non mi resta che andare in camera a sbollire.

Quando scendo nella piccola cucina per l’ora di cena, lo trovo ai fornelli a preparare il proprio piatto. Una volta sedutosi, accende la televisione a volume massimo su una specie di quiz a sfondo musicale.
Non cerca minimamente la relazione con me. È tutto concentrato sulla tv, e fa solo commenti su quello che vede succedere sullo schermo. Io preparo il mio pasto e mi siedo a tavola. Fatico molto a sopportare quella situazione, anche perché odio la televisione – soprattutto durante i pasti.
Forse però c’è una spiegazione. Sara, da Milano, mi ha detto di aver dormito proprio da loro sei anni prima e di essersi trovata benissimo. Erano una coppia, infatti, ma la compagna era malata. Qui lui ora è solo e noto alla parete molte foto di un’unica donna. Mi faccio l’idea che sia venuta a mancare, e inizio a vedere Michel e i suoi atteggiamenti sotto un’altra prospettiva. Non so se sia davvero cos’, ma così facendo riesco a calmarmi. Finisco col fare anch’io qualche commento sul programma, e riusciamo anche ad avere qualcosa di simile ad un breve dialogo prima di andare a dormire.

La giornata finisce così, lasciandomi molto a cui pensare.

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07/10 Saint-Lizier – Augirein

(Association Mémoire du 20éme siécle)
31 km

Oggi il cielo non offre mezze misure né scappatoie: piove a dirotto, e le previsioni dicono andrà avanti per ore. Non rimane altro da fare che coprirsi bene e partire con sana rassegnazione.

Seppure ci sia ancora buio, non c’è bisogno della torcia, perché il paese è ben illuminato. Scendo fino a valle e supero il ponte sul fiume Salat, un affluente della Garonna, ritrovandomi poi su una delle strade più trafficate che abbia mai incontrato fin qui. Spostandomi a piedi da quasi due mesi, trovarmi di fronte a questo marasma mi dá quasi ribrezzo. Mi domando come potrò tornare a questa specie di normalità.

La strada corre ai piedi di una collina che sono certo di dover superare, ma il buio e la pioggia mi impediscono di vedere i segnavia. Così, sono costretto a ripararmi tutto dentro la mantella per spulciare sul navigatore dove parta il sentiero. Purtroppo sbaglio comunque, e me ne accorgo solo in cima alla salita presa, scoprendola a fondo chiuso. Provo a trovare alternative, ma non resta che tornare sui miei passi, scendendo ancora da dove sono partito.

Riesco a scovare la via giusta, ma dopo dieci minuti mi accorgo di aver mancato la seconda svolta. Immobile sotto la pioggia battente, cerco di respirare molto profondamente per mantenere la calma. A mente più serena, quindi, trovo una soluzione un po’ rocambolesca per scendere sulla strada sottostante. Da lì, riesco infine ad agganciarmi al percorso esatto senza dover tornare indietro un’altra volta. Davanti alle prime indicazioni corrette tiro finalmente un sospiro di sollievo.

Attraverso una piacevole zona residenziale a mezza costa, tutta composta da villette immerse in grandissimi giardini di proprietà. Come previsto, la pioggia non sembra voler smettere di cadere; la notte, però, ha ormai lasciato spazio al giorno, e con la luce il cammino diventa un po’ meno duro.
Dopo una decina di minuti, attorno a me non restano che poche case sparse, mentre tutto intorno dominano prati verdissimi, resi brillanti dall’acqua piovana.

Il percorso mi riporta poi a valle, in corrispondenza di un bel ponte romano presso Aubert. La vista di un grande portico lì di fianco mi sembra un miraggio. Ho fatto pochi chilometri ma ho già perso un sacco di energie, e non vedevo l’ora di trovare un posto all’asciutto dove fare una pausa.
Appena dopo essermi rimesso in marcia, incrocio una vecchina che sta camminando col suo ombrello sotto la pioggia battente. Mi regala un affettuoso saluto sorridente. Sono piccoli doni sempre ben accetti, capaci di rinvigorire all’istante da ogni stanchezza.

Segue circa un’ora di cammino che mi fa risalire di nuovo lungo il versante, fino ad arrivare poco a monte di Engomer. Da lì, il sentiero entra in un bosco e d’un tratto si fa ripidissimo. Prima di affrontarlo, mi fermo a radunare le forze e soprattutto a preparami mentalmente. Dalla mappa so già che sarà breve, ma con lo zaino che mi ritrovo resta un ostacolo non così banale. Annoiato dalla fatica, però, decido di giocare con me stesso e mettermi alla prova, raccogliendo questa piccola sfida in modo quasi competitivo. Spremendo tutte le mie energie, comincio a salire a grandi passi tra le pietre fangose, mentre la pioggia filtra abbondante tra i rami sopra di me. Spinta dopo spinta, cerco di godere di quello sforzo piuttosto che pormi in una condizione di sopportazione. L’approccio si rivela efficace, trasformando l’esperienza in qualcosa di passionale: lascio che l’affanno si mescoli al vigore che ci sto mettendo. Può sembrare esagerato, ma diventa quasi come fare l’amore. Arrivato in cima, sono fradicio sia per la pioggia che per il sudore. Mi devo fermare a riprendere fiato e far rallentare il cuore, ma scoppio anche in una risata liberatoria.

Una volta sceso dall’altro lato, poi, trovo rifugio sotto il piccolo portico d’ingresso del Comune di Balaguéres-Alas. Mi fermo almeno una ventina di minuti, mangiando qualcosa e studiando i chilometri che ancora mancano.
Qualche abitante mi passa di fianco per entrare negli uffici, ma la cosa curiosa è che poi non vedo più nessuno uscire. Forse stanno usando una porta di servizio per garantire le distanze di sicurezza, oppure sono impiegati che lavorano qui, chissà. In ogni caso, con tutti spendo un bel saluto sorridente, racimolando però solo qualche mugugno bofonchiato senza nemmeno guardarmi.
Non è certo mia intenzione creare disagio, imbarazzo o addirittura fastidio, ma è anche vero che la mia conchiglia e tutto il resto dicono benissimo che ci faccio qui. Sono un innocuo pellegrino verso Santiago, pieno di aneddoti e sogni, ma questo non sembra rassicurare che poche persone. Che dire, c’est la vie.

Ci ho visto bene scegliendo di prendermela comoda, perché la pioggia d’improvviso cala, fino a smettere. È il momento!
Scendo in paese, scoprendolo particolarmente originale. Un torrente lo divide a metà. Sulle sponde non ci sono parapetti, solo qualche vaso di fiori appoggiato per terra. Gli edifici che vi si affacciano hanno tetti in lose e scuri di legno. In alcuni casi, sia per le facciate che per gli infissi vengono usati colori sgargianti, con abbinamenti audaci e quasi sempre ben riusciti. In altri, invece, gli unici colori sono il grigio scuro del tetto e un tono più chiaro per i muri: un’accoppiata piuttosto mesta, soprattutto in giornate piovose come oggi.
Non sono certo in alta montagna, eppure molti dettagli mi rimandano a quei contesti, a quell’atmosfera.

Rinuncio ad una nuova salita e raggiungo in piano il villaggio di Audressein, che si presenta subito con il suo asso nella manica: l’antica e preziosa chiesetta di Notre-Dame de Tramesaygues, dalla forma originale che la rende unica.

Da qui in poi, lascio il fiume Le Lez e seguo il suo affluente, la Bouigane, lungo la valle della Bellongue, come da programma. È straordinario il numero di piante e fioriere che sono disposte lungo il suo argine.
In Francia esiste una vera e propria certificazione per le città e i villaggi “in fiore”. Lo so perché lá dove si ottiene questo marchio, viene affisso un cartello all’ingresso del paese, e l’ho già incontrato parecchie volte. Informandomi, scopro addirittura che non è solo una questione riguardante il numero di fiori presenti, ma che viene tenuto conto di tutto il patrimonio paesaggistico e vegetale, oltre che del rispetto dell’ambiente e la qualità della vita. Davvero lodevole.

Il paese successivo si chiama Argein. Lì, prima dell’ennesima deviazione collinare, sosto un momento per valutare il da farsi. Proprio in quel momento sopraggiunge un piccolo gregge di pecore. Il pastore che le conduce, riconoscendomi come pellegrino, mi indirizza con tono stranamente duro verso la salita, come se mi avesse letto nella mente. Turbato e divertito allo stesso tempo, accetto l’ordine e m’incammino.
Non più di dieci minuti dopo, però, sto già maledicendolo perché il sentiero è quasi impraticabile: ci saranno almeno 20 cm di fango, mescolato per bene con tutti gli escrementi del suo gregge. Ma non sarebbe stato più civile consigliarmi il percorso alternativo?!


Grazie al cielo la tortura si conclude relativamente presto, e mezz’ora dopo mi trovo a scendere in un altro borgo splendido, chiamato Aucazein. Le sponde del fiume che lo attraversa sono incantevoli, ricoperte da un’erba di un verde impensabile. Presso un piccolo ponte – ovviamente fiorito – si ammira una villa di rara bellezza. Addirittura su una delle sue facciate spunta anche un delizioso mulino ad acqua.
Mentre mi perdo a bocca aperta in quell’immagine, però, una coppia di cani di piccola taglia e slegati iniziano a seguirmi, abbaiandomi contro con insistenza. Non fanno paura, ma mi stufa questa faccenda di esser perseguitato ovunque dagli amici a quattro zampe. Vista l’assenza di pericolo, scelgo di far loro una foto come testimonianza simbolica di tutti i fastidiosi incontri dello stesso tipo avuti fin qui. La cosa buffa, però, è che puntando il telefono verso di loro immediatamente si immobilizzano, come per mettersi in posa. Cani vanitosi.

Lasciato l’abitato, percorro un rettilineo con altre grandi case immerse nel verde, in alcuni casi con orti fioriti come ne avevo visti solo nelle Hautes-Alpes. Poco dopo, trovo un bar-ristorante dove faccio una veloce pausa caffè. C’è solo il proprietario, seduto al computer nella sala buia. Non lo dice, ma per i due minuti in cui mi trattengo riesce in ogni modo a farmi capire che per lui sono una scocciatura e nient’altro. Lo saluto con il mio miglior sorriso, ma rimane a fissarmi accigliato e impassibile. Una vera pasta d’uomo.

Il GR mi accompagna tra altri minuscoli villaggi, continuando a salire lungo la valle.
Mi godo la vista di nuove splendide ville a Saint-Jean-du-Castillonais, dove un uomo in furgone si ferma apposta per salutare il mio arrivo, ma è una falsa cortesia. In realtà vuole propormi un alloggio, e quando lo avviso che ne ho già prenotato uno, insiste per sapere dove. Gli rispondo senza problemi; lui storce il naso e se ne va senza nemmeno salutare. Confesso che all’inizio mi ero illuso, ma per fortuna ho ancora vivo in me lo squisito ricordo della vecchina che mi ha salutato stamattina sotto la pioggia.

Salendo nella parte alta del paese, faccio poi uno degli incontri più bizzarri di questo cammino. È un uomo altissimo e porta dei dreadlock molto lunghi. Veste in maniera un po’ folle, con un kilt scozzese, degli scarponi da trekking, una felpa di qualche gruppo hard rock e un gilet di piumino viola. Lo fermo per un’informazione, ma in realtà muoio dalla voglia di sapere qualcosa su di lui. È molto sorridente e capisce le mie intenzioni, ma sembra disponibile ad accontentarmi, e finiamo col presentarci. È tedesco e si chiama Thoe. Non parla inglese, ma tenta comunque di farmi capire qualcosa di sé. Quando gli chiedo che lavoro faccia, mi risponde sorridendo che è una specie di sciamano. Non mi interessa insistere; anzi, mi piace restare con questa idea stralunata, così approfitto per salutarlo e lasciarlo proseguire. Sarebbe stato un incontro originale ovunque, ma in una valletta come questa mi pare ancora più inusuale; un po’ mi chiedo se possa valere lo stesso anche per lui.

Qualche centinaio di metri dopo, imbocco una discesa e in una decina di minuti arrivo ad Augirein, meta del giorno. Finalmente!
Ho trovato alloggio presso l’Association Mémoire du 20éme siécle. Sento per telefono la referente, la signora Eliane, che mi dà un paio di semplici indicazioni per raggiungerla. Quando apre la porta della casetta, resto sbalordito, scoprendo che stanotte dormirò in una casa-museo!
L’abitazione si sviluppa su tre piani, ognuno molto piccolo. La particolarità è che è piena fino all’orlo di oggetti domestici di tutti i tipi, raggruppati meticolosamente per tipo e dimensione. Come dice il nome del posto, sono tutti legati al secolo passato – soprattutto ai primi cinquant’anni, mi pare.
Ci sono collezioni di ogni cosa: piatti, macina-caffè, scatole di latta, bicchieri, soprammobili, pentole, brocche, vasi, bambole, merletti, e chi più ne ha più ne metta.
Per quanto sia effettivamente una casa, mi chiedo come siano arrivati a decidere di ospitarci qualcuno. A mia disposizione ho tutti i normali servizi di un alloggio qualsiasi, ma il fatto è che in ogni minimo angolino ci sono esposte decine e decine di cose. Nella mia camera, così come nel bagno e nella cucina. Davvero fatico a credere ai miei occhi! La faccenda per lo più mi diverte, lo confesso, e sono già sicuro che diventerà un ricordo particolarmente speciale.

Prima che cali il sole riesco anche a visitare il paesino, scoprendolo curato e fiorito come gli altri visti oggi. Pur piccolo, ha una parte bassa e una alta; in quest’ultima, c’è una chiesa di cui la signora mi lascia le chiavi per poterci entrare. Un’altra cosa insolita, ma ormai chi le conta più?

Per cena mi scaldo un risotto pronto ai frutti di mare, comprato ieri. Pensavo fosse la solita ciofeca, invece si rivela inaspettatamente buono. La confezione ha una grafica strana. L’impostazione grafica dei prodotti è un altro ambito visuale di cui mi sono interessato, e così mi accorgo che i caratteri usati sono totalmente fuori da ogni trend attuale. Leggo che si tratta di una marca basca. Questo mi fa tornare in mente una recente vacanza proprio nei Paesi Baschi, anche se spagnoli. Ripensandoci, in effetti, mi rendo conto che avevo già incontrato quel font, e non certo su una scatola di risotto. Mi nasce un presentimento: non sarà che questo popolo che tanto ama sottolineare ciò che lo distingue, ha scelto di farlo anche usando un carattere testuale tutto suo? Se così fosse, sarebbe una cosa molto interessante, ma purtroppo non riesco ad accertarmene. Non mi resta che portare ancora un po’ di pazienza; non manca poi molto, ormai, a raggiungere i territori baschi francesi. Lá, forse, riuscirò a togliermi il dubbio.

Prima di addormentarmi, passo un po’ in rassegna le infinite cose che riempiono la mia piccola stanza. Tra tutte, ne scopro una puttosto inquietante: una cornicetta con la foto di una giovane ragazza emaciata e inespressiva. Sembra una fototessera che, per qualche motivo, immagino risalga agli anni venti. Non bastasse l’aspetto di quel volto, tra il vetro e la fotografia c’è una ciocca bionda di capelli, e mi viene abbastanza automatico pensare che siano proprio della ragazza ritratta. Ci faccio una risata per stemperare la sottile angoscia che mi crea quella cosa tanto macabra, e mi infilo sotto le coperte. Dalle imposte chiuse arriva il rumore sordo e costante del vicinissimo fiume. Se non fossi così stanco, credo che difficilmente dormirei stanotte.

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06/10 Le Mas-d’Azil – Saint-Lizier

(Gîte d’etape Halte Saint-Jacques)
27km

Stamattina mi sveglio con un’eccitazione molto particolare legata all’attraversamento della grande grotta. È l’ennesima esperienza inedita per me, e ha tutti i connotati per diventare memorabile.
Prima di lasciare l’ostello, però, l’ultima cosa su cui mi concentro è trovare un posto adatto per abbandonare qui le mie mini ghette. Le ho usate solamente una volta, in Italia, e lo ricordo perfettamente: fu la prima pioggia del mio cammino. L’accessorio non si dimostrò per nulla funzionale, e da allora mi promisi di liberarmene. Non volevo buttarle, però. Il chiodo fisso diventò subito lasciarle in qualche posto dove potessero essere raccolte da un altro pellegrino, con la speranza che quello le possa trovare più utili di quanto sia parso a me. Direi proprio che è arrivata l’occasione giusta.
È evidentemente una faccenda di poco conto, ma il fatto di essere in programma da così tanto tempo pare aver creato un’attesa sproporzionata: anche se non pesano nulla, una volta lasciate mi sembra che lo zaino pesi molto meno – probabilmente solo una simpatica suggestione da viandante esordiente.
Spento tutto, abbandono infine l’ostello, di cui conserverò davvero un bel ricordo.

Eccomi di nuovo tra le vie del paese. Prima di cena, ieri, avevo trovato il tempo di fare una passeggiata, percependo quasi immediatamente che questo luogo non mi affascinava solo per la sua bellezza. Ho avuto l’impressione emani un’energia propria, molto forte e particolare, e che qui si siano radunate persone che l’hanno riconosciuta e ci si sono stabilite. Parlo di un via vai di giovani e meno giovani fuori da un piccolo bar in piazza, e di altre viste a zonzo per le stesse vie che ho camminato: gente molto simile a quella incontrata nel campeggio a La-Motte-du-Caire, ma calata in un contesto più insolito. Descrivere queste perosne non mi è facile. Alternative, mi verrebbe da dire, con la sensazione di esser già giudicante e un po’ bigotto. Forse è un po’ così, perché nasconderlo? Conosco le mie piccole miserie, ma so anche che ho provato un senso di genuina curiosità, e di certo avrei tentato di attaccar bottone se non avessi avuto tutti quei problemi legati all’alloggio.

La sensazione di un luogo pregno di energie non scontate, però, è nata certamente anche da una lettura fatta ieri fuori dal Tempio. Qualcosa mi ha spinto a cercare informazioni sulla consolidata presenza protestante qui a Le Mas-d’Azil, scoprendo che questo paese fu teatro di tumultuose vicende storiche a riguardo. Pare sia stato un centro nodale per questa frangia di fedeli, e nel ‘700 ci furono scontri cruenti proprio qui. Da quello che ho letto si parla di un assedio di un mese, e con centinaia di morti, ma nel quale alla fine gli abitanti ebbero la meglio sull’esercito da cui erano stati attaccati. Probabilmente le mie percezioni energetiche non sono troppo affidabili e più che altro sono figlie di suggestioni, ma ciò non toglie che questo non è per nulla un villaggio qualsiasi.

Superate le ultime case, quando ormai sono ad un passo dall’imboccare la famosa svolta per la grotta, mi si affianca un’auto col finestrino abbassato e il guidatore mi chiama incredibilmente per nome, facendomi addirittura una domanda in spagnolo: “Roberto, peregrino! Y el desayuno?”. È il pastore! Gli sorrido, spiegandogli che avevo avvisato madame Ivonne che sarei partito troppo presto per approfittarne, ma probabilmente c’è stato un fraintendimento. Mi risponde allegramente che non c’è problema e augurandomi “Buen camino!”. Credo sia al massimo la terza volta che qualcuno usa questa precisa espressione per salutarmi, e fa sempre un gran bell’effetto! Saluto anch’io e lo lascio ripartire nel buio della fredda mattinata. Vedendolo fare immediatamente inversione di marcia, gesticolo dicendogli di fermarsi e abbassare di nuovo il finestrino; voglio chiedergli conferma di quello che in realtà ho già capito: è montato in macchina e venuto fino lì alle 7 della mattina solo per me. Incredibile! Lo ringrazio ancora, quasi commosso, e ci salutiamo definitivamente.

Pochi minuti dopo muovo i miei primi passi dentro la famosa grotta, camminando con un po’ di pericolo al lato della strada che davvero le passa dentro. Le luci sono poste in basso, a lato della carreggiata, illuminando così la bassa volta rocciosa in maniera particolarmente affascinante. Il fiume scorre a un livello inferiore e non lo vedo se non in un secondo momento, ma fin da subito posso sentire il fragore dell’acqua, amplificato da questa cassa di risonanza naturale.
La grotta non è dritta ma si snoda in almeno tre grandi curve. Dopo la prima, lo spazio interno si fa d’improvviso gigantesco, permettendomi di comprendere meglio l’unicità del luogo. Tra la strada e il fiume parte una moderna passerella pedonale, illuminata con faretti ben disposti. In un’enorme cavità sul lato opposto, quasi a sembrare incastonato nella roccia, sta l’ingresso all’area a pagamento. Immagino custodisca un piccolo museo e forse qualche angolo speciale, ma ovviamente è chiusa di prima mattina. Così come la passerella, la struttura ha un design moderno, che devo ammettere non stona affatto con l’atmosfera della grotta. Lo spazio è incredibilmente grande, ma la fascinazione maggiore nasce dal pensarlo vuoto e abitato da comunità preistoriche, come davvero fu. Da pelle d’oca!
Con viva eccitazione, raggiungo pian piano l’enorme uscita. Wow! Mai vista una cosa del genere. La vista dall’esterno su questo lato è bellissima, da lasciar senza fiato. Mi è già nata una gran voglia di visitare altri luoghi simili. Se non sbaglio, qui nel sud della Francia ce ne sono diversi, forse ancora più importanti. L’ennesimo buon motivo per tornare in futuro.

Proseguo a lato della strada per almeno un’ora. Corre in mezzo a un valletta piatta e disseminata di campi, con microscopici gruppi di case qua e là lungo la via. Sembra ci siano solo due posti dove potrei prendere uno snack e fare un po’ di scorta, uno fra poco e uno a Clermont, da dove poi comincerò a salire tra i colli. Sfortunatamente, il primo non ha ancora aperto e l’altro ha l’insegna ancora appesa, ma deve aver chiuso i battenti perché dentro è letteralmente vuoto. Non morirò per qualche ora di digiuno in più, ma psicologicamente è una vera frustrazione. Infatti, mi rendo conto più che mai di quanto i miei spuntini servano sia a darmi energia che a tenere alto il morale.

A metà della stessa strada incontro anche la chiesa di Raynaude, posta alla base della collina. Ha almeno due curiosità. La prima è che alle sue spalle, lungo il versante, s’inerpica una tortuosa via crucis scandita da cappelle appuntite e particolarmente grandi. È talmente scenografica da sembrare un presepe, seppur vagamente lugubre. La seconda è che all’imbocco della traversa che porta alla chiesa stanno ben due statue di Gesù: una ad un angolo e l’altra a quello opposto, una benedicente e l’altra morente in croce. È la prima volta in assoluto che vedo una così asciutta contrapposizione tra il Cristo vivo e quello morto, e mi accorgo di esserne affascinato. Forse è dovuto al fatto che, se un’immagine può avere la forza di un simbolo, due riescono già a diventare una storia. Chissà, è l’unica riflessione che riesco a fare.

Arrivato a Clermont, come previsto lascio la strada e comincio una salita, sempre asfaltata ma molto più stretta. Sembra destinata al passaggio di pochi mezzi. In cima a quei colli, infatti, trovo poi uno sparuto numero di ville agricole e fattorie, immerse tra grandi prati e alcuni pascoli recintati.
Il sole manca, il cielo sembra di cotone, ma i mille verdi della natura pacificano l’anima, puntellati quà e là dal biancore di qualche animale: mucca, asino o pecora che sia.
Cammino su e giù per circa 7 km, fino ad arrivare all’antica chiesa di Notre-Dame de Noguès, lassù in mezzo ai campi, diroccata e con un tetro cimitero accanto. Resta poco dell’edificio, quasi solamente un bel campanile esagonale in mattoni, ma il tutto conserva un gran fascino.
Sorpasso un altro piccolo colle, scendendo poi fino a Lescure, dove l’unica cosa degna di nota che incontro è una villa dal giardino meraviglioso, anche se a renderla unica è l’essere costruita a cavallo di un piccolo fiume. Forse era un mulino, chissà.

Da lì, poco dopo, i segnavia mi fanno salire per una viuzza in mezzo al verde, lungo la quale incrocio un cagnone che mi si avvicina in maniera particolarmente dolce. Alzando lo sguardo vedo arrivare con calma il suo padrone, accompagnato da un secondo cane, uguale al primo. Mi fa piacere poter familiarizzare anche con questi animali ogni tanto, visto che solitamente il mio rapporto con loro è pessimo in questo viaggio. Il motivo è che il viandante inevitabilmente è l’eterno estraneo, il fastidioso intruso da sommergere di latrati fino allo sfinimento. In fondo non fanno che il loro dovere, mi dico sempre, tentando così di sopportarli meglio.

L’uomo mi saluta con genuina cordialità e senza fretta, così approfitto per scambiare due parole mentre accarezzo i due grossi animali. Si chiama Olivier, è svizzero d’origine e mi si illuminano gli occhi scoprendo che nella vita fa il pittore. Se non sbaglio, è il terzo che incontro, dopo Petrus a Susa e il marito di Sylvie a Pepin. Senza contare Peter, conosciuto alla Maison Iris.
Lo ascolto con ammirazione, perché si occupa di espressionismo astratto – stile che amo molto. La cosa che mi lascia a bocca aperta, però, è che si procura lui stesso i pigmenti con i quali produce i propri colori, estraendoli direttamente in natura. Rimaniamo qualche minuto a parlarne, e grazie a questo incontro ritrovo un sacco di energie.

Proseguo poi la mia salita, sbucando in breve tempo su un viale alberato che taglia a metà una grandissima piantagione di pini, tutti di piccola o media taglia. È un luogo isolato, immerso tra le colline, dove il tempo sembra sospeso, forse per l’ordine perfetto con cui tutto è piantato.

All’ora di pranzo e mi fermo a mangiare le mie sardine e verdure in scatola su un muretto, nei pressi di un grande pascolo ovino. Alla ripartenza, noto che il recinto non è ben chiuso. Quando vedo le prime pecore uscirne mi nasce il piccolo istinto di intervenire in qualche modo – chissà come poi! – ma mi trattengo. Lo spettacolo delle bestie che mi camminano di fianco calme, libere e ruminanti è troppo bello. Escono una dopo l’altra, seguendo la capofila, che però non ha per niente l’aria di sapere dove stia andando.
In cima al pascolo, invece, un gruppo di almeno sei, sette caproni si sta scornando. Sembrano due bande di ragazzotti che si provocano fuori da un locale. Mi fermo qualche minuto ad osservare anche quelli, pensando a chi questo lo fa per lavoro, vuoi perché pastore o perché studioso. Quante vite possibili!
Il pensiero che mi nasce spontaneo da tanto tempo è che stare a contatto con la natura e gli animali regali uno sguardo privilegiato sull’esistenza, proprio perché ci si confronta con forme di vita diverse. Con una buona sensibilità, sono convinto che se ne possano trarre insegnamenti unici.

Mentre comincia a piovere io continuo lungo il sentiero, che sale dolcemente e mi fa passare tra campi di grano giallissimi: l’ultima volta che ho visto questo colore prevalere su tutti gli altri ero di fronte alle risaie prima di Arles. Sono già passate due settimane, e quante cose ho visto nel frattempo!
Immediatamente dopo, mi trovo a camminare attraverso la piccola e caratteristica cittadina di Montjoie-en-Couserans, che al centro ha la sua attrazione principale: l’antica chiesa di Notre-Dame-de-l’Assomption. La facciata è prolungata in altezza da una fortificazione, in un modo molto suggestivo. La differenza tra i due segmenti, infatti, è talmente netta da far sembrare che un castello sia atterrato sulla chiesa, quasi fosse un Tetris surreale. Mi stupisce anche la sproporzione tra l’imponenza dell’edificio e la piccola piazza antistante, racchiusa tra le case come un nido. Mai visto niente di simile.

Prima di andare oltre, mi rimane il dubbio di cosa significhi l’appellativo “de Couserans” all’interno del nome del paese. Parrebbe indichi quest’area territoriale, ma vado spesso in confusione con tutti i nomi che incontro, tra Regioni attuali e soppresse, dipartimenti, aree vitivinicole, aree di riferimento storico-culturale, prefetture, etc.
Perdo quindi qualche minuto sul web, trovando conferma che Couserans era una provincia storica della zona dei Pirenei francesi e prende il nome dal popolo che anticamente l’abitava: i Consoranni. Piccole cose, niente più che assaggi di un Paese, la Francia, dalla storia davvero ricchissima. Questo mi fa pensare spesso a Sara, che è archeologa e in Francia ci ha pure lavorato. Chissà come dev’essere interessante vivere l’esperienza di un cammino storico con quelle competenze. Mi diverto a immaginarla un po’ come Neo di Matrix, che vedeva la matrice dietro l’apparenza delle cose. Un giorno glielo dirò, sono sicuro che ci farà sopra una bella risata.

Continuando le mie ricerche, scopro anche che la cittadina dove dormirò stanotte – Saint-Lizier – era il centro principale di quest’area ed è stata anche sede vescovile per secoli. Si trova ormai ad un passo.
Quando ci arrivo, visito un po’ il centro della parte bassa, dove si trova l’antica cattedrale. Fortunatamente è aperta, così come anche il bellissimo chiostro alle sue spalle.
Concluso il piccolo tour, mi reco al vicino ufficio turistico, per far timbrare la credenziale e pagare il mio pernottamento. Qui, infatti, il Comune ha creato un ostello specificatamente per i pellegrini, che in francese viene definito gîte d’étape.
Chiedo anche se sia possibile visitare il palazzo vescovile, arroccato nella suggestiva parte alta della città, ma purtroppo le restrizioni legate al virus lo impediscono. Chissà quanto diverso sarebbe stato il viaggio senza questo genere di inconvenienti. Meglio non pensarci e godermi il privilegio di aver già potuto camminare tantissimo, senza problemi troppo grandi e – soprattutto – in salute.

Una volta conclusa l’accettazione, vengo accompagnato all’alloggio dalla giovane e gentile impiegata. Si trova proprio alle spalle dell’ufficio, innestato in un’ala di una grande dimora. L’entrata è molto suggestiva, con cespugli di lavanda, rose e un salice piangente.
L’interno, invece, mi fa l’effetto opposto. Può sembrare ridicolo, ma il motivo è che le pareti sono tutte dipinte di viola e rosa shocking. Non vorrei far torto a nessuno, ma mi sembra di stare nella casa di Barbie. Mi chiedo chi abbia fatto questa scelta tanto azzardata. Da buon italiano, però, mi dà una leggera consolazione la prova che anche i francesi possono – a volte – avere un pessimo gusto.

Mi do una sistemata ed esco per una gita obbligata al supermercato, che sta un chilometro fuori dal paese. Quando l’ho cercato sul web, ho scoperto che ha anche delle lavatrici e asciugatrici a gettone, per cui porto con me una bella borsa di panni sporchi, già tutti lavati al gîte per risparmiare il più possibile, e li metto a seccare mentre faccio la spesa.

Finito tutto, non mi rimane tempo per ulteriori passeggiate. Peccato, mi sarebbe piaciuto perdermi almeno un po’ tra le vie della parte alta di Saint-Lizier. Magari avrei trovato qualcosa di simile alla mia amata Città Alta, a Bergamo.
L’ennesima buona ragione per tornare, magari concentrandomi proprio sull’Ariège, che mi sta davvero incantando.

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Ariège, Francia, Occitania
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cammino di santiago - roberto pesenti

05/10 Pamiers – Le Mas-d’Azil

(Accueil pèlerins Temple réformée)
28 km

Ieri, prima di andarsene, Cathy mi ha aveva avvisato che dal cortile su cui si affaccia il foyer si può anche accedere a una cappella aperta 24 ore su 24.
Mi sembra un buon inizio per la mia giornata, così ci spendo qualche minuto prima di partire. Oggi è il mio 50° giorno di cammino. È una bella emozione, e celebrarlo con un momento di raccoglimento mi aiuta a prenderne piena consapevolezza e viverlo con soddisfazione e gratitudine.

Quando scendo in strada, fa ancora abbastanza buio. Incrocio comitive di ragazzini e ragazzine che stanno andando a scuola. Invadono le strade del centro come un gregge: mi scorrono accanto quasi senza accorgersi di me, nonostante i miei bastoncini e il grande zaino. La loro vitalità mi incanta. Negli ultimi anni sono diventato più sensibile alla bellissima energia dei bambini, o dei giovanissimi in generale – forse perché ho lavorato prettamente con gli anziani.
Mi incuriosisce notare quanti pochi siano rimasti con lo zaino in spalla. La maggior parte, infatti, trascina dei trolley. Questo dettaglio mi fa tornare in mente Luciano, il pellegrino infaticabile incontrato ad Alpignano. Mi raccontò che il suo primo viaggio verso Compostela lo fece tenendo lo zaino su un carrello di alluminio progettato da lui stesso: qualcosa di simile ad un trolley, quindi, ma legato in vita.

Man mano che mi allontano i gruppi si fanno sempre meno numerosi, fino a che non rimane solo qualche ritardatario qua e là, chi di corsa e chi più pacificamente rassegnato.
Attraverso il ponte sull’Ariège e mi lascio alle spalle Pamiers salendo alcuni tornanti alberati. Arrivato sufficientemente in alto, do un ultimo sguardo alla città. Sono convinto che da quassù mi regalerá il meglio di sé, un’ultima cartolina, mentre invece domina su tutto una grande area industriale di cui non sapevo niente. Purtroppo ho il presentimento definitivo che Pamiers non rimarrà tra i miei luoghi del cuore.

Conclusa la salita, gli alberi lasciano il posto ad una grande radura tondeggiante, illuminata da un cielo che già si sta facendo azzurro. Raggiunto l’altro versante, lo scenario che mi si apre davanti è mozzafiato – ancor di più per il contrasto con quello industriale appena lasciato alle spalle. Davanti a me ora ho colline senza fine, basse e ondeggianti come dune: sono colorate dal verde degli alberi e dei prati, dal marrone della terra arata e dal candore dei pochi edifici sparsi quà e là. Io sono ancora all’ombra, ma la luce del sole fa già splendere quell’immensa tavolozza, rendendola un vero paradiso.

Anche il percorso sembra ideale, accompagnandomi all’interno di quel magnifico paesaggio attraverso curve morbidissime. Cammino su asfalto, ma non mi pesa per nulla. Vedo passare qualche auto, diretta a Pamiers, e ogni volta spio con curiosità guidatori e passeggeri: da una parte si stanno godendo anche loro questa bellezza, ma dall’altra sanno che si stanno per tuffare in tutt’altro scenario. Anch’io ho vissuto un periodo nella mia vita passando per luoghi suggestivi prima di raggiungere il posto di lavoro – ai tempi una fabbrica di componenti elettrici. Vivevo ogni volta un forte stacco tra l’armonia del viaggio e la durezza del reparto, ma è anche vero che – per lo stesso motivo – il ritorno a casa era sempre un’esperienza profondamente pacificante. Tutt’ora, quando ripasso per quelle strade, rivivo le medesime sensazioni, e spero valga lo stesso anche per le auto che sto vedendo passare.

Tornando al presente, mi rendo conto che sto camminando pianissimo. Credo sia per il fatto che ad ogni curva mi pare di entrare in una nuova cartolina, rimanendo qualche secondo incredulo e imbambolato. Come se non bastasse, ad un tratto il sole supera i colli dai quali sono arrivato e viene a scaldare un po’ anche il sottoscritto. Sono in uno stato di vera beatitudine, turbato solo dal latrare di qualche cane al mio passaggio.

In una piazzola a bordo strada trovo parcheggiata una jeep con attaccato un caravan in stile gitano. Entrambi sono coloratissimi – rosso, verde e giallo, tutti molto accesi – e il rimorchio ha pure le fioriere. Sul retro campeggia la scritta “Latcho Drom”, che vuol dire “Buon viaggio” proprio in lingua romanes. Sul lato, sta invece scritto “Liberté vagabonde”, che non ha bisogno di traduzioni. Che dire? Anche se io stesso sto vivendo da vagabondo in mezzo a un grande sogno, questo carro tutto colorato me ne ispira di nuovi e impensati. Chissà, magari in futuro…

Arrivo in un paesino microscopico che si chiama Saint-Victor-Rouzaud. Ha una chiesetta dall’aspetto molto semplice ma tenuta straordinariamente, con un bel portico pulito e molti fiori. Di fronte, una donna sta prendendosi cura del suo immenso giardino. Oltre che salutarla, mi viene spontaneo esprimerle la mia fascinazione per il piccolissimo borgo e fare i complimenti almeno a lei, come fosse rappresentante dell’intera comunità. Mi ringrazia con un gran sorriso; non se l’aspettava, ma penso sappia quanto è vero.

Basta solo un altro chilometro per imbattermi in un’altra perla: almeno duecento pecore sparse su un pascolo in pendenza, grande almeno come tre campi da calcio. L’aria è piena del loro belare ininterrotto. Non sono tutte adulte, anzi, è pieno di agnellini. Lo spettacolo è unico, e io mi scopro d’un tratto a fantasticare su un possibile trasferimento da queste parti. Succede frequentemente mi nascano questo genere di pensieri, ma stavolta tutto sembra un po’ più nitido. Sarà meglio prenderne nota.

Pur rimanendo su asfalto, torno poi a salire tra i boschi. La pendenza non è eccessiva, ma resta costante per quasi 3 km. Per fortuna almeno l’ombra degli alberi offre un buon riparo, perché il sole oggi sembra quasi estivo.
Superata una fattoria senza recinzioni – con l’ennesimo odioso cane slegato – mi trovo affacciato su una lunga discesa. Su un lembo di collina davanti a me vedo snodarsi una strada tutta curve, scenario perfetto per la pubblicità di una grande moto da viaggio.
Sceso nella vallata e raggiunto il piccolo villaggio di Montégut-Plantaurel, il sentiero risale fin sopra la collina opposta, sbucando poi in una seconda valle. Questa volta è molto più stretta e lunga, ma ricca a sua volta di prati e pascoli incantevoli, puntellati qua e là da mandrie di vacche rosse che paiono la rappresentazione perfetta dell’ozio.
A metà strada, pranzo in un minuscolo borgo chiamato Gabre: più o meno dieci case, un cimitero e un’antica chiesa. Non male. Una persona torna dall’orto, passandomi di fianco. Saluto, ma credo che la conchiglia che mi hanno regalato a Malegoude mi abbia reso invisibile. Peccato. La forza di un saluto benevolo saprebbe rendere migliore anche il momento più bello.

Mi imbuco infine in un’ultima valle, ancora più stretta. La percorro tutta fino al fiume Arize, alla periferia di Le-Mas-d’Azil, termine della tappa di oggi. Incontro subito il campeggio del paese, ma per ora non lo prendo in considerazione. Qualche giorno fa, infatti, una ragazza su Couchsurfing ha accettato la mia richiesta di pernottamento. Abita in una specie di fattoria condivisa, ma dopo avermi mandato un primo messaggio, non ha più risposto agli altri. Nonostante questo, ho ancora qualche riserva di speranza. Decido quindi  di arrivare in piazza e lì chiamarla un’ultima volta, confidando in un lieto fine.
Purtroppo anche così il risultato non cambia: nessuno risponde. Ho bisogno di trovare un’alternativa. Comincio col farmi timbrare la credenziale all’ufficio turistico e prendermi un caffè. Fuori dal bar provo a chiedere consiglio ad alcuni abitanti e vengo indirizzato al tempio protestante, a cui sembra faccia capo un ostello creato specificatamente per i pellegrini sulla via di Santiago. Ottimo!

Trovo il tempio aperto, ma non trovo nessuno né lì né alla casa del pastore. All’improvviso mi vengono in mente gli opuscoli che mi ha dato Brigitte a Mirepoix; come diavolo ho fatto a dimenticarmene! Uno raccoglie le accoglienze di tutto il GR78, e ovviamente il luogo che sto cercando è nella lista. Ci sono alcuni numeri di telefono da poter chiamare; ne scelgo uno a caso e faccio un tentativo. Risponde subito una vecchia signora, ma è l’inizio di una tortura inimmaginabile.
Il mio francese è ancora alle prime armi, certo, ma ormai chiedere telefonicamente informazioni per un alloggio e comprendere le risposte non è più un problema. Questa volta, però, non riesco a capire quasi nulla di quello che mi viene detto. La signora parla tantissimo, e ridacchia in modo inspiegabile ogni volta che la imploro di scandire le parole e limitarsi alle cose essenziali. Alla fine l’unica istruzione che comprendo è di aspettare qui l’arrivo di una seconda signora.

Dopo un’ora, però, non arriva ancora nessuno. Provo a richiamare, ma i problemi di comunicazione rimangono esattamente gli stessi. Io però ho estremo bisogno di capire quando arriverà qualcuno ad aprirmi, perché non manca molto alla chiusura del minimarket e non voglio rischiare di rimanere senza cibo.
A un certo punto un uomo esce dalla casa di fronte, molto infastidito dal mio parlare al telefono nella stradina silenziosa. Mi scuso ma sono anche contento, convinto che di certo mi aiuterà. Gli spiego i miei problemi e accetta di parlare lui stesso con la signora, nonostante resti accigliato e diffidente. Come me, viene tenuto al telefono per un pezzo, mentre io aspetto bramosamente la traduzione di quel lungo dialogo. Una volta riagganciato, però, mi fissa in maniera ancora più incattivita e mi ribadisce solo che devo aspettare, niente più. Dopodiché rientra in casa scocciato, lasciandomi esattamente punto e a capo.

D’un tratto mi viene in mente un’ultima possibilità: disturbare Brigitte e chiedere a lei di telefonare per me. Per fortuna risponde e accetta di aiutarmi. Dopo pochi minuti mi richiama e mi spiega che, effettivamente, c’è qualche problema di comunicazione. È riuscita però a mettersi in contatto con una seconda signora, che dovrebbe raggiungermi da un momento all’altro. La ringrazio infinitamente. Passa davvero pochissimo tempo, infatti, ed eccola spuntare! È un’anziana con un sorriso splendidamente rassicurante: non potevo chiedere di meglio. Il suo nome è Ivonne e mi chiarisce cosa è successo: tutto quanto avvenuto nelle telefonate precedenti è stato dovuto al fatto che la persona che ho chiamato, purtroppo, ha cominciato ad avere problemi di demenza. Ecco allora cos’era!
Facendosi più seria, però, mi fa anche notare che sarebbe bastato chiamare l’altro numero presente sulla guida – il suo. Che stupido! Evidentemente l’agitazione mi ha mandato in confusione perchè non ci ho proprio pensato. Grazie al cielo ora è tutto risolto.

La casa è lì ad un passo. È perfettamente studiata per le esigenze dei pellegrini. Sono incredibilmente sollevato, non solo per aver finalmente risolto il problema dell’alloggio, ma anche grazie al modo di parlare estremamente amorevole di Madame Ivonne, che si dimostra un vero tesoro. Addirittura, poco dopo esserci lasciati, torna per regalarmi una fetta di torta fatta in casa. Un vero angelo! Mi avvisa anche che, abitualmente, il pastore offre la colazione ai pellegrini alle 7:15. La ringrazio ancora, ma le rispondo che dovrò rinunciarci, purtroppo, perché per quell’ora sarò già partito.

La sera cucino una quantità abnorme di pasta con un sugo pronto “alla napoletana” preso al minimarket. Mi aspettavo una schifezza, e invece non è niente male. Sarà bene segnarsi la marca.
Su una scrivania, insieme a mille brochure turistiche appoggiate un po’ alla rinfusa, trovo una lunga lista di alloggi per tutte le tappe mancanti da qui ai Pirenei. Ce ne sono diversi che non sono presenti su quella di Brigitte. Sono entusiasta, anche se scoprirò poi che proviene da una pagina web accessibile a tutti, e che addirittura Sara me l’aveva già spedita molto tempo fa. Forse il cammino ha voluto rinfrescarmi un po’ la memoria.

Affissa alla parete, invece, c’è la fotocopia di una mappa disegnata a mano. È davvero grossolana, ma spiega efficacemente ai pellegrini di non seguire la strada principale per uscire dal paese, bensì di attraversare la grande grotta che rende famoso Le Mas-d’Azil. Sono molto incuriosito, soprattutto dopo aver spiato sul web di cosa si tratti. Sembra davvero qualcosa di imponente, tanto che all’interno passano sia una strada che un fiume. Spero che passarci col buio mi permetta comunque di godere dell’originalità di quel luogo.

In fondo alla camerata dove dormo c’è una scala a chiocciola; la signora mi ha detto che porta ad una cappella al piano terra e che ho libertà di scendere a visitarla. Oggi, nella lunga attesa ho avuto modo di entrare nel tempio e apprezzarne lo stile austero, senza fronzoli. Nonostante ciò non era per nulla freddo, il contrario.
Per la mia gioia ho anche trovato affissa alla parete una pietra scolpita dedicata ai pellegrini sulla rotta di Santiago. In questo luogo il legame con la dimensione pellegrina sembra particolarmente spiccato. Mi domando se anche nella cappella troverò altri segni simili, così scendo le scale per scoprirlo.

Con mia grande sorpresa, una volta entrato mi trovo di fronte una decorazione murale estremamente insolita, soprattutto per un luogo di preghiera e di culto. Sulle pareti bianche spiccano infinite pennellate blu che sembrano contorcersi, sfaldarsi e rimodellarsi in continuazione, dando forma a immagini spesso astratte, fluide, dove si trova veramente poco di riconoscibile. La cosa mi affascina molto. Anche la disposizione dei disegni su tutto il perimetro non è uniforme e sembra svilupparsi come fossero tante onde, dando l’impressione di una dinamicità davvero originale.

Posso dirmi contento. A parte i disguidi per trovare alloggio è stata una tappa straordinaria. Ora non rimane che sperare di dormire il meglio possibile. Bonne nuit!

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04/10 Mirepoix – Pamiers

(Foyer de la Maison des Œuvres Diocésaines)
32 km


La mattina faccio una bella colazione con Brigitte e parto già con l’aurora. Mirepoix, nella calma del mattino, sembra dare il suo meglio. I portici sono completamente sgombri e gli unici nei paraggi sembrano essere gli ambulanti che stanno montando le loro bancarelle per il mercatino delle pulci. Mentre me li lascio alle spalle, resto incantato dalla bellezza della chiesa, impreziosita ancor di più da un ottimo impianto di illuminazione esterna.

Abbandono quindi questa cittadina tanto curiosa e pittoresca, tornando ad attraversare il ponte sul L’Hers e imboccando per un primo tratto la stessa strada da cui sono arrivato ieri.
Ai lati, campi di girasoli ormai sfioriti sono sormontati da una leggera nebbia. Oltre le piante che delimitano ogni appezzamento spiccano i Pirenei, con la neve già colorata di rosa dal sole che sta per sorgere.


Perdo un po’ di tempo sbagliando sentiero, ma l’inconveniente mi permette di avere una buona visuale al momento dell’alba. Stamattina, però, c’è qualcosa di dissonante rispetto al solito: sono proprio le distese di girasoli appassiti, che sembra non si sposino per niente con la bellezza pacificante del momento. Plotoni di fusti scuri, tutti sormontati da quelle grandi teste morte che penzolano pesanti verso il terreno. I fasci di luce fanno quel che possono per impreziosire anche questo macabro spettacolo, ma ci riescono solo in parte.
È paradossale: finché conservano i loro colori, sono tra i fiori che meglio rappresentano la vitalità, quelli legati al sole più di qualsiasi altro. Oggi, invece, eccoli comporre una delle immagini più tetre che la natura mi abbia offerto, forse il più potente memento mori che mi sia trovato di fronte. Intuisco, d’altronde, sia importante fare tesoro anche di immagini simili, sia nel viaggio che nella vita.
Il lavoro che facevo non me l’ha mai risparmiato, ovviamente, ma per qualche motivo un campo di fiori appassiti all’alba è riuscito a scuotermi più di tante salme di cui mi sono preso cura. Chissà, forse è la forza del simbolo, della metafora, oppure il fatto che quando si è troppo vicini a qualcosa – come mi succedeva in casa di riposo – non si riesce bene a metterla a fuoco. Oppure, senza volerlo si impara a lasciarla sulla soglia dell’anima quando è il dolore è troppo, per non farsene travolgere. Probabilmente è tutto questo, e molto di più.

Torno a camminare con un pizzico in più di consapevolezza: non è scontata la vita che mi è data ora, e non è infinita. Rispettarla ed esserne grato: questi i capisaldi imprescindibili. Saperne godere e renderla generativa, invece, rappresentano le grandi speranze, la missione. Coraggio, quindi!

Seguendo il sentiero giusto, attraverso qualche nucleo abitato di stampo agricolo -probabilmente minuscole frazioni di Mirepoix – e dopo non molto comincio a salire tra i boschi, su e giù per le prime colline della giornata. Incontro diverse mandrie al pascolo: fortunate vacche rosse che si gustano buffet d’erba verdissima e oziano sotto il primo sole. Sono paesaggi rassicuranti, immersi in una luce splendida.
Faccio la prima pausa a Manses, un villaggio piccolo ma con una gran chiesa. La trovo chiusa, ma stavolta per lavori in corso. Mi fermo alla sua ombra a riposare un po’ e fare merenda. C’è della musica classica che esce da una finestra aperta sopra gli uffici comunali: un piccolo dettaglio capace di rendere memorabile un momento qualsiasi.

Riparto con buon piglio, rimanendo presto ammaliato da una vallata “da cartolina”. Mi ci sento immerso. Al mio lato, campi di girasoli ancora ben gialli e meno sciupati di quelli visti prima, oltre che prati degni di un giardino nobiliare. Di fronte a me, la valle si chiude con un altro fronte collinare, oltre il quale vegliano i Pirenei innevati – ora non più rosa, ma azzurri. In alto, infine, la luna sta appesa in mezzo al cielo terso, e sembra non avere troppa voglia di andare a riposare.

È ora di salire ancora; non molto, solo un centinaio di metri, e di nuovo attraverso un bosco. Arrivato in cima alla collina, le piante lasciano spazio e coronano una radura grande e concava. Sembra un’oasi sospesa, una gigantesca culla verde. Qui il sentiero si biforca e io ne seguo un ramo, facendo l’errore di non badare ai cartelli. Finisco così con l’addentrarmi tra alte conifere, in un silenzio da brividi. Dopo alcune centinaia di metri senza vedere altre indicazioni, capisco di aver sbagliato ancora strada e torno sui miei passi. Devo ammettere, però, che non mi dispiace rituffarmi nel bosco e sbucare una volta in più sul grande prato. Per gioco, mi diverto a scendere di corsa verso il suo centro e tentare di salire fino all’altro capo senza rallentare. Non vinco la scommessa, ma perlomeno mi godo qualche risata solitaria mentre tento di recuperare il fiato.

La mia camminata continua su un crinale coperto da un comodo tappeto di erba e da alberi ancora giovani. Quando è nuovamente tempo di scendere, il sentiero mi conduce al paesino di Teilhet, la cui chiesa è impreziosita da un grazioso sagrato alberato. È chiusa, nonostante sia l’orario usuale delle messe domenicali. Chissà, forse qui ci sono abitudini diverse anche su questo.

Un quarto d’ora dopo arrivo a Vals, dove c’è un’altra chiesa, stavolta molto particolare: sembra scolpita nella roccia, qualcosa di davvero affascinante. Ahimè – ebbene sì – anche questa è chiusa! Sembra davvero una maledizione.
Un abitante del piccolo borgo, riconoscendomi come pellegrino, si presenta e mostra rammarico per il fatto che io non possa visitare la chiesa, perché ne va orgoglioso. Io, sentendomi un po’ debole e affamato, mi permetto di deviare il discorso praticamente sul nascere, chiedendogli se ci sia un bar aperto. Mi spiega che c’è solo un ristorante – lì a pochi metri, tra l’altro. Provo a entrare, ma dicono che sono ancora chiusi e non possono servirmi nulla, nemmeno un caffè. Non mi pareva una richiesta impossibile, ma pazienza.
Vedendomi deluso, il gentile paesano sceglie di regalarmi qualche savoiardo e un paio di frutti. Lo ringrazio molto: il gesto stesso mi carica più di quello che mangio.

Poco dopo comincia a piovere, e decido di evitare il sentiero che mi porterebbe a salire e scendere l’ennesima collina, preferendo proseguire tra i campi. Passo dal paese di Font-Communal raggiungendo poi Saint-Amadou, e così facendo riesco a risparmiarmi qualche chilometro.
La pioggia mi dà un po’ di tregua, e ne approfitto per sedermi in una piazza a pranzare. Passano solo poche persone, ma girano lo sguardo altrove quando mi passano accanto. Non mi aspetto certo cerimonie, ma non mi abituo mai al rifiuto volontario perfino del contatto visivo. Riesco a comprenderlo nelle città, ma in un luogo desolato come questo mi ferisce sempre un po’. D’altronde, i piccoli nuclei abitati raramente offrono vie di mezzo: o un’accoglienza dal calore unico, o un’ostinata indifferenza. Bisogna accettarlo senza giudizio, e prendendo ciò che viene.

Meglio mi dia una mossa, però, perché mancano ancora più di due ore di cammino alla fine della tappa.
Attraverso altri due piccoli abitati, ritrovandomi poi su un sentiero che prima corre dritto tra alte file d’alberi e poi si snoda in una pianura quasi totalmente spoglia. La cosa che mi resta più impressa di questo tratto sono alcuni incroci. Sì, dei semplicissimi incroci! Come nel disegno di un bambino, qua e là due strette lingue d’asfalto senza alcun guardrail si attraversano l’un l’altra letteralmente in mezzo al niente, formando un quadro talmente asciutto da sembrare surreale – o metafisico, addirittura.

Per spezzare la noia inevitabile di questi chilometri, mi regalo una lunga e bella chiamata con Beppe. Era tanto che non ci sentivamo. Mi accorgo che è strano quell’accorciamento improvviso della distanza che ci divide, ma ne sorrido perché mi ricorda anche quanta ne ho percorsa.

Terminato l’asfalto, inizio a camminare lungo un sentiero erboso scandito da qualche albero, ma poi la traccia prosegue di nuovo nel mezzo di una piana brulla e ancor più vasta di quella precedente.
È un luogo speciale, fatto soltanto d’erba e cielo che riposano sotto lo sguardo dei Pirenei. Ancora una volta è tanto elementare da sembrarmi i disegni che si fanno all’asilo, e attraversarlo mi regala venti minuti di pace e isolamento totali.

Mentre iniziano gradualmente a tornare gli alberi e le case, pare quasi di riemergere alla realtà dopo un momento di trance. Incontro anche molte coppie a passeggio per il pomeriggio domenicale. La cosa strana è che quando ricomincia a piovere, solo pochi aprono l’ombrello. Sembrano non preoccuparsene, facendomi sentire un po’ ridicolo mentre sfodero di nuovo la mia ingombrante mantella. Un signore mi osserva sorridendo, dicendosi certo che smetterà in pochi minuti. Lo scroscio si rivela particolarmente forte, ma in effetti dura poco. Il vecchio oracolo aveva ragione, anche se credo comunque che ora sia fradicio, ma probabilmente ancora col sorriso in volto.

A partire da un grande sottopasso autostradale, lo scenario campestre scompare e lascia spazio alla periferia di Pamiers.
Un quarto d’ora dopo, sono seduto a riposare su una panchina a un passo dal centro, mentre aspetto che apra il supermercato. Sotto di me scorre quello che sembra essere un canale, ma in realtá è una piccola diramazione dell’Ariège, il fiume che dà il nome al dipartimento. Crea una specie di fossato attorno al nucleo storico della cittadina. Alcune villette si affacciano sul corso d’acqua, e ciascuna ha una passerella privata che dal giardino porta sul viale dove sto.

Una volta fatta scorta di cibo, raggiungo la gentilissima signora Cathy, con la quale ho potuto mettermi in contatto grazie all’aiuto di Brigitte. Mi mostra dove potrò dormire stanotte: un foyer per gruppi di giovani e pellegrini.
Quando se ne va, mi dedico ad esplorare meglio gli spazi dell’edificio. Il riscaldamento non funzione e fa molto freddo. Diversi indizi mi fanno capire che negli ultimi giorni c’è stata un’invasione di ragazzini: gli spazi non sono stati rimessi in ordine e nemmeno puliti. Comunque, so bene che devo solo ringraziare il cielo di aver trovato aiuto e calore da parte di volontari come Brigitte e Cathy, e che per un pellegrino come me questo posto resta una manna dal cielo. C’è addirittura una cucina sufficientemente attrezzata, e in un angolo della dispensa trovo anche diverse bottiglie aperte di vermouth. Stasera aperitivo!

Prima, però, mi ritaglio del tempo per visitare velocemente il centro storico. Non mi fa impazzire, ma c’è un certo viavai. Arrivo all’enorme chiesa, affascinante ma chiusa, e incrocio qualche altro edificio non male. Nonostante ciò, rimango titubante su questa cittadina. È qualcosa di istintivo, forse anche perché ci sono parecchie facce losche, giovanotti dall’aria inutilmente sbruffona, che sembrano presidiare alcuni angoli del quartiere. Niente di particolare, ma semplicemente non incontravo gente simile da settimane e mi fa sentire un po’ a disagio. Infine, torno nella casa gelida e mi chiudo in cucina, sperando si crei un po’ di tepore mentre preparo la cena.

Non sempre è piacevole rimanere da soli quando si alloggia in un centro urbano. Sarebbe stato bello se madame Cathy fosse passata a far due chiacchiere. Capisco non sia dovuto, ma è un pensiero spontaneo di questo momento.
Una volta mangiato e bevuto, lavo i piatti e scaldo un po’ d’acqua per una tisana. Prima di dormire voglio studiare un po’ le prossime tappe.

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Ariège, Francia, Occitania
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cammino di santiago - roberto pesenti

03/10 Villeneuve-lès-Montréal – Mirepoix

(M.me Brigitte)
32 km

Iris e Wolfgang scelgono di alzarsi prima per potermi far compagnia a colazione, coronando un’accoglienza già generosissima. Certo, non posso permettermi pernottamenti simili se non molto raramente, ma mai soldi furono spesi meglio.

Una volta partito e lasciatomi il piccolo borgo alle spalle, mi trovo subito immerso nel buio della mattina, mentre la luna lentamente sta liberandosi del velo opaco di qualche nuvola.
L’atmosfera è sbalorditiva, soprattutto quando arrivo nei pressi dell’ennesimo laghetto artificiale. È circondato da una corona di cipressi, e sopra lo specchio d’acqua si alza una leggera nebbia che rende tutto sfuocato. La sensazione è di essere in un sogno – forse un po’ sinistro, sì, ma anche molto poetico.

Proseguo poi tra dolci colli arati, appena visibili, evitando ancora una volta di accendere la torcia. Dopo nemmeno un’ora, alle mie spalle cominciano ad alzarsi i bagliori dell’alba. Voltandomi, riconosco la silhouette della chiesa di Montréal stagliarsi all’orizzonte.
Comincio piano a salire, attraversando i primi immancabili vigneti. Passo da Lasserre-de-Prouille, una piccolissima circulade, così come d’altronde lo era anche Villeneuve. Ne sto incontrando davvero tante. Mi domando se crescere tra quelle vie circolari renda meno spigoloso anche il carattere.

Col paese alle spalle e salito ancora un po’ sulla collina, inizio a vedere la luce scaldarsi sempre più: è il gran momento! Mi giro, e davanti a me ho un panorama completamente nuovo. Una distesa di dolci colline a perdita d’occhio sembra una tavolozza di verdi e di terre. Il cielo è color pesca, ma alcune nuvole hanno ancora delle ombre in ostaggio.
Girando un po’ il capo, ritrovo anche i Pirenei. Sono innevati, colorati di grigio, di azzurro e di viola, ma sulle loro creste c’è l’oro. Sono bellissimi; non somigliano più a freddi saggi, come mi parve quando ero a Capestang, ma solo esseri più grandi degli altri. Semplicemente sembrano stare lì – come me, come gli uccelli, come i campi, come gli alberi – ad aspettare l’astro che dona forma e calore ad ogni cosa. E poco dopo il Grande Atteso arriva, lento e incantevole. I suoi raggi sono spade, e il silenzio di tutto sembra un canto di festa.
Ogni stanchezza si azzera, e così ogni pensiero negativo, ogni titubanza, ogni insicurezza. Come sempre, mi sento letteralmente investito. Non è la forza del vento, che sposta il corpo fisico. È un’altra, diversa, capace di entrarti dentro e trapassarti, facendoti per quei pochi secondi tutt’uno con lei. Per qualche istante fa sentire luce anche te.

Alle mie spalle, la collina sembra una brace su cui qualcuno sta soffiando, tranne che per una gobba sagoma d’ombra, quella di un pellegrino con il suo zaino.
Mi godo questa scena straordinaria fino a che il sole non supera totalmente l’orizzonte, e infine – sazio e felicissimo – mi volto come faccio sempre e proseguo sul mio sentiero.
I versanti dei colli tutt’attorno sono tanto sinuosi da far pensare siano stati modellati per stupire al massimo il viandante. Il cielo che ho davanti ora è azzurro e in mezzo c’è rimasta la luna, che non sembra assolutamente intenzionata a lasciare campo libero troppo facilmente.

Dopo forse un chilometro inizio a vedere Fanjeaux, un borgo arroccato in cima ad un’altura, in una posizione esteticamente perfetta.
Ogni passo per raggiungerlo sembra svelare scorci inediti, sempre all’altezza dei precedenti. Ieri sospettavo che pioggia e nuvole mi avessero nascosto una gran bellezza; ora ne sono certo, perché queste terre sono favolose. Per fortuna oggi posso gustarmele a pieno.

Una volta arrivato al paese, vivo la felice sorpresa di trovarlo più vitale di tanti altri. Ci sono persone a spasso e qualche bancarella di prodotti locali: già abbastanza per fare la differenza.
Nei pressi della chiesa, incontro un giovane ragazzo sorridente che cammina portando una bici molto carica. Ci presentiamo, ciascuno incuriosito dall’altro. Si chiama Michael, è olandese e – seppur in sella –  ha percorso tanti chilometri quanto i miei. Ha scelto di farlo a favore di una causa particolare, legata al mondo animale. Curioso: è già la seconda persona che incrocio con un progetto simile. Restiamo volentieri a parlare qualche minuto. Mi racconta che a un certo punto si è fermato tre settimane a lavorare in una fattoria perché aveva finito i soldi. Lo ha fatto senza avere competenze, ma solo offrendosi. Buono a sapersi! Con stupore e ammirazione apprendo anche che viaggia senza connessione internet, ma solamente sfruttando il wi-fi là dove può. Mentre mi parla il suo sorriso resta raggiante, nonostante abbia passato ovviamente anche diversi momenti di seria difficoltà. Mi spiega che ha bisogno di comprare da mangiare, però noto che sta per prendere la direzione sbagliata. Approfitto quindi per accompagnarlo là dove ho visto i banchetti, all’ingresso del paese, visto che per proseguire anch’io dovrò ripassarci. Mi fa piacere essergli stato d’aiuto. Ci salutiamo, entrambi molto felici di esserci conosciuti.

Lasciata Fanjeaux, mi ritrovo ad attraversare altre aree collinari superlative, con qualche pascolo di pecore e tori a impreziosire ancor di più lo scenario.
Superato il piccolo borgo rurale di Hounoux, arrivo a una magnifica terrazza naturale con un panorama sconfinato. La particolarità, però, è che tira un vento fortissimo. Una volta mi avrebbe dato solo fastidio. Investito da raffiche simili, perdevo sempre concentrazione ed energia, finendo col restare spossato e col cervello ovattato. Resistevo, mi proteggevo, ma ne uscivo sempre perdente.
Durante questo viaggio, invece, sembra sia riuscito a farmelo un po’ amico. Lo affronto come se fosse un bambino super vivace che vuole a tutti i costi coinvolgermi. Ho iniziato a non ripararmi più granché e a lasciarmi trascinare, a ballare con lui, spesso ridendo, e questa strana invenzione sta dandomi ottimi risultati.
Ricapitolando, se col sole mi commuovo e con la pioggia canto, col vento invece ho capito che la cosa migliore è giocare.
Certo, come ogni altro atteggiamento che sto sperimentando nella natura e in campagna, difficilmente potrei replicarlo se avessi accanto altra gente. Non sento di essere ancora arrivato a quel grado di libertà, e probabilmente mi vergognerei. Ora però sono solo, quindi mi godo a pieno questo slancio spontaneo e avanti così!

Tra i dolci saliscendi, ad un tratto incrocio un uomo con ben due cavalli. Si chiama Benoit e sta facendo il giro dell’intera Occitania. Cavalca un animale e usa l’altro per portare i viveri di tutti e tre. Mi dice che è contento di essersi imbattuto in un pellegrino, perché sta incontrando pochissima gente a piedi. Buono a sapersi. Amo questi brevi contatti sulla via; sono come spezie preziose.

Dopo qualche chilometro, sbuco nel villaggio più piccolo incontrato finora: si chiama Malegoude, il primo dell’Ariège – il nuovo dipartimento che attraverserò.
Aspettando di trovare l’occasione di riempire la borraccia, sto razionando l’acqua già da parecchio. Ho il presentimento che anche qui potrei restare letteralmente a bocca asciutta, però, perché non sembra esserci anima viva. Provo a presentarmi ad alta voce, sperando qualcuno mi senta, e vengo inaspettatamente premiato. Da una casetta dove tutto sembrava spento, spunta infatti un certo Fabian, che fin da subito mi dà l’impressione di essere un omone buono. Quando chiedo il favore di riempirmi la borraccia mi aspetto sempre di poter ricevere un no per via del virus, ma finora nessuno mi ha fatto dei problemi, e Fabian non fa eccezione.
Vista la sua disponibilità, provo a giocarmi una richiesta extra e un po’ particolare: gli chiedo se ha un piatto di plastica. Ieri, infatti, ho preso del cous cous confezionato in maniera diversa dal solito: sta tutto in una lattina e ne ha una seconda piena di condimento. Un piatto sarebbe l’ideale per poterli mescolare. Non oso immaginare che pasticci farei diversamente. All’inizio si stranisce, ma poi entra una seconda volta in casa e ne esce un minuto dopo con due o tre piatti di carta plastificata. Lo ringrazio molto, vanno benissimo. Sembrerebbe poca cosa, ma mi permetteranno di pranzare molto più comodamente – di certo con un minimo di decenza.
Quando sto andandomene, mi richiama e mi chiede dove abbia la mia conchiglia; gli spiego che si è rotta cinque giorni fa. Mi fa segno di aspettare e si infila in un piccolo ripostiglio, uscendone poi con una cassetta di legno piena zeppa di conchiglie di capesante. Ma guarda te! Me ne fa scegliere una e me la regala, augurandomi buon viaggio. A quanto pare, sembra che “il cammino” abbia risposto alla mia richiesta, e con che stile!

Immediatamente dopo, salgo fino ad un’antica chiesetta isolata, circondata da un prato rasato da poco. Mi piace la calma di questo luogo e giro intorno all’edificio fino all’entrata, posta stranamente sul retro. È chiusa, ma in compenso ha un portico spazioso con una panchina. Non potevo chiedere di meglio: è il posto perfetto per fermarmi a pranzare. Come pensavo, il piatto di Fabian si conferma indispensabile. Il pasto è povero, ma abbondante.

Una volta riempita la pancia, scelgo senza rimorsi di risparmiarmi un’ultima salita e arrivare a Mirepoix seguendo la strada che passa proprio qui di fronte. Mi annoierò un po’, ma risparmierò energie preziose.
Per stanotte sono riuscito a trovare – dopo tanto tempo – una persona che fa parte dell’associazione locale dedicata al cammino di Santiago e che si è resa disponibile ad ospitarmi. Dovrò aspettarla un paio d’ore perché non può liberarsi prima, ma è niente rispetto alla gioia d’essere accolto come vero e prorpio pellegrino.

Arrivo a Mirepoix attraversando il ponte sul fiume L’Hers. Raggiunto il centro storico, resto affascinato dalla lunga serie di antiche case a graticcio che si affacciano sulla piazza principale. Hanno tutte antichi portici in legno, particolarmente spaziosi, occupati da espositori di merce d’ogni tipo e dai tavolini di bar e ristoranti. La cosa che mi colpisce di più, però, sono i loro i colori sgargianti: quelle facciate tutte così diverse portano brio anche con questi nuvoloni. Al centro della piazza, poi, c’è un grande padiglione aperto. Probabilmente è di recente fattura, ma ben si sposa con il contesto. Alle sue spalle, infine, svetta la grande chiesa di San Maurizio che domina con la sua altezza su tutto quanto.

Scelgo innanzitutto di riposarmi un po’ dentro una bella taverna. La sensazione è quella di non essere molto ben visto, in realtà, probabilmente perché prendo solo un caffè. Spero sapranno farsene una ragione e smettano di guardarmi male. D’altronde sono l’unico seduto all’interno e fuori c’è solo un tavolo occupato; non sto certo rubando il posto a qualcun’altro. Come sempre, poi, mi servono quello che in Italia sarebbe il peggior caffè lungo della storia, ma qui le abitudini sono diverse, e confesso che quasi mi ci sto abituando.

Prima dell’appuntamento, vado anche a visitare la chiesa. Mi colpiscono subito le proporzioni dello spazio interno: pur essendo molto largo e alto, ho l’impressione sia poco sviluppato in lunghezza, risultando un po’ tozzo – ma non per questo brutto. Le condizioni generali non sono delle migliori, eppure uno strano insieme di piccole cose fa sì che in realtà mi piaccia molto rimanerci. Così, anche con la scusa del freddo e del voler risparmiare, mi ci fermo per tre quarti d’ora.
Esco poi per comprare qualche provvista e farmi timbrare la credenziale all’ufficio di informazioni turistiche, ma subito dopo scoppia un temporale e devo tornare a rifugiarmi nella chiesa. Sotto i portici, infatti, fa davvero troppo freddo.

All’ora concordata, graziato da una leggera schiarita, raggiungo la casa di madame Brigitte. È una signora che fin da subito mi dá l’impressione di avere un carattere deciso, ma velatamente triste.
Casa sua, come tante altre viste fin qui, si conferma arredata con estro e gusto eccezionali. Ci sono opere d’arte di ogni tipo, grandi e piccole, appese ai muri o posate qua e là. Sono tutte più o meno moderne, e donano alla casa colore e freschezza.

Lei è un po’ distaccata all’inizio, ma comunque gentile e disponibile. Dopo aver riposato un po’, provo a rompere il ghiaccio, riuscendo a guadagnarmi un po’ di simpatia. Durante la cena, poi, si apre ancora di più e mi racconta anche alcune cose un po’ amare che le appesantiscono il cuore. Apprezzo molto la sua sensibilità e sono contento di averla potuta conoscere meglio.

Ormai a suo agio, il colore della conversazione cambia e sembra svelarsi un lato più gioioso ed energico. Mi regala alcuni opuscoli utilissimi per il mio cammino fino a Lourdes, con tracce alternative più brevi di quelle ufficiali e tanti numeri di telefono. È anche talmente cortese da chiamare al mio posto per verificare se domani sia disponibile l’alloggio per pellegrini a Pamiers. C’è qualche difficoltà, ma proprio grazie a lei tutto si risolve.
È stata una grande fortuna averla trovata, e cerco di farglielo capire meglio che posso. Spero abbia fatto piacere anche a lei.
Ci auguriamo la buonanotte e ci diamo appuntamento per la colazione.

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Ariège, Francia, Occitania
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cammino di santiago - roberto pesenti

02/10 Carcassonne – Villeneuve-lès-Montréal

Maison Iris
34 km


La mattina molto presto faccio colazione insieme a Max, il figlio di Vincenzo: ha un’aura incredibilmente positiva. È giovane, ma è diventato già uomo da un pezzo.
Ascoltare anche solo piccole testimonianze di vita direttamente da chi le ha vissute è una delle cose che amo di più; forse anche perché nel farlo affiorano alcune delle mie parti migliori. Rifletto spesso su questa cosa: in passato mi ha già spinto a dar forma a diversi progetti originali che mi hanno riempito di soddisfazione, e in futuro spero sia un’abitudine che riuscirò a mantenere.

Nel frattempo si svegliano anche Vincenzo e sua moglie, e sono contento di poterli salutare dal vivo prima di partire. Non vogliono che li ripaghi in nessun modo; è l’ennesimo “debito” che la vita segna sul mio conto. Non ho dubbi al riguardo: godere di questa gratuità oggi dovrà corrispondere all’impegno di metterla in gioco io stesso un domani.
Saluto di nuovo tutti e mi metto in marcia.

Vincenzo mi ha spiegato qual è la strada più facile per tornare in centro, ma mi rendo conto di aver capito male le sue indicazioni, perdendomi ben presto nel pur piccolo nel quartiere.
Riprendo quindi il mio navigatore per capire come uscirne. Mi propone un sentiero che costeggia il Canal du Midi, che sembra scorra proprio qui sotto. Strano, però: ieri mi era parso che non ci fossero vie di passaggio su questa sponda. Scelgo comunque di fidarmi, ma ben presto scopro che avevo visto bene; mi incastro subito tra fitti rovi, ritrovandomi costretto a tornare faticosamente indietro. È paradossale quante volte io mi perda proprio nella prima mezz’ora della giornata!
Su questa cosa ci dovrò lavorare, perché è davvero frustrante.

Riuscito in qualche modo a trovare la strada che mi aveva consigliato Vincenzo, comincio a scendere verso il centro, approfittando subito di una panetteria aperta per comprare qualcosa da spizzicare a metà mattina. Ritrovo una deliziosa quiche, come già a Fontvieille, solo che qui la pago il doppio. Devo sempre stare attento con le spese. Nei supermercati ci metto sempre una vita a scegliere cosa comprare, ma almeno riesco a trovare le combinazioni più convenienti, sia per lo stomaco che per il portafoglio. Quando sono nei piccoli negozietti, invece, mi sento sempre in balìa del commerciante, perché raramente i prezzi sono esposti, e non mi permetto mai di rinunciare a qualcosa di già pesato o battuto. È un disagio che ho da sempre anche a Bergamo, soprattutto dai piccoli fruttivendoli. Se ti fermi a dare un’occhiata per decidere bene cosa prendere, senti il fiato sul collo, ma pazienza; so che è la cosa più normale del mondo. Diciamo che fatico a farmene una ragione.

Tornato nel cuore della città bassa, faccio un’ultima deviazione prima di tornare sul GR. Mi dirigo verso una grande chiesa, dicendomi che a quest’ora e in una città come Carcassonne non può essere che aperta. Ahimè, mi sbaglio ancora; questa non me l’aspettavo.
Rassegnato, raggiungo il percorso ufficiale, costeggiando per l’ennesima volta il Canal du Midi. Lo lascio alla svelta, però, guidato in periferie urbane abbastanza anonime.

Per uscire dalla città impiego più tempo di quanto mi aspettassi, ma infine arrivo nei pressi di un grande lago artificiale, il Lac de Taure, una riserva idrica per i campi limitrofi. Da pochi minuti ha iniziato a piovere e tira un forte vento che increspa violentemente la superficie dell’acqua.
Trovo un po’ di protezione camminando lungo i sentieri nella pineta che affianca il bacino, ma mi perdo. Stamattina va cosí, è un miscuglio di sfortuna e disattenzione. Riesco a ritrovare i segnavia una decina di minuti dopo, in piena campagna. Non mi dispiacerebbe poter camminare per qualche ora in mezzo al niente, ma l’itinerario mi conduce lungo una serie di piccoli paesi.

Mentre attraverso il primo, Lavalette, mi imbatto in un bellissimo murales con rappresentati due pellegrini diretti a Santiago e un asino al seguito. È ben fatto, in bianco e nero e con scritti i chilometri mancanti a Santiago. Dice siano 1113, ma non so a quale via faccia riferimento.
Il paese successivo, Alairac, fa parte ancora delle circulades occitane. Mi sono quasi affezionato a queste cittadine “a chiocciola”. Percorrere la via a spirale crea quasi una sensazione di suspense, anche se poi difficilmente c’è qualcosa di speciale una volta arrivati al centro. Resta comunque un’esperienza sempre piacevole.
Mezz’ora dopo arrivo ad un terzo paese, Arzens. Sembra che da queste parti ci sia una particolare sensibilità per i pellegrinaggi verso Compostela, perché incontro alcuni cippi dedicati e una sagoma di ferro rappresentante il classico pellegrino del passato, con veste lunga e bordone. Rendersi conto che qualcuno prepara segnavia, murales e sculture solo per te – e a più di mille chilometri dalla meta! – è incredibilmente toccante, non l’avrei mai immaginato.

Uscito dal paese, comincio la salita verso Montréal. Sono ormai nella seconda metà della tappa. La pendenza non è per nulla proibitiva, ma la pioggia continua ad andare e venire. Non mi resta altro che farmela un po’ amica, sperimentando ancora l’efficacia del cantare in momenti del genere.
Salendo e guardandomi attorno intuisco che in una giornata di sole il panorama sarebbe stato bellissimo. Peccato.

Posso vedere il paese anche da lontano. Ha la particolarità di avere una grande chiesa che svetta sugli altri edifici quasi quanto quella di Capestang: è la Collegiale di Saint Vincent. Grazie al cielo, la trovo aperta. Stavolta, però, non sono alla ricerca di un piccolo momento di raccoglimento, ma di un vero e proprio rifugio. Ne ho bisogno almeno per un paio d’ore; tanto ci vuole, infatti, perché apra il minimarket del paese, dove ho bisogno di fare la spesa per la cena e per il pranzo di domani.

La chiesa ha proporzioni davvero imponenti, ma l’interno è inaspettatamente deteriorato. Questo fatto le regala comunque un fascino particolare, decadente.
Subito mi toglo la mantella bagnata e mi copro con qualcosa di pesante, perché capisco che altrimenti qui dentro congelerò. Gli unici luoghi appartati dove mettermi sono le cappelle laterali. Scelgo quella di San Rocco, giocando a sperare che il santo pellegrino mi eviti problemi. Confido che nascosto qui nessuno mi veda perché di certo non do una buona impressione, anche se in realtà non mi sento per niente sacrilego. D’altronde quale luogo di accoglienza migliore per un pellegrino, se non una chiesa?

Dedico qualche tempo alla preghiera, ma lo stomaco comincia a brontolare: è ora di osare un po’ di più. Sfilo dallo zaino una confezione di affettato e ci farcisco una mezza baguette. Che strana sensazione fare certe cose in un tempio, ma resto dell’idea di non essere nel posto sbagliato.
A un certo punto, un turista entra a scattare qualche fotografia. Non mi vede perché sono coperto per metà da una balaustra e l’ambiente è abbastanza buio, ma credo sia solo questione di qualche istante. Decido quindi di giocare di anticipo e lo saluto cortesemente, presentandomi e spiegando in poche parole che cosa ci faccio lì. Purtroppo non basta a evitargli un turbamento che gli leggo chiaro in volto. Esce di fretta, girandosi nervosamente un paio di volte per assicurarsi forse che non lo rincorra. Mi spiace averlo spaventato, ma ammetto che è stata una scena anche piuttosto divertente.

Arrivato finalmente l’orario di apertura del minimarket, lascio il mio insolito riparo e mi dirigo al negozio. Le proprietarie, madre e figlia, mi trattano molto gentilmente. Mi ricorderò sicuramente del dattero regalatomi dalla signora dopo che avevo già pagato: una delle cose più deliziose mai mangiate. Faccio anche una capatina nella boulangerie di fronte, per poi avviarmi a concludere la tappa.

Ho prenotato una chambre d’hôtes a Villeneuve-lès-Montréal. Si chiama Maison Iris, una meravigliosa abitazione dove viene offerto pernottamento, colazione e anche pasti. Ero già stato presso una struttura simile all’inizio della mia avventura francese, il Moulin Papillon di L’Argentière-la-Bessée. Come allora, anche oggi andrò parecchio oltre il mio solito budget, ma nemmeno stavolta ho trovato altro.

Arrivato a destinazione, i proprietari – Iris e Wolfgang – mi accolgono in maniera incredibilmente calorosa. Sono premurosi e cordiali, mi fanno sistemare e poi mi offrono addirittura birra e stuzzichini per aperitivo. Per la cena avevo avvisato che mi sarei arrangiato scaldando un pasto pronto al microonde, perché non potevo permettermi altro. Iris, però, fa qualcosa di inaspettato ed eclatante: avendo un’altra coppia di ospiti, è più forte di lei il desiderio di creare un clima di condivisione migliore possibile. Decide quindi di offrirmi la cena cosicché si possa vivere tutti insieme e ugualmente  quel momento.
Resto esterrefatto. Accetto, ovviamente, ma non con lo spirito di chi può approfittare furbescamente di qualcosa, bensì con l’immensa gratitudine di chi sta ricevendo gratuitamente non solo un pasto, ma anche una grande lezione.

Scopro che per loro, tedesco lui e svizzera lei, quella casa da 17 anni è un sogno coltivato e fatto crescere con passione immensa. In questo lungo periodo hanno affinato straordinariamente l’arte dell’accoglienza, che ormai sta al centro della loro vita. Addirittura sono riusciti spesso a diventare veri e propri amici di tanti loro ospiti provenienti da tutto il mondo.

Tra questi ci sono Sabine e Peter, la giovane coppia fiamminga ospite oggi come me: entrambi si rivelano gentili e pacatamente estroversi. Lui, artista per passione, è abilissimo nell’uso dei pastelli, applicati in particolar modo nella rappresentazione di paesaggi. Ci mostra un suo catalogo ed è bello accorgermi del loro stupore mentre commento i disegni. Ho dedicato tanta parte della mia vita a studiare arte, e qualche anno a praticarla. Per questo mi è facile cogliere dettagli che a molti sfuggono, a volte anche agli stessi autori dell’opera. Mi chiedo da lungo tempo se da questa dote riuscirò ancora a far nascere qualcosa.

Con tutti loro, riesco a parlare inglese con sufficiente padronanza. Non di rado mi capita di incartarmi, ma vengo ogni volta messo perfettamente a mio agio e alla fine riesco a capire ogni cosa, nonostante vengano toccati gli argomenti più disparati. Grazie anche al sottofondo di musica soft ricercata, ai due gatti trattati come figli, ai buonissimi vini e ai piatti squisiti di Iris, questa cena diventa un momento di condivisione indimenticabile.

Quasi inutile dire, infine, che la stanza è grande ed elegante, con bagno privato e un letto matrimoniale che non è certo adatto a un pellegrino, ma che mi godo comunque beatamente e – in fondo – senza nemmeno troppi rimorsi.

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Aude, Francia, Occitania