Info Racconto Extra
cammino di santiago - roberto pesenti

31/10 Mansilla de las Mulas – León

(Albergue San Francisco)
19km

L’organizzazione delle tappe fatta coi ragazzi ci permette oggi di rilassarci un po’: ci aspettano solo 19 km per arrivare a León, e tutto il tempo risparmiato potremo sfruttarlo per visitare la città. Notizie certe assicurano anche che la cattedrale, a differenza di Burgos, sarà aperta e percorribile in ogni sua parte. Tiziano ne è entusiasta, perché ne conserva un ricordo bellissimo e non vede l’ora.

Nonostante la tappa breve, ci svegliamo comunque a un’orario decente. Ieri al supermercato ho convinto i due compari a comprare tutto il necessario per una colazione fai da te qui in albergue. Non ci siamo fatti mancare nulla, e ora la tavola è imbandita con ogni ben di Dio: caffè, brioche al cioccolato, pane, burro, latte e marmellata. Una colazione all’italiana super abbondante, più che doppia rispetto a quella da bar. Invitiamo a unirsi al banchetto anche il nostro compagno di stanza, lo svizzero Martin, che apprezza enormemente.

Alla partenza, il freddo è pungente, ma siamo carichi e splendidamente allegri. Usciamo da Mansilla superando per l’ennesima volta un ponte medievale, non meno lungo di quello di Carrión. Oltre quella soglia, però, il nostro entusiasmo comincia già a vacillare. Fuori dal tessuto urbano, infatti, la giornata si mostra orribilmente grigia e nebbiosa, e anche il tragitto sembra fatto apposta per minare il morale del viandante: si sviluppa a lato di una strada molto trafficata, distinguendosi fin da subito per un’oggettiva bruttezza.

Il nostro primo incontro oggi è un uomo di mezza età dall’aspetto trasandato. Lo zaino ce lo fa sembrare un pellegrino, ma si muove in direzione opposta alla nostra e porta con sé un sacco nero in cui raccoglie l’immondizia che trova lungo la pista. Ci scambiamo due chiacchiere. È piuttosto scorbutico e rude, ma mi affascina scoprire che è un senzatetto che vive lungo il Cammino, ricevendo ogni tanto accoglienza gratuita a fronte del servizio volontario che svolge. Prima di partire avevo letto un paio di articoli rispetto a un personaggio simile, ma era molto più minuto e solare, con una serie di credenziali sterminata tutte attacate in serie, a indicare il suo infinito girovagare pellegrino tra Roma e Santiago. Evidentemente non è l’unico che fa questa vita.

Attraversiamo il paese di Villamoros, il ponte medievale sul río Porma e subito dopo Villarente. La carreggiata è larghissima, sproporzionata rispetto ai pochi edifici che le stanno attorno. La tetraggine di stamattina inasprisce la bruttura di questi aridi scenari urbani. Il morale con cui siamo partiti si è già sgonfiato, e al povero Amedeo capita anche di ricevere una sonora strigliata: è una donna che addiritura accosta l’auto solo per rimprovergli di non indossare la mascherina. Attorno a noi non c’è letteralmente nessuno, e lei indossa la propria da sola in auto. Nulla da dire.

Il nostro passaggio a Villarente si conclude con due edifici opposti – sia perché si fronteggiano ai lati della strada, sia per la loro funzione: uno è un centro culturale piuttosto dismesso, l’altro un tanatorio, una camera mortuaria. Hanno però una cosa in comune: entrambi sono intitolati al nostro caro Santiago de Compostela. In Italia mi ha sempre divertito il fatto che il nome dei santi venga dedicato a patatine e acque minerali. Almeno in questo caso, invece, pare che l’apostolo sia stato chiamato in causa in maniera più congrua al suo curriculum: letteralmente, per questioni di vita o di morte.

Poco più avanti, facciamo la triste scoperta di una campagna visibilmente dismessa, non meno delle aree abitate appena superate. Sembra che questo territorio manchi totalmente di un minimo senso estetico, e in certi casi anche quel po’ di decoro che questo Cammino credo meriterebbe. Non dico questo solo per la moltitudine di pellegrini che ogni anno l’affollano, ma per gli abitanti stessi; è come se non avessero a cuore il luogo dove abitano.

Dopo una salitella, raggiungiamo un nucleo abitato che a sua volta non smentisce le nostre ultime impressioni: si tratta del paesino di Arcahueja. Qui la vista di una panchina ci convince a fermarci un po’ e mangiare qualcosa. Di fronte a noi, sembrerebbe proprio nel mezzo di una via, sta un piccolo recinto con uno di quei castelli per far giocare i bambini – quelli con lo scivolo, per intenderci. I suoi colori vivaci, però, non bastano a nasconderne le pessime condizioni, allineandolo a tutto quanto gli sta attorno. Queste ore di cammino stanno dimostrandosi davvero desolanti.

Per risollevare il morale, provo a immaginare questi luoghi in annate più clementi, invasi da una gran carovana di pellegrini da tutto il mondo e magari scaldati da una giornata di sole. Sono sicuro che questi ingredienti siano sufficienti a trasformare Arcahueja in un gradevole crocevia multiculturale.
Con questa convinzione trovo anche lo spunto per lanciarmi in un piccolo giro esplorativo, trovando un microscopico bar aperto dove posso almeno consolarmi con un caffè caldo. Ritornato, avviso i ragazzi della scoperta, ma incredibilmente rinunciano: l’unico loro desiderio è allontanarsi il prima possibile da qui, il che la dice lunga.

Il sentiero sale ancora, attraversando un’area industriale e poi ancora terreni abbandonati. A un certo punto, passa in corrispondenza di una rotonda qualsiasi, posta circa una decina di metri sotto di noi. Questo punto mi rimarrà in mente perché nella brutta rete messa per evitare cadute, la creatività pellegrina non ha trovato di meglio che infilare una gran quantità di ramoscelli a mo’ di croci. Mi sforzo di pensare benevolmente al sentimento religioso che ha convinto tanti camminatori a lasciare un segno simile ma, in questa giornata nebbiosa come non mai, la parata di croci incastrate tra quelle maglie di fil di ferro è uno degli spettacoli più lugubri che potessi immaginare.

Come se non bastasse, ridiscesi proprio subito dopo, l’ingegneria moderna ha scelto di dedicare ai camminanti sulla via di Santiago il ponte pedonale più brutto di tutti i tempi. Blu elettrico, costruito da semplici profilati alla maniera di una gru da cantiere, compone una linea spezzata totalmente disarmonica, seppur perfettamente funzionale. Mi si potrebbe imputare di esser troppo raffinato nel giudicare questo piccolo mostro architettonico, ma sfido chiunque a trovarcisi di fornte e dire il contrario.

Scorgiamo per la prima volta León un po’ più avanti, nei pressi di un altro cavalcavia, verso mezzogiorno. Superato anche questo, cominciamo finalmente a muovere i primi passi nella periferia della città. È un tratto abbastanza anonimo, con case datate e basse, spesso dai colori terrosi.
Ormai ci siamo. Oltrepassiamo il río Torío su una lunga passerella pedonale, e ci inoltriamo tra quartieri non memorabili. Dopo una ventina di minuti arriviamo alle porte del centro, incontrando finalmente alcuni resti affascinanti delle antiche mura.

Unanimi, decidiamo di ritardare il saluto alla cattedrale e deviare nel vicino albergue per liberarci delle zavorre. Ad attenderci, non una minuta struttura o un antico monastero, ma un gran palazzone. Dopo la registrazione, saliamo in camera, lasciamo tutto e torniamo immediatamente per strada.
Ci infiliamo in una via interna, a tratti pedonale, che va via via restringendosi fino a spuntare davanti a un palazzo progettato dall’architetto Gaudí. Da lí, svoltiamo nella Calle Ancha, lastricata, larga, elegante, ricca di negozi e attività: uno scenario totalmente diverso dai venti chilometri persorsi stamattina. Quest’anno anche qui la gente è poca, ma è facile immaginarsi quante persone la riempiano in occasioni meno compromesse. In lieve pendenza, la saliamo affascinati. Lo sguardo cade prima sulle facciate colorate e raffinate, sulla gente che siamo così poco abituati ad incontrare e sulle tante attività commerciali – molte chiuse per via della pandemia.

Ad ogni passo in più, però, l’attenzione va focalizzandosi inesorabilmente proprio lá dove i palazzi terminano, perché oltre quello spiraglio sappiamo ad aspettarci la grande cattedrale. Man mano ci avviciniamo, rallentiamo emozionati, fino allo spalancarsi della visione tanto desiderata. Eccola, finalmente!
La via s’immette nella piazza con un’angolazione ideale, che permette al maestoso edificio di presentarcisi nel migliore dei modi. Tiziano resta ammaliato come non l’avevo mai visto. Compiaciuto, non tarda a chiederci conferma di quello che ci aveva anticipato tante volte nei giorni scorsi. Non possiamo che annuire e goderci lo spettacolo, perdendoci nei mille dettagli delle facciate, nella bellezza dei suoi campanili svettanti e delle sue guglie, nell’armonia del suo colore, in quella dei pieni e dei vuoti che si alternano su tutto il perimetro. Mi sembra di rivivere lo stupore che vivo a Milano ogniqualvolta fuoriesco dalle scale della metropolitana in piazza Duomo.

Il cielo su Leòn è completamente bianco, ma va bene così. La visione ripaga di tutto, comprese le tante brutture incontrate oggi. Restiamo in contemplazione qualche minuto, soddisfatti per essere arrivati fino a qui e ben consapevoli che non era certo una cosa scontata riuscirci in questi mesi dannati.
Manca ancora qualche ora all’apertura. I ragazzi scelgono di sedersi davanti alla cattedrale e semplicemente godersela. Io, stranamente, mi sento già sazio del pur magnifico spettacolo e opto per fare un piccolo tour nei dintorni, curiosissimo di perdermi tra le vie e le piazze del centro.

Nella vicina Plaza Mayor trovo ancora aperto un mercato. Niente di che, perlopiù ortofrutta, ma è comunque un piacere bighellonare tra le bancarelle, con tutt’attorno palazzi bellissimi. Scopro poi anche la più piccola ma non meno interessante Plaza San Martín, e infine torno alla cattedrale.
Trovo i due amici a sorseggiare una birra fredda seduti fuori da un locale, a pochi metri da dove li avevo lasciati. A me piacerebbe continuare la visita alla città, preferibilmente con loro, ma Tiziano mi chiarisce che preferiscono rimanere dove stanno. Un po’ rammaricato, capisco l’antifona e di nuovo prendo il largo per i fatti miei.

Mentre il cielo nel frattempo si apre, mi lascio guidare dall’istinto e m’incammino verso il retro della grande chiesa. Percorro poi tutta una via che costeggia le antiche mura della città, fino a trovare un gran portale in cui mi infilo.
Spunto in un largo elegantissimo, che ha però un’inaspettata stonatura: a pochi metri da me, infatti, un alto braccio meccanico di stampo edile è incastonato nel terreno. Al suo gancio sta appesa una scultura informe, con un corno su un lato. Sembrerebbe fatta di piombo, e l’altezza a cui è posta lascia uno spazio ideale perché i pedoni possano camminarvi al di sotto.

Gli anni a studiare arte contemporanea e a girar per mostre fan sì che non mi stupisca troppo di fronte all’installazione. Mi domando solo quanti artisti abbiano ancora il bisogno di proporre opere tanto criptiche e dissonanti rispetto al luogo che vengono chiamati ad arricchire. Sicuramente da qualche parte esisterà una didascalia che invita a cogliere astrusi legami con qualcosa che sta qui attorno, o con fatti avvenuti chissà quando, oppure a lasciarsi suggestionare proprio dallo stridore tra il contesto e l’opera stessa. Ho letto migliaia di testi simili, e a mia volta ne ho abusato durante gli anni in cui anch’io mi sperimentavo artista. Mi hanno un po’ stancato, lo ammetto.

Alle spalle della misteriosa opera d’arte, giganteggia la Basilica di San Isidoro. Sarebbe un luogo speciale da visitare, ma purtroppo la trovo chiusa. Qualche centinaio di metri dopo, in corrispondenza di un parco dedicato al Cid, torno tra i vicoli del centro seguendo i flussi di persone. Arrivo in una bella piazzetta con vari locali, di certo una di quelle che si riempiono durante gli aperitivi o la sera tardi.
Rimango a zonzo ancora un po’, fino a tornare in qualche modo in Plaza San Martin.

Qui d’improvviso sento una voce chiamarmi: è Tiziano. Sono seduti a uno dei tavoli esterni di un locale, ora baciati dal sole. Come prima, hanno della birra davanti, ma stavolta fa compagnia a una succulenta porzione di papas bravas, che mi dicono essere solo la prima delle stuzzicherie che hanno ordinato.
Ormai saranno le tre del pomeriggio, e ovviamente a questo punto mi unisco senza batter ciglio: non potevano trovare momento e posto migliore per pranzare. Assaggiamo diverse golosità, tra cui delle memorabili empanadas – vere, stavolta, mica come quella che ho mangiato ieri al Burgo Ranero!

A proposito, incontriamo qui anche Erika, la belga vista l’ultima volta proprio là. A differenza di ieri è allegrissima. Scopriamo che sta nel nostro stesso albergue insieme al resto della truppa e che stasera replicheranno i festeggiamenti per i compleanni di cui ci aveva parlato. Ci invita, ma ovviamente non le promettiamo nulla. Dopo tutto il casino di ieri, non credo proprio che Tiziano sia ingolosito dalla proposta.

Riempita per bene la pancia, andiamo a fare due passi e, tornati davanti alla cattedrale, scopriamo che finalmente ha aperto. Non apettavamo altro!
Una volta all’interno, resto letteralmente abbagliato. La navata centrale è stranamente occupata dal coro, ma è talmente bello e in armonia col resto che d’un tratto sento solo il bisogno di fermarmi in silenzio di fronte a quella meraviglia. Per mezz’ora non muovo altro che lo sguardo. Una delle cose che più mi cattura è la quantità di raffinatissime vetrate che alleggeriscono questo enorme corpo di pietra. È un luogo impregnato di una magia unica.

I ragazzi sono forse già usciti quando mi decido ad accendere l’audio guida gratuita e farmene accompagnare per la visita di tutto il resto. Scelgo la voce in italiano, per non rischiare di perdere alcun passaggio. Il testo è ottimamente studiato e la storia dell’edificio è avvincente.
Rimango in totale più di un’ora. L’ultima volta che mi ero immerso in un’esperienza simile ero a Pamplona, sempre in cattedrale. Posso dire con certezza che tra tutti i luoghi costruiti da mano d’uomo che ho visitato durante questo viaggio, questi due sono sicuramente i più sublimi.

Una volta fuori, con la testa ancora tra le nuvole e il buio ormai sopraggiunto, approfitto per andare a fare un po’ di spesa prima di tornare in albergue. Qui ritrovo i miei compagni immersi in un sonno profondo: un riposo meritatissimo, direi. Mi faccio una doccia e poco dopo usciamo per fare un aperitivo. Abbiamo una gran voglia di godere ancora un po’ della città, questa volta nella sua veste serale.

Le strade sono stracolme, anche se tutti hanno la mascherina e le distanze sono abbastanza rispettate. Seduti fuori da un locale ritroviamo tre del gruppo con cui Tiziano ha avuto problemi, e tra questi proprio la persona con cui ha discusso. Si salutano con sorrisi ovviamente un po’ forzati, e l’amico ligure non resiste dal punzecchiarlo. Con un ghigno beffardo, gli lancia una battuta sul fatto di ritrovarlo proprio nella città che ieri, con tanta boria, dichiarava chiusa. Ci stava che glielo facesse notare, e forse anche per questo motivo la provocazione viene incassata senza battibeccare.

Andati oltre, scegliamo di rompere il ghiaccio dividendo una pizza fuori da un locale italiano. Niente di tipico, stavolta, ma in fondo è la nostra prima pizza in terra spagnola.
A un certo punto, quando Amedeo se ne va in bagno, sento il bisogno di approfittarne per dire due a parole a Tiziano. Gli spiego rispettosamente che mi pesa molto l’enfasi insistente con la quale sempre tenta di far sì che i suoi luoghi del cuore diventino anche i nostri – per esempio oggi con la cattedrale. Gli spiego quanta stima io abbia di lui per la persona che è; ha saputo fare e dimostrare tantissimo in questi anni di viaggi audaci e appassionati, ma lo prego di trattenersi d’ora in poi. Chi gli sta di fianco merita di poter vivere in maniera più libera e personale questo cammino, che dev’essere per tutti “di Santiago”, e non “di Tiziano”.
Lui mi guarda con gli occhi di chi ha capito perfettamente, cogliendo e apprezzando l’onestà delle mie critiche tanto quanto dei miei apprezzamenti. Sanciamo il patto con una stretta di mano, aggiungendo la promessa di arrivare insieme fino alla meta.

Tornato poi il terzo dal bagno, cerchiamo un altro posto dove proseguire la serata. Ovviamente passiamo di nuovo sia dalla piazza della cattedrale che da Plaza Mayor, rifacendoci gli occhi per la bellezza di entrambe, illuminate benissimo.
Non trovando nessun posto abbastanza convincente, decidiamo infine di tornare nello stesso ristorante dove abbiamo pranzato. Non sbagliamo: anche la cena si conferma squisita e la piazza, pur non piena, ci regala un clima che sembrava impossibile in questo 2020.

Ci incamminiamo verso l’albergue dieci minuti prima del coprifuoco, ma le strade sono ancora piene di gente che difficilmente stasera rientrerà per le 22. Addirittura a un certo punto arrivano due volanti della Guardia Civil, e quattro poliziotti ne scendono aggressivamente. Si dirigono minacciosi verso un locale vicino che, probabilmente, ha esagerato nelle libertà concesse alla clientela. Attendiamo qualche minuto, ma non ne nasce niente di eclatante.
La nostra giornata termina così nella pace di una semplice passeggiata tra la folla che stenta a diradarsi. È un’esperienza che fino a febbraio sarebbe stata a dir poco banale, ma che di questi tempi ha quasi il sapore di un miracolo.
Arrivati fin qui, però, la verità è che siamo sempre meno disposti ad accontentarci. Ora più che mai vogliamo Santiago, costi quel che costi.

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Castilla y Leòn, Spagna
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cammino di santiago - roberto pesenti

30/10 Moratinos – Mansilla de las Mulas

(Albergue Gaia)
37km

Sono le 7:30. Con Giuly siamo d’accordo di partire per le 8:15, prima però ho sentito il bisogno di tornare qui, in terrazza: dopo la luna magica di ieri sera, volevo godermi anche l’alba, ma è ancora presto. Sto a fissare il biancore dell’aurora premere nel cielo blu. Lo scolorisce, trascinandolo al lilla e al rosa salmone: sembra un’infusione.
Confesso che mi farebbe piacere veder spuntare Erika e scoprire se le sia rimasto negli occhi qualche riflesso di ieri sera, ma non mi illudo troppo; cerco di godermi solo la pace di questo momento.

Scendo a far colazione con Tiziano e Amedeo, mentre Erika fa capolino solo quando abbiamo già finito. Sembra stravolta, come se il fatto che tutti siamo già pronti a partire sia una sorpresa. Forse si aspettava qualcos’altro, o invece è solo più sensibile all’alcol di quanto pensassi. Curioso e sorridente, cerco il suo sguardo ma non sembra per niente contenta. Di sintonia, malizia e amorevolezza non c’è più traccia; difficile capire cosa le stia passando per la testa. In quei due occhi sembra esserci una rivolta, posso dire solo questo. C’est la vie.
Le chiedo comunque di seguirmi una volta ancora in terrazza, con una faccia tosta che per un attimo le crea ancora più disappunto. “Siamo perfettamente in tempo per l’alba”, le dico, ma non ne sembra per niente entusiasta. Il mio sorridere pare le faccia ribollire il sangue nelle vene, ma una parte di lei sa che non si può rifiutare uno spettacolo simile.

Ancor prima di superare la porta a vetri al primo piano, veniamo investiti da una luce capace di entrarti in fondo all’anima. Restiamo un po’ in silenzio davanti a quell’incanto, mentre lei pare ammorbidirsi un po’. Per sfizio piratesco, rubo un ultimo bacio. Erika lascia fare, ma non muove un muscolo e lo lascia morire sulle labbra. Non mi ha spinto via solo perché un’alba del genere non si merita battibecchi. La saluto con allegria, cosa che si sarebbe risparmiata volentieri.

In cortile la macchina è già accesa. Aspettiamo per qualche minuto il solito Amedeo e finalmente partiamo. Lungo il breve tragitto, ascoltiamo con interesse da Giuly alcuni aneddoti sul mondo degli albergues. Lei è una veterana, e ha storie da vendere. Arrivati a Sahagún, salutiamo anche quest’amica, felicissimi di averla conosciuta.

Diverse grandi architetture ci accolgono all’ingresso della cittadina e ci convincono a visitare un po’ il centro storico prima di partire. Superati un’imponente porta ad arco e una torre – resti di un monastero benedettino – scopriamo anche un’affascinante chiesa tutta in mattoni, dedicata a un mai sentito San Tirso.
Non lontano, un murales ricopre l’intero lato di una palazzina: raffigura un pellegrino moderno di fronte alla stessa porta da cui siamo entrati. Tra le vie deserte ne troviamo poi anche altri di recente fattura, probabilmente nati dall’apprezzabile volontà di rendere il paese più colorito e vitale. Superata la chiesa di San Lorenzo, arriviamo in Plaza Mayor, al centro della quale campeggia un piccolo palco coperto per concerti.

Ci fermiamo in un bar sotto ai portici per un rapido caffè, ma stamattina siamo più pigri del solito e finiamo col consumare un’altra colazione. Gli unici cornetti che vediamo stanno in uno di quei cabaret di cartone con cui vengono consegnati alle caffetterie la mattina. Ce ne sono giusto tre, percui ne prendiamo una a testa, muniti di tovagliolo e con gran naturalezza. Il barista ci guarda male, facendoci capire che siamo stati un po’ sfacciati a non aspettare ce le servisse. Per fortuna però sbollisce in fretta e scambiamo anche due parole. Ci racconta che è stato in vacanza in Italia qualche volta, e che gli è piaciuta molto. Quando ormai stiamo per uscire, però, non manca di aggiungere che “…comunque la Spagna è decisamente meglio!”. Purtroppo ci lasciamo sfuggire la frazione di secondo utile per una ribattuta ironica, trovandoci così costretti a concedergli l’ultima parola.

Guardiamo l’orologio, ma già sappiamo che è ora di darsi una mossa: sono arrivate addirittura le nove e oggi ci aspetta un’altra tappa bella impegnativa, seconda solo a quella del passaggio in Castilla y Leòn.
Per uscire dal paese attraversiamo il Puente Canto, sul río Cea. È visibilmente molto antico. Pare sia stato scenario di una grossa battaglia combattuta da Carlo Magno, o almeno questo è quello che leggo. Il nome del grande re è oggettivamente altisonante e stimola la fantasia, ma alla pari dei Templari non riesce a toccarmi particolarmente a fondo.

Imbocchiamo l’ennesima pista in terra battuta a lato strada – tutta dritta, ovviamente. “Che palle!”, penso tra me, ma subito vengo punzecchiato dai ricordi di tutte le imprecazioni spese tra gli aspri dislivelli della Via Domitia. Durante quei giorni desideravo più di ogni altra cosa proprio strade come queste, e ora me ne lamento tanto: dev’essere probabilmente una questione di karma.

Più avanti, vicino a Calzada del Coto, incontriamo lo svincolo da cui parte la variante scelta da Erika. Le dedico un rapido pensiero, divertendomi a immaginare un nuovo, inaspettato incontro futuro – magari ancora sulla via di Compostela.
Nei chilometri successivi un’infinita fila di giovani piante ancora cariche di foglie variopinte rende la via molto più graziosa. In un paio d’ore raggiungiamo e attraversiamo Bercianos, per poi ricominciare lungo un percorso ancora più ricco di alberi, che scatenano splendidamente la tavolozza autunnale.

In un punto anonimo del percorso, notiamo poco lontano dalla carreggiata una giovane pellegrina che sta trafficando con due grandi palloncini a forma di numero. Sono gonfiati a elio e le svolazzano sopra la testa mentre si avvicina a noi. La salutiamo allegramente, ma saltiamo parecchi convenevoli, chiedendole quasi subito quale sia il motivo di quei palloncini. Ci spiega che sono un ricordo della festa di ieri sera, con cui ha celebrato il proprio compleanno e quello di altri due pellegrini del suo gruppo.
Il destino vuole che anche lei si chiami Erika, anche se stavolta è belga. È piccoletta, ma ha un passo incredibile. Nonostante abbia davvero un bel viso, ha un grugno ostinato, come se stesse andando da qualcuno che vuole prendere a cazzotti. In realtà, presentandoci, si rivela una persona tranquillissima; sta andando così veloce semplicemente perché vuole raggiungere i suoi amici, che per qualche ragione sono molto più avanti di lei.

Insieme arriviamo a El Burgo Ranero, dove in un certo bar l’aspetta il resto della ciurma. Ci lascia dopo un paio di isolati, dopodiché anche noi ci mettiamo alla ricerca di un posto per pranzare. Troviamo un piccolo negozio di alimentari aperto, dove io prendo un empanadas di tonno strafarcita e Amedeo un panino. Tiziano, invece, decide di andare in cerca di una tavola calda perché oggi ha voglia di un bel plato combinado, con carne, uova e patatine.
Usciti dal negozio con qualche dubbio sul conto, troviamo una panchina al sole un centinaio di metri più avanti. La situazione è un po’ buffa perché il buon Tiziano sta esattamente dall’altra parte dell strada, comodamente seduto nel dehor di un bar. Ci invita a raggiungerlo, ma ci sembra una cafonata occupare posti mangiando cose prese altrove. La sorpresa più grande, però, è che tutto il resto dei tavoli è occupato dalla numerosa comitiva pellegrina di Erika.

Sono quasi una decina, molto festosi, e lei è l’unica ragazza. Sembrano tutti poco più grandi di lei, tranne uno che dovrebbe avere all’incirca cinquant’anni. Curiosamente, nessuno sembra indossare cose tecniche e colorate come tanto spesso capita di vedere. Uno addirittura porta un gran maglione – capo strano da vedere in cammino, perché ingombrante e pesante. Di fianco a loro, Tiziano sembra ancora più composto del solito.
A un certo punto notiamo che inizia a parlare con qualcuno del gruppo. Pur non riuscendo a sentire che si dicono, l’impressione è che dopo pochi minuti l’atmosfera si vada scaldando. C’è uno scambio di battute, ma i sorrisi ci sembrano un po’ nervosi. È come se il gruppo lo stia un po’ sfottendo, tant’è che a un certo punto il tono di voce si alza decisamente e i sorrisi spariscono. Vediamo Tiziano finire il suo piatto e alzarsi, scambiando qualche ultima battuta stizzita prima di dirigersi verso di noi. È tesissimo, col viso paonazzo. Quando gli chiediamo cosa sia successo, sfoga tutta la sua rabbia raccontando come un fiume in piena l’accaduto.

Mentre mangiava, si è accorto che stavano chiedendosi che fare riguardo all’attraversamento di Leòn. Credevano che la città fosse ancora ancora confinata per il Covid, ma in realtà siamo stati recentemente informati che la chiusura è stata sospesa. È stata una notizia straordinaria, soprattutto per Tiziano, che va in brodo di giuggiole ogniqualvolta si parli di quel luogo e della sua cattedrale. Posso solo immaginare, quindi, la gioia che aveva in volto quando ha spiegato al gruppo che non dovevano preoccuparsi di nulla.
Pare che quello piú anziano, però, per qualche strano motivo abbia deciso di non credergli. Inscenando un dibattito paradossale, è arrivato addirittura ad accusarlo di voler infrangere la legge. Con dei presupposti simili, è facile capire come il botta e risposta si sia inasprito. Il nostro compare ha tentato sempre più nervosamente di spiegare che l’informazione era certa e che gli sembrava una normalissima cortesia quella di metterli al corrente, ma si è guadagnato solo risposte arroganti e derisorie.

Non l’ho mai visto così agitato, e nessun tentativo di tranquillizzarlo sembra funzionare. Ci dice che ha bisogno di camminare, e forte. Proprio mentre sta pronunciando queste parole, però, un manipolo di quei ragazzi si rimette lo zaino in spalla e lo anticipa. L’effetto è quello della benzina sul fuoco. Come ieri, l’amico decide ancora una volta di prendersi la sua rivincita sulla strada, raggiungendo i contendenti e superandoli.
Per un istante penso a quanto sia infantile una reazione simile, ma l’attimo successivo capisco che, tuttosommato, è un modo molto civile ed efficace per sbollire un’incazzatura così tosta, e che anche io non sono poi tanto diverso. Proprio come ieri, lo sprono quindi a darci dentro e lo guardo compiaciuto mentre parte in quarta.
Con Amedeo cerchiamo di sistemarci a nostra volta il più alla svelta possibile, per tentare di seguirlo almeno da lontano e non perderlo lungo la via. Sembra proprio un déjà-vu, tanto folle quanto avvincente, e anche stavolta sappiamo che sarà impossibile tenere il suo passo.

Il gruppo braccato dal Don Chisciotte ligure non è compatto, e sembra separarsi con gran libertà. Addirittura alcuni li troviamo appollaiati in un campo d’erba a lato strada dopo non più di mezz’ora. Stranamente hanno anche una bici con loro.
A un certo punto, raggiungiamo il ragazzo con il maglione che avevo notato fin dalla pausa pranzo. Ha rallentato vistosamente e ora sta camminando a piedi scalzi e con le scarpe in mano. Pur non essendo io un purista dell’abbigliamento sportivo, resto sinceramente stranito dallo scoprire che sta facendo il Cammino con un’improbabile paio di Converse. Alterna qualche decina di metri sullo sterrato ad altrettanti sull’asfalto. Amedeo lo sorpassa spedito, ma io non resisto e mi ci affianco, troppo incuriosito da tutte quelle stramberie.

Attacco bottone facilmente. Il suo nome mi sfugge un attimo dopo averlo sentito, mentre invece mi rimane impresso fin da subito un senso di genuinità e libertà di spirito. È francese, ma si destreggia volentieri con spagnolo e inglese – il che mi mette perfettamente a mio agio.
La bici che abbiamo visto prima è sua. Generosamente, la sta prestando agli amici del gruppo che stanno avendo problemi ai piedi o alla schiena. Come i suoi vestiti, non sembrerebbe molto adatta a questo genere di avventura, ma questi sono pensieri razionali, probabilmente del tutto inadeguati con lui.

Man mano ci parlo, mi convinco sempre più sia una persona che abbraccia i propri sogni di pancia, senza preoccuparsi troppo di quale sia il modo migliore per raggiungere il suo obiettivo. Le scelte irrazionali riguardo ad abbigliamento e attrezzatura gli comportano certamente alcune fatiche in più, ma credo sia una dote preziosa il non perdersi in preziosismi.
Senza ora prenderlo a modello, semplicemente rifletto sul valore di un’approccio più rilassato, fiducioso e proteso all’agire. Io tendo spesso ad essere apprensivo o teso davanti alle traversie in cui mi imbatto, ma testimonianze concrete come questa mi suggeriscono il valore del tuffarsi con più leggerezza. Si può risultare un po’ più rocamboleschi nel proprio procedere, ma in fondo chi se ne importa!

Mi racconta di un campo che ha ereditato, e nel quale ha costruito anche una specie di casa, una struttura più che essenziale in cui a volte dorme. In futuro vorrebbe ospitarci anche persone disposte ad aiutarlo per brevi periodi, coltivando la terra secondo i principi delle permacultura, appresi in alcune esperienze in giro per il mondo.

La permacultura, in effetti, è un termine che risuona spesso tra i viaggiatori a lungo termine. In ogni continente esistono infatti molte opportunità di lavoro in questo campo, spesso remunerate semplicemente con vitto e alloggio – un’opzione particolarmente proficua per chi non ha altro scopo che girare il globo. È una possibilità che sto considerando da molti anni anch’io, forse troppi. Non so se la esplorerò mai, ma mi ha sempre attratto questo legame così prolifico tra realtà sedentarie e anime nomadi.

Mi racconta che il gruppo cammina insieme da tempo e che si è rivelato da subito un laboratorio eccezionale di supporto reciproco e di nuove amicizie.
Riguardo ai piedi nudi, mi spiega invece che lo fa sia perché ha problemi con le scarpe, sia perché gli piace la connessione col terreno. Purtroppo però deve alternare anche un po’ con l’asfalto, perché la pelle non è ancora abbastanza spessa.

Dopo un quarto d’ora assieme, lo ringrazio per la compagnia e la condivisione e lo lascio al suo passo, tentando di tornare a raggiungere almeno Amedeo. Non mi ci vuole molto, in realtà, perché la sgroppata di prima lo ha appesantito. Io però mi sento bene e non me la sento di rallentare. Decido così di superarlo, ritagliandomi anche oggi una parte di percorso tutto solo.

Il paesaggio in questa zona sembra ripetersi in maniera quasi ipnotica, è come se cambiasse ma al contempo rimanesse sempre uguale a sé stesso. Mi fa venire in mente uno strumento il cui nome non ho mai conosciuto, ma dopo qualche ricerca scopro che si chiama zootropio. Si tratta di quelle ruote con disegnati alcuni fotogrammi che, fatte girare abbastanza velocemente, danno l’idea di un breve movimento infinitamente ciclico.

Per fortuna dopo un po’ raggiungo Tiziano, che ha vistosamente rallentato il suo passo. Lo ritrovo splendidamente sereno, segno che il suo piano ha funzionato. Ci godiamo qualche centinaia di metri di cammino rilassatissimo, per poi fermarci in un’area di descanso a lato strada. Amedeo arriva meno di dieci minuti dopo, visibilmente messo alla prova.

Recuperiamo un po’ di forze con uno snack, e con calma ripartiamo. Mancano ancora una dozzina di chilometri, e sono già le tre del pomeriggio.
Il percorso non riserva nessuna novità eclatante, se non che la lieve pendenza a salire avuta fin qui ora si inverte. Davanti a noi, c’è ancora uno dei ragazzi incontrati al Burgo Ranero; ci ha sorpassati poco prima che ripartissimo, ma ha un passo talmente sostenuto che ci limitiamo a tenerlo nel mirino. Lo raggiungiamo solo all’ingresso del paese di Reliegos, quando tutto d’un tratto si ferma per fotografare alcuni gattini sul marciapiede.

Di fronte a lui, dall’altro lato della strada, bodegas simili a quelle di Moratinos – stavolta però tutte in fila, una dopo l’altra: una visione davvero affascinante.
Il paese si rivela particolarmente desolato. Non è troppo vecchio né decadente, ma semplicemente non si vede anima viva. Anzi, una la troviamo, proprio quando usciamo dal percorso in cerca di un bar. È un tizio più o meno della mia età; sta seduto a una curva, sotto il sole, come se aspettasse qualcuno.
Proprio di fronte a lui, spicca una gran vecchia casa verniciata in maniera folle. La facciata è stracolma di disegni e scritte, fatte evidentemente da tante mani diverse. Ricorda le pareti dei bagni di qualche locale underground, ma è più simpatico. Si chiama bar Elvis e sembra sia famoso per i pellegrini, ma purtroppo è chiuso. Chiediamo se ci sia qualcosa di aperto, ma ci spiega che dobbiamo rassegnarci. Accettiamo la triste notizia e ci sediamo ai tavoli fuori dal locale, che almeno sono all’ombra.

Durante la pausa riceviamo il comunicato ufficiale che i pellegrini già presenti all’interno della Castilla y Leòn saranno autorizzati a proseguire il Cammino nonostante la situazione sanitaria. La novità ci rasserena, pur consapevoli che tutto può comunque cambiare da un momento all’altro. Senza una cervezita con cui consolarci, passiamo qualche minuto ancora divertendoci a pensare ai modi più folli per raggiungere l’agognata cattedrale in caso di nuove chiusure, ma a bocca asciutta ci annoiamo alla svelta e così ci rimettiamo in marcia.

Man mano che i chilometri si sommano, finiamo col diventare sempre più silenziosi e stanchi. Di fronte a un dettaglio o un paesaggio particolarmente belli, però, abbiamo ancora la spontanea abitudine di ricordarci l’un l’altro quanto siamo fortunati a essere qui. Credo sia qualcosa che ci rafforzi, sia individualmente che come gruppo.

Arriviamo infine alle porte di Mansilla de la Mulas, la tanto attesa meta di oggi.
Amedeo è al telefono con la madre per noie legate al lavoro. È strano sentir parlare di quelle cose, pressioni di una realtà lontana 2000 km. Telefonate simili sono necessarie, a volte, ma fanno scoppiare la nostra “bolla”, spezzano la magia di questo viaggiare lento. Essere strappati da questa condizione di centratura armoniosa fa render conto di star percependo in maiera totalmente nuova il valore del tempo e dello spazio, e rinunciarci brucia.

Passiamo davanti all’albergue che aveva interrotto la chiamata deridendoci; un po’ di rogna ci sale, ma ormai siamo stanchi anche per quella. Passiamo poi da una piazzetta a lato strada, al centro della quale spicca l’ennesimo cruceiro. Stavolta però ha una particolarità: alla base sono poste tre statue iperrealistiche di pellegrini della nostra epoca, seduti e stanchi morti. È una trovata un po’ kitsch per i miei gusti, ma mai quanto le statue colorate che mi è capitato di vedere in Francia, in qualche paesino alla base dei Pirenei.

L’albergue che abbiamo prenotato sta dall’altro lato dell’incrocio. Aspettiamo Ame ed entriamo. È piccolo ma curatissimo, e con ogni comfort. La signora che ci accoglie è pure molto gentile – cosa graditissima e mai scontata.
Ci sono una lavatrice e un’asciugatrice che gestisce lei personalmente. Vista l’ora, ci affrettiamo a far la doccia e a lasciarle più panni possibili, così da non doverci pensar più per qualche giorno.

In stanza facciamo conoscenza con Martin, un signore svizzero di mezza età, robusto, occhialuto, coi capelli grigi alle spalle. Ha l’aria pacifica e un po’ stralunata, ma sembra una persona a modo. Il mio sesto senso mi suggerisce che potrebbe essere una persona molto interessante da conoscere, ma purtroppo non abbiamo abbastanza tempo: ci aspetta una cenetta coi fiocchi in un locale vicino, e prima devo fare anche un po’ di spesa.

Mentre passeggiamo verso il centro, scopro che il paese mi piace, ma non so dire perché. È divertente quanto la cosa stupisca i miei due amici, che invece non ci vedono proprio niente di attraente.
Comprato tutto il necessario, ci dirigiamo verso “La curiosa”, un bar-ristorante che abbiamo scelto sia per l’aperitivo che per la cena. Spendiamo appena più del solito, ma ci servono un pasto da veri gourmet, non scherzo! Restiamo entusiasti.

Una volta usciti, le fatiche e i nervosismi della giornata sembrano svaniti – sicuramente grazie anche alle birre prima di cena e all’ennesima bottiglia di tinto della Rioja. Torniamo infine nei nostri sacchi a pelo, accompagnati dalle solite battute demenziali di Amedeo e pronti a goderci in pace il meritato riposo.

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Castilla y Leòn, Spagna
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29/10 Carrión de los Condes – Moratinos

(Albergue Moratinos)
30km

Eravamo stati avvertiti che al convento vige la regola ferrea di alzarsi alle sette di mattina, ma mai avremmo creduto a quello che ci è appena successo.
Nonostante avessimo puntato le nostre sveglie all’ora fatidica, il curioso personaggio che ci aveva accolti ieri fa irruzione nella camerata cinque minuti prima, accende improvvisamente le luci e inizia a ripetere a voce alta: “Despierta! Son la siete! Son la siete! Despierta! Son la siete!”.
Inevitabilmente, si solleva subito un mugugnare collettivo, quasi fosse un raduno di zombie. Colui che subisce più di tutti il colpo basso del malefico receptionist, però, è il nostro Amedeo, noto per la sua infinita fatica nell’alzarsi la mattina. Lo shock è talmente forte che scatena in lui riflesso immediato, che prende forma in un sonoro e inaspettato “Ma vaffanculo!”, perfettamente comprensibile anche da tutti gli amici non italiani. Il fastidioso incursore, però, sembra essere totalmente impassibile all’insulto e già se ne esce dalla porta. Evidentemente, però, il buon Amedeo non è ancora sazio e, chiudendosi a bozzolo nel suo sacco a pelo, conclude con inattesa rabbia il suo sfogo: “Bastardo!”.
L’affondo finale ci lascia per un attimo ammutoliti, ma un’istante dopo la camerata esplode in un coro di risate, osannando il vampiro ligure per aver dato voce a un pensiero che tutti avevamo trattenuto.
Quella appena vissuta è stata una delle sveglie decisamente più traumatiche e allo stesso tempo più divertenti del mio viaggio.

In pochi minuti raduno tutto, rigonfiando lo zaino come faccio ogni mattina da due mesi e mezzo. Tutto ci sparisce dentro attraverso gesti automatici e seguendo in realtà un ordine rigoroso studiato fin dall’inizio. L’unica variazione l’ho introdotta imitando Tiziano, che mi ha fatto capire quanto poco senso abbia arrotolare con cura il sacco a pelo per rimettetelo nella sua borsa, quando infilandocelo alla bell’e meglio il risultato non cambia. Anzi, scopro che c’è chi fa lo stesso ma direttamente nello zaino, facendo a meno anche della borsa. Questa soluzione sfrutta gli spazi che  altrimenti resterebbero vuoti, ma non riesco a togliermi dalla testa la fissa che così il sacco a pelo finirebbe prima o poi chissà come per bagnarsi, o addirittura ungersi irrimediabilmente con qualche schifezza in scatola. In realtà da quando cammino in Spagna ormai non compro più cibi che potrebbero darmi certi problemi, ma probabilmente mi è rimasto in testa questo tarlo inestirpabile.
Fine della parentesi “tecnica” sulla routine mattutina.

Come succede fin da Saint-Jean, a Tiziano bastano solo pochi secondi per cominciare a radunare ordinatamente le sue cose. Io, invece, ho sempre bisogno di almeno un minuto seduto immobile sul letto, apettando di riprendere minimamente coscienza. È anche divertente osservare tutti gli altri, chi più disciplinato, chi “in attesa di segnale” come me, e chi invece in coma come Amedeo.

Quando tutto è tornato a sparire nello zaino, raggiungo la cucina ancora barcollante. Sono passate più di dieci settimane, ma la gioia della mia colazione preferita rimane la stessa, coi soliti caffellatte, pane, burro e marmellata. Assieme a me, ci sono solamente gli altri “vecchi” della carovana: lo spagnolo col setto rotto, Serge e lo yogi. Questa cosa mi scatena il sospetto pungente che sto forse già facendo capolino nel club dei “giovani dentro”.
Mentre riesco a spremerci sopra un mezzo sorriso, la faccia torna cupa di scatto quando Linda si affaccia all’uscio per un istante. Un’intuizione, però, mi salva l’umore: d’un tratto mi accorgo di quella fetta di me rimasta adolescente. Gli anni passano e la sommergono di nuovi Roberto, sempre più adulti, ma lei sembra saperne reggerne il peso, riuscendo ancor’oggi a dare il suo contributo al mio sentire. Probabilmente è da lì che ha fatto capolino l’irrazionale spirito d’avventura culminato in questo viaggio, ma allo stesso tempo è anche il tempio dei sentimenti più immaturi. Questi piccoli pensieri mi strappano un sorriso su questo me stesso quasi quarantenne, che a volte ancora si fa imbambolare e se la prende come quando aveva quattordici anni, ma va bene anche così.

Una volta riempita la pancia e puliti i denti, saluto tutti e raggiungo mis dos compañeros, che nel frattempo sono andati a far colazione al bar. Con loro mi regalo un altro caffè, mentre ancora ridiamo dell’exploit mattutino di Ame.
La tv è accesa, e al telegiornale si parla delle nuove misure di confinamento. Qualche cliente del posto risponde imprecando contro tutti i politici possibili, coinvolgendoci in qualche modo in un breve scambio di battute. Chiaramente il tema ci ruba il sorriso per qualche istante. Per nessuno è facile accettare davvero la realtà internazionale di questa pandemia, ma ciascuno di noi sa alla perfezione di star vivendo un privilegio totalmente fuori dal comune. In questa Spagna che sembra stia tentando in ogni modo di evitare un nuovo lockdown generale, noi stiamo camminando incessantemente, con l’obiettivo ostinato di attraversarla da parte a parte. Pur passando la stragrande maggioranza del tempo in luoghi desolati ed entrando in contatto rischiosamente quasi solo tra di noi, siamo consapevoli di star vivendo “in una bolla”, questa è l’espressione che usiamo sempre.
La nostra mutevole carovana include posizioni di ogni genere riguardo al virus e alla sua diffusione: dai negazionisti più ostinati fino a chi, come me, può dire di aver toccato con mano la stravolgente tragedia iniziale. La verità, però, è che tutti stiamo sperando che le più o meno efficaci misure anticontagio che prendiamo quotidianamente potranno essere sufficienti, e che questo nostro sogno comune resti immacolato fino alla cattedrale di Santiago.

Alle otto in punto ci stacchiamo dalle sedie e ci armiamo dei nostri zaini. Ci aspettano una trentina di chilometri oggi, tutti spaventosamente dritti, come forse mi era successo solo alla fine del Luberon, in Francia, nella tappa in cui raggiunsi Cavaillon. Che vertigine pensare a quanto tempo sia passato e a come queste due giornate siano parte della stessa grande esperienza ancora inconclusa!

Usciamo con calma fuori dal centro e attraversiamo il río Carrión, passando dal bel ponte Mayor e poi di fronte al Real Monasterio de San Zoilo, oggi hotel. Fin qui tutto continua a manifestare la gran cura con cui è mantenuta questa cittadina, che resterà memorabile davvero per tanti motivi.
Poche decine di metri e già ci lasciamo alle spalle gli ultimi edifici. Mentre seguiamo una stretta strada asfaltata che si incunea tra i primi campi, il sole spunta dietro di noi in tutta la sua bellezza: un’emozione a cui per fortuna sembro non abituarmi mai.

Come se già non lo sapessimo, prendiamo coscienza che da qui al primo paese corrono ben 15 lunghissimi chilometri: un rettilineo in mezzo a campi nudi e crudi, oppure pieni di girasoli ormai neri e ammosciati, con solo qualche rara pianta qua e là. Psicologicamente è una bella sfida, e anche il gusto selvatico per la solitudine qui può essere facilmente portato allo sfinimento.
Come sempre, però, il tempo passa comunque, tra risate sui tanti aneddoti collezionati, chiacchierate sul presente e sul futuro e qualche sana idiozia. Quando poi le parole finiscono, basta lasciarsi cullare dal silenzio, ed è proprio quello che ci succede per tratti anche molto lunghi.

Chilometri percorsi nella luce più limpida si alternano con altri sommersi nella nebbia. A un certo punto, poi, lasciamo l’asfalto e cominciamo a camminare sulla terra battuta, senza però che lo scenario cambi troppo. L’orizzonte taglia perfettamente a metà tutto il mondo attorno a noi, e le poche cose che riescono per un attimo a spezzare quella linea si contano sulle dita delle mani: un paio di chioschi chiusi e malinconici, qualche albero isolato, rarissimi tavoli da picnic per pellegrini.
Per quanto in certi tratti sia estenuante, va ammesso che attraversamenti di luoghi così essenziali abbiano un fascino e un potere non comuni sul viandante. E se non per tutti la parola ‘fascino’ è quella giusta, penso che perlomeno si possa ammettere una verità comune: là dove lo spazio e il tempo si prosciugano in questo modo, si è sempre messi maggiormente faccia a faccia con sé stessi – una condizione faticosa, ma anche preziosissima.

Mentre maturo pensieri simili, veniamo inaspettatamente superati da un Serge che oggi sembra voler spaccare il mondo tutto da solo. La cosa pare lasciare un seme velenoso dentro Tiziano, che dopo un po’ germoglia in un vero e proprio spirito di competizione. Di certo a qualcuno potrebbe sembrare un po’ infantile, ma sia io che Amedeo abbiamo già sperimentato a nostra volta qualcosa di simile. Non ci scandalizziamo per niente, quindi, quando il nostro biondo amico ci confessa di non poter resistere dal raggiungere e superare il francese, anzi! Spronandolo ironicamente a tener alto l’orgoglio italiano, ci accordiamo di ritrovarci poi al primo paese lungo la via: Calzadilla de la Cueza.
Mai benedizione poteva essere più efficace! Eccolo, quindi, che dopo una strizzata d’occhio già parte in quarta lungo la leggera salita che va perdendosi all’orizzonte.

Questo distacco imprevisto lascia spazio all’opportunità di rivivere con Amedeo un momento di sincera confidenza, così come già un po’ era successo prima di Hontanas – tra l’altro, anche allora nel mezzo di campi immensi.
Sono più di dieci giorni che condivido anche con lui questa esperienza unica, ma è cosa rara che durante il cammino quotidiano lo si trovi separato dalla figura carismatica, protettiva e goliardica di Tiziano. D’altronde è comprensibile: quest’ultimo ha una decina d’anni in più e una grande esperienza in fatto di viaggi e di cammini verso Santiago.

Il loro legame di amicizia è solido e bellissimo, radicato sulla stagione estiva appena passata in cui sono stati colleghi bagnini presso un lido. Come negli anni passati, mese dopo mese in Tiziano è montata la voglia irrefrenabile di tornare su queste strade – una vera necessità, dice lui – e ha insistito con Amedeo fino a convincerlo, superando ogni ritrosia e titubanza legata a questo periodo tormentato.
Loro sono in assoluto i primi compagni con cui cammino per così lungo tempo, e il piacere di poter conoscere meglio ciascuno indipendentemente dall’altro lo vivo con spirito sincero.
Amedeo sembra accettare volentieri il dialogo, disponendosi a chiacchierare di cose un po’ meno bischere del solito. Trovo conferma delle belle qualità umane di questo giovanissimo ragazzo, e non di meno di una maturità che ha tutte le carte in regola per sbocciare sempre meglio negli anni che ha davanti.
Come ero convinto, la natura di questo tratto aiuta questo nostro apririci reciproco, perché ha poche distrazioni ed è quasi distensiva. Riusciamo così a macinare chilometri senza troppa sofferenza, oltre che con un ottimo ritmo.

Calzadilla si trova una ventina di metri più basso rispetto al piano su cui stiamo muovendoci, e solo il campanile della cappella del cimitero segnala da lontano che stiamo per arrivarci. Nel frattempo abbiamo ricevuto un messaggio da Tiziano, con la posizione del bar dove si è fermato. Lo raggiungiamo con un ritardo non poi così eclatante. Ordiniamo birra fresca e tortillas, gustandoci il meritato riposo mentre ascoltiamo il racconto del folle inseguimento.
Pare che Serge – seduto ora un paio di tavoli più in là e visibilmente provato – si sia accorto quasi subito di essere inseguito, ed abbia raccolto la sfida con foga inaspettata. A tal punto che, quando già entrambi potevano vedere Calzadilla, il francese aveva ancora una ventina di metri di vantaggio. Sembrava ormai aver vinto l’improvvistata competizione, ma in quell’istante la craponaggine di Tiziano ha superato l’ultima soglia di ragionevolezza e lo ha spinto a giocarsi la carta più folle di tutte: mettersi a correre. E non intendo dire a passo spedito, ma proprio correndo!
La vita è anche gioco, in fondo, ed è stato esilarante rivivere l’episodio con le parole dell’amico ligure, inclusa l’imitazione della faccia di Serge quando si è accorto d’improvviso di averlo a fianco. Due magnifici matti!

Seduti al tavolo sotto il sole, ci godiamo al meglio la sosta tanto meritata, e man mano arrivano anche altri amici pellegrini a regalarsi il medesimo trattamento.
Tra questi c’è anche Erika, la canadese, che però non si siede ai tavoli come tutti, ma sceglie di stare da sola al lato opposto della strada. Sorridente, non si dedica ad altro che ad accarezzare un paio di gatti che le si alternano sinuosamente intorno, e che ovviamente gradiscono parecchio il trattamento.

Con noi c’è pure l’amico spagnolo col naso fasciato, che come ieri sera scatena anche qui la sua loquacità. Dopo un buon numero di aneddoti, però, capiamo definitivamente che non è solo un chiacchierone, ma un uomo tenace e pieno di energie positive. Non potendo lavorare in questi mesi, ha deciso “semplicemente” di camminare, e di farlo a oltranza. Ha con sé uno zaino molto pesante perché dorme per lo più fuori, in tenda. Nonostante ciò, ha un passo incredibile, soprattutto per la sua età.
A un certo punto, interrompe quasi all’improvviso il suo raccontare e si alza di gran lena, salutandoci a cuore aperto e riprendendo il suo cammino. Il gruppo resta un paio di secondi in silenzio mentre lo guarda allontanarsi, e io mi chiedo se lo rivedrò ancora.

Dopo qualche minuto, anche noi decidiamo che è arrivato il momento di ripartire. Siamo oltre la metà del percorso, è vero, ma ci siamo riposati abbastanza.
Seguiamo un sentiero battuto a lato di un’altra strada rettilinea in mezzo alla piatta campagna. Per fortuna, stavolta ci sarà qualche paese ad aspettarci, spezzando questa innegabile monotonia.
Il primo è Ledigos, dopo poco più di un’ora. È un altro piccolo centro piuttosto umile e con caratteristiche simili a quelle di altri visti fin qui nelle mesetas, ma il bel tempo aiuta a coglierne meglio alcune tipicità pittoresche. Credo addirittura che con questo sole anche Boadilla ci sarebbe apparsa in modo totalmente diverso.

Lungo la strada incontriamo un cartello con scritto: “LEÓN 80 KM”. Potrebbero sembrare molti, ma ormai sappiamo quanto alla svelta possiamo percorrerli. Per vari motivi Leòn è risuonata tantissime volte fin qui nei nostri dialoghi, ed è realmente emozionante pensare che stiamo per raggiungere anche questo traguardo.

Superato qualche cimitero di girasoli, arriviamo a Terradillos de los Templarios. Io personalmente sono poco toccato dalla storia e dalla fama del famoso ordine cavalleresco, anche se sto camminando su una via di pellegrinaggio che conserva moltissime loro tracce. Mi rendo conto, quindi, che questo disinteresse sottrarrà alla mia esperienza molte opportunità di meraviglia, ma in fondo seguire gli stessi cartelli non significa assolutamente che il viaggio di ciascuno debba prender forma in egual maniera. D’altronde ogni singola scelta o condizione lo modella in modi irripetibili, rendendo unico quello di ognuno.

Da tempo penso che il Cammino sia qualcosa di molto simile a un campo da gioco, un luogo di sperimentazione privilegiato. Ha la particolarità di includere davvero pochi rischi e di offrire al contempo una quantità fuori dal comune di opportunità positive in cui tuffarsi. Ad ogni angolo sembra pronto a regalare stimoli inaspettati e qualche impagabile lezione, riuscendo spesso a regalare a chi lo percorre lenti nuove per guardare sé stessi e il mondo.
Aldilà di ogni attribuzione spirituale, credo quindi sia naturale che così tante persone ne restino ammaliate, percorrendolo con stupore e gratitudine così profondi.

Un paio di chilometri dopo Terradillos, una freccia gialla verniciata grossolanamente sul retro di un cartello ci indica la rotta. Dobbiamo lasciare la traccia asfaltata e buttarci tra alcune colline bassissime e spoglie. Non so dire bene perché, ma ad ogni passo in più mi sembra di starmi calando in un limbo di pace.
Saranno questo paesaggio tanto morbido, il suo contenerci quasi materno che lo rende tanto intimo. Oppure forse è il clima perfetto, o il solito amico sole, che ha già cominciato a piegare verso terra e ad illuminare tutto in maniera più suggestiva.

Anche l’impatto con l’albergue fa la sua parte. È lì, proprio all’inizio di Moratinos, con talmente tanto spazio intorno da sembrare quasi un casello per accedere al paesino. Ha solo due piani, ma una grande terrazza. Oltre le porte a vetri c’è una sala luminosa e il banco di un bar. Non so da quanto sia stato costruito, ma dá l’impressione di essere molto recente.
Finalmente facciamo conoscenza di Giuly, l’italiana che ci ha convinti a fermarci qui oggi. Si conferma frizzante e accogliente, e subito ci presenta anche Jorge e Sonia, la giovane coppia spagnola che ha l’albergue in gestione e per i quali lei lavora. Anche loro sono luminosi e sorridenti, oltre che assolutamente alla mano. Pare non ci sia nessun altro ospite, e sapere che tutto questo sia solo noi non ci sembra vero.

Appoggiati gli zaini, ordiniamo le irrinunciabili tre birre di fine tappa, accettando l’invito di sederci in cortile. La luce di quest’ora non dá fastidio, è dorata, dello stesso colore dell’Estrella Galicia fresca che Jorge ci ha versato. C’è una pace surreale.
Dall’altro lato della strada, una collinetta erbosa ha delle curiosissime porte alla base che conducono al suo interno. Sembra una casa della Contea, quella degli Hobbit. Giuly ci ride su quando ce lo sente dire, mentre fuma appoggiata al muro. Ci spiega che si chiamano bodegas e sono antiche cantine. Senza attendere che si formi chissà quale intimità, ci racconta poi la sua storia e noi la nostra. Ordiniamo il secondo giro, ci rilassiamo ancora di più, finchè arriva l’ora di sistemarci in stanza.

Quando già tutti abbiamo fatto la doccia, spunta a sorpresa anche Erika, e non so nascondere che la cosa mi fa particolarmente piacere.
Prima di cena, ragioniamo sulla tappa di domani. Confidiamo a Giuly, Jorge e Sonia i problemi avuti ultimamente con le prenotazioni e loro restano perplessi, si chiedono come sia possibile e ipotizzano degli sfortunati fraintendimenti. Restano però esterrefatti quando ascoltano un paio di telefonate che facciamo davanti a loro per le prenotazioni del giorno dopo. Ancora una volta, infatti, riceviamo risposte sospettosamente evasive o addirittura veniamo derisi, il che ci produce un’incazzatura cosmica.

Per questi motivi e a causa di altre chiusure inattese, dobbiamo depennare El Burgo Ranero e Reliegos, i paesi in cui sarebbe stato comodo e naturale concludere la tappa di domani. L’unico albergue che ci permette di prenotare – e lo fa con quella semplice formalità rispettosa e impersonale che sembra essere merce tanto rara – è a Mansilla de las Mulas, che però dista addirittura 47 km da Moratinos.
Esclusa in partenza l’idea di camminare così a lungo – e pure incazzati – le opzioni possibili rimangono due: partire comunque da qui e sperare di trovare qualcosa di aperto nonostante le disavventure telefoniche, o accettare la proposta di Giuly. La sua idea è quella di accompagnarci in auto a Sahagún domani mattina e farci partire da lì, in modo da ridurre la tappa verso Mansilla di una decina di chilometri. Rimarrebbe comunque molto lunga, ma decisamente più accessibile.

È una gran sorpresa per Tiziano e Amedeo sentirmi subito rispondere di sì all’amica italiana, perché si aspettavano che avrei fatto mille storie come già in quel di Pamplona. Mi rimarrà per sempre nella memoria la faccia incredula di Tiziano, durata un paio di lunghissimi secondi, durante i quali mi ripete la domanda per essere sicuro che io abbia capito, e poi il suo esplodere in urla di gioia, alzando il bicchiere di birra per brindare alla soluzione del problema.
Smessi i panni del pellegrino radicale a causa dell’incazzatura, anch’io mi sento molto più leggero e mi unisco alla celebrazione con euforia.

Nel frattempo Erika assiste alla scena con sguardo perplesso, ma poi con calma le spieghiamo i motivi del nostro entusiasmo. All’opposto di noi, però, lei rifiuta il passaggio e sceglie che domani si affiderà alla buona sorte. Addirittura, decide che percorrerà una via secondaria particolarmente isolata, attratta proprio da quella caratteristica. La capisco benissimo, ma dopo le scocciature collezionate, davvero ne ho piene le scatole. In un secondo momento, però, mi confessa di non essere proprio una “dura e pura”, perché nei suoi piani c’è anche quello di fermarsi per un paio di giorni a León e regalarsi tanto relax e qualche massaggio. Hai capito la canadese?

Ormai non resta che cenare. L’unica opzione disponibile è l’albergue, ma per noi la cosa era già programmata da giorni. Quando siamo venuti a conoscenza della presenza di Giuly qui a Moratinos, immediatamente il nostro desiderio è stato uno e inappellabile: carbonara!
Erika anche in questo caso è un po’ trattenuta e consulta la lista, ma quando la vedo scorrere il dito tra toast e insalate gliela ritiro e ordino anche per lei una porzione di pasta. E che cavolo! Capirà poi col piatto davanti, sono sicuro.

Quando il cibo arriva in tavola, infatti, anche i suoi occhi brillano davanti alla montagna di spaghetti che riempiono le quattro fondine. Iniziamo subito a tuffare le nostre forchette in quella delizia, e per qualche minuto si sentono solo mugugnii di approvazione. Il vino scorre come merita e condisce di risate l’oretta a tavola, conclusa anche stavolta col sacro rito dell’orujo finale.

Mentre qualcuno esce a fumare l’ultima sigaretta della giornata, Erika crolla su una panca del bar e ci si addormenta. La sveglio delicatamente con qualche sussurro sorridente, e resto stupito che, trovandomi lì a un palmo di naso, il suo sguardo sembri tutt’altro che spaventato.
Lascio gli altri andare in stanza e passo un po’ di tempo con lei sulla terrazza. C’è una luna pienissima a illuminare questo limbo magico di terra. Mi racconta di essere maestra, ma con una passione per il teatro, e in particolare per il musical – ma non certo da spettatrice. Mi spiega di aver studiato canto e recitazione, e di aver già partecipato a qualche rappresentazione.
Ha gli occhi luminosi e, nonostante il mio inglese sia biascicato, il momento è di quelli straordinari, eppure… Esatto, nemmeno stavolta trovo il coraggio di buttarmi, sprecando un’occasione che sembrava uscita da una fiaba. Rientriamo con dei sorrisi che ancora non sembrano aver inteso il buco nell’acqua. L’accompagno fino alla stanza e sull’uscio mi ritiro anche dal suo ultimo sguardo sorridente.

Amedeo sta sdraiato nel letto di fianco al mio, imbruttito sul cellulare. Gli basta guardarmi in faccia e sentirmi pronunciare un paio di parole per capire cos’è successo, e senza cambiare né di posizione né di espressione, senza nemmeno togliere gli occhi dal cellulare, mi sprona in maniera essenziale, irripetibilmente volgare e perfettamente efficace. Il viso mi si riempie di luce nuova. Ringrazio l’amico e mi alzo di scatto, tornando a bussare alla porta di Erika pieno di fiducia.

Mi apre con lo stesso sorriso con cui l’avevo lasciata. Io balbetto ancora un paio di parole inutili mentre entro, lasciando la timidezza in corridoio. Mantengo lo sguardo fisso nel suo, forse con la stessa smorfia tremolante che me la sta rendendo così irresistibile. Faccio due passi verso di lei, facendola arretrare fino alla parete, poi, come nei film più sdolcinati, le abbraccio i fianchi e piano avvicino il mio volto al suo. Un ultimo istante occhi negli occhi e cominciamo un bacio che finirà dieci minuti dopo. Ci fermiamo solo quando tutto sta per diventare qualcos’altro. Entrambi non ce la sentiamo nel silenzio del piccolo albergue, con le teste di tutti gli altri pochi centimetri di là dalla parete. A parole mi allontana, ma ci stacchiamo entrambi con fatica, con due facce ancora più cretine e felici di prima.

Tornato in camera, sembra la replica di un quarto d’ora prima, solo che stavolta non dico niente, rido e basta. Amedeo, come fosse Marlon Brando nel Padrino, si complimenta col suo picciotto. Tiziano si affaccia invece con un’espressione in volto che proprio non mi sarei mai immaginato. Sorride, ma amaramente, e dice che quindi ora cambierò programma e il gruppo si dividerà. La cosa mi tocca tantissimo. Qualche volta mi era sembrato quasi pentito di avermi con loro, tanto diverso è il mio approccio a questa esperienza. In effetti un po’ è così, e sono stati già tantissimi i momenti di microtensione. Per questo mai mi sarei aspettato che reagisse come ha fatto all’idea – pur non espressa – di salutarci e dividerci.
Con Erika non avevo preso nessun accordo, anche se una parte di me avrebbe voluto tentare quel cambio di scena, anche solo per il gusto di arricchire il viaggio con qualcosa di nuovo. Le parole di Tiziano, però, mi han colpito a tal punto da soppiantare anche il batticuore per il lungo bacio di poco fa, e d’un tratto non ho più dubbi e gli rispondo: “Non se ne parla. Continuiamo insieme!”.
Per la seconda volta in poche ore lo vedo restare incredulo e sorridente, e, come prima a tavola, il trio esplode ancora in urla di gioia.
Dopo dodici giorni spalla a spalla, anche se siamo tanto diversi e spesso sembra che le nostre traiettorie confliggano, la verità è che quel che ci lega si è fatto solo più tenace. Il trio continuerà unito il suo Cammino!

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28/10 Fromista – Carrión de los Condes

(Hospedería Convento Santa Clara)
20km


Da diverso tempo siamo al corrente della presenza di un hospitalera italiana a Moratinos, un paesino lungo la via, distante circa 50 km da dove siamo ora. Tutti e tre siamo d’accordo nel passare a trovarla per cenare da lei e ripartire il giorno dopo, ma i chilometri son troppi per una tappa sola. Scegliamo quindi di dividerli in due, fermandoci oggi a Carrión de los Condes. Percorreremo solo 20 km, ma la cosa non ci dispiace affatto.

Avendo solo poche ore di cammino davanti, possiamo concederci di dormire un po’ di più. Purtroppo a me riesce impossibile ormai da settimane, ma non me ne cruccio troppo. Una volta sveglio, infatti, resto beato nel mio sacco a pelo, godendomi il dolce far niente in attesa che anche Tiziano e Amedeo aprano gli occhi.
Una volta che tutti e tre riusciamo a uscire dai nostri bozzoli e darci una minima sistemata, scendiamo a fare colazione al piano terra. Ce la prendiamo con così tanta calma, che ne usciamo addirittura alle 9:20. Da quando sono partito non mi era mai capitato di iniziare tanto tardi a camminare, sembra quasi di star uscendo per una semplice passeggiata. In altre occasioni questo mi avrebbe prodotto una velata agitazione, ma oggi per fortuna mi sento completamente rilassato.

Il cielo è coperto, ma le previsioni promettono miglioramenti. Il percorso è perfettamente lineare per più di mezz’ora: una pista in terra battuta che corre parallela ad una strada asfaltata. Siamo in mezzo alla campagna agricola, e solo i mojones danno ritmo al nostro procedere.

Il primo paese che incontriamo si chiama Población de Campos – un nome che è quasi una didascalia. L’impressione è quella di un piccolo centro piuttosto anonimo, davvero senza particolari elementi attrattivi, se non forse le prime case in terra cruda viste finora. Per un attimo resto incantato a fissarle, immaginando idealizzate vite contadine fuori dal tempo.
Un altro lungo rettilineo ci porta poi in un secondo paesino: Villovieco. Lo sfioriamo appena, e immediatamente dopo attraversiamo il fiume che gli passa accanto. La traccia ci fa proseguire di fianco al corso d’acqua per quasi un’ora. Il paesaggio in questo tratto si arricchisce di molte piante, a destra e a sinistra del sentiero, che vibrano dei gialli e degli arancioni autunnali. Anche il cielo si apre un po’, aggiungendo pennellate d’azzurro a un quadro fattosi splendido.

I chilometri si scandiscono anche grazie agli attraversamenti dei piccoli canali affluenti. Ogni volta dobbiamo così superare dai piccoli avvallamenti, in un dilatato saliscendi che ravviva un po’ la camminata. È un tratto molto pacificante e io finisco gradatamente col rallentare, isolandomi giusto un po’. Dopo moltissimo tempo dall’ultima volta, decido anche di tornare ad ascoltare musica in cuffia. Non ho la minima intenzione, però, di inquinare la serenità di questi istanti, così lancio in loop uno degli album della comunità francese di Taizé. Sono canti religiosi per qualche aspetto simili a quelli gregoriani – probabilmente un accostamento scorretto per i puristi del genere, ma credo sia il modo più comprensibile per riuscire a dare un’idea. Li ho conosciuti anni fa, vivendo per una settimana in quel luogo: un’esperienza indimenticabile.

Verso mezzogiorno, sbuchiamo su una strada asfaltata, proprio in corrispondenza di un grosso edificio che sembra un miscuglio tra una chiesa e un casale: è l’Ermita de la Virgen del Río. È fronteggiato dalla solita pila di balle di paglia rettangolari. La particolarità è che sia questa che l’edificio hanno proporzioni del tutto simili, e sembrano uno il riflesso dell’altro.

Proseguendo, raggiungiamo Villalcazar de Sirga. Le nuvole hanno fatto molto spazio a un sole splendente e caldo, la cui luce impreziosisce la grande chiesa del paese, dedicata a Santa Maria la Blanca. È una costruzione imponente e massiccia: una composizione di volumi semplici, ma raffinata da un portale mozzafiato e un rosone postogli di fianco. Un’altra particolarità è anche il livello su cui è posta, infatti la osserviamo camminando ai lati di un terrapieno di forse quattro metri, letteralmente incantati. È davvero meravigliosa.
Le piazze che le stanno di fronte e di lato sono progettate in maniera minimale ed elegante, perfettamente in armonia con l’architettura dell’edificio. Stupisce la presenza di un luogo tanto maestoso proprio nel mezzo di un paesino che altrimenti risulterebbe a malapena pittoresco, ma niente più.

Per niente stanchi, ma molto affamati, notiamo con gioia la presenza di un negozio di alimentari e souvenir. È mezzo vuoto ma è ben curato: ha giusto l’essenziale, e a noi non serve altro.
Prima di fermarmi a mangiare, però, scelgo di andare a vedere se la chiesa è aperta. Trovo una signora a far da custode, e mi spiega che l’ingresso è a pagamento. Non si limita all’informazione in sé, ma mi anticipa con passione le bellezze che troverò racchiuse all’interno. Mi convince, e le prometto che dopo pranzo tornerò, tentando di portar con me anche i miei compari.

Mentre ci godiamo un momento di assoluto relax, sopraggiungono Serge e gli altri due giovani francesi. Come noi, fanno rifornimento e si siedono a pranzare, proprio sulla panchina di fianco alla nostra. Per un attimo mi domando non sia per questo che Tiziano accetta stranamente di visitare con me la chiesa.
La guida ci conduce in modo molto originale e per niente noioso. Resto perplesso solo in un paio di occasioni, quando insiste perché ci sediamo qualche minuto in alcuni punti precisi, sotto una certa colonna o sopra una specie di lapide. Sostiene che lì confluiscano energie rigeneranti e addirittura miracolose, grazie al passaggio di corsi d’acqua sotterranei di cui parla come se ne fosse più che risaputo il potere terapeutico. Poco avvezzi entrambi a questo genere di cose, ci prestiamo per qualche istante ai suoi inviti, sotto la pressione del suo sguardo insistente e un po’ esaltato. Ovviamente, da felici miscredenti quali siamo, ci defiliamo poi appena possibile, ma tuttosommato anche divertiti.
Restiamo comunque sorpresi dalla bellezza dell’architettura, dalle decorazioni e dalla presenza di due sarcofagi templari, illuminati da una luce quasi magica.

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Fuori ci aspetta Amedeo, che abbiamo lasciato appisolato sulla panchina sotto il sole e che ritroviamo, invece, carico di energie e pronto a mangiarsi l’ultima ora di cammino della giornata.
Prima di partire, elemosino ancora un paio di minuti ai due amici scalpitanti. Voglio assolutamente scattare una foto ad una scultura in bronzo lì a due passi: rappresenta un pellegrino sorridente a dimensione reale, seduto a un tavolo con la mano sul bordone e una brocca poggiata davanti. Bellissima!

Salutiamo per l’ennesima volta il trio dei cugini d’oltralpe e lasciamo Villalcazar de Sirga. Le indicazioni ci incanalano su una pista pedonale che ancora una volta corre parallela a una strada asfaltata. Questa è talmente dritta e poco trafficata che ricorda una highway dei deserti americani. Sia a destra che a sinistra si estendono delle pianure arate sconfinate. Essendo poi in leggerissima salita per alcuni chilometri, oltre l’orizzonte si vede solo cielo: è uno scenario pazzesco, che ricorda quello già incontrato prima di Hontanas, ma qui ogni elemento sembra ancora più astratto. Come allora, il senso di vastità si amplifica grazie alle tante nuvole, oggi disposte in file incredibilmente regolari che si rimpiccioliscono verso l’infinto. Le fisso mentre migrano lentissime, restandone ipnotizzato.

Amedeo conferma l’argento vivo che sembra essere sgorgato in lui dopo la pausa pranzo. Mi chiedo se forse non passasse un miracoloso corso d’acqua anche sotto la panchina dove ha dormito. Mentre lo vedo camminare speditissimo, noto che si è messo gli auricolari, così come già aveva fatto quando andò in fuga un paio di giorni fa e in ogni altro tratto percorso senza interagire con noi. A me pare un sacrilegio deformare con mille canzoni le sensazioni regalate da questi luoghi, ma a lui sembra fare tutto un altro effetto.

Io e Tiziano ci fermiamo qua e là per fare qualche foto, scambiandoci smorfie di stupore per quello che stiamo vivendo. Provo anche a chiedergli di scattarmene una come quelle che si fanno tutti, immerso nel paesaggio. Lui lo fa spesso per i suoi social e non sarebbe la prima volta che provo a imitarlo, ma davanti al risultato resto spesso deluso. Sembra quasi sempre la versione contraffatta di quello che avevo in mente, l’imitazione mal riuscita, ma perlomeno diventa un buon motivo per l’ennesima risata insieme.

I bassi mojones disposti regolarmente scandiscono il tempo del nostro procedere, aiutandoci anche a ricordare che non siamo in Nevada, ma nella Tierra de Campos – così è chiamata questa comarca. Quando la strada inverte la propria pendenza cominciando lievemente a scendere, all’orizzonte pare non aggiungersi altro che il profilo di Carrión de los Condes. Non sembra nemmeno troppo lontana. La raggiungiamo dopo esserci ricompattati, perché la fuga di Amedeo anche stavolta è durata solo pochi chilometri.

Il convento di suore presso cui dormiremo è vicino all’ingresso del paese. Quando stiamo per raggiungerlo, veniamo superati da un furgone nero che parcheggia proprio di fronte a dove stiamo dirigendoci. Ne scende una sagoma familiare, anzi inconfondibile: è Beppe, l’amico sardo! Per qualche motivo ha preferito concludere la tappa in taxi. Mentre lui si ferma ad aspettare l’arrivo dei suoi compagni di viaggio, noi entriamo.

L’edificio sta proprio di fronte: ha una facciata tutta mattoni, costellata da finestrine ingabbiate da griglie in ferro battuto. Superiamo il portone ed entriamo in un cortile rettangolare. Poche porte vi sia affacciano, e una di queste ha un campanello. Suoniamo. Una vocina maschile spenta e monotonale ci indica di aspettare qui, aggiungendo qualche altra istruzione che non capiamo. Dopo pochi minuti, spunta alle nostre spalle un uomo di bassa statura, occhialuto e un po’ tarchiato: non c’è dubbio, è la persona con cui abbiamo appena parlato. Ci passa di fianco con piccoli passi rapidi, salutandoci in maniera appena percepibile e dirigendosi ad aprire la porta del suo ufficio. Ne esce pochi secondi dopo, lasciandoci dei sacchi neri per isolare in qualche modo i nostri zaini potenzialmente infetti, poi rientra e invita il primo di noi ad entrare. Frastornati dallo sbrigativo receptionist, stiamo ancora guardandoci l’un l’altro quando ci ribadisce di entrare in maniera già scocciata. Tiziano è il primo a confezionare la propria mochilla e ad entrare nello stanzino in penombra. Quando anch’io sono pronto, oso fare a mia volta un passo all’interno, per curiosità, ma subito mi viene ribadito ad alta voce: “Uno a la vez!”. Agli ordini! Almeno stavolta si è sentito chiaramente cos’ha detto.

Quando è il mio turno, incrocio lo sguardo di Tiziano mentre esce dalla porta: sta trattenendosi dal ridere con tutte le sue forze. Le risate sono contagiose, cosicché a mia volta devo contrarre con fatica ogni muscolo del volto per mantenere un’espressione minimamente composta. All’interno, mi distraggo per la prima frazione di secondo tra le vetrinette buie occupate da souvenir religiosi e pellegrini. Meno bravo di chi mi ha preceduto, però, non so trattenere una risata quando finalmente il mio sguardo cade sul nostro strambo personaggio. Mi sta fissando come fossi l’ultima persona che avrebbe voluto vedere oggi, ma la cosa che rende tutto definitivamente esilarante è che sta seduto su uno sgabello talmente basso da farlo arrivare al banco a malapena col mento. Ancor più indispettito, mi chiede la carta d’identità, e mi rimprovera nuovamente quando si accorge che non l’avevo già preparata. Mi verrebbe da dirgli che siamo in tre, mica c’è la coda fuori, ma quella sua acidità mi fa così simpatia che sto al gioco e porgo ossequiosamente le mie scuse.

Conclusa infine anche la registrazione di Amedeo, chiude l’ufficio e passa ancora velocemente tra noi. Ci ordina di seguirlo, mentre già comincia ad elencare le regole per la nostra permanenza. Si ferma a un passo dalla porta dove ci sta accompagnando, si volta e sfila una cartina del paese. Sciorina qualche indicazione turistica col tono di chi già da anni avrebbe volentieri smesso di farlo. Mentre continuiamo a soffocare le risa, ci accompagna infine alla camerata, sparendo immediatamente dopo con la stessa rapidità con cui era apparso. Gli sono bastati questi dieci minuti scarsi per diventare uno dei personaggi più esilaranti che ho incontrato fin qui: fantastico!

Mentre ci sistemiamo e ci facciamo una doccia, iniziano ad arrivare un sacco di pellegrini conosciuti nell’ultima settimana. C’è ovviamente Beppe, nel frattempo raggiunto da Tim, Linda e Kiki. Ci sono Arnaud, Richard, Serge e i due ragazzi francesi che lo accompagnano. C’è anche Gideon, il danese, e pure lo yogi che mi aveva visto scivolare a terra sotto al fico.

Durante un momento di relax in camerata, assisto a una scena deliziosa: confermandosi sempre molto estroversa, Kiki si avvicina al letto di Amedeo e gli rivolge un tenero quanto inaspettato complimento. Lui però sta tutto accovacciato con le cuffie nelle orecchie e non sente nulla. Notando però i modi insolitamente dolci della ragazza, si toglie immediatamente gli auricolari ed esplode in un gran sorriso interrogativo. A quel punto lei ripete con ancor più convinzione che pur vedendolo spesso chiuso e un po’ imbronciato, quando sorride riesce sempre a colpirla. Amedeo arrossisce e ridacchia imbarazzato, senza sapere che altro dire, e lei semplicemente se ne va, con la stessa leggerezza con la quale era arrivata.
Ad ogni modo Kiki ha proprio ragione, e mi fa piacere che gliel’abbia detto.

Linda non è ancora guarita ma ha finito gli antinfiammatori che le avevo dato. Decido così di accompagnarla in farmacia, e ci insieme a noi vengono anche Beppe, Tim e la stessa Kiki. Prima di arrivare nel centro della bella cittadina, entriamo a dare un’occhiata a una prima chiesa lungo la strada, dedicata a Santa María del Camino.
In fondo alla navata, a un certo punto comincio a provare una sensazione piacevolissima e rilassante, che parte dai polpacci e mi immobilizza in uno stato di pace sorprendente. Ripenso ancora alla suggestioni della chiesa di Villalcazar: forse sto vivendo qualcosa di grande, di ultraterreno, di unico, come ci aveva descritto la guida, ma poi… Poi mi accorgo che poco più in là anche Beppe sta in piedi immobile proprio come me, con gli occhi chiusi e uno strano sorrisetto, e capisco che non ci sta succedendo niente di metafisico, ma sono solo gli effetti di un’insospettabile bocca d’aria calda nel pavimento. Peccato, sarebbe stata una ciliegina in più sulla torta di questo Cammino tanto originale.

Fuori dalla chiesa c’è una piazza rettangolare molto ordinata, con aiuole, panchine e una dozzina di tigli giovani e ben potati. Al centro, invece, sta una colonna culminante con una piccola statua tutta arrugginita della Vergine. La facciata della chiesa è spoglia ma elegante, e nel complesso la piazza dá esattamente la stessa impressione.

Arrivati nel centro del paese, ne troviamo una seconda: Plaza del Generalísimo Francisco Franco. È altrettanto curata, ma dall’aspetto più nobile. Vi si affacciano il palazzo comunale e una chiesa dedicata a Santiago, che purtroppo troviamo chiusa.

Sono quasi le sei del pomeriggio e gli ultimi raggi del sole riescono ancora a infuocare il tozzo campanile all’angolo. Incontriamo anche Tiziano e Amedeo, e tutti insieme decidiamo di fermarci a fare un bell’aperitivo al bar sotto i portici.

Quando ci alziamo per tornare in albergue, i lampioni a lanterna si sono già accesi e la luce del crepuscolo vira in magnifiche sfumature di lilla.
Faccio tappa ad un supermercato per fare un po’ di scorta per domani, mentre per la cena mi sembra di capire che usciremo a mangiare fuori tutti quanti. In realtà, dopo qualche minuto scopro di aver inteso male: ceneranno in qualche locanda solo i miei due compari liguri. La situazione mi prende alla sprovvista: mi scoccia girar le spalle alla coppia di amici, ma ho anche voglia di vivere una cena comunitaria vera e propria, come immagino siano quasi tutte quelle di un Cammino senza pandemia. Come se non bastasse, poi, vorrei tentare di giocarmi l’ultima chance con Linda. Senza pensarci troppo, quindi, rinuncio alla cenetta fuori e torno al supermarket per comprare vino e viveri per quella in albergue.

La cena in compagnia nella piccola cucina si trasforma subito in un’esperienza caciarona e divertente. La tavola è piena di mille cose, il vino scorre a volontà, molti diventano protagonisti di qualche momento di declamazione alcolica, mentre altri sorridono composti, scrivendo il proprio diario o sorseggiando una zuppetta vegana. Facciamo conoscenza anche di un signore di Granada più o meno coetaneo di Serge e Arnaud. Porta un gran cerotto sul setto nasale e il suo racconto parte dallo spiegarci la goffa caduta con la quale se l’è procurato. Inaspettatamente, però, preso il centro della scena, sembra non volerlo lasciare più. Parla e parla di mille cose, mentre tutti si scambiano occhiate di ilare insofferenza. Riguadagna la mia attenzione, però, quando dice di essere stato ospite ad una cena a casa del parroco di Hontanas. A quanto ci spiega, fu proprio quella in cui intervenne la Guardia Civil a sgomberare tutti. In effetti, era un’evidente aggregazione illecita in questi tempi pandemici. È una notizia di cui sono già a conoscenza grazie al passaparola tra pellegrini su Facebook, e mi è rimasta impressa per due motivi: il primo é che tratta di un luogo e una persona che due giorni fa hanno impreziosito non poco il mio personale cammino, e l’altra è che la segnalazione è arrivata proprio dalla controversa hostelera dell’Albergue Municipal, quello dove ho dormito.

Poco prima dello show del nostro commensale, avevo preso in disparte Linda e giocato le mie carte, incassando però un limpido e desolante due di picche. La serata nel frattempo si è rianimata, ma a me non è passato un certo magone, così saluto tutti e torno in camerata a sistemarmi per la notte.
Sorprendentemente, però, non sono l’unico come pensavo: nel letto di fianco al mio sta sdraiata una ragazza che ho la vaga sensazione di aver già visto, ma senza riuscire a capire dove. Ci presentiamo: si chiama Erika, è canadese, e in un battibaleno mi vien in mente dove ci eravamo incontrati: lei è quella che si riprendeva con il proprio telefono appena prima di Fromista! Si rivela una persona solare e per qualche minuto facciamo conoscenza molto piacevolmente. Peccato soltanto che io trasudi ancora un filo di malinconia per la scottatura presa poco prima, inquinando un po’ l’allegria del momento.

Per fortuna, irrompono improvvisamente nella scena Amedeo e Tiziano, stranamente euforici, cantando e ballicchiando come fosse il trenino di capodanno. Mentre ridiamo di quello spettacolo, ci annunciano che anche la Castilla y Leòn ha scelto di attivare un confinamento perimetrale entro un paio di giorni. L’infausta notizia si stempera però con dei rumors a nostro favore: sembra infatti che sarà concesso il lasciapassare ai pellegrini già presenti al suo interno.
La follia del buffo notiziario aiuta tutti a non far prevalere l’allarmismo. Sappiamo che per uscire dalla regione ci vogliono ancora quasi dieci giorni di cammino e tutto può succedere, ma l’atmosfera di festa di questa sera è qualcosa che vogliamo difendere coi denti nei nostri ricordi, così tralasciamo ogni tipo di preoccupazione spegniamo le luci stringendo con forza i nostri migliori presentimenti.

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Categorie:

Castilla y Leòn, Spagna
Info Racconto Extra
cammino di santiago - roberto pesenti

27/10 Hontanas – Fromista

(Vicus Hostel)
35km

Stanotte mi sono svegliato un paio di volte, e in entrambe le occasioni ho sentito ancora Serge russare molto, molto pesantemente. Come previsto, la vittima più colpita è stato Tiziano;  me lo confermano le imprecazioni con esplode al suonare delle sveglie. Inutile negare che il contrasto tra le sue occhiaie e la faccia riposata del francese ha anche qualcosa di divertente, ma mi guardo bene dal fare ironia sulla cosa. Se lo facessi in questo esatto istante, ho la netta sensazione che il mio compagno di cammino mi staccherebbe la testa con un morso.

La colazione non è male, sennonché il burro sia scaduto da secoli. Niente di grave, anche perché sono io l’unico ad averlo mangiato prima che ce ne accorgessimo, ma il mio stomaco ormai sembra capace di digerire qualsiasi cosa.
L’insolito hospitalero ci svela di essere anche un esperto pellegrino su diverse vie per Santiago e, ascoltando alcuni suoi brevi racconti, la cosa pare credibile. Scegliamo quindi di accettare il suo consiglio per la giornata di oggi, e rinunciamo a salire il primo tratto collinare dove, ci ha assicurato, troveremmo un sacco di fango. In effetti non varrebbe la pena impantanarsi tanto per rispettare quei pochissimi chilometri.

Salutati tutti, ci copriamo per bene e ci tuffiamo in questa mattinata gelida.
L’alternativa che abbiamo accettato è una semplicissima strada asfaltata che corre parallela alla traccia ufficiale, ma restando semplicemente in piano: un viale alberato piuttosto gradevole da percorrere, soprattutto grazie alle mille sfumature delle foglie ingiallite. La giornata è uggiosa e fredda, ma siamo carichi e la facilità di questo primo tratto aiuta anche Tiziano a riprendersi dalla pessima nottata.

Alla nostra destra sta la collina brulla su cui saremmo saliti senza il consiglio di Andrés. Osservandola, notiamo una sagoma nera e un po’ inquietante che cammina a mezza costa. Ci rendiamo presto conto di chi sia: è il buon Beppe! Probabilmente, essendo piuttosto affaticato da questo camminare quotidiano, ha iniziato ad adottare la stessa strategia di Zoe, anticipando la partenza per potersi fermare ogni volta che ne ha bisogno. Ho detto che mi ha un po’ spaventato perché, nonostante non piova, ha indosso una larga mantella completamente nera che copre anche lo zaino, e tiene pure il cappuccio alzato. Probabilmente lo aiuta con il freddo, e lo capisco, ma il risultato non può non ricordarmi il caro vecchio Igor del film Frankenstein Junior.
Ci incrociamo là dove la nostra via si unisce con quella originale, ma Beppe ha il proprio passo e, dopo i saluti di rito, ce ne distacchiamo rapidamente.

Dopo circa un’ora di cammino, incontriamo le suggestive rovine del Convento de San Antón. Sotto gli archi rimasti è stato mantenuto il passaggio della strada, permettendo ai pellegrini moderni di camminare sulle orme dei loro predecessori. La fascinazione è grande, ma il modo in cui è cinto il sito lo fa sembrare un cantiere, strappandogli un po’ della sua bellezza e del suo potere evocativo.

Continuiamo sulla strada asfaltata, attraversando una larga pianura coronata da colline distanti qualche chilometro. Al centro di quest’area, svetta un monticciolo sulla cui cima spuntano le rovine di un castello, mentre alla base del versante fa bella mostra di sé la cittadina di Castrojeriz. Come molti altri piccoli centri che abbiamo già incontrato, anche questo sembra svilupparsi attorno alla propria arteria principale, che altro non è che la storica via di passaggi dei pellegrini.

Per prima cosa andiamo a dare una svelta occhiata alla chiesa d Nuestra Señora del Manzano, massiccia e imponente, ma resa particolarmente elegante dal bel rosone e da un suggestivo portale a sesto acuto. Nonostante sia un luogo che meritava un passaggio, la verità è che siamo capitati qui un po’ per caso, uscendo dalla traccia ufficiale alla ricerca – rimasta delusa – di un bar aperto.

Attraversiamo Castrojeriz fino a Plaza Mayor, trovando finalmente un posto dove descansar un poco. Lungo la via incontriamo un’altra grande chiesa – chiusa, come la prima – e un paio di terrazze affacciate sulla pianura, con una vista panoramica modesta ma molto caratteristica. Devo ammettere che questa cittadina ha un patrimonio niente male. Il massimo sarebbe salire fino al castello, ma per questa volta è sano rinunciarci: anche oggi la distanza che abbiamo deciso di percorrere è troppa per potersi permettere gite fuori programma.

Al bar ce la prendiamo comoda, riempiendo lo stomaco con delle buone tortillas. Ci raggiungono e fanno lo stesso anche i tre francesi, seguiti poi da Beppe e Tim. Le altre del gruppo, invece, sembra siano rimaste indietro a causa dei problemi al piede di Linda. Quando decidiamo di ripartire, le due non sono ancora arrivate. La possibilità di non incontrarsi più è molto concreta, e mi dispiace. Decido quindi di lasciar partire Amedeo e Tiziano e tornare indietro, sperando di intercettare alla svelta le ragazze e salutarle.
Arrivo fino quasi all’inizio del paese e lì aspetto un po’, ma delle due non scorgo nemmeno le sagome in lontananza. Percorrere al contrario altri chilometri sarebbe davvero da pazzi. Senza rimpianti, torno quindi sui miei passi e comincio l’inseguimento ai due compari liguri.

Dopo una prima mezz’ora a passo spedito, superata Castrojeriz e attraversato un piccolo fiume, mi ritrovo ai piedi di un collina. È quasi completamente spoglia, tanto che si vede perfettamente il sentiero in ghiaia chiara che la sale diagonalmente. Secondo le mie informazioni, sono meno di 140m di dislivello ma sono già un po’ affaticato. Non avevo particolare voglia o bisogno di camminare da solo stamattina, e mi manca anche la propulsione speciale di quei momenti. Il grigiore della giornata a sua volta non aiuta granché, ma la tavolozza di colori di questo paesaggio resta comunque affascinante. Le tinte che ho davanti sono le mille varianti della terra – dall’ocra al terra di Siena naturale – mescolate a bruni di ogni tipo. Durante la salita, poi, incontro anche un paio di alberelli isolati pieni di foglie fiammeggianti.

La cima è occupata da una croce e un grande cippo. C’è anche una tettoia – elemento non così frequente – che son certo sia stata utile a molti pellegrini in condizioni meteorologiche peggiori di questa. Per vedere cosa mi aspetta oltre la piccola altura, devo prima superare due o trecento metri aridi e pianeggianti. Arrivato alla fine, però, il panorama è tra i più suggestivi del Cammino. Lo riconosco, tra l’altro: l’ho già visto in tante fotografie. Non molto diverso da quello che mi sono lasciato alle spalle, la pista davanti a me scende in dolci curve verso la campagna pianeggiante e nuda, ma non c’è colle che la interrompa stavolta, e sembra estendersi a perdita d’occhio. La luce del sole è smorzata da nuvole spesse, ma sono convinto che in una giornata limpida anche questi campi secchi splenderebbero dorati. Con rammarico, constato che non c’è traccia nemmeno in lontananza dei due amici che sto rincorrendo. Vedo solo un signore parcheggiare la sua auto prima della salita e mettersi a cercar funghi. Io non sono un esperto, ma mi pare così strano che se ne trovino da queste parti. Lui però è ottimista e di sicuro ne sa più di me.

Cammino nella landa desolata per una quarantina di minuti, finchè ad un tratto scorgo in lontananza la sagoma di un altro pellegrino solitario. Ha la mantella rossa come la mia, e diventa subito un riferimento utile per aiutarmi a mantenere il ritmo forsennato che mi sto imponenendo.
Chiamo Tiziano al telefono: stanno arrivando a Itero de la Vega e si fermeranno lì a pranzare. Il tentativo fallito di salutare Kiki e Linda mi è costato caro; pensavo di riagguantare i due compari in molto meno tempo. Pur già stanco, proseguo quindi a passo spedito, scorgendo qua e là all’orizzonte qualche paesino. Il percorso sembra ogni volta dirigercisi ma, quando già pregusto il ricongiungimento tanto sudato, immancabilmente devia altrove. Non riesco a credere che, in un territorio all’apparenza così facilmente leggibile, io faccia così fatica ad orientarmi!

Sono esausto, fisicamente e psicologicamente, ma per fortuna a un certo punto raggiungo un luogo segnalato sulle mie carte, l’Ermita di San Nicolás. Superato poi il l’antico Puente Fitero sul río Pisuerga, un grande mojon mi indica che ho lasciato la provincia di Burgos e sono entrato in quella di Palencia. Itero de la Vega è ormai a meno di due chilometri!

Probabilmente a causa dell’aver tanto atteso d’arrivarci, resto un po’ disorientato dal trovare un paese tanto spoglio. Le case, non certo nuove, sono tutte bianche o dei colori della terra. Non superano mai i due piani e attorno non c’è traccia di verde. Qua e là, sui marciapiedi bassisimi, qualche panchina isolata sembra accasciata addosso alle abitazioni, e vien da pensare siano gli unici punti d’aggregazione da queste parti.
Proprio su una di queste, fuori da un negozio di alimentari, ritrovo finalmente Tiziano e Amedeo. Seduti e beati, stanno pranzando al sole con un bocadillo de jamón serrano e della birra fresca. Tiro finalmente un sospiro di sollievo e mi unisco a loro con immenso piacere.

Nella calma piatta del villaggio, tra una risata e l’altra, ci domandiamo cosa possa significare vivere qui. Di certo per paesi come questo il passaggio stagionale di migliaia di pellegrini dev’essere un fenomeno portante, da ogni punto di vista. Si può solo immaginare cos’abbia rappresentato la brusca frenata di quest’anno: meno indotto, sicuramente, anche se non ho idea di quanto denaro resti ai piccoli comuni di passaggio lungo il Cammino. Più interessante sarebbe capire quale sia stato l’impatto sulla vita sociale del villaggio, ma non credo che riuscirò a scoprirlo oggi.

Sazi e riposati, riprendiamo infine la nostra marcia, tornando ben presto in aperta campagna. Camminiamo in direzione di alcuni colli bassissimi, che per più di un’ora restano l’unico riferimento utile a percepire il nostro avanzare.
L’unica eccezione è un piccolo agglomerato di case dall’aria particolarmente vecchia e logora, perso tra i campi a qualche centinaio di metri da noi. Sembra disabitato. Ha un che di misterioso e attraente, ma resterà nello stragonfio baule dei luoghi appena sfiorati.

A un certo punto, nel bel mezzo di un tratto più che anonimo, affidandomi a calcoli molto approssimativi, stabilisco di aver finalmente raggiunto i 2000 km di cammino! Così come dopo i primi mille, non ho con me niente da stappare, quindi ci limitiamo a scattare un selfie da pubblicare sul gruppo Facebook del Cammino a cui siamo iscritti io e Tiziano, nel quale da giorni e giorni ormai siamo conosciuti e sostenuti.
I nostri autoscatti alla fine di tappe estenuanti o confini superati sembrano piacere molto, e ogni volta è divertente spulciare tra i tantissimi commenti che vengono postati, qualsiasi sia la loro natura. Mi piace pensare che tanta attenzione derivi anche dal fatto che siamo un trio ben assortito, sia nei tratti somatici sia nel nostro coloratissimo vestire. Chissà, forse anche nella nicchia di persone che ci seguono si innescano dinamiche simili a quando si guarda un film o una serie con più protagonisti, dove ogni spettatore si affeziona o si immedesima un po’ in uno dei personaggi. È molto curioso per me fare questo tipo di esperienza sul web, perché non mi sono mai esposto molto oltre i miei contatti diretti. Mi fa un bell’effetto leggere commenti di gente sconosciuta che tifa per noi, che ci augura il meglio, che ci sprona. Ad ogni modo su Facebook continuo a sentirmi impacciato, infatti lascio quasi sempre fare a Tiziano, molto più portato ed esperto di me.

Qualche altro chilometro e arriviamo a Boadilla del Camino. Non so nulla nemmeno di questo posto, ma mi acconteterei di un baretto qualsiasi, giusto per riuscire a fare un brindisi con gli altri due “moschettieri”. Purtroppo non troviamo niente di aperto, e oltretutto il paese ci dà un’impressione talmente disordinata e lugubre da meritare il nostro personale premio come località più brutta attraversata fin qui. Sappiamo che certamente incidono il cielo copertissimo, l’annata nefasta e il fatto che ogni attività sia chiusa, ma…niente, non riusciamo a cambiare idea e continuiamo a riderne tra noi fino a quando ci siamo lasciati il villaggio alle spalle.
Ovviamente agli abitanti e ad ogni pellegrino auguro il piacere di cogliere tutta la bellezza che noi non abbiamo saputo riconoscere in Boadilla, o che forse ci è stata nascosta incredibilmente bene. Diciamo che sarà simpatico tornarci in futuro.

Venti minuti dopo sbuchiamo sulle rive del Canal de Castilla. Risale al XVIII sec. e camminarci a lato mi regala lo stesso piacere dei chilometri percorsi sul Canal du Midi. Mi piacciono questi corsi d’acqua piatti, che scorrono calmi nei loro letti perfettamente lineari, con il livello sempre costante a pochi centimetri dalla riva. Probabilmente soddisfano la parte di me maniaca del controllo e dell’ordine, chissà!

D’un tratto, ci rendiamo conto di non aver prenotato nulla per stanotte, nonostante ormai siamo quasi a Formista – la destinazione di oggi. Facciamo quindi un paio di chiamate, ma in entrambe riceviamo risposte inaspettatamente equivoche: sembrano arrampicarsi sugli specchi per non voler prendere la nostra prenotazione.
Addirittura un albergue, pur non dandoci disponibilità, ha il coraggio di insistere duramente perché li richiamiamo se trovassimo una camera libera altrove. Siamo allibiti. Per fortuna all’ennesima telefonata ci risponde una voce perfettamente serena e ci conferma senza problemi tre letti per la nottata. A questo punto dovremmo essere tranquilli, ma in realtà siamo incazzatissimi per come stiamo venendo trattati. Ci potremmo sbagliare, ma siamo sempre più convinti che sia una folle conseguenza dei fatti di cui ci ha parlato ieri Andrés.

Mentre ancora stiamo raccapezzandoci con queste telefonate assurde, un’altra cosa strana è l’incontro con la pellegrina dalla mantella rossa – sicuramente quella che ho visto quando ancora ero concentrato nel mio inseguimento mattutino. Ci sorpassa salutandoci cortesemente. Noi siamo cotti e corrucciati, mentre lei sembra l’incarnazione della leggerezza. Curiosamente, nessuno di noi l’ha mai vista prima. Pare strano a dirsi, ma dopo dieci giorni a spasso su questo Francès semivuoto, capita sempre più raramente di incontrare pellegrini che non si siano già conosciuti altrove. Che buffa sensazione!
Ma non è finita: arrivati alle chiuse del canale nei pressi di Fromista, veniamo smentiti una seconda volta, imbattendoci in un’altra pellegrina mai incrociata in precedenza. Sta seduta al bordo del percorso e parla verso il proprio telefono che tiene davanti a sé, fissato su un piccolo cavalletto. Sembra si stia riprendendo, forse per un blog. Dà le spalle al sentiero, quindi vediamo il suo volto piccolissimo solo dallo schermo dello smartphone. Non ci permettiamo di disturbare, e proseguiamo trattenendo la nostra curiosità.

Le quattro chiuse del canale mi rimandano a quelle famosissime di Fonseranes, che ebbi il piacere di scoprire quando passai da Béziers, in Occitania. Sembra trascorsa una vita, e quanti chilometri!
Calati nella routine quotidiana e straordinaria del viaggio, è dura mantenere la misura di quel che si sta facendo. Ci si deve affidare alla suggestione che ci danno le mappe, i nomi dei punti cruciali, il calendario, i conteggi. In certi casi potrebbe risultare noioso, ma se si soffia con maestria su quella brace di nomi e numeri, a volte si riesce a scatenare la fiamma dell’entusiasmo come non mai.

Attraversato il canale, cominciamo a inoltrarci nella periferia di Fromista. Lo scenario non è entusiasmante, nemmeno una volta arrivati in centro. Ad ogni modo, ci liberiamo rapidamente di quest’amarezza grazie alle tanto attese birre celebrative che ci scoliamo al primo bar aperto. Ai miei primi 2000 km!

Mentre poi raggiungiamo la pensione in cui dormiremo, notiamo la bellezza della chiesa romanica di San Martin de Tours. Disgraziatamente, sembra accentuare ancor di più la povertà del paesaggio urbano circostante. Ancora una volta, però, imploro me stesso di non cedere a facili stroncature. Ormai siamo diventati critici velenosissimi! Le birre ci avrebbero dovuto ammorbidire, ma evidentemente non sono state abbastanza, quindi decidiamo che stasera ci regaleremo anche una buona cena.

Raggiunto il Vicus Hostel, lo scopriamo essere una struttura ricettiva un po’ raffazzonata, una casupola in cui il proprietario ha ristretto al minimo i propri spazi privati per adibirla anche a luogo d’accoglienza pellegrina. C’è molto disordine, ma non ci scandalizziamo. Lui è estremamente gentile, i letti ci sono, il bagno pure: questo basta.
Alle pareti sono appesi svariati dipinti e disegni, e sull’unica mensola ci sono anche diversi libri d’arte. Dev’essere un appassionato, e la cosa non mi dispiace. Quando gli porgiamo le credenziali da timbrare, sorridendo ci chiede di lasciargliele. Dice che disegnerà lui qualcosa di unico per ciascuno. Benissimo! È una cosa insolita, ma ci piace.

Nella stanza ci sono due letti a castello, e la scelta dei posti è presto fatta, come al solito a discapito del  buon Amedeo. Io nel frattempo sento Linda per messaggi, per sapere come stia. Pare si siano fermati nientepopodimeno che a Boadilla! Le chiedo cosa mai possano aver trovato di buono laggiù, ma invece mi spiega che un albergue ha aperto solo per loro e dentro è bellissimo – ha addirittura la piscina! Questo cammino regala davvero continue sorprese.

Per la cena, il proprietario del nostro alloggio ci consiglia un ristorante vicino. Accettiamo, e per poco più di dieci euro facciamo una cena da re, straordinaria, che nei nostri cuori redime totalmente l’immagine di Fromista, regalandoci uno dei ricordi gastronomici più entusiasmanti di questi dieci giorni. Al tavolo di fianco, poi, ritroviamo la pellegrina solitaria dalla mantella rossa, con cui scambiamo quattro chiacchiere molto piacevoli che impreziosiscono ancor di più la serata.

Prima di andarcene, non ci facciamo mancare il nostro tradizionale bicchiere di orujo – anzi, oggi due! Fuori dal locale, infine, mentre fumiamo una sigaretta, sopraggiungono a sorpresa i tre francesi di ieri. Tiziano è ancora visibilmente infuriato con Serge, ma mantiene il controllo e tenta come meglio può di essere cordiale. Peccato, invece, che il gran russatore scelga paradossalmente di infilare un paio di battute al vetriolo, con un’arroganza che nessuno di noi si sarebbe mai aspettato. Per fortuna, una di queste la usa come commiato, altrimenti credo che la situazione avrebbe preso una brutta piega, anche per via di tutto quello che abbiamo bevuto stasera. Con l’aiuto soprattutto di un Amedeo in splendida forma, però, la strada del ritorno si trasforma in un momento incredibilmente esilarante, e gli effetti di vino e orujo tornano ad essere quelli desiderati.
Riusciamo addirittura a goderci il lato notturno di Fromista. Oltre alla chiesa vista oggi, infatti, ne scopriamo una seconda altrettanto bella, entrambe ben illuminate. Il buio della sera sembra riuscire a nascondere tutto il resto, lasciandoci di questo paese un ricordo inaspettatamente positivo.

Al nostro arrivo, troviamo il proprietario sveglio ad aspettarci. Ci accoglie con la stessa cortesia di qualche ora prima e, prima di darci la buonanotte, ci riconsegna le credenziali. Ringraziamo e saliamo in stanza con una grande voglia di scoprire cosa ci ha preparato. Quando le apriamo, l’orribile sorpresa: quelle che dovevano essere piccole opere d’arte si rivelano scarabocchi inguardabili, soprattutto quelli di Tiziano e Amedeo, che davvero non possono crederci. La naturale bellezza dei tipici passaporti pellegrini pieni di timbri colorati è ora rovinata da quei grandi ghirigori fatti a pennarello nero. Servirebbe un altro orujo o due per consolare i due amici, ma ormai la frittata è fatta. Cerco come posso di trattenere le risate mentre li ascolto sciorinare un infinto rosario di imprecazioni, che continua anche dopo aver spento le luci. Alla fine, però, ce la caviamo tornando a ridere di tutto quanto, godendoci in totale goliardia quei liberatori insulti agli assenti.

Per quanta riguarda domani, siamo estremamente tranquilli: dopo la gran tirata delle ultime tappe, ne abbiamo programmata una di soli 20 km. Il tempo dovrebbe farsi presto sereno, abbiamo già prenotato in un convento molto noto per l’accoglienza pellegrina e Tiziano ci ha anche anticipato che attraverseremo scenari ben più emozionanti di quelli di oggi. Cosa potremmo desiderare di più? Buenas noches!

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Castilla y Leòn, Spagna
Info Racconto Extra
cammino di santiago - roberto pesenti

26/10 Burgos – Hontanas

(Albergue Municipal)
32km

Oggi siamo tutti concordi nell’iniziare la giornata con una pennellata di buonumore, e cosa può regalrcelo a quest’ora se non una bella colazione al bar? Il posto lo avevamo già adeocchiato ieri pomeriggio, e ci avevamo visto giusto. Fa sia da caffetteria che da panetteria, e offre prodotti deliziosi. Non ci facciamo mancare nulla e veniamo pure serviti da una commessa incredibilmente gentile.

A proposito di colazioni, qui in Spagna pare ci sia un’abitudine molto particolare: i cornetti vengono serviti sempre su un piatto grande, con forchetta e coltello. La vista delle posate mi lascia ogni volta perplesso, ma ormai ho capito che sono fondamentali per non restare disastrosamente appiccicati alla glassa con cui questi dolci da forno vengono guarniti.
Se devo parlare da ex-barista, poi, letteralmente rabbrividisco pensando a quanti piatti e stoviglie è costretto a lavare ogni giorno chi lavora nelle caffetterie. Ricordo bene quanto era dura reggere il ritmo di certe mattine dietro il banco, per non parlare di quelle volte in cui la lavastoviglie si inceppava. Sudo freddo al solo pensare cosa succederebbe qui in un caso simile! Ma passiamo oltre.

Il cielo è ancora coperto e fa freschino. Alle 8:30 circa alziamo il sedere dalle sedie, salutiamo, e cominciamo a dirigerci verso la prima meta del giorno: il Mirador del Castillo. È una terrazza panoramica circolare, posta poco più in basso del castello di Burgos – o almeno di quello che ne rimane. Io e Amedeo non eravamo al corrente dell’esistenza di questo luogo, ma Tiziano lo riteneva imperdibile. Ora devo ammettere che aveva proprio ragione. Non troppo impegnativo da raggiungere, regala una vista unica sulla città. Oltretutto è molto vicino alla cattedrale, della quale permette di cogliere ancora meglio l’imponenza e la bellezza.

Al centro della terrazza sta una grande rosa dei venti, le cui frecce sono create con semplici ma eleganti intarsi marmorei. Lungo tutta la circonferenza sono incisi nomi di grandi città di tutto il mondo, e ovviamente ognuno è posto lungo la direzione esatta in cui la città si trova. Mi inebrio non poco scorgendo per primo il nome di Lima, città in cui vissi tre mesi tanti anni fa e nella quale promisi di tornare senza mai onorare l’impegno. Che sia un segno?

Mentre i ragazzi si godono ancora un po’ il panorama e scattano qualche foto, io salgo a visitare l’area del castello – chissà mai ci sia qualcosa di aperto. Purtroppo no, ma mi imbatto nel primo Cruceiro: un piccolo crocifisso in pietra posto in cima a un pilone della stesso materia. Se ricordo bene quello che avevo letto sulla mia guida, ne incontrerò molti lungo il Cammino, soprattutto in Galizia.

Conclusa la bella puntata, scendiamo e ci riagganciamo al tracciato di oggi passando dal quartiere San Pedro de la Fuente. Sono abbastanza convinto che non sia noto in ambito turistico e pellegrino perché, in effetti, non ha proprio nulla di particolare. A me però rimane comunque impresso. Attraversandolo per quei pochi minuti mi è sembrato fin da subito di sentirmi a mio agio: un luogo semplice e vitale, arioso, alla mano. Piccole sensazioni legate a chissà che, e di certo alimentate dalla sincera allegria di una fruttivendola dalla quale faccio qualche acquisto.
È già la seconda commessa che incontro oggi così affabile. Può sembrare un’esagerazione, ma per me essere trattato con questa accoglienza vale più di qualsiasi cappella affrescata. Proprio per questo esco dal negozio con un sorriso raggiante, mentre stringo il mio sacchetto di frutta fresca e corro a raggiungere Tiziano e Amedeo.

Arriviati ai curatissimi giardini che costeggiano il fiume, attraversiamo il Puente de Malatos. Da secoli è uno storico punto d’uscita dalla città e il suo nome richiama il fatto che una volta qui vicino c’erano un ospedale per lebbrosi e un altro solo per pellegrini.
Io non ho studiato la storia del Cammino, ma nella mia ignoranza continuo a stupirmi nel pensare al fatto che congregazioni di religiosi e di guerrieri, eremiti, re e regine, si occupassero – chi un modo, chi un in altro – di allestire questa via di passaggio, di difenderla, di arricchirla di servizi essenziali come questi ospedali.

Cosa voleva dire concretamente raggiungere a piedi Compostela in epoche passate? Ai giorni nostri è comune la constatazione di quanto non sia un’esperienza qualunque. Il tempo per come lo conosciamo e le priorità alle quali siamo solitamente assuefatti si sovvertono; ogni elemento affronta una grande trasformazione, scuotendo mente, anima e corpo. Ma un pellegrino medievale? Senza zaini ultra resistenti, telefono cellulare, mantella, scarponi tecnici, bancomat, e tutte le comodità che oggi sembrano irrinunciabili, che tipo di esperienza poteva vivere? Sono domande che mi danno le vertigini.

In questi stessi istanti passo davanti alla statua di Santo Domingo de la Calzada, di cui so molto poco, se non che votò gran parte della sua vita al Cammino stesso. Pare che addirittura progettò e costruì dei ponti – altro comfort che oggi diamo per scontato – ma che in passato sapeva stravolgere la geografia di un territorio in maniera radicale. Per questo motivo la mano scolpita del santo stringe degli strumenti di misura ingegneristici.

Proseguiamo lungo una pista pedonale a fianco della strada. Si chiama Paseo de la Universidad, perché attraversa il quartiere dove stanno alcune grandi facoltà. Tutto è ordinatissimo, con tanto verde ben tenuto contornato da edifici imponenti ma non soffocanti – alcuni più moderni, altri dalle facciate antiche.
Incontriamo ancora qualche statua bronzea – evidentemente tipicità di Burgos –  tutte di epoca recente. Lungo il viale, una di queste rappresenta una donna in carrozzina dall’espressione particolarmente fiera. Nei pressi di un secondo cruceiro, invece, un’altra meno originale raffigura un incrocio un po’ pacchiano tra un pellegrino del passato e Gesù Cristo.

L’uscita dalla città finora è davvero superba. Gli ultimi caseggiati che incontriamo sembrerebbero case popolari. Devono essere già parecchio datate, ma trasmettono un sereno senso di frugalità; mi ricordano il quartiere Garbatella di Roma.
La particolarità che più distingue quest’ultima area abitata di Burgos, però, è che sta di fronte a un grandissimo campo. Ricordo che avevo già visto una situazione simile entrando a Pamplona. Credo sia un innegabile privilegio vivere a un passo da città come queste e al contempo godere di tutto il respiro che regala la campagna.

Terminarto l’asfalto, prendiamo una larga pista ghiaiosa, lasciandoci definitivamente alle spalle ogni edificio. Nel giro di qualche chilometro, incontriamo ben quattro sottopassi che ci permettono di superare i grandi svincoli stradali fuori della città. Nel mentre, il cielo si apre un po’, regalandoci un azzurro stupendo e infondendoci slancio. Sento che è il momento di rituffarmi in una delle mie sgroppate solitarie, con buona pace dei miei due compari, che ormai spero si sarannno abituati al mio carattere spesso affamato di solitudine.

Mi fermo ad aspettarli solo una volta arrivato al paesino di Tardajos, dove trovo un bar ben soleggiato con posti fuori a sedere. Ad un tiro di schioppo, riconosco l’albergue che avevamo prenotato prima della soppressione della navetta e mi rendo conto che ci siamo dimenticati di disdire, mannaggia! Provvedo all’istante, sentendomi parechhio in colpa e sperando che questo non abbia compromesso parte delle già esigue entrate di questo periodo.

Nel frattempo, sopraggiungono prima Tiziano e poi Amedeo. Mentre ci rilassiamo un po’ con un aperitivo, veniamo raggiunti anche da Beppe, Linda e gli altri del gruppo. Chiediamo loro dove siano diretti oggi e ci rispondono a Hontanas, proprio presso l’albergue che ieri non ha mai risposto alle nostre chiamate. Pare che a loro, però, tutto sia filato liscio, così subito ritentiamo. Se ci fosse posto, potremo evitare di fermarci a Hornillos del Camino, ben dieci chilometri prima – troppi per noi.

Per una mia personale malizia dovuta ad alcuni dettagli delle chiamate fatte ieri, questa volta uso il telefono di un amico spagnolo. Effettivamente qualcuno ci risponde ma, immediatamente dopo che ho dato il mio nome per i tre letti, la linea stranamente cade. Richiamiamo, ma una strana vocina maschile ci dice che abbiamo sbagliato numero. Al momento resto stranito, mi scuso e metto giù, ma poi controllo: non era vero. Riprovo a chiamare, quindi, ma nessuno risponde più. Siamo infuriati e increduli, ma decidiamo comunque che oggi sarà proprio lì che andremo, e quel che sarà sarà.
Questa decisione da una parte ci riempie di felicità per essere tornati al programma iniziale, ma allo stesso tempo siamo comunque un po’ incazzati per il pessimo trattamento ricevuto. Non importa: il cielo si è fatto limpido e ci aspettano una decina di chilometri in più del previsto, non c’è tempo di mugugnare. Ci diamo quindi la carica lun l’altro e riprendiamo il cammino, salutando i ragazzi in attesa di festeggiare tutti insieme stasera.

Chiunque abbia intrapreso questo pellegrinaggio o abbia spulciato qualche guida, ha già nelle mente almeno una manciata di nomi di luoghi, regioni e città. Tra i tanti, in questi giorni ce n’è uno in particolare che sta risuonando sempre più frequentemente nei nostri discorsi: quel nome è mesetas. Quando – come me – sei un pellegrino novizio in terra spagnola, sentirne parlare evoca immagini da far west, qualche timore ragionevole e altri un po’ meno. Beh, si dà il fatto che oggi l’immaginazione comincerà a lasciare spazio alla realtà.
Non so se ci sia un inizio chiaro, una soglia evidente oltre la quale tutto cambi, e nemmeno se ne resterò stupito o deluso. Di certo sono molto curioso e per niente agitato; i pensieri d’altronde sono tanti, e la marcia prolungata fa sì che non diventino mai ossessivi. Eccomi sereno, quindi, forte di quanto già superato fin qui e pronto a fare conoscenza dell’ennesimo scenario per me totalmente inedito.

In compagnia di queste riflessioni attraversiamo con tutta calma Tardajos. Il paesino mi dà una strana sensazione, come di già visto, anche se in vita mia non sono mai stato qui e nemmeno in un posto simile. Forse mi richiama qualche film, oppure semplicemente possiede qualcosa di archetipico, direbbe qualcuno: degli elementi che la nostra memoria primitiva segnala di avere già nel proprio database. Chissà!
Camminiamo tra case basse e simili tra loro, coi loro muri di mattoni ocra chiaro e poco più. La chiesa mi affascina: giusto un po’ rialzata, massiccia, fatta di volumi squadrati, si sposa perfettamente con il resto. C’è una piazza con una grande aiuola al centro e qualche albero. Per la vie non si vede nessuno, ma l’impressione prevalente non è la desolazione, bensì l’ariositá. Riflettendoci, mi pare nasca dalle proprorzioni di tutto quanto: sembrano proprio azzeccate, quasi rilassanti.


Superato il centro, l’atmosfera cambia e passiamo in mezzo a qualche isolato di fattura decisamente recente, con normali villette a schiera. Mi fa piacere notare che perlomeno rispettino i colori visti prima. Forse hanno tentato di restare fedeli a un’identità comune, così come avevo già notato nei Paesi Baschi – soprattutto quelli francesi.

Oltrepassati anche questi quartieri, continuiamo su una strada asfaltata che attraversa grandi campi, ancora una volta occupati qua e là da pile di paglia dal fascino umilissimo. Superato un piccolo fiume, svoltiamo ai piedi di una collinetta totalmente spoglia e modellata a gradoni, tanto da assomigliare a una piramide Maya.
Poco dopo raggiungiamo Rabé de las Calzadas: un paese diverso ma al contempo molto simile al precedente. Una fontana dalle forme essenziali occupa il centro di una paizzetta, e sono certo sia stata una manna per migliaia di pellegrini. Le facciate e le strade mi danno un senso d’ordine che non mi dispiace affatto. Anche qui non incrociamo praticamente nessuno.

Il villaggio finisce poi all’improvviso, e d’un tratto ci si trova tra capanni agricoli. Sul lato corto di uno di questi campeggia una grande freccia gialla. Quello lungo, invece, è dominato da un murales raffigurante un trio singolare: Martin Luther King, Gandhi ed Albert Einstein. Poco oltre, una piccola chiesetta – l’Ermita Virgin del Monastero – e poi ancora capanni, nuovamente dipinti con decorazioni sgargianti.

Da qui in poi iniziano ad aprirsi scenari campestri spogli ma pieni di fascino. La pista ghiaiosa sale e si snoda lentamente al centro di una valletta dai poggi sinuosi. I campi ne frammentano in forme geometriche la superficie, e di quando in quando un albero solitario scandisce il nostro procedere.
È proprio qui che nasce in me un’intuizione pungente, e subito la condivido con Amedeo: “Ne usciremo cambiati”, gli sussurro. Ai posteri scoprire se sarà davvero un’esperienza così profonda.

L’incontro con questi luoghi sospesi riattiva in me il solito bisogno di solitudine. Comincio ad affondare passi con maggior vigore, mentre lo sguardo continua a girare tutt’attorno, famelico. Sono estasiato.
Di certo l’atmosfera è così straordinaria anche perché ci siamo solo noi. L’impressione è quella d’essere quasi predestinati a qualcosa che nemmeno sappiamo, ma che la via ci sta portando a scoprire.

Dopo tre quarti d’ora la salitella finisce, e mi trovo senza aspettarmelo su un altopiano completamente spoglio che si perde all’orizzonte. Non c’è davvero niente, solo campi aridi e sterminati. Già di per sé pazzesca, quest’estensione sembra amplificarsi ulteriormente grazie alle nuvole. Quelle che oggi occupano il cielo sono particolarmente grandi. Simili e distaccate tra loro in maniera inusualmente regolare: sembrano un plotone infinito di bambagia. Vedere queste file sempre più piccole perdersi in lontananza dá quasi le vertigini.
Il vento tira forte, creando un’inevitabile rimbombo nelle orecchie, ma senza riuscire a infastidirmi. In lontananza, ai miei lati, file e file di pale eoliche. Rarissimi alberi e qualche cippo con il solito quadrato blu e la conchiglia gialla spezzano questa orizzontalità quasi metafisica. “Siete sulla giusta strada”, sembrano pronunciare sorridendo. “Tutto questo è per voi”, gli fa dire ancora la mia immaginazione. Su uno di loro, un consumato scarpone da trekking fa bella mostra di sé, regalando poesia.

L’altopiano termina quasi bruscamente, affacciandosi su una valle larghissima che scende di un centinaio di metri. Dal ciglio, e nemmeno troppo in lontananza, posso vedere Hornillos del Camino. Il panorama è bellissimo, l’ennesima cartolina. La strada scivola giù per il pendío, una curva dopo l’altra, e percorrerla è un’emozione unica. Attorno, solo campi.
Arrivato in fondo, mi fermo e aspetto qualche minuto. Tiziano e Amedeo spuntano dalla soglia che ho da poco superato. Li vedo scendere con calma. Spontaneamente mi ci immedesimo e mi pare quasi di rivivere ogni passo. Immaginando che anche loro ora stiano provando qualcosa di straordinario, mi si stampa in faccia un gran sorriso che parla da sé e che ritrovo sulle loro facce quando ci riuniamo.

Proseguendo verso Hornillos, alcuni campi tornano verdi e in mezzo a questi le immancabili pile di paglia rettangolari. Attraversiamo il río Hormazuela e facciamo il nostro ingresso in paese, ancora una volta fascinoso e deserto. Notiamo varie insegne di attività legate al Cammino, ma pare tutto chiuso. Arriviamo al piccolo obelisco che sta sotto la chiesa. Sono le due del pomeriggio passate e iniziamo a sentire chiaramente i nostri stomaci brontolare. Ci intrufoliamo in un vicolo per appartarci a pranzare. Appena imboccato, notiamo l’albergue dove avevamo intenzione di fermarci quando avevamo escluso Hontanas. Ancora una volta ci siamo dimenticati di chiamare. Lo facciamo ora, con colpevole ritardo, senza il coraggio di confessare di essere proprio fuori dalla porta.

In fondo alla stradina a fondo chiuso troviamo da sedere comodamente, anche se proprio accanto ad un minuscolo cimitero, alle spalle della chiesa. Mentre componiamo i nostri super panini e cominciamo a divorarli, una donna abbastanza giovane esce dal camposanto vestita con abiti da lavoro; lo stava sistemando. I suoi tratti non sembrano spagnoli e ne abbiamo conferma quando la sentiamo scambiare due parole con qualcuno poco sotto. Ci viene da pensare che probabilmente sia una hospitalera voluntaria rimasta qui nonostante l’epidemia.
Ci rilassiamo di gusto, per più di mezz’ora. Mancano ancora più di due ore all’arrivo e di certo arriveremo molto stanchi, ma ho il presentimento che questa sarà una tappa memorabile, più di altre.

All’uscita del villaggio, restiamo sorpresi di incontrare Beppe, Tim, Kiki e Linda (Sergi non fa più parte del gruppo perché aveva solo pochi giorni di ferie a disposizione).
Si sono fermati da poco e stanno pranzando. Non li abbiamo sentiti passare e nemmeno loro si erano accorti di noi. Linda ha una caviglia infiammata ma non perde il suo sorriso, aiutata anche dall’inesauribile esuberanza di Kiki. Ci fermiamo con loro solo un paio di minuti e poi ritorniamo a camminare.

Saliamo per circa tre quarti d’ora, incuneandoci tra dolci colli. Sembra una replica più estesa di quanto già vissuto dopo Rabé de las Calzadas, e di nuovo riaffiora il solito desiderio di sentirmi splendidamente solo in questo ennesimo paradiso. Stavolta, però, lo realizzo al contrario, rallentando progressivamente e godendomi l’allontanarsi dei due compagni di viaggio.
Con un sorriso impossibile da trattenere, mi godo ogni cosa. Sembriamo pionieri in terre anocra disabitate, tre pacifici invasori. È un’emozione sconfinata.

Al termine di questo salire, ancora una volta torna a presentarsi ai nostri occhi un altro scenario tanto piatto ed esteso da sembrare irreale. Gli elementi sono quelli già descritti prima, ma le proporzioni sembrano incredibilmente ingigantite. La luce del sole che comincia a scendere, poi, rende tutto ancora più magico.Nel mezzo di questo palcoscenico senza platea, mi metto d’un tratto a cantare a squarciagola alcune delle mie canzoni preferite, col vento che rimbomba nelle orecchie, le lacrime agli occhi e scoppi di risa esplosivi, così come alcune volte già mi capitò di fare da solo qua e là per la Francia.

Dopo un tempo indefinito, sazio di questa totalità, il corpo mi segnala di avere ancora voglia di proiettarsi energicamente in avanti, e così comincio una giocosa rincorsa ai miei compagni.
Incontro per primo Tiziano, seduto a bordo del sentiero, con un’espressione felice e al contempo commossa; lo sguardo perso laggiù, in quell’orizzonte capace di sfamare l’anima. Non faccio altro che salutarlo con un tocco di mano sulla spalla e un sorriso muto ma eloquente, senza fermarmi.

In lontananza ora ho nel mirino il buon Amedeo, che eccezionalmente sembra aver messo una marcia di cui non si conosceva l’esistenza. Ci metto parecchio a raggiungerlo, scoppiando qualche volta a ridere tra me e me per quest’assurdo ma divertentissimo inseguimento. Una lieve discesa e la successiva salita spezzano il suo ritmo e mi permettono di raggiungerlo. Si accorge di me solo quando gli sono di fianco, immerso com’era nella musica che stava ascoltando in cuffia.

Personalemnte, ascoltare musica non è mai stato un mio bisogno durante questo lungo viaggio. Ugualmente, anche gli occhiali da sole sono un accessorio che ho smesso di usare quasi subito, ma per qualche motivo stanno ancora qui nel marsupio che ogni giorno porto in vita. Abbino musica e lenti oscurate perché percepisco entrambi come filtri fastidiosi che mi distaccano dall’ambiente tutt’attorno. Ma ognuno è fatto a suo modo…

Con Amedeo cominciamo a scambiare due parole, entrambi gonfi di meraviglia per la tappa di oggi. L’aver rallentato, però, ha cominciato anche a far affiorare più nitidamente la stanchezza.
Decidiamo di fermarci ad aspettare “il biondo” nei pressi dell’unico edificio incontrato in questi ultimi chilometri, una specie di casa affacciata su una cava. Un cartello indica che vendono degli snack, ma tutto è spento. Mi chiedo come si possa campare da un’attività simile, sperduta nel mezzo del niente, e magari ci abitano pure. Per un attimo immagino appartenga a qualche proprietario agricolo, poi però capisco che è un vero e proprio albergue. Quanta audacia occorre per avviare un’attività in un contesto simile?

Una volta raggiunti da Tiziano, ripartiamo con addosso tutti una gioia profonda e pacificante. Sappiamo che manca pochissimo, ma Hontanas ancora non si vede. Sembra la replica dell’esperienza vissuta con Belorado, anche se oggi siamo decisamente meno stanchi.
Poco dopo scopriamo il trucco: Hontanas sta affossata in una conca e la si può vedere solo all’ultimo momento, una volta arrivati sulla soglia. L’effetto è superlativo, sia per il morale che per gli occhi – peccato solo per un piccolo cantiere proprio all’entrata del villaggio. Scendiamo felici e incantati, ovviamente scattando qualche foto ricordo.

Arrivati alla chiesa, la scopro aperta e avviso i ragazzi di andare pure avanti mentre io do un’occhiata all’interno. Chiuso il portone dietro di me, ho subito la netta sensazione che qui raccoglierò ricordi importanti. Tutto è sobrio e luminoso, direi anche povero – e in un tempio questa per me è una caratteristiche estremamente positiva. Lo sfarzo in cui mi sono imbattuto spesso in terra spagnola si limita qui ad un piccolo abside, ma l’angolo più magnetico della chiesa sta subito alla mia sinistra: è uno spazio allestito quasi fosse un salottino. È posto di fronte ad un altare minimale alle cui spalle sta appeso un reticolo di grandi fotografie. Ritraggono e celebrano importanti testimoni del nostro tempo, e non solo. Riconosco Teresa di Calcutta e Frére Roger di Taizé, Martin Luther King e Charles de Foucault, Gandhi e San Francesco, uniti ad un’altra decina di persone di ogni continente, sesso ed età, delle quali non so nulla. Una cosa però li accomuna in modo lampante: la stessa umanità docile, decisa e generosa impressa sui volti di ciascuno.
A terra sono stesi un paio di tappeti, dei cuscini colorati e una ventina di bibbie scritte in altrettante lingue. Su un banchetto c’è un bricco con del the caldo e qualche biscotto. Su un altro, invece, sono poste delle ciotole piene di piccolissimi rotoli colorati: un foglio dice “pensieri positivi” e delle bandierine fanno intuire siano scritti in lingue differenti.
Rimango molto poco, ma leggo che ci sarà una messa alle 17:30, fra meno di mezz’ora. Decido che ci andrò.

L’albergue è distante pochi metri. Tiziano e Amedeo si stanno registrando, e non sembra gli sia stato posto alcun problema. La donna al banco, però, sembra piuttosto cupa e al suo fianco sta un uomo minuto di mezza età. Appena concluso anche con me, è lui che ci accompagna nella camerata al primo piano e ci dà le indicazioni per la cena di questa sera e la colazione di domani mattina.
Riconosco immediatamente la voce stranamente acuta sentita al telefono oggi; è lui che sosteneva avessi sbagliato numero. Per ora, però, decido sia saggio non dire niente. Ci avvisa che si cenerà addirittura alle 18:15. Subito facciamo presente che ci pare un orario veramente assurdo, e fortunatamente riusciamo a ottenere una proroga di almeno venti minuti. Appena se ne riscende, lascio le mie cose a terra e vado alla messa.

Ci siamo solo io, il prete e altre due persone. Nonostante ciò, scelgo di non avvicinarmi all’altare maggiore; preferisco restare seduto nell’angolo coi cuscini.
Dopo tanti mesi, sento nitidamente che questo è un momento irrinunciabile per tornare ad accogliere l’Eucaristia. Custodisco questo intento durante letture, salmi e omelia, che non fanno altro che rafforzarlo e sostenermi nella scelta. Vivo così un’esperienza molto intensa, particolarmente significativa per il mio pellegrinaggio da credente poco ortodosso.
Per mia sorpresa, prima della fine della cerimonia, il sacerdote mi chiama – “Ven, peregrino!” – e sull’altare mi mette al collo una piccola croce, prendendola da un contenitore che ne è pieno. Capisco che è un rito comune in questo luogo e lo vivo con sincera gratitudine.

Una volta uscito, vedo fuori dall’albergue Tiziano e Beppe che sorseggiano delle piccole bottiglie di birra e gassosa, l’unica cosa acquistabile per fare aperitivo. Comincia già a fare freschino e per oggi rinuncio alla doccia.
Oltre alla comitiva di amici, arrivano anche tre francesi, due giovani e uno più che cinquantenne. L’impressione è che tra noi e loro non scatti una gran sintonia, e qualche scambio di battute lo conferma.

Andrés – così si chiama il tizio minuto dalla voce acuta – pare sia restato l’unica figura di riferimento dell’albergue, e a furor di popolo riusciamo a convincerlo a ritardare ancora un po’ la cena.
Ci divertiamo parecchio tutti in gruppo allo stesso tavolo, a parte i tre francesi che siedono da soli a quello di fianco. Linda, nonostante partecipi allegramente, sta soffrendo ancora per la sua caviglia. Il dolore sembra non voler passare, tanto che è plausibile possa impedirle di proseguire. Decido di regalarle un blister di pastiglie di Voltaren, ma insistendo anche perchè vada a mettere il piede a bagno nell’acqua gelata, per disinfiammarla un po’ come avevamo fatto noi a Zubiri nel fiume.
Riuscito a convincerla, dopo la cena la accompagno ad una fontana poco distante. Soli sotto a una luna quasi piena, comincia a venirmi un batticuore simile a quelli adolescenziali. Inutile nasconderlo oltre: fin dal primo momento Linda mi ha scatenato una chimica irresistibile, e una parte delle mie premure erano sfacciatamente orientate a trovarmi proprio in una situazione simile. Purtroppo però  non riesco a cogliere l’attimo giusto per sfilarmi le vesti dell’amico apprensivo, finendo così per lasciarmi scappare un’occasione golosissima. Peccato.

In compenso, la cena si fa sempre più divertente, scorrendo tra grandi risate. Andrés ci serve bene, anche se si esibisce continuamente in battute e versi che più che rallegrarci ci lasciano perplessi. Lui sembra non accusare troppo il colpo e resta serissimo, continuando a inscenare le sue brevissime gag e tornandosene poi subito in cucina, come se fuggisse.
Le rare volte che riusciamo a trattenerlo, scopriamo che fa da anni l’hospitalero volontario, ma in realtà il suo lavoro è il clown in contesti di oncologia infantile. Questo non fa passare del tutto la nostra titubanza, ma ovviamente produce in noi più stima nei suoi confronti.

A un certo punto i cugini francesi si alzano e salgono in camerata, così pensiamo bene di accaparrarci in maniera molto genuina la bottiglia di vino che hanno lasciato quasi piena, pensando che tutto sommato era inclusa nel menù. Andrés, però, ci rimprovera aspramente. All’inizio cerchiamo di ammorbidirlo simpaticamente perché ci sembra veramente una piccola cosa, ma si mostra ostinatamente duro.
Essere ripresi in questo modo per una situazione così banale mi risveglia piano piano tutto ciò che avevo soffocato riguardo alla strana vicenda della prenotazione. Forse anche un po’ per il vino bevuto, quando arriva a toccare il tasto della correttezza cambio registro e ribatto con l’episodio della bugia che aveva recitato al telefono oggi con me. Lui nega assolutamente, ma poi rapidamente cede a una ritrattazione, arrivando a sostenere sia stato forse il compagno della gestrice. A quel punto sorprendentemente tenta un rilancio dichiarando che però l’uomo è un agente della Guardia Civil, e addirittura ci mostra un berretto che pare ufficiale. Rimane disarmato quando gli dico con semplicità che mi interessa poco, perchè sono certo che invece la voce fosse la sua, e di nessun altro. A quel punto cede del tutto, e quasi si addolcisce. Non sono stato molto elegante, ma è andata così.

Prima che tutti torniamo in camerata, sceglie poi di spiegare a me e pochi altri dove siano le vere radici del problema. Tutto sembra sia nato dal fatto che un paio di settimane prima, in un altro albergue, tre italiani che prenotarono anch’essi col nome Roberto abbiano fatto qualche danno e se ne siano andati impuniti. In questi casi, i gestori della regione fanno girare la notizia perché il fatto non si ripeta altrove. Gli rispondo che comprendo il discorso, ma mi pare ovvio che non siamo le stesse persone, soprattutto visto tutto il tempo che è passato. Questo fatto comunque mi rimane ben impresso.

La serata si conclude come al solito: ciascuno nella sua branda coi volti illuminati dalla luce azzurra dei cellulari – chi per abitudine, chi per programmare un po’ le tappe successive, chi per postare aggiornamenti sui propri social. Tiziano ed io facciamo parte di entrambe queste ultime categorie: lui ha il suo da fare su Facebook e Instagram, mentre io continuo a limitarmi agli stati su Whatsapp.
D’un tratto Serge, il francese meno giovane, comincia a russare come un carro armato. Amedeo ha il sonno talmente pesante che non mi preoccupo minimamente per lui. Riguardo a me, pur distante, mi infilo immediatamente i tappi per le orecchie che da anni porto in qualsiasi viaggio faccia, e spero tanto che anche Tiziano abbia i propri, perché gli sta proprio di fianco. Tanti auguri, amico mio!

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Castilla y Leòn, Spagna
Info Racconto Extra
cammino di santiago - roberto pesenti

25/10 Agés – Burgos

(Hontel Manjon)
23,5km

Suona la sveglia anche per questa decima domenica di viaggio, il mio settantesimo giorno di cammino: sono numeri che emozionano. Ci aspetta una tappa breve rispetto alle ultime, poco più di venti chilometri.

Purtroppo piove, anche se non eccessivamente, ma le previsioni sono crudeli: oggi non vedremo mai il sole, e l’acqua ci farà compagnia più o meno tutto il giorno. D’altronde sorella pioggia è perlopiù una benedizione, e chi si limita a lamentarsene è un frignone. Certo, per il camminatore è causa di disagi, però non ci siamo solo noi a questo mondo, e tutte le ore passate in mezzo alla natura aiutano a riconoscere questa verità elementare.
E poi, diciamoci la verità, come posso lamentarmi mentre sono dentro al sogno che ho tanto desiderato? Ci si lagna per abitudine, ma l’anima non è scema, e per fortuna in certi casi ci pensa lei a bussarmi in testa e ricordarmi la verità.

In queste prime ore, però, il pensiero più fastioso è un altro: il ricordo della faccia tosta del proprietario dell’albergue. Stamattina, infatti, non ha saputo rinunciare ad un odioso colpo di coda prima che ce ne andassimo. Dietro al banco del bar, mentre aspettava impassibile le nostre ordinazioni, ha ignorato sfacciatamente ogni pellegrino che gli ha chiesto i prezzi della colazione. Eravamo allibiti e abbiamo immediatamente capito che ci avrebbe presentato un conto impropriamente salato. Ovviamente sapevamo che si sarebbe parlato al massimo di pochi euro in più, così abbiamo tutti preferito evitare nervosismi. Ahimè, una volta alla cassa, il sottoscritto non si è dimostrato all’altezza del proposito e ha presentato una schietta lamentela.
Certamente mi resterà impressa a lungo nella memoria la faccia tosta con cui mi ha risposto, permettendosi pure di farci passare per fessi. In ogni caso, la conseguenza peggiore non sono certo quegli spicci, ma il fatto di esser riuscito a inquinare il nostro umore per tutte le prime ore della mattina – o almeno il mio.
Per fortuna il camminare ha un gran potere pacificante, e anche grazie all’inesauribile goliardia di Tiziano e Amedeo, il mio ribollire piano piano si smorza del tutto.

Raggiungiamo Atapuerca prima delle nove e, grazie a qualche cartello e ad una curiosa scultura, scopro che qui sono stati fatti ritrovamenti umani importantissimi, risalenti a centinaia di migliaia di anni fa.
Come molte altre volte, provo un certo dispiacere a non poter informarmi meglio. D’altro canto, ormai ho appreso che il cammino è un’esperienza molto più frenetica di quanto si possa pensare: i pochi chilometri orari del procedere senza mezzi bastano per sfiorare mille realtà differenti, segni della grande storia del mondo e dell’uomo, e al pellegrino curioso sono date poche occasioni per approfondire quanto vorrebbe.
È proprio il fluire ciò che più contraddistingue quest’avventura: si incontrano un’infinità di cose e persone, ma quotidianamente le si saluta per andare oltre. Fortunatamente già questo basta a riempirsi le tasche di meraviglia e di ottime lezioni, trovandosi comunque di frequente in uno stato di appagamento profondo.

Da Atapuerca si sale alla Cruz de Madera, posta in cima ad un colle dal quale già si riesce a scorgere la grande città che oggi ci aspetta.
Il luogo dove è piantata la croce è semplice e spoglio, come piace a me. Qualcuno a terra ha creato una spirale con dei sassi. Sarà per le suggestioni archeologiche in cui ci siamo appena imbattuti, ma la croce e la spirale sono segni primitivi fortissimi e per un attimo mi sembra di percepire dentro me una specie di riverbero ancestrale. Ancora una volta, però, tutto sfugge come brezza e già stiamo urlando di eccitazione scendendo verso Burgos.

La pioggerella della partenza è già finita. Lungo la discesa ci imbattiamo nel covone di paglia più grande visto fin qui. Ha le dimensioni di un capannone di piccole dimensioni e, pur nella sua povertà, emana un gran fascino. È sempre bello percepire come elementi umili come questo abbiano comunque una propria forza estetica: oggettivamente, sono capaci quasi da soli di rendere pittoresco anche il paesaggio più anonimo.

Tornati a camminare in piano, iniziamo ad intravedere davanti a noi il quartetto di cui fa parte Xavier, il ragazzo che ho conosciuto nella campagna dopo Logroño. Un centinaio di metri dietro di loro, notiamo anche un pellegrino incappucciato che non ci pare di aver mai visto. Mosso da infantile curiosità, accelero il passo per raggiungerlo, e con mia grande sorpresa scopro che è Leonardo, il pugliese conosciuto in albergue a Nájera. Impossibile ci abbia superati camminando, però, e infatti mi confessa di aver scavalcando qualche paese prendendo un autobus, a causa di problemi nel trovare alloggio. Mi fa piacere averlo ritrovato, ma mi accorgo subito che avrebbe piacere a continuare in solitudine, così lo saluto augurandogli il meglio.

La strada asfaltata serpeggia nella dolce pianura ondulata. Non succede niente di memorabile per l’ora successiva, e anche questa è parte essenziale del cammino. Dopo un paio di abitati anonimi, imbocchiamo una deviazione che dovrebbe farci evitare l’attraversamento di tutta la periferia di Burgos – nota per non essere esattamente gradevole.
Pur sviluppandosi nella campagna, l’area non eccelle in bellezza, anche perché il tracciato ci fa costeggiare buona parte del recinto aeroportuale. Ancora una volta, però, va benissimo così: tutti e tre preferiamo sassi e ghiaia all’asfalto, così come la pace di lande pur non superbe al grigiume di anonimi quartieri cittadini.

Il sentiero, in realtà, non dura poi molto. I piedi sulla strada ce li dobbiamo rimettere per attraversare la piccola Castañares, che non sembra né antica né caratteristica, ma regala comunque un’impressione di ordine e buona vivibilità. Oltretutto, proprio qui incontro il primo grande nido di cicogna sopra un campanile: è un’immagine immortalata più o meno in ogni guida, un’altra delle tante visioni particolarmente rappresentative del Camino Francés.

Poche decine di metri dopo, ricomicia a piovere, ma il malumore viene subito stemperato da una gradita sorpresa. Quando il paese già si conclude e ci avviciniamo al río Arlanzón – di cui seguiremo il corso – incrociamo un signore che da sotto il suo ombrello ci saluta cordialmente, spronandoci e indicandoci spontaneamente i chilometri per raggiungere Burgos.
Sono piccoli segni di solidarietà e partecipazione gratuita alla sfida che ci siamo scelti. Ci fanno sentire davvero ben accolti, e riescono addirittura ad accendere in noi energie nuove. Sorpresi ed entusiasti, ringraziamo per il graditissimo regalo e proseguiamo verso la meta agognata.

Lungo il fiume, comodi sentieri battuti ci guidano all’interno del Parque de Fuentes Blanca. In questa cornice, scelgo d’un tratto di partire in quarta. Forse è la pioggia a farmi quest’effetto, non sarebbe la prima volta. È una specie di risposta “aggressiva” al calore che toglie, al frastuono sotto il cappuccio, ma anche un modo di giocare con lei, di correrle addosso e divertirmici.
Incrociamo gente di tutti i tipi – a passeggio, di corsa, in gruppo, in coppia, da soli, giovani e vecchi. Siamo a due passi dalla città e questo dev’essere probabilmente uno dei luoghi dove la domenica mattina si va per svagarsi e cambiare aria.

A un certo punto, proprio alle porte di Burgos, la boscaglia un po’ selvatica lascia spazio a un’area spoglia e asfaltata, dove troviamo concentrata ancora più gente. Fermo la mia corsa, tiro il fiato e aspetto gli altri.
La città è dall’altra sponda del fiume, ma le piante alte e frondose che stanno sulle rive nasconodono la vista dei palazzi. Prima di attraversare, camminiamo ancora per un paio di chilometri lungo il Paseo de los Atletas – una pista d’asfalto che attraversa l’ultimo lembo di parco. La pavimentazione è praticamente nera, ma ricoperta da un’infinità di foglie giallissime: ricorda un po’ il dorso delle salamandre.

La tappa non è stata straordinaria e ci sentiamo tutti un po’ stanchi. Do ancora qualche colpo di reni solitario per sfottere la mia fiacchezza, fino a quando arriviamo al ponticciolo che ci conduce finalmente tra le vie del capoluogo.
I primi isolati non ci ripagano granché degli sforzi fatti, ma ci divertiamo a farci trascinare dallo sculettare di una ragazza lontana davanti a noi, di cui non conosceremo mai il viso ma che ci ha comunque ravvivato il buon umore.

Il primo vero assaggio dell’eleganza di Burgos ce lo regala Plaza de las Bernardas, dove molti dettagli danno l’immediata certezza di star per entrare nel centro storico della città. Ce lo conferma subito dopo l’ampia Plaza San Juan, dove un museo, un’antica chiesa e una biblioteca dall’architettura moderna compongono una scenografia pregiatissima.
Avanzando tra la gente che esce da messa, superiamo un altro piccolo ponte, stavolta sul río Vena. Sembra antico e i parapetti in pietra sono impreziositi da un paio di piccoli leoni rampanti, aggrappati a dei blasoni che mi incuriosiscono, ma di cui non riesco a scoprire nulla. Passati sotto l’arco di San Juan, proseguiamo lungo una stretta via con del pavè, la cui striscia centrale è scandita da conchiglie d’ottone incastonate. Siamo perfetti sconosciuti per chiunque, ma questi particolari ci fanno sentire protagonisti su una passerella trionfale fatta apposta per noi.

Tiziano ha trovato posto presso una pensione non lontana, ma condividiamo l’idea sia d’obbligo innanzitutto raggiungere la famigerata cattedrale, e proprio lì farci timbrare le credenziali. Ci arriviamo dalla parte posteriore, purtroppo semicoperta da un cantiere, ma grazie al cielo tutti gli altri lati sono liberi e ben visibili. È un edificio incredibilmente imponente, e soprattutto di straordinaria eleganza.
Siamo ancora fasciati nelle nostre tenute anti-pioggia e sinceramente stanchi, nonostante la distanza più breve del solito. Oltre che dall’acqua, però, sentiamo di essere bagnati anche dalla fortuna di aver potuto raggiungere in serenità il nostro traguardo, e questo ci rende oltremodo felici.

Mentre Tiziano si fa immortalare degnamente per il suo blog, io mi accorgo di una chiesa minore alle nostre spalle. Ormai disabituato a trovare portoni aperti, entro a dare un’occhiata veloce. È la Parrocchia di San Nicola di Bari, della quale non conosco né fama né storia, ma le decorazioni che trovo all’interno mi danno l’impressione di essere preziosissime e ben conservate.

Scendo poi coi ragazzi verso l’ingresso della Cattedrale, sognando di star per vedere qualcosa di sconvolgente. Purtroppo però facciamo l’amara scoperta che in questo periodo l’accesso è sì consentito, ma all’interno un’enorme parete in cartongesso ostruisce la vista ad ogni cosa. La sola eccezione è l’elegantissima cappella dedicata a Santa Lucia, dove attualmente vengono celebrate le funzioni.
Increduli, proviamo in qualche modo a imbucarci, ma veniamo immediatamente scoperti e rimandati indietro. Non ci resta che consegnare le nostre credenziali, ritirandole poco dopo arricchite di un nuovo suggello.

Resto a fissare la mia con grande orgoglio perché con quello di oggi ho riempito tutta la prima metà. Per via del lungo viaggio, questo per me è già il secondo “passaporto pellegrino” dalla partenza. A differenza del primo, però, ha gli spazi per i timbri distribuiti su due facciate anziché una sola. Purtroppo questo significa che quando appenderò le due credenziali, un lato della seconda rimarrà inevitabilmente nascosto. Sarebbe stato spettacolare vedere per intero tutta la carrellata di marchi colorati, da Bergamo fino a Santiago de Compostela – sempre che ci arrivi, ovviamente. Magari basterà fare una copia a colori del lato nascosto… Vabbé, ci penserò in futuro, è ancora presto per questi pensieri. Ora non resta altro che andare a scaricare il peso dei nostri zaini presso l’hostal, poco lontano da qui.

Le vie del centro sono sobrie ed eleganti. Gente ce n’è davvero poca, e d’altro canto dobbiamo accontentarci. Significa più sicurezza per la nostra salute, mettiamola così, ma allo stesso tempo porta con sé anche un po’ di amarezza. Immagino debba essere bello poter festeggiare la conclusione di tappa in una città grande come questa e in tempi meno severi; di certo si finirebbe a brindare con pellegrini mai conosciuti prima e con qualcuno del posto. Come già detto, è un rammarico a cui dobbiamo abituarci, ma questo non significa che dobbiamo rinunciare a celebrare le nostre gioie. Al contrario, ci impone di farlo per ogni minimo successo che riusciremo ad ottenere nonostante queste rigide condizioni, e infatti stasera usciremo a mangiare e bere come si deve. Ce lo meritiamo, e non vediamo l’ora.

L’hostal si trova vicino al Fiume Arlanzón. Il pavimento del corridoio è in moquette, cosa che apprezzo solo a casa dei miei genitori e che mi fa rabbrividire in ogni altro posto. Il quadro dietro al banco della reception rappresenta una gran mappa del Cammino Francese. Mentre un ragazzo registra il nostro arrivo, la guardiamo tutti e tre un po’ incantati, per poi scambiarci silenziosi sorrisi di sorpresa e orgoglio per quanto già percorso.
Per la gioia del buon Amedeo, questa volta non ci sono letti a castello. Pur trovandoci al piano alto di un palazzo, la vista dalla finestra non è un granchè e il cielo grigio non aiuta l’entusiasmo.

Le energie sono poche, ma i miei compagni di cammino hanno il solito rito da perpetuare, quello della cerveza di fine tappa. Come altre volte, mi scuso con loro per la mia attitudine più introversa, ma mi faccio immediatamente perdonare con un’offerta irrinunciabile: ho scoperto che a pochi isolati c’è una lavanderia a gettoni, e mi offro di portare a lavare e asciugare i vestiti di tutti e tre. Sarà anche l’occasione per attraversare qualche angolo di città a modo mio e di leggere un po’ mentre aspetto che i panni siano pronti.

Quando scendo, attraverso l’ennesimo ponte e mi godo l’elegante viale fiorito che costeggia il fiume. Qui mi imbatto anche in un museo dedicato all’Evoluzione Umana: è particolarmente grande e con alcune interessanti statue bronzee al suo esterno, ma ovviamente chiuso. In tempi di pace sanitaria, sarei di certo entrato a visitarlo, anche solo velocemente.

Il tempo in lavanderia non è di certo entusiasmante, ma riesce comunque a regalarmi un po’ di dignitoso relax. Ho la fortuna di trovare proprio lì di fianco un piccolo negozietto dove fare scorta di pane e affettati per tutto il gruppo.
Finiti tutti i cicli e fatta la spesa, rientro poi nel centro storico passando da una maestosa porta in marmo. Comincio a girare a zonzo, senza mappe, solo a fiuto. La città è indiscutibilmente bella, ma un po’ troppo composta per i miei gusti. Non ho dubbi, però: prima della pandemia sono certo che il suo volto era molto diverso. È facile immaginarsi tutti questi locali aperti, soprattutto la sera, e le vie intasate di gente festante. Credo di non sbagliarmi.

D’improvviso ricomincia a piovere a dirotto, ma per fortuna sono stato prudente e ho portato con me la mantella. Una volta in stanza, ritrovo Tiziano e Amedeo che dormono profondamente. Quando infine si svegliano, decidiamo di prenotare insieme l’alloggio di domani, a Hontanas.
Nonostante siamo certi che l’albergue che stiamo chiamando sia aperto, nessuno risponde se non la segreteria. Lasciamo un messaggio, ma scegliamo comunque di mettere le mani avanti e prenotiamo al paese precedente. Non lo facciamo di buona voglia, però, perché ci sono quasi 10 km di differenza tra i due e questo scombussolerebbe parecchio i nostripiani.

Ora, comunque, non ci resta che trovare un buon posto dove cenare. Mi prendo la responsabilità della scelta e parto con la classica ricerca incrociata tra le recensioni sul web. Provo anche a scrivere a Linda, scoprendo che pure loro sono in città, ma presso un ostello dove dice ci siano anche altri pellegrini. Mi sembrava che Tiziano mi avesse detto non ci fossero ostelli aperti. Mi sarebbe piaciuto stare ancora tutti insieme, ma ormai lo capisco. Più di una volta mi ha spiegato di aver già vissuto l’esperienza delle camerate condivise nei cammini passati, e per quest’anno ha chiarito fin dall’inizio di preferire qualcosa di più riservato. I prezzi delle due soluzioni non si discostano granché e ci sono certo alcuni vantaggi, ma vengono inevitabilmente a mancare molte occasioni di conoscenza e convivialità. Ad ogni modo non ho troppo da lamentarmi, in fondo sono io che scelgo di affidarmi a lui. Dopo la gran fatica fatta innumerevoli volte in Francia per trovare un alloggio, l’esserne dispensato in questi giorni è un sollievo che ho bisogno di godermi ancora un po’.

Per fortuna, comunque, almeno il locale trovato su internet si dimostra più che all’altezza dei bisogni di tutti e tre. Ci godiamo una gran cena, bagnata da una bottiglia di rosso de La Rioja che rievoca i freschi ricordi di quei vigneti già lontanissimi dietro di noi.
Graziati da una serata fredda ma non piovosa, passeggiamo poi tra le vie semideserte del centro. Ovviamente, appena trovato un baretto aperto, non ci facciamo mancare anche un paio di orujo a testa, che ci scaldano per bene e ci fanno tornare alla pensione felicemente storti.

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Castilla y Leòn, Spagna
Info Racconto Extra
cammino di santiago - roberto pesenti

24/10 Belorado – Agès

(Albergue Fagus)
30km

Esser riusciti a entrare in Castilla y Leòn è stato un gran sollievo, ma sappiamo bene che non è finita qui. L’ennesima ondata pandemica sta producendo confinamenti territoriali a catena. In Navarra ce la siamo cavata saltando un paio di tappe, le piccole dimensioni de La Rioja ci hanno permesso di superarla in un paio di giorni, ma la regione in cui ci troviamo ora è davvero troppo grande per pensare di farla franca così facilmente. Nel caso in cui decretassero a breve un’altra chiusura, rischieremmo di dover saltare come minimo una decina di tappe.

È una prospettiva già presa in considerazione da ognuno dei pellegrini di quest’ultima carovana diretta a Santiago. C’è chi non accetterebbe una mutilazione simile del percorso; qualcuno invece non si farebbe grossi problemi, e prenderebbe di nuovo i mezzi per proseguire direttamente in Galizia – sempre che non chiudano contemporaneamente anche quella. A qualcun’altro ho sentito dire che tenterebbe di continuare comunque a piedi, sfidando le regolamentazioni straordinarie con la convinzione che la Guardia Civil non starebbe a perder tempo con un piccolo manipolo di viandanti.
Per quanto mi riguarda, sarebbe lacerante abbandonare questa piccola grande impresa proprio ora, ma non sono più disposto a proseguire se non coi miei passi, e allo stesso tempo non sono così convinto che al pellegrino spettino più diritti che a un cittadino qualsiasi, soprattutto in una situazione tanto complicata come questa.
Insomma, i pensieri sono tanti. Non sono ancora vere preoccupazioni, ma so che potrebbero diventarlo.

Le informazioni che abbiamo attualmente dicono che in Castilla y Leòn sono già attivi importanti confinamenti interni, quelli delle due maggiori città: Leòn e Burgos, il capoluogo.
Riguardo alla prima, fingiamo di non pensarci nemmeno. Come minimo manca ancora una settimana prima che ci possiamo arrivare a piedi, ed è evidente che in questo tempo può succedere di tutto. Burgos, invece, dista una cinquantina di chilometri abbondanti, che per noi equivalgono a un paio di giorni di cammino. Essendo ufficialmente vietato entrarvi, però, sono stati istituiti degli autobus appositamente per i pellegrini: partono da Atapuerca (a 35 km da qui) e portano oltre il capoluogo.

Per quanto mi riguarda, è un’ipotesi che non voglio minimamente prendere in considerazione, tanto che già ieri sera mi sono messo a cercare gli allogi più disparati tutt’attorno alla città. Mi è già capitato di camminare fuori traccia, e la cosa mi risulta tutt’altro che spaventosa.
Tiziano, invece, nei suoi precedenti cammini si è talemente innamorato delle cattedrali di Burgos e Leòn che ha un desiderio ostinato di tornare ai loro piedi.
Forte della sua ampia rete di contatti, vaglia ogni spiraglio e raccoglie tutte le testimonianze possibili di chi – davanti a noi di una o più tappe – può darci consigli preziosi. È proprio grazie alle sue ricerche scopriamo che in maniera non ufficiale è concesso ai pellegrini l’attraversamento della città, ma a condizione di non pernottarvi. Era la notizia che aspettavamo! Non ci resta altro che organizzarci.

L’obiettivo di oggi è quello di avvicinarci il più possibile ai confini orientali del capoluogo, e rassegnarci poi a un’altra tappa disumana domani. I primi alloggi disponibili oltre Burgos, infatti, sono talemente lontani che ci costringeranno a replicare i quaranta e passa chilometri del giorno passato. L’idea un po’ ci spaventa: sappiamo che possiamo farcela, ma è chiaro che ne usciremo sfiancati, e senza grandi possibilità di rallentare nemmeno in seguito.

Amedeo sembra quello che più di tutti sta soffrendo questo genere di distanze e di ritmi, ma come dargli torto? D’altronde gli mancano sia l’esperienza trascinante di Tiziano, sia un fisico ormai ben rodato, di chi cammina già da più di undici settimane. Purtroppo per lui, o per fortuna – ce lo dirà il Cammino – il legame inscindibile con l’amico lo trattiene da qualsiasi idea di separazione.

Ad ogni modo lo sappiamo bene, tutte queste sono ben lontane dall’essere delle tragedie. Fatichiamo, sì, ma ammettiamo costantemente di esser comunque dei privilegiati che stanno scegliendo tra opzioni tutte positive. La verità meno espressa è che in fondo questa dimensione quasi epica a cui ci costringe la pandemia ci sta anche un po’ appassionando.

Nonostante lo spettro del lungo chilometraggio, partiamo comunque piuttosto tardi, quasi alle 8:30. Il cielo fa da palcoscenico a qualche  strappo di nuvola che danza il proprio lento, mentre altre più pigre stanno appollaiate sull’orizzonte a nasconderci per dispetto il sole che sorge.
Io sono riuscito anche oggi a ritagliarmi un tempo per la mia colazione fai da te. Amedeo e Tiziano, invece, non vogliono altro che un bar, e stavolta sono usciti addirittura prima del sottoscritto. Purtroppo, però, trovano tutto ancora chiuso, inaugurando la giornata in modo molto diverso da come speravano.

Dopo un paio di chilometri siamo già in piena campagna. Camminiamo su una pista di ghiaia che solca un quieto mare di colline. Come ieri, i campi sono per lo più aridi, e quelli che fanno eccezione sono coperti da una moquette verdolina d’erba giovane. Qua e là si vedono alberi, qualche arbusto, e in lontananza alcuni boschi.
Respiriamo pace e ampiezza, ingredienti ideali per goderci la nostra lenta e inesorabile marcia. Diventano una maledizione solo quando si ha bisogno di luoghi dove poter riempire lo stomaco, e nei casi peggiori la desolazione può farsi davvero atroce.

Il primo paese lo incontriamo dopo più di un’ora: si chiama Tosantos, ma non c’è niente di aperto per fare uno spuntino. I miei compagni sono ancora a digiuno e cominciano a preoccuparsi seriamente. Anch’io vado parecchio in sofferenza la mattina se non faccio colazione e spuntini vari, però ho anche imparato che la paura di non trovare niente per ore sembra amplificare la fame.

Sento i due cominciare a rimbalzarsi lamenti e maledizioni. Ne nascono siparietti esilaranti – o almeno questo è l’effetto che fanno a me – ma tento di trattenere le risate per non aumentare l’esasperazione.
Grazie al cielo, separandoci tra le viuzze del paese successivo – Villambistia – uno di noi scova finalmente un piccolo bar aperto e richiama gli altri come se avesse trovato una miniera d’oro. Ormai sono già quasi le dieci. Ci raduniamo con sollievo impagabile attorno a un tavolo interno, sotto gli occhi divertiti di qualche vecchio abitante del posto, lì a bere un cicchetto.
Alle spalle del barista, una lista di golosità scatena ancor di più la fame accumulata, e ognuno si regala qualche stuzzicheria. Si aggiungono poi, uno alla volta, anche gli amici pellegrini conosciuti ieri sera e partiti poco dopo di noi. Alla fine il bar arriva a riempirsi senza troppo riguardo per le precauzioni dovute al periodo, ma nessuno sembra badarci.

Conclusa l’indispensabile pausa di rifornimento e rinvigoriti per bene, ci si rimette tutti in marcia, salutando con gratitudine il simpatico proprietario e il resto della rappresentanza locale.
I chilometri immediatamente successivi li spendo con Tim, il ragazzo austriaco di origini indiane. A dispetto di un’apparenza piuttosto composta e riservata, si dimostra una persona allegra ed espansiva, oltre che particolarmente in gamba. Ascoltarlo è un piacere, ma dopo Espinosa del Camino esprimo al mio estemporaneo compagno il bisogno di isolarmi un po’. Nonostante me ne esca con questa richiesta da un momento all’altro, lui non batte ciglio e la accoglie con la stessa simpatia dimostrata fin qui.

Riflettendoci, mi rendo conto che questa mia esigenza aumenta di portata quando parlo inglese troppo tempo. Me la cavo ottimamente, ma allo stesso tempo ho imparato a conoscere le mie lacune peggiori. A partire da queste, succede che mi ingolfo sempre più man mano che le conversazioni procedono, fino al punto in cui il mio cervello getta la spugna sfinito. La mia autonomia sembra aumentare in base a quanto l’interlocutore mi metta a mio agio, ma la dinamica rimane più o meno sempre questa.

Tiziano e Amedeo, nel frattempo, ci avevano distaccati di due o trecento metri. Pur con passo sostenuto; li raggiungo solo quando si fermano a fare pausa fuori da un bar a Villafranca Montes de Oca. Ormai è quasi mezzogiorno: l’orario perfetto per una birra con qualche tapas. Qui assaggio per la prima volta la morcilla, un insaccato locale simile al nostro sanguinaccio.
Con l’arrivo scaglionato di tutti gli altri, la corona di sedie si allarga e la compagnia si ricompone. L’unica che manca all’appello è Linda, di cui si sono perse le tracce chilometri addietro. Al suo arrivo, ci spiega che ha tentato di raggiungere l’Ermita de Nuestra Señora de la Peña, consigliato in effetti da ogni guida come luogo importante per la storia del Cammino. In effetti, tutti noi l’abbiamo palesemente snobbato, trascinati altrove da una fame comune che oggi sembra senza fondo.

Mentre la combriccola pare sempre più a suo agio, io comincio invece a sentire i piedi che fremono e scelgo di partire, ancora una volta in solitaria. Saluto il gruppo, lasciando qualcuno perplesso e molti allegramente indifferenti. Dopo una sola curva inizia la salita verso i Montes de Oca, e già so che il tragitto avrà il suo culmine presso l’Alto de la Pedraja, intorno ai 1130 m d’altitudine. Sembrerebbe una gran cifra, se non fosse che oggi siamo partiti da circa 800 m.

Anche se con diversi saliscendi, quello su cui salgo è in sostanza un altopiano. Si cammina per lo più seguendo un largo sentiero ghiaioso e su entrambi i lati grandissimi boschi. Ci cammino per una decina di chilometri e l’impressione è quella di una specie di limbo, una scenografia monotona e ripetitiva. Mi resta giusto il ricordo della boscaglia ingiallita qua e là dall’autunno e quello di un cielo che torna a chiudersi tra nuvole spesse.

Unico fatto rilevante è che nel mezzo della traversata mi riunisco con i miei due affezionati compari. Proprio insieme e grazie a loro, riceviamo novità su Burgos: è stata sospesa la navetta che la attraversa perché le misure di sicurezza sono state modificate, ed ora ai pellegrini è concesso il pernottamento. Ovviamente i nostri programmi cambiano all’istante, e il capoluogo castigliano diventa immediatamente la nuova meta della tappa di domani.
Per quanto riguarda oggi, invece, cominciamo a cercare quale tra i pochi albergues aperti potrebbe fare al caso nostro. Questo Camino Francés in piena pandemia, infatti, è radicalmente più spoglio rispetto ad un’annata normale e costringe a prenotare ogni volta in anticipo: siamo talmente pochi sulla via che senza reservas gli albergues non aprono nemmeno. Ne troviamo uno papabile ad Agés, il paese prima di Atapuerca. Per telefono il gestore ci avvisa che non ci sono negozi aperti in paese, di nessun tipo, ma potremo tranquillamente cenare e fare colazione da lui. Andata!

Felici e sollevati, continuiamo ancora per qualche chilometro la nostra immersione nel silenzio della natura, arrivando infine alle porte di San Juan de Ortega e del suo monastero. Veniamo nel frattempo raggiunti da Richard, che oggi sta letteralmente correndo. Rallenta giusto vicino al paese, e in quella frazione io e Tiziano – già perplessi -notiamo che i suoi movimenti sono nitidamente scomposti, come se stesse sopportando qualche dolore. Lui sfoggia comunque il suo sorriso ormai proverbiale, che però si spegne quando gli proproniamo di fare attenzione nel sovraccaricare troppo le articolazioni. Un attimo dopo, mi rendo conto che forse ci siamo trasformati per un istante in qualcosa a cavallo tra due zie amorevoli e degli iettatori della peggiore specie, ma me lo tengo per me e ci rido solo un po’ da solo.

Prima di arrivare al monastero, deviamo nel caratteristico Descanso de San Juan. Mentre recuperiamo un po’ di energie e di calore con una buona merenda di fianco alla stufa, cominciamo a consultare gli alloggi disponibili per Burgos. Nel frattempo il bar viene letteralmente invaso dai pellegrini che avevamo alle spalle, tra i quali Arnaud, Matteo e Marta. Devo ammettere che anche un incallito amante delle traversate solitarie come me non può che essere contento di queste rimpatriate non programmate che spezzano e colorano le tappe.

Penso poi a ciò che forse vivrò solo in futuro, e cioè un Cammino senza Covid, stracolmo di persone da tutto il mondo, di chiese, bar e albergues aperti,  tanti brindisi e tavolate affollate e caciarone. Nei racconti di chi ne ha vissuto uno, o più d’uno, imparo che non è però tutto oro quello che luccica. Mi descrivono piccoli grandi fastidi che quest’anno non esistono minimamente, o sono totalemente stravolti. È l’ennesima conferma che stiamo vivendo un’esperienza unica, degna di essere gustata senza inutili rammarichi.

Dopo aver salutato tutti ancora una volta con un caloroso “Buen Camino!”, andiamo a prenderci gli ultimi tre chilometri. Attraversiamo inizialmente qualche bosco, poi si apre davanti a noi una radura oltre la quale si scende verso la nostra meta, Agés. L’alloggio si trova proprio all’accesso del villaggio, ma scegliamo di superarlo e far prima due passi per dare un’occhiata in giro. Al primo crocevia troviamo un’aiuola allestita con un tavolo da picnic e una grande macina di pietra conficcata a terra. Un’originale insegna indica il nome del posto e la distanza che ci divide da Santiago. Dice manchino 518 km: incredibile la velocità con la quale questa esperienza stia scorrendo via!

Mentre facciamo qualche fotografia, un uomo si affaccia dalla propria finestra e ci domanda dove alloggeremo. Dice di essere il proprietario dell’unico negozio di alimentari, ma ci spiega che in questo periodo sta tenendo chiuso per assistere la moglie malata. Istintivamente mi dà l’impressione che voglia comunque tentare di venderci qualcosa. Non mi dispiacerebbe far scorta di qualche spuntino per domani, ma quando glielo chiedo esplicitamente conferma che proprio non può. Evidentemente aveva davvero solo voglia di fare due parole con noi.

Torniamo quindi sui nostri passi e ci presentiamo in albergue. L’uomo che ci accoglie ha uno strano atteggiamento sornione, e fin da subito sembra più furbo che simpatico. Ce ne danno subito conferma i prezzi che applica a qualsiasi cosa, non certo allineati a quelli incontrati fin qui in strutture simili. Sarà di certo un periodaccio anche per loro, ma il fastidioso umorismo con cui addirittura ci schernisce fa pensare che sia solo un gran volpone.
Come a Zubiri, abbiamo preso una stanza con due letti a castello, e il povero Amedeo è vittima ancora una volta di un velato nonnismo da parte di me e Tiziano, che per la seconda volta ci accaparriamo impunemente i letti di sotto.

Mentre i due amici si sistemano, trovo il tempo per chiamare per la prima volta Valerio, un pellegrino italiano che come me è partito da casa per raggiungere Santiago. Si trova a Saint-Jean-Pied-de-Port all’albergue di Patrizia, la quale gli ha dato il mio numero sperando potessi essergli utile in qualche modo.
Fin da subito capisco di avere a che fare con un ragazzo in gamba e incredibilmente entusiasta. Mi spiega che ha formato un piccolo nucleo di audaci pellegrini assieme ad alcuni ragazzi stranieri, partiti a loro volta da lontano e trovatisi lì proprio come noi tre. Purtroppo non posso che confermar loro le difficoltà a cui stanno per andare incontro e il fatto che non sono certo bazzecole – basti pensare alla chiusura di Roncisvalle, o al confinamento della Navarra e della Rioja. Per ovvia conseguenza, poi, praticamente tutte le strutture ricettive lungo il cammino sono ormai chiuse in quel primo terzo di Spagna.

La risposta di Valerio mi sorprende, anche se qualcosa mi aveva già fatto intuire come avrebbe reagito. Mi spiega che sono pronti a pronti a dormire nei fienili o dove capita e ad affidarsi alla generosità della gente. Oltretutto, se il Francés si dimostrerà inaccessibile, hanno già programmato di cambiare rotta e imboccare il Camino del Norte.
Una parte di me vorrebbe solo augurargli il meglio e urlare d’entusiasmo per la loro sfrontatezza, ma scelgo invece di concludere come ho iniziato, riflettendo ancora insieme a lui sulla situazione concreta a cui stanno andando incontro. Il Camino del Norte è meno battuto, infatti, e trovare alloggio potrebbe essere ancora più complicato. Nemmeno questo però sembra intaccare il suo ottimismo.
A questo punto davvero non mi resta che felicitarmi con loro per il coraggio e lo slancio vitale, augurandogli le migliori fortune. È stata una piccola grande emozione poter esser interlocutore minimamente utile a un pellegrino che sta alle mie spalle, esattamente come già lo fu Danilo nei miei confronti.

Dopo essermi dato una sistemata anch’io, scendo nella sala al pianterreno. Qui mi unisco ad Amedeo e Tiziano nella riprogrammazione delle prossime tappe, scoprendo che nel frattempo sono arrivati a sorpresa anche gli amici conosciuti ieri sera: Beppe, Linda, Tim, Kiki e Sergi.

Arriva presto l’ora di cena, e nella piccola sala i nostri due tavoli sono abbastanza animati per creare un clima piuttosto divertente. Il cibo non è male, ma le porzioni sono davvero povere per quello che ci viene fatto pagare. Ad ogni modo, non avevamo scelta. Non ci resta che consolarci con uno shot di orujo – un distillato di bucce d’uva, “cugino” della nostra grappa. Basta quel sorso per mandarci tutti a nanna a mente leggera.

Domani sarà il turno della grande Burgos. Tiziano non sta nella pelle; Amedeo è cotto, ma le sue continue lamentele e i finti battibecchi con l’amico sono esilaranti.
Sono contento. La strada per Santiago è ancora lunga e incerta, ma è già un mezzo miracolo essere qui e avere ancora la possibilità di continuare. Oltretutto domani sarà addirittura il mio settantesimo giorno di viaggio!

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Castilla y Leòn, Spagna
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cammino di santiago - roberto pesenti

23/10 Nájera – Belorado

(Albergue Municipal)
44,5km

Anche oggi inizio la mia marcia giornaliera senza gli amici di Laigueglia. Ci sono tante cose che mi spingono a farlo. Alcune le ho già descritte, ma ce ne sono due che riguardano propriamente la mattina: una è il desiderio intimo e forte di vivere altre albe da solo, e l’altra – forse meno poetica – è il gusto di fare colazione da me con pane, burro e marmellata, intinti in un bel tazzone di latte freddo mescolato con il mio fidato caffè in polvere. È un piacere nato dallo sforzo ben comprensibile di limitare al massimo le spese quotidiane, ma anche dalla necessità di partire molto presto – quando i bar sono ancora chiusi – per non farmi rubare troppe energie dal caldone di metà giornata.
La curiosità è che, tappa dopo tappa, l’attrattiva per le albe e il gusto per questo tipo di colazione si sono legate tra loro in modo molto stretto. Queste frugali scorpacciate, infatti, sono vere iniezione di gioia – oltre che di calorie – e ogni volta mi fanno partire già carico di una sana gratitudine, che diventa poi il terreno migliore per riconoscere ed accogliere tutti gli altri doni della giornata. Tra questi, spesso, il primo e uno dei più grandi è proprio il poter assistere al sorgere del sole: un momento che ho scoperto capace di nutrirmi tanto quanto le mie abbuffate mattutine.

Sta di fatto che quando mi butto in strada c’è ancora un gran buio, e all’inizio addirittura pioviggina, con il rischio che debba rinunciare al “bacio” mattutino che tanto amo. Per fortuna smette quasi subito e il cielo va via via schiarendosi, deliziandomi con la flebile luce della notte che finisce.

Dimenticavo! Come da programma, Zoe è partita molto prima di me. La aspetta una tappa molto lunga per riuscire a lasciare La Rioja, e sa che ha bisogno di tempo per colpa dei suoi problemi ai piedi.
Probabilmente si fermerà nel primo o nel secondo paese oltre il confine castigliano. Stamattina l’ho sentita uscire ma non l’ho salutata. Un po’ per non svegliare i miei due compagni di stanza, e un po’ perché sono certo che la incontrerò lungo il tragitto.

Tornando a me, concludo una salita poco impegnativa lungo una strada ghiaiosa, superando il passo tra le due colline rocciose alle spalle di Nájera. Già al di là di queste, il cielo si comincia ad aprire sempre più e davanti a me il percorso si protende serpeggiante verso l’orizzonte. Con mia grande sorpresa, affonda in mezzo ad un’infinità di vigneti: piccoli appezzamenti tutti incastrati l’uno con l’altro, apparentemente ancora più colorati di quelli visti ieri, anche se tutto è ancora velato dalla fredda luce azzurra.

In poco più di trenta minuti, però, quello stesso cielo vira su sfumature sempre più rosate fino allo spuntare tanto atteso del piccolo disco d’oro, dalla corona di raggi pungenti e bellissimi. Come sempre mi succede camminando verso ovest, mi godo il nascere del sole a partire dall’ombra di me stesso che da un momento all’altro vedo apparire lì davanti a me. La sequenza è sempre la stessa: sorrido come un bambino e mi giro di scatto a fissare quel cuore accecante che arriva a trovare me e tutto quanto. Intorno a me, la luce del mio insostituibile amico scatena lo sbocciare di molti più colori di quanti me ne aspettassi. Cromaticamente, è di certo una delle albe più belle vissute finora.

Spalle alla meta, rimango fermo impalato a scattar foto e godermi il momento eccezionale. D’un tratto, noto che all’orizzonte sta avvicinandosi un altro pellegrino, che però non riconosco. Cammina con due corti rami che usa come racchette. Lo aspetto con piacere e curiosità, per condividere quest’istante con un altro viandante mattiniero come me.
Si chiama Gideon, e viene camminando nientepopodimeno che dalla Danimarca! Credo sia in assoluto la persona partita da più lontano tra tutti noi, ultimi peregrinos di questa stagione unica e controversa. Credo abbia più o meno l’età di Tiziano. È sbarbato e sorridente, con gli auricolari nelle orecchie e un cappello da baseball. Dopo essere rimasti un po’ in contemplazione assieme, proseguiamo spalla a spalla, continuando la nostra conoscenza. Parla un inglese perfetto e super fluente – tant’è che non capisco tutto – ma riesce comunque a mettermi a mio agio: ha infatti una straordinaria gentilezza e uno spirito curioso, oltre al fatto che si dimostra molto disponibile a raccontarsi.

Percorriamo assieme e piacevolmente parecchi chilometri, finchè incontriamo quello stesso pellegrino barbuto che ieri mattina a Logroño faceva yoga fuori dalla camerata. È impegnato nella medesima attività, in mezzo a un paesaggio superlativo e rivolto al sole con la pace stampata in volto.
Quando ci vede, interrompe la pratica e, senza proferire parola, ci invita ad osservare meglio l’albero che stiamo superando. Ha la particolarità di avere ancora molti fichi maturi appesi ai suoi rami; sono passate settimane da quando ne ho trovato uno ancora così carico. Non resisto! Con l’acquolina in bocca, mi avvicino immediatamente per coglierne uno. La pianta, però, sta aldilà di un piccolo avvallamento. Ingolosito, lo approccio troppo di fretta e finisco con lo scivolarci dentro in maniera ridicola, quasi fossi un cartone animato.
Mi rialzo imbarazzato ma anche divertito, cercando uno scambio di risate con lo yogi. Il suo sguardo tristissimo, però, mi lascia esterrefatto. Non faccio a tempo nemmeno a chiedergliene conto, perché mi basta seguire il suo sguardo: sta fissando il mio zaino, indicandolo come faceva con la pianta un attimo fa. In un istante realizzo che uno dei miei amati bastoncini si è spezzato a metà e ora è totalmente inservibile.

Ci faccio istintivamente una risata, in fondo senza mentire troppo, ma di certo faticherò un po’ a rinunciarci. È un cimelio a cui ero affezionatissimo: non solo perché con il suo gemello mi ha accompagnato lungo tutto il Cammino Materano e – ovviamente – da Bergamo fin quaggiù, ma anche perché formavano la coppia più leggera di sempre, e dico sul serio. Ne ho soppesati decine di altri durante queste esperienze, e tutte quanti ben più pesanti dei miei. Tra l’altro li comprai per soli 3€ da un rigattiere, che evidentemente non immaginava valessero almeno venti volte di più. Ad ogni modo, non c’è nulla da fare. Lo tengo comunque con me, promettendomi di togliere il meccanismo interno e tenerlo come scorta.

L’amico yogi è ancora turbato dall’accaduto. Sembra quasi si senta vagamente in colpa, così lo consolo spiegandogli quanta gioia mi abbia dato assaporare l’ultimo fico ancora maturo della stagione. Il tentativo va a segno, perché sul suo volto rugoso e abbronzato torna a splendere un bellissimo sorriso. Comunque è la seconda volta in questo cammino che mi capita un disguido sporgendomi troppo per strappare un frutto dalla pianta. La prima è stata quando mi sono slogato una caviglia mentre tentavo di cogliere una mora, e anche in quel caso era l’ultima matura vista in Francia. Secondo me anche Adamo al casting per la Genesi ha perso la parte da protagonista per lo stesso motivo.

Nei chilometri successivi terminano i vigneti e anche con Gideon esauriamo un po’ gli argomenti, cosicchè con gran naturalezza torniamo a camminare in silenzio. Quand’è così, ciascuno tende anche a tornare al proprio passo naturale. Metro dopo metro, quindi, mi ritrovo a camminare da solo dopo meno di un’ora.
Nel frattempo, però, sopraggiungono altri pellegrini, tra i quali anche Richard e Arnaud. Soprattutto quest’ultimo sembra scatenato e, sorpassassandomi, mi saluta raggiante: mi svela che oggi è lui quello che ha bisogno di correre. Divertito, gli auguro buon cammino e lo lascio avventarsi sull’orizzonte.

Poco dopo vedo spuntare anche Zoe in lontananza. Non ci metto molto a raggiungerla; mi spiega che continua ad avere problemi, ma prosegue comunque imperterrita, col suo carattere testardo celato dietro un sorriso sempre luminoso.
A differenza di ieri, decido di non sorpassarla perché voglio approfittare della sua compagnia più che posso. Oggi, infatti, ci fermeremo una decina di chilometri più in là di lei e non è scontato ci si vedrà ancora.

In sua compagnia e con il resto di questa carovana sparpagliata, raggiungiamo Cirueña – o almeno i suoi quartieri più recenti. Ogni isolato ha uno stile architettonico diverso, ma le case all’interno di ciascuno sono identiche l’una all’altra. In particolare mi colpiscono delle villette che sembrano ispirarsi a delle case medievali, qualcosa di simile a quelle viste a Mirepoix.

Mancano circa cinque chilometri a quella che sarebbe stata la meta tradizionale di questa tappa: Santo Domingo de la Calzada – cittadina intitolata a un santo molto importante nella storia di questa via di pellegrinaggio.
Prima di arrivarci, saliamo una piccola altura. La vista della strada che poi scende in mezzo ai campi colorati é una di quelle più suggestive del Cammino. All’ombra di un albero aspettiamo Amedeo e Tiziano, che mi hanno avvisato essere poco dietro di noi. Arrivano con gran disinvoltura e l’immancabile allegria, e con loro proseguiamo fino alla città del santo.

Zoe mi racconta qualcosa in più sulla propria famiglia, stupendomi per certe splendide originalità e aiutandomi a capire meglio quale sia la sorgente di quella sua speciale energia interiore. Chiacchierando, arriviamo in centro. Mentre i prodi liguri scovano un bar dove fare una meritata pausa, io accompagno l’indomita amica in un negozio di articoli sportivi. Ascoltando il proprio corpo, ha intuito che con un paio di sandali potrebbe darle sollievo ai piedi nei momenti peggiori, e vorrebbe acuqistarli subito. Ne trova di ottimi, ma il prezzo è esorbitante e così usciamo a mani vuote, andando a brindare a tempi migliori insieme agli altri.

Ci rimettiamo gli zaini in spalla piuttosto alla svelta e raggiungiamo la piazza della torre Extenta e della Cattedrale. Lì ritrovo Xavier e i suoi amici seduti a riposare al sole, a riprova che questo cammino spagnolo è tutto un magnifico perdersi e ritrovarsi. Per un attimo mi stacco dalla ciurma per verificare che sia possibile o meno visitare la chiesa, ma ancora una volta rimango deluso. Pazienza.
Tornato con gli altri, qualcuno confessa che l’aperitivo gli ha aperto lo stomaco, e d’altronde ormai è mezzogiorno e mezzo. Troviamo un tavolo da picnic proprio prima del ponte sul río Oja, dietro all’Ermita del Puente. È passato solo un quarto d’ora e già stiamo posando ancora a terra i nostri zaini, dai quali sfiliamo del pane e i soliti affettati confezionati.

Vista la doppia pausa ravvicinata e i tanti chilometri che ancora ci aspettano, decidiamo di intrattenerci poco e torniamo a fare quello che ci piace di più: muover passi. Dopo un ultimo tratto su asfalto, torniamo per fortuna su terra battuta, sfiorando l’autostrada e passando tra grandi campi ondulati.
Dopo pranzo e sotto il sole non si può certo dire che siamo al massimo delle nostre forze, tanto che ringraziamo il cielo alla vista di un bar aperto a Grañon, dove ci regaliamo un buon caffè tonificante.
Dico “buono”, ma in realtà il caffè qui in Spagna è un po’ come in Francia: lunghissimo. Si può sempre chiedere un café solo, pari a un nostro espresso, ma il fatto è che all’estero amano poco la concentrazione a cui siamo abituati in Italia, e i baristi non sono predisposti a curarlo troppo, salvo rare eccezioni.

Mentre sostiamo davanti all’ennesima chiesa chiusa, Tiziano ci racconta dell’emozionante momento di preghiera che in anni normali si può vivere qui la sera. Il sacerdote del paese, infatti, è uno degli animatori spirituali più noti del Cammino e ogni giorno i pellegrini possono sperimentare in questo luogo un’intensa esperienza di condivisione. Purtroppo a noi non è dato viverla quest’anno, ma siamo sempre più consapevoli che ci sono altri aspetti che ci rendono indiscutibilmente dei privilegiati.

Salutiamo il bel paesino e torniamo a scendere tra le morbide onde dei campi, alcuni arati e asciutti, altri umidi e scuri, altri ancora già impreziositi dal velo verde di giovani germogli.
Un’altra ora e raggiungiamo un nuovo gruppo di case affacciato su una strada provinciale. In mezzo a una piazzetta, un mojon più tozzo e grande del solito ci regala la gioia di un altro grandissimo traguardo raggiunto: l’arrivo in Castilla y Leòn. Ce l’abbiamo fatta, siamo riusciti a sfuggire anche alla seconda chiusura regionale! Il nostro cammino può continuare!

Il paese si chiama Redecilla del Camino. Comprensibilmente oggi saranno molti i pellegrini a fermarsi qui, sazi dei 30 e passa chilometri già percorsi. Richard è uno di quelli; lo troviamo infatti fuori dall’unico albergue aperto, appollaiato in ciabatte e pantaloncini su una panchina soleggiata. Ci saluta con il suo immancabile buonumore, ma resta quasi sconvolto nell’apprendere che i tre italiani oggi proseguiranno fino a Belorado. Noi ci ridiamo sopra e facciamo un po’ gli sbruffoni, ma la verità è che mancano ancora una dozzina di chilometri e i nostri corpi stanno già lanciando ammonimenti molto chiari.

Meno di due chilometri dopo, arriviamo a Castildelgado; è qui che salutiamo Zoe. Siamo un po’ emozionati perché non sappiamo quando ci si potrà rivedere. Certo, le variabili sono tante e tutto può succedere in quest’annata folle. Chissà. Di certo io mi ci sono affezionato tanto, e nel lungo abbraccio con cui la lascio tento di imprimere quei messaggi già ribaditi tante volte: la gioia di averla conosciuta e l’ammirazione per la sua incrollabile forza di volontà.

Pochi istanti dopo, le nostre gambe tornano già a mordere la strada. Passo dopo passo, lo spazio tra noi e la giovane amica si va ingigantendo. Siamo in Spagna da meno di una settimana, ma abbiamo vissuto quest’esperienza più di una volta: a quanto pare, Cammino significa anche questo. È di certo parte di ogni percorso di vita vivere tratti comuni di strada e poi doversi salutare, ma qui se ne fa esperienza con inusuale frequenza e il poco tempo passato assieme spesso ha un peso specifico maggiore rispetto alla quotidianità. È una palestra che aiuta a cogliere con maggiore sensibilità il valore delle vite e delle storie di ciascuno, il dono datoci di poter essere protagonisti di questi incroci preziosi. Ho il presentimento che chiunque esca da quest’esperienza sarà più portato a riconoscere con gratitudine quanto valga l’incontro, lo scambio e la solidarietà con l’altro da sé.

Eccoli ancora qui, i tre moschettieri dello stivale, che a passo lungo e stanco si immergono nelle vallate aride e sinuose di questa terra apparentemente vuota, ricca invece di storia e di storie.
Come in mattinata, incontriamo qua e là veri e propri muri di paglia fatti di balle rettangolari messe una sopra l’altra e lasciate alle intemperie. Inesperto in materia, non so spiegarmi quanto e come possa essere vantaggioso rinunciare ad ogni protezione. Va detto, però, che in Francia e in Italia mi è piaciuta gran poco la vista di decine e decine di grandi balle cilindriche avvolte in pellicole dai colori sempre dissonanti con quelli del paesaggio attorno. Nell’armonia e nella bellezza diffusa incontrata in territorio francese, quegli incontri sono stati spesso le note più stridenti. Sembrava di trovarsi di fronte a grandi marshmallow rosa, neri, verdolini, bianchi, lasciati lì a macchiare scenari incantevoli.

Sono questi alcuni degli ultimi pensieri lucidi che riesco a fare prima che inizi a subentrare sempre più la stanchezza, che passo dopo passo comincia inesorabilmente a rimbecillire tutti e tre. Camminiamo ai bordi di una strada provinciale e grossi camion sfrecciano di fianco a noi, spostandoci ogni volta di qualche centimetro ma anche sostenendoci con i loro clacson strombazzanti.
Amedeo è il più provato, ma tutti e tre stiamo impazzendo per la frustrante assenza di qualsivoglia indizio che segnali l’avvicinarsi di Belorado. Da un tempo che ci sembra infinito, infatti, siamo in una specie di grandissima conca e la strada va incuneandosi tra due colli che però impediscono di vedere oltre. L’ocra dei campi secchi è affascinante, ma dopo 40 km percorsi l’unica cosa che riesce a darmi sollievo è sapere che siamo agli sgoccioli di questa tappa un po’ suicida.
Come altre volte in condizioni simili, azzardo dei disperati sprint per evitare di rallentare troppo e finire letteralmente col trascinarmi, ma fra poco credo proprio che crollerò.

Quando finalmente raggiungiamo la fine della vallata, scorgiamo dall’altro lato della strada il cartello con il nome della meta. Forse per la gioia, mi pare di vederlo brillare di luce propria, tanto che mi nasce il dubbio sia un miraggio. Inevitabili le urla di sfogo euforico e qualche foto di rito. Dietro a sorrisi un po’ forzati cerchiamo di  nascondere le facce da disperati che ormai portiamo da più di un’ora.
Per l’occasione, poi, sorprendo i miei compagni con un premio inaspettato: delle barrette ai cereali tenute gelosamente da parte proprio per questo momento. Non regalano la gioia mistica di una birra gelata, ma vengono comunque molto apprezzate: un vero e proprio boost per la pur poca strada ancora da fare.

Raggiunto l‘albergue, scopriamo che la tizia che lo gestisce se n’è già andata a casa, e che per ricevere il codice d’accesso dobbiamo prima inviarle le nostre carte d’indentitá. Seguono minuti interminabili, soprattutto perché ho un bisogno esplosivo di andare al bagno. Quando finalmente riusciamo a entrare, scopriamo che dentro ci sono già una decina di altri pellegrini, tra cui addirittura altri tre italiani.
Due di questi sono Linda e Giuseppe: lei giovane archeologa toscana sempre sorridente e un po’ naïf, lui maestro di danza sardo, di qualche anno più grande di me. Sembra piuttosto acciaccato, ma ben sostenuto dal bel gruppo con cui camminano. Ci sono Tim (un giovanissimo austro-indiano), Sergi (un meteorologo catalano) e Kiki (una francese particolarmente simpatica e frizzante).

L’altro italiano, invece, si chiama Matteo e sta viaggiando in bicicletta con Marta, la sua compagna spagnola. Sono due viaggiatori permanenti da circa un decennio: lavorano dove trovano, in giro per il mondo, giusto il necessario per finanziare il loro girovagare. Lui è piemontese e sembra avere un buon umore innato. Alla pari di lei, irradia un’energia splendida, di una limpidezza che non ho mai incontrato prima.
Matteo ha anche la particolarità di aver ormai perso la naturalezza della lingua madre. Pur parlando italiano quasi perfettamente, non riesce ad evitare di puntellarlo qua e là con parole spagnole o inglesi, tra l’altro con un accento tutto suo. Resta comunque un narratore piacevolissimo da ascoltare, soprattutto per noi pellegrini più o meno occasionali.

Vivo tutto questo a cavallo tra l’arrivo e il dopocena in albergue. Nel mezzo c’è anche tempo per una delle birre più meritate di sempre, che ci beviamo al tavolo di un bar nella bella piazza del paese, ammutoliti dalla fatica ma in fondo felicissimi. Per cena, li convinco a comprare in un negozio di alimentari una pella confezionata. Ne avevo già mangiata una della stessa marca la sera prima e mi era sembrata dignitosa. Per qualche motivo, questa volta si rivela invece piuttosto disgustosa, tanto che anche il pacifico Amedeo non si trattiene dal cazziarmi, seppur solo con velenoso ed esilarante umorismo.

Finisce così questa giornata lunga e ricchissima, coronata anche dalla notizia che perfino l’Oficina del Peregrino a Saint-Jean-Pied-de-Port ha eccezionalmente chiuso i battenti per questa stagione. Questo decreta che la carovana di pellegrini arrivata oggi in Castilla rappresenta ormai per certo l’ultimo manipolo di camminatori sul Francès. Con buona probabilità, nessun’altro dopo di noi potrà raggiungere Santiago a piedi per quest’anno, ma anche il nostro sogno resta comunque appeso a un filo.

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22/10 Logroño – Nájera

(Alberge Las Peñas)
30km

Eccoci! Primo giorno di cammino ne La Rioja. Non son certo di quali scenari mi aspettino, ma questa piccola regione è famosa per i suoi vini, e di conseguenza c’è un’ottima probabilità che io possa ancora attraversare terre vitate. Sarà curioso scoprire quanto siano differenti dalle innumerevoli altre incontrate in Francia.

L’albergue è stracolmo di pellegrini in partenza e c’è davvero un gran fermento. In mezzo a un tale andirivieni, però, resto ammaliato da un’immagine totalmente in controtendenza: sul pianerottolo fuori dal bagno un uomo di mezza età sta facendo yoga. Magro, barbuto e sorridente, riesce a regalare un pizzico di pace in più anche a me. Quant’è bella questa grande ciurma!

Con Amedeo e Tiziano usciamo intorno alle 8:00, e siamo già tutti d’accordo: oggi colazione al bar. Trovatone uno facilmente, ci diamo la carica nella maniera più tradizionale: cafe con leche e una napolitana, una sorta di fagottino al cioccolato. Per la mia gioia, ci regalano anche dei golosissimi churros – dei dolci fritti molto noti.
Con queste squisitezze come carburante, ci rituffiamo tra le grandi strade cittadine, camminando all’ombra di palazzoni più o meno moderni. Il brulichìo di auto e pedoni per un po’ fa sembrare che epidemie e lockdown non siano mai avvenuti, ma la cosa più bella è un’altra: attorno a noi altre decine di persone di ogni età camminano nella nostra stessa direzione – tutti coi loro grandi zaini. Siamo un piccolo popolo nomade, colorato e vitale.

Come già a Pamplona, diversi parchi addolciscono la nostra uscita dal capoluogo. Anche col clima abbiamo fortuna: la temperatura è piacevolissima e il cielo azzurro sulle nostre teste è quanto di meglio potessimo desiderare.

Dopo un paio di chilometri lo scenario cambia: ci lasciamo alle spalle i quartieri urbani e imbocchiamo una pista asfaltata, affacciata su una vasta piana brulla. Colline coronano l’orizzonte, e una fila di cipressi detta il nostro ritmo con l’alternarsi delle loro ombre.
Superato un grande ponte pedonale, attraversiamo un boschetto niente male, oltre il quale ci aspetta l’Embalse de la Grajera – un lago artificiale di fine ottocento – con anatre e cigni che sguazzano nelle sue piccole insenature, o riposano tra i canneti.
Camminiamo da poco più di un’ora e dentro me fiorisce una sincera gratitudine per questa città che offre ai pellegrini un’uscita così speciale. Addirittura già da qui si cominciano a incontrare i primi vigneti, uno spettacolo che non tradisce mai.

In tutto questo, io ho già allungato il passo nei confronti dei miei due compagni di viaggio, sempre affamato di libera solitudine e di un ritmo sostenuto che il corpo così spesso mi chiede.
Un’altra parte della verità, però, è che a volte provo disagio rimanendo con Tiziano ed Amedeo. È qualcosa che nasce da attitudini diverse con le quali viviamo la dimensione del piccolo gruppo, e un po’ anche il cammino stesso. C’è sicuramente della complementarietà tra noi: qualcosa che hanno loro di prezioso manca a me e viceversa, ma solo ampliando il tempo da solo riesco a vivere con equilibrio il procedere insieme. Tra l’altro, non credo di essere il solo a godere di questa scelta: ad allontanarmi sono sempre io, ma credo che in qualche modo faccia bene a tutti e consolidi l’equilibrio tra noi.

Raggiungo, saluto e supero diversi pellegrini già conosciuti in questi giorni, fino a quando davanti a me non rimane che un ultimo quartetto: sono due ragazze e due ragazzi, tutti con un passo particolarmente spedito.
Riesco a reggere il ritmo, ma le loro sagome rimangono costantemente qualche decina di metri davanti a me. A un certo punto, però, mi lascio ingolosire dalla sfida e mi impunto nel tentare di raggiungerli. L’impresa mi costa fatica e pazienza, ma alla fine ce la faccio e, preso dall’entusiasmo, comincio anche a prendere vantaggio sui quattro. Personalmente, provo gusto anche nel camminare in questo modo, spremendo ogni energia e scatenando a pieno regime il corpo. Di quando in quando, direi addirittura che è un vero toccasana!

Dopo non molto, mi rendo conto che uno di loro si è staccato dal gruppo per raggiungermi a sua volta. Ha capelli e barba neri corvini e uno sguardo particolarmente buono. Quando riesce a raggiungermi, mi saluta sorridendo. Si complimenta per il passo e mi chiede di poter continuare un po’ assieme mantenendo lo stesso ritmo, spiegandomi che anche lui a volte ha le mie stesse esigenze e sarebbe contento se ci presentassimo. Ovviamente accetto, e con gusto.

Si chiama Xavier, è francese e – come me – ha iniziato da solo il suo cammino. Nel suo caso, da Puy-en-Velay, un punto di partenza famosissimo per raggiungere Santiago dalla Francia – anche se io l’ho scoperto solo qualche settimana fa.
Mi spiega che gli altri amici li ha trovati lungo la via- altro punto in comune – e anche loro si lasciano liberi l’un l’altro di affrontare la tappa come ciascuno preferisce, ritrovandosi poi tutti insieme a fine giornata.
Mentre passiamo tra grandi vigneti, mi racconta di sé: è un giovane solare, intelligente e appagato dal suo lavoro. Non mi resta in testa nient’altro, ma è più che sufficiente per essere felice anche di quest’incontro.

Insieme arriviamo a Navarrete, un paesino posto su un colle, famoso per la bellezza della sua chiesa dedicata a Nuestra Señora de la Asunción. Entrati, ci accorgiamo subito che il maggior punto d’attrazione è la decorazione dell’abside: enorme, tutta dorata e carica di infiniti dettagli. Con un euro accendiamo l’illuminazione che la fa esplodere in tutto il suo opulento splendore, accentuando al contempo la penombra in cui il resto della chiesa resta avvolto.

Dopo la visita, Xavier sceglie di fermarsi in paese ad aspettare i suoi amici, ma il Cammino mi regala un altro compagno di viaggio, ancora una volta dallo sguardo rassicurante e sorridente: si chiama Artaud, un alto uomo di mezza età, anch’egli francese. Cominciamo a fare conoscenza fin dai primi passi. Io gli accenno al mio lungo viaggio e a cosa mi ha portato lì; lui mi racconta di sé, dei suoi tre figli e del periodo non felicissimo con la moglie.
Bastano davvero poche cose lungo il Cammino perché si crei confidenza tra perfetti estranei, e nella grande maggioranza dei casi si vivono scambi spogli di giudizio, o perlomeno ricchi di curiosità sincera – che è comunque merce rara. Mi chiede come mai io stia camminando così in fretta. “Oggi ho bisogno di correre”, gli rispondo sorridendo. Ricambia, e mi dice di capire.

Il nostro tratto insieme si conclude dopo nemmeno due chilometri, nei pressi del cimitero di Navarrete e dell’Ermita de Santa Maria del Jesús. Qui incontriamo Richard, altro suo giovane conterraneo, del quale ho già avuto modo di notare in altre occasioni l’attitudine energica e solare. Arnaud sceglie di fermarsi con lui e mi lascia proseguire, augurandomi con sguardo amico un buon proseguimento. Questo modo di consocersi e lasciarsi è bellissimo, e sta totalmente rivoluzionando il mio viaggio.

La pista resta di fianco alla strada per qualche centinaio di metri e si immerge poi tra i vigneti, che qua e là sfoggiano i colori più sgargianti dell’autunno. Oggettivamente, appaiono molto meno curati rispetto ai tanti visti in Francia, e un po’ mi dispiace; forse perché là ho scoperto quanto raffinato può diventare l’apporto dell’agricoltura per il paesaggio. È vero però che ogni luogo ha la sua unicità, ed è esplorando l’infinita varietà del mondo che si sperimenta la meraviglia più grande.
Poterlo vivere attraverso il continuo moto dei miei passi, poi, la sta rendendo un’esperienza a tutto tondo, perché riesce a coinvolgere corpo e anima, intelletto e sentimento in maniera straordinariamente armoniosa. Credo sia questa sinergia la radice fondamentale che rende unico il viaggiare camminando.

Tra l’altro, mi sto accorgendo che il valore della meta finale nel mio cuore sta cambiando: pur essendo sempre trainante, non la sento più come il compimento del mio cammino, ma piuttosto come scrigno di un surplus di senso. Provo a spiegarlo meglio: ad oggi, non credo più che raggiungere Santiago de Compostela sarà qualcosa che mi sazierà, ma un’esperienza aggiuntiva a quelle di ogni singolo istante di questo pellegrinaggio. Porterà emozioni e insegnamenti unici, ma sono sempre più convinto che non prevarranno su ciò che sto vivendo già ogni giorno. Niente di nuovo, in fondo – il valore non sta solo nel coronamento, ma in ogni passo e in tutto quello che porta con sé. La cosa davvero inedita per me è il fatto di starlo sperimentando attraverso un’avventura così ricca e originale.
Ma ora basta! È tempo di tornare presenti.

Tra grappoli d’uva e di pensieri, scambio un saluto con un contadino lì a curare i suoi filari. Mi invita a fermarmi e scambiamo qualche battuta cordiale – gesto sempre prezioso e mai scontato. Prima di lasciarmi proseguire, mi regala una fetta di torta fatta in casa che toglie da una borsa di plastica qualsiasi. Mi dice che l’ha preparata la moglie, e a me ricorda tanto quelle di mia madre. È un segno di premura che lui ha ricevuto e che regala a me – uno sconosciuto tra tanti – dando seguito a una catena di amorevolezza che mi prometto di non interrompere.

Il sentiero a un certo punto raggiunge l’autostrada e vi si affianca per qualche centinaio di metri. Proprio qui, all’ombra di un cavalcavia, trovo Zoe seduta che armeggia con uno dei suoi piedi. Mi spiega che è partita molto presto stamattina, ma i problemi non sono mancati e si è dovuta fermare già parecchie volte. Nonostante ciò, continua ad essere calma e sorridente. La sua tenacia mi sorprende ogni volta di più. Le chiedo come potrei esserle d’aiuto, ma mi fa capire che non posso fare granché e mi lascia proseguire, promettendomi che ci vedremo in serata a Nájera. Non posso che crederle. La saluto ammirato e riparto.

Lascio l’autostrada alle mie spalle e torno tra i campi, seguendo una leggera salita.  Ai lati della strada sono piantati cartelloni molto interessanti. Sembra un’iniziativa per non far parlare solo le grandi vigne, ma aggiungere suggestioni sulla storia e cultura locale attraverso fotografie e frasi suggestive, direi efficacemente.

La strada mi porta fino a Ventosa, piccolo paesino arroccato su un basso colle. Ci si imbatte subito in un bar ma, per quanto invitante, opto per salire fino alla chiesa che svetta qualche decina di metri oltre. Fortuna vuole che, seppur chiusa, abbia un bel giardino di fianco con tutto quello che mi serve ora: dell’ombra, una panchina e una fontana. Mangio qualcosa tra le mie scorte e raffreddo i piedi sotto l’acqua corrente.
Non mi raggiunge nessuno, sono solo e in pace totale. È circa mezzogiorno, ho percorso già venti chilometri, ma ne mancano ancora una decina. Limito quindi la sosta a una quindicina di minuti, poi riparto per la mia strada.

Ridisceso, trovo cinque o sei amici amici francesi fuori dal bar, tra i quali Arnaud e Richard. Si stanno accomodando con bibite e aperitivi sui tavoli esterni, e mi salutano allegramente. Auguro loro una pausa rigenerante, ma senza fermarmi.
Le foglie dei vigneti che incontro nei saliscendi a seguire sono coloratissime, a volte d’un arancione quasi fluorescente, incredibile! Una breve salita mi porta a raggiungere il punto più alto della tappa. Niente di che – nemmeno 700 m – ma la visuale sulla pianura che segue degradando è bellissima. Appare come un grande pattern di appezzamenti dai colori sgargianti: ci sono il giallo, il verde e l’arancio delle foglie di vite, il verde scuro degli alberi sparsi qua e là, il terra di Siena dei terreni argillosi e l’azzurro del cielo, sempre grandissimo. Si estende a perdita d’occhio, con all’orizzonte una catena montuosa che non so riconoscere.

La discesa nella vallata tocca anche un piccolo colle, come un bernoccolo del sentiero, che risalta anche per il fatto d’essere sormontato da un gran pennone. Lo fisso come meta intermedia e allungo il passo. Lo raggiungo in circa tre quarti d’ora, senza incontrare nessuno. Mi sta piacendo questa giornata di cammino, e lo stesso questa regione.

A pochi chilometri dall’arrivo la fatica comincia a farsi sentire, ma è più che normale. Mentre il cielo va coprendosi, costeggio una bella area di sosta per pellegrini vicino a un grande raccordo stradale. Mi soffermo a immaginare come l’avrei trovata in un’annata normale: probabilmente piena di camminatori che consumano il proprio pranzo, o che semplicemente se la prendono comoda prima di concludere la tappa giornaliera.
Sono pensieri che mi ricordano quanto sia speciale il momento storico all’interno del quale stiamo vivendo questa esperienza. Non manca un leggero rammarico per tutti quegli incontri mancati, ma resto felicissimo di quanto la vita mi stia offrendo.

Un quarto d’ora dopo, incontro le prime case sparse e poi i palazzi della periferia di Nájera. Tutto è piuttosto decadente, ma questo a volte custodisce comunque una propria bellezza. Per ora, però, non se ne coglie traccia.
In un piccolo negozio di alimentari faccio scorta di pane, frutta e verdura, e dieci minuti dopo raggiungo il bel ponte sul río Nájerilla. Sull’altra sponda sta quello che dovrebbe essere il centro storico della cittadina, ma non riesco a scorgere edifici particolari che lo distinguano dal resto. Oltre quel nucleo abitato, però, svetta una collina rocciosa davvero affascinante e dai colori dell’argilla, sulla cui parete sembrano trovar posto anche delle piccole grotte molto curiose.

In una grande area verde al bordo del fiume trovo una panchina per riposarmi, mangiare ancora qualcosa e aspettare Tiziano e Amedeo. Arrivano dopo una mezzoretta, quando ha cominciato a piovigginare da poco. Pare che per tutti e tre l’impatto con questo luogo non sia stato entusiasmante, ma siamo comunque in viaggio, e tanto basta a farci contenti. Non ci riuniamo immediatamente: loro hanno da perpetuare la tradizione della birra di fine tappa, ma io sono cotto e preferisco andare subito in albergue a sistemarmi.

L’alloggio è quasi al termine del comune. Lungo le vie del centro non mancano bar e negozi, ma l’impressione prevalente resta quella di una cittadina un po’ arretrata. Incontro il complesso del Monastero di Santa María La Real, e mi fa molto piacere scoprire che è sopravvissuta una traccia così imponente del fastoso passato di Nájera. L’esterno delle architetture è molto affascinante, e impreziosisce in modo decisivo l’immagine di questi luoghi. Peccato non abbia tempo né energie per vivere una qualsiasi visita, ma sembra comunque sia tutto chiuso in questo momento.

Alla reception dell’Albergue Las Peñas trovo una giovane ragazza con indosso l’immancabile mascherina, ma ha la particolarità di avere degli occhi incredibili, che per un attimo mi ipnotizzano letteralmente. L’impatto mi fa pensare a quelle donne la cui cultura impone di coprirsi il volto, lasciando scoperti proprio gli occhi. Non ne ho mai vista una dal vivo, ma ho bene in mente tante fotografie di quegli sguardi particolarmente intensi, magnetici, tra i più affascinanti del mondo. Le chiedo quale sia il suo nome: “Olga”, mi risponde cordialmente. Sono incantato.
La conduzione del posto sembra essere familiare, e anche gli spazi consolidano questa impressione, facendomi sentire fin da subito a mio agio.

Nelle ore successive, oltre ai miei due compagni di cammino, arrivano qui anche la mitica Zoe e un quarto italiano, mai visto prima. Il suo nome è Leonardo; ha origini pugliesi, ma vive a Granada da anni. È un artigiano lavoratore di pelli: vende i propri prodotti nei mercatini, soprattutto presso festival e concerti, ma quest’anno tutto si è bloccato per i motivi che tutti conosciamo. Come se non bastasse, poi, si è conclusa anche la sua relazione d’amore, e quindi quale opzione migliore che perdersi sul Cammini di Santiago?

Per la cena rinuncio ancora una volta ad uscire con Amedeo e Tiziano, optando per la mia solita alternativa low-cost in albergue. Scendo in centro solo per comprare il necessario e fare un po’ di rifornimento, scoprendo la grande cordialità della gente del posto, sia nei negozi che per le strade.
Come a Logroño, ho il piacere di condividere il pasto in compagnia di Zoe, che però ha bisogno di andare a letto presto, per partire prima possibile anche domani mattina. Leonardo invece cena tardissimo, quando io sto già preparandomi per andare a dormire.

Una volta tornati, gli amici liguri sono sorprendentemente mogi. Mi spiegano che nel bar dove sono stati la tv ha trasmesso il telegiornale tutto il tempo e gli aggiornamenti sulle chiusure regionali sempre più incalzanti sono riusciti a prosciugare il loro buonumore.
Purtroppo non ho modo di consolarli, e ce ne andiamo a dormire appesi alla speranza che la buona stella del pellegrino ci faccia fare più chilometri possibili. Il desiderio di raggiungere Santiago resta ovviamente quello più grande, ma ormai pronunciamo quel nome con sempre più prudenza, confidando in un’improbabile scaramanzia.

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La Rioja, Spagna